Tra gli osservatori prevale la tesi secondo la quale l’incidente, diciamo così, della mancata candidatura di Conte nel collegio Roma 1 avrebbe inferto un colpo alla strategia del cosiddetto campo largo impropriamente (lo vedremo) denominato Ulivo-2 coltivato da Letta e comunque avrebbe incrinato i rapporti tra Pd e M5S. Può darsi. Certamente vi sono state incomprensioni e una gestione approssimativa del dossier. Può avere altresì ragione chi, come Padellaro, sostiene che la rinuncia di Conte sia stata provvidenziale. E tuttavia penso che l’episodio, comunque istruttivo, possa rivelarsi come l’occasione semmai (ex malo bonum) per intensificare il rapporto politico tra Pd e M5S, chiarendone i termini. Mi spiego: dopo l’accaduto e, segnatamente, la subitanea reazione ostruzionistica della coppia Renzi-Calenda, c’è ancora qualcuno, dentro il Pd, che possa mettere sullo stesso piano i rapporti con Conte e quelli con gli esagitati (e litigiosissimi) centristi? Pur così diversi tra loro, entrambi perseguono strategicamente l’obiettivo di spezzare l’asse Pd-M5S; entrambi si adoperano per inibire il coagulo di un campo di forze alternativo alla destra sovranista. Sin dall’imminente partita del Quirinale, ma soprattutto nella prospettiva non lontana delle elezioni politiche. A fronte di questa evidenza, Letta e Conte dovrebbero regolarsi di conseguenza, facendo i rispettivi compiti a casa e, se necessario, pagando qualche prezzo. Sinteticamente e rispettivamente. Letta finalmente sfidando e battendo i renziani e il renzismo che tuttora allignano dentro il suo partito e, in ispecie, nei suoi gruppi parlamentari. Ora, finalmente, non dovrebbe essere difficile argomentare che non si danno alternative per chi anche solo volesse provare a competere con l’avversario di centrodestra tuttora largamente favorito. Basterebbe rimarcare l’evidenza dei rispettivi comportamenti, i rapporti di forza elettorale e le affinità piuttosto che le divergenze manifestatisi da ultimo sulla legge di Bilancio lungo la discriminante politicamente decisiva del fisco e delle politiche sociali. Conte, per parte sua, dovrebbe sciogliere in via definitiva il nodo della identità politica e della scelta di campo del M5S. Nessuna strategia organizzativa e comunicativa – comprese quelle utilmente volte a farne un partito (perché avere paura delle parole?) – può avere successo se, a monte, non si scioglie quel cruciale nodo politico identitario. Del resto, anche a Conte non dovrebbe essere difficile mostrare ai suoi che, al M5S, non si danno concrete alternative, che indietro non si può tornare. Trattasi di chiarimento ineludibile. È possibile che ciò comporti qualche fuoriuscita, ma comunque meglio che essa si produca sulla politica piuttosto che su ambizioni organigrammatiche, su malpancismi o sulle restituzioni. Nel conferire spessore politico al loro rapporto, Letta e Conte, dovrebbero approfondire affinità e differenze: il Pd affrancandosi dal suo imprinting “ministeriale” e dalla subalternità al blairismo peraltro in declino; il M5S valorizzando la sua sensibilità legalitaria, democratica e ambientalista. Diversi e complementari.
Sia consentita una precisazione non nominalistica e neppure affetta da retrotopia. Il contesto è affatto diverso da quello di allora. Molti analisti equivocano quando fanno coincidere Ulivo-2 e campo largo (semmai assimilabile alla vecchia Unione). L’Ulivo non coincideva con l’intero fronte alternativo alla destra. Esso ne rappresentava semmai il soggetto (plurale) centrale e aggregante. Quello più coeso politicamente e programmaticamente, che poi si disponeva ad aprirsi ad altri (lo slogan fu “è escluso solo chi si esclude”). Oggi Pd e M5S, Letta e Conte, dovrebbero ambire a costituire quel nucleo. Non escludo che una operazione politica così concepita possa fare esplodere le contraddizioni tra i cespugli centristi oggi accomunati solo da intenti ostruzionistici e da mediocri (e confliggenti) ambizioni personali, tra chi fa del ricatto la propria ragion d’essere (Renzi) e chi è accecato da un fondamentalismo anti-M5S che misconosce la sua maturazione quale forza di governo di stampo europeista (Calenda). Chi fa politica con la testa deve resistere all’istinto di accomunarli nel loro egotismo e nella loro arroganza. Per parte mia, vincendo l’istinto, distinguerei: Renzi non va a destra (sarebbe troppo onesto), per natura e per calcolo, seguiterà a taglieggiare gli uni e gli altri; Calenda, a dispetto della sua rivendicazione di praticare una politica post-ideologica, è letteralmente accecato da una sua personale ideologia che tutta si risolve in una ossessione anti-M5S. Decisamente troppo e troppo poco. Una sorta di paranoia. Bon gré, mal gré dovrà risolversi.