Letta e conte sfidino gli oppositori interni

Tra gli osservatori prevale la tesi secondo la quale l’incidente, diciamo così, della mancata candidatura di Conte nel collegio Roma 1 avrebbe inferto un colpo alla strategia del cosiddetto campo largo impropriamente (lo vedremo) denominato Ulivo-2 coltivato da Letta e comunque avrebbe incrinato i rapporti tra Pd e M5S. Può darsi. Certamente vi sono state incomprensioni e una gestione approssimativa del dossier. Può avere altresì ragione chi, come Padellaro, sostiene che la rinuncia di Conte sia stata provvidenziale. E tuttavia penso che l’episodio, comunque istruttivo, possa rivelarsi come l’occasione semmai (ex malo bonum) per intensificare il rapporto politico tra Pd e M5S, chiarendone i termini. Mi spiego: dopo l’accaduto e, segnatamente, la subitanea reazione ostruzionistica della coppia Renzi-Calenda, c’è ancora qualcuno, dentro il Pd, che possa mettere sullo stesso piano i rapporti con Conte e quelli con gli esagitati (e litigiosissimi) centristi? Pur così diversi tra loro, entrambi perseguono strategicamente l’obiettivo di spezzare l’asse Pd-M5S; entrambi si adoperano per inibire il coagulo di un campo di forze alternativo alla destra sovranista. Sin dall’imminente partita del Quirinale, ma soprattutto nella prospettiva non lontana delle elezioni politiche. A fronte di questa evidenza, Letta e Conte dovrebbero regolarsi di conseguenza, facendo i rispettivi compiti a casa e, se necessario, pagando qualche prezzo. Sinteticamente e rispettivamente. Letta finalmente sfidando e battendo i renziani e il renzismo che tuttora allignano dentro il suo partito e, in ispecie, nei suoi gruppi parlamentari. Ora, finalmente, non dovrebbe essere difficile argomentare che non si danno alternative per chi anche solo volesse provare a competere con l’avversario di centrodestra tuttora largamente favorito. Basterebbe rimarcare l’evidenza dei rispettivi comportamenti, i rapporti di forza elettorale e le affinità piuttosto che le divergenze manifestatisi da ultimo sulla legge di Bilancio lungo la discriminante politicamente decisiva del fisco e delle politiche sociali. Conte, per parte sua, dovrebbe sciogliere in via definitiva il nodo della identità politica e della scelta di campo del M5S. Nessuna strategia organizzativa e comunicativa – comprese quelle utilmente volte a farne un partito (perché avere paura delle parole?) – può avere successo se, a monte, non si scioglie quel cruciale nodo politico identitario. Del resto, anche a Conte non dovrebbe essere difficile mostrare ai suoi che, al M5S, non si danno concrete alternative, che indietro non si può tornare. Trattasi di chiarimento ineludibile. È possibile che ciò comporti qualche fuoriuscita, ma comunque meglio che essa si produca sulla politica piuttosto che su ambizioni organigrammatiche, su malpancismi o sulle restituzioni. Nel conferire spessore politico al loro rapporto, Letta e Conte, dovrebbero approfondire affinità e differenze: il Pd affrancandosi dal suo imprinting “ministeriale” e dalla subalternità al blairismo peraltro in declino; il M5S valorizzando la sua sensibilità legalitaria, democratica e ambientalista. Diversi e complementari.

Sia consentita una precisazione non nominalistica e neppure affetta da retrotopia. Il contesto è affatto diverso da quello di allora. Molti analisti equivocano quando fanno coincidere Ulivo-2 e campo largo (semmai assimilabile alla vecchia Unione). L’Ulivo non coincideva con l’intero fronte alternativo alla destra. Esso ne rappresentava semmai il soggetto (plurale) centrale e aggregante. Quello più coeso politicamente e programmaticamente, che poi si disponeva ad aprirsi ad altri (lo slogan fu “è escluso solo chi si esclude”). Oggi Pd e M5S, Letta e Conte, dovrebbero ambire a costituire quel nucleo. Non escludo che una operazione politica così concepita possa fare esplodere le contraddizioni tra i cespugli centristi oggi accomunati solo da intenti ostruzionistici e da mediocri (e confliggenti) ambizioni personali, tra chi fa del ricatto la propria ragion d’essere (Renzi) e chi è accecato da un fondamentalismo anti-M5S che misconosce la sua maturazione quale forza di governo di stampo europeista (Calenda). Chi fa politica con la testa deve resistere all’istinto di accomunarli nel loro egotismo e nella loro arroganza. Per parte mia, vincendo l’istinto, distinguerei: Renzi non va a destra (sarebbe troppo onesto), per natura e per calcolo, seguiterà a taglieggiare gli uni e gli altri; Calenda, a dispetto della sua rivendicazione di praticare una politica post-ideologica, è letteralmente accecato da una sua personale ideologia che tutta si risolve in una ossessione anti-M5S. Decisamente troppo e troppo poco. Una sorta di paranoia. Bon gré, mal gré dovrà risolversi.

 

“Chi non muore si rivede”, questa è la vera storia dell’antico proverbio

“Chi non muore si rivede”, il celebre detto attribuito al filosofo Eraclito (VI-V secolo a.C.), non vorrebbe dire quello che sembra, ma indicherebbe un concetto più sottile: lo sostiene il prof. Damocle Spada, ordinario alla Sapienza, nel suo ultimo saggio, Attraverso il Mar Egeo con una bandiera nera e un flit (Quodlibet). Il senso di quella frase, uno dei cliché più abusati nella conversazione quotidiana, è ricavato da un noto frammento eracliteo (“Di giovani ne muor qualcuno, di vecchi non ne campa nessuno”), di cui “Chi non muore si rivede” sarebbe una glossa medievale. La frequenza con cui si adopera quel motto, in genere per indicare che la persona appena entrata nel proprio campo visivo è da un po’ che non si vedeva in giro, ha tuttavia contribuito a consolidarne un significato parziale rispetto a quello che tendono ad attribuirgli teoreti influentissimi come Heidegger, molto studiato a sua volta (anche se il suo verduraio la sapeva più lunga di lui in fatto di metafisica dei legumi). In breve: che le cose si rendano o diventino introvabili, siano cioè soggette alla scomparsa, è, secondo Eraclito, l’essenza delle cose stesse, oltre che una condizione del loro ritrovamento o della loro ricomparsa. A complicare l’interpretazione, però, contribuisce la frammentarietà con cui ci sono pervenuti i testi eraclitei, la cui catalogazione fu completata dai filologi tedeschi Hermann Diels e Walther Kranz nella prima metà del ’900 (distinguerli era facile: Diels era quello col tabarro sfrittellato, mentre Kranz vestiva con l’eleganza del ladro internazionale). Stando ai due Bibì e Bibò, la frase “Chi non muore si rivede” non è attestata in nessuno dei circa cento frammenti di Eraclito che ci sono stati tramandati. Il primo a riportarla (“Opoios den pethainei xanablépetai”, in greco antico) fu il filosofo bizantino Simplicio (VI secolo d.C.), ma la formula proviene dal Cratilo di Platone, dove un seguace delle dottrine eraclitee, facendo da spalla alla primadonna dello sceneggiato, Socrate, a un certo punto gli fa: “Eraclito dice che si rivede chi non muore. E che non puoi gettare una monetina due volte nella stessa fontana, perché è buttare soldi”. E quando Socrate replicò che non è consigliabile gettare monete nella fontana nemmeno una volta, perché la realtà è intrinsecamente mutevole e non sai mai a quanto metteranno gli asparagi fra una settimana, Cratilo arrivò a credere che le parole fossero una forma espressiva inadatta a indicare la realtà, e che spesso un gesto con un dito fosse preferibile. Per Eraclito, invece, la realtà è sì in perenne divenire (al giorno segue la notte, alla nascita la morte, alla moglie la suocera, e così via), ma una monetina gettata in una fontana può portare fortuna, quindi perché non farlo? E questo principio supremo regola il mondo senza produrre contraddizioni, esattamente come una fontana riceve monetine sempre nuove senza per questo smettere di essere una fontana. Come osserva il prof. Spada, il fatto che le monetine vi vengano gettate è proprio ciò che la costituisce come fontana: senza monetine sarebbe un lago, uno stagno, una pozzanghera. Si è mai visto qualcuno gettare monetine in una pozzanghera, “a parte un mio zio”, dice Spada, “che poi quando rientrava a casa si puliva le scarpe sullo stuoino della porta accanto?” Secondo Eraclito, in definitiva, è vero che tutto cambia, ma (allo stesso tempo e in un certo senso) una fontana è sempre la stessa fontana anche se vista in modo diverso da migliaia di turisti ogni anno. Come dargli torto? Sbattendogli un pesce sul naso, come faceva Parmenide.

 

Renzi e Toti ispirati da lina Wertmüller

“Il partito unicoè un’ipotesi ancora prematura. Ma il nome Coraggio Italia Viva mi piace”. Giovanni Toti ieri ha dato così la sua consacrazione alla nuova federazione centrista tra i renziani e gli ex berlusconiani di “Coraggio Italia!” che a maggio hanno seguito Toti e Luigi Brugnaro in un nuovo partitino di centrodestra. Quella di Toti è un’evoluzione rispetto al passato. All’inizio il partito si chiamava “Idea”, poi è diventato “Cambiamo!”, poi “Coraggio Italia!” e adesso, dopo l’alleanza con il senatore toscano, potrebbe diventare “Coraggio Italia Viva”. E se i due partiti dovessero accompagnarsi anche con Carlo Calenda? Nessun problema: diventerebbe “Coraggio Italia Viva Azione”. E se arrivasse anche Emma Bonino? Tutto a posto: “Coraggio Italia Viva Azione Più Europa”. Chissà che ne penserebbe la grande regista Lina Wertmüller nota per i titoli chilometrici dei suoi film. Tipo: “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” ma anche “Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici“. Non può mancare: “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada”. Toti e Renzi devono essersi ispirati a lei.

Draghi&Landini. Lo “spiraglio” che ancora c’è

Quando, nel febbraio scorso, Mario Draghi entrò a Palazzo Chigi aveva un timore tra i tanti: che il Paese già prostrato dalla pandemia si sfasciasse sotto i colpi di una crisi economica devastante. Il “buon rapporto” con Maurizio Landini di cui parlano i giornali furono in realtà i colloqui riservati tra il premier e il segretario della Cgil. Tema: come garantire un minimo di coesione sociale, altrimenti qui viene giù tutto. E quindi, ognuno faccia la sua parte e manteniamo un filo diretto e riservato tra di noi. Quando ci fu l’assalto fascista alla Cgil, Draghi che abbraccia Landini nella sede devastata del sindacato resta l’immagine icastica dello stretto rapporto tra i due: personale oltre che politico. In quelle ore fu Palazzo Chigi a sollecitare la più ampia solidarietà nei confronti della Confederazione rossa (Giorgia Meloni compresa). Quando Landini definisce inaccettabile che ai lavoratori e ai pensionati che versano oltre il 90% dell’Irpef la riforma fiscale contenuta nella legge di Bilancio tagli solo le briciole, pone un sacrosanto problema di equità. Inevitabile per chi ha la rappresentanza di milioni di persone. E in forza di ciò costretto, se inascoltato, all’annuncio dello sciopero generale. Quando, sempre i giornali, scrivono che Draghi davanti alla protesta del 16 settembre si è “innervosito”, quasi fosse stato colto di sorpresa, sbagliano espressione poiché Draghi sapeva che da Corso d’Italia sarebbe arrivato al governo un brusco segnale (e forse ne aveva calcolato costi e benefici). Infatti, quando Landini sostiene che sono i partiti ad aver bloccato la proposta del presidente del Consiglio di escludere per un anno dal beneficio fiscale i redditi oltre i 75mila euro, difende certamente Draghi. Ma, nello stesso tempo, gli chiede di non essere succube della destra salviniana e berlusconiana. Per questo, quando Landini dichiara di essere “disponibile a un dialogo prima di scendere in piazza ma servono cambiamenti”, lascia aperto più di uno spiraglio. A patto che, in Parlamento, alla legge di Bilancio vengano apportate le migliorie richieste in direzione equità. E che, dunque, Cgil e Uil possano annunciare un successo della linea della fermezza. Anche perché (chissà pensa Landini) se Draghi è un amico consentirà a Cgil e Uil (con la Cisl alla finestra) di fermarsi in tempo prima che uno sciopero dagli esiti imprevedibili produca danni vistosi al Paese e al sindacato tutto. Anche questa si chiama coesione sociale.

Draghi rifà la sala stampa: ora è “sobria”

Con Silvio Berlusconi era tutto uno sfarzo: capitelli corinzi, marmi nei bagni, stucchi bianchi, specchi, fondale azzurro. Eh no, con il “migliore” Mario Draghi questo non è permesso. Come Mario Monti nel 2011, anche l’ex presidente della Bce deve dare prova della sua “sobrietà”. E quindi via al restyling, “lo smantellamento”, “eliminato lo sfarzo”, “finisce l’èra Berlusconi” titolano agenzie e giornali al seguito (Repubblica e AdnKronos su tutti). Quindi, nella sala stampa, sparisce il fondale azzurro e al suo posto arriva un “video-wall” per mettere in mostra il logo della Presidenza del Consiglio o per presentare report o slide di renziana memoria. Nei bagni, invece, spariranno sia i marmi pregiati fatti mettere da Berlusconi sia i rubinetti con fotocellula che saranno sostituiti con quelli tradizionali. Tutto all’insegna della “sobrietà” e della “inclusività”, a cominciare dall’addio alle barriere architettoniche. La spesa per la nuova sala stampa non è ancora nota. Ed è probabile che Draghi quei lavori possa anche non vederli finiti: si concluderanno a febbraio, quando lui potrebbe già essere salito al Colle. Chissà se ha già in testa un restyling anche per il palazzo del Quirinale. Sobrio, s’intende.

Vaccini, Draghi, Spid, dad e Carrà: ecco cosa hanno cercato gli italiani su Google

Il Green pass e la prenotazione dei vaccini, l’addio a Raffaella Carrà, ma anche Mario Draghi, lo Spid, il Ddl Zan, i Maneskin e Matteo Berrettini. Nel report annuale di Google tra le parole top non mancano gli Europei e Christian Eriksen, Champions League, Serie A, Donnarumma, Sinner. Nella lista c’è pure Classroom, il programma per la dad.

 

Il Nyt svela Algo101: l’algoritmo che crea l’ossessione Tik Tok

C’è una credenza dietro l’imperscrutabilità degli algoritmi che governano i social network, ovvero dietro quei sistemi che fanno in modo che quando apriamo Facebook, Instagram o Twitter vediamo una determinata selezione di contenuti e non altri. La credenza è che siano particolarmente intricati e complicati, una matassa di formule matematiche e istruzioni che si nutrono dei nostri dati. Tecnicamente è così, ma quando si riduce un algoritmo alle sue manifestazioni essenziali, sopravvivono quasi sempre solo quattro o cinque criteri, fondamentali, capaci di influenzarli e di tracciarci con precisione.

Nei giorni scorsi il New York Times è entrato in possesso di un documento interno di Tik Tok, il social network cinese che da anni sta monopolizzando l’attenzione dei giovanissimi e che, nato come la piattaforma per lip sync sulle canzoni, oggi è amata da ogni tipo di creativo perché mette a disposizione e unisce musiche, effetti, facilità di montaggio dei video e apparente equità nel raggiungimento del ‘pubblico’. Il testo, dal titolo “TikTokAlgo101” è stato redatto da un team di ingegneri a Pechino ed è destinato ai dipendenti “non tecnici” per spiegar loro come funziona l’algoritmo che cerca di tenere incollati gli adolescenti alla app.

Di fatto, Tik tok è più una piattaforma di intrattenimento che di socializzazione, i giovanissimi ne guardano i video come gli adulti fanno con la tv, ma passivamente perché si affidano alla casualità di un palinsesto – la sequenza che possono scorrere – che è perfettamente cucito sulle loro preferenze. Non hanno il telecomando, ma possono cambiare video con il pollice. Ma come vengono profilati questi interessi? Con pochi indicatori.

Tik Tok, a quanto pare, tiene conto dei “Mi piace” e dei commenti che gli utenti lasciano, quindi delle reazioni attive. Inoltre, conta il tempo di permanenza su un certo tipo di video rispetto ad altri: è uno dei punti più delicati perché si rischia di far entrare l’utente in una bolla informativa di contenuti simili che risuonano e si ripropongono tanto virtuosi e innocui (se ti piacciono gli animali avrai cento video di animali) quanto dannosi e pericolosi come nel caso di istigazione all’odio, di violenza, disturbi alimentari, pornografia: nonostante i tentativi e le soluzioni per depurare le piattaforme da queste derive, i social hanno infatti ancora molto da fare per riuscirci davvero. L’obiettivo dichiarato dell’azienda è aggiungere ogni giorno utenti attivi. Per farlo punta su due elementi: la “ritenzione”, ovvero il ritorno dell’utente sul social, e il tempo che vi trascorre. Creare quindi compulsività e dipendenza. Così Tik Tok si fa pure furbetto: attribuisce minor valore ai video in cui si chiede esplicitamente alle persone di mettere “Mi piace” per favorire magari quelli in cui il linguaggio è più criptico e sfumato o che abbiano dei particolari risvolti culturali così che gli utenti possano guardare più video dell’autore, approfondire e magari pure fidelizzarsi al creatore e alla piattaforma stessa.

Ma Tik Tok è pure previdente: “Che accade se a un utente piace un video, ma l’app continua a proporgli lo stesso tipo? Si annoierebbe rapidamente e chiuderebbe l’app” scrivono. Così l’algoritmo tiene conto anche dell’eventuale eccesso di esposizione ripetuta allo stesso autore o allo stesso tag e in caso, ogni tanto, inserisce qualche video diverso. Infine, Tik Tok è un’azienda e mira ai profitti. Dunque conta molto anche la monetizzazione: potrebbe favorire in parte la circolazione dei video più redditizi (gli utenti possono pagare per aumentarne la visibilità e la circolazione) per Tik Tok stessa.

Gli analisti interpellati dal Nyt hanno rilevato che, sulla base dei dettagli forniti dal documento, ci sono davvero pochi elementi di novità: Tik Tok è un social come gli altri e segue le stesse regole. Ci sono tutti gli elementi tipici: apprendimento automatico con grossi volumi di dati, utenti altamente coinvolti e un’impostazione in cui gli utenti sono disposti a consumare contenuti consigliati algoritmicamente. Meglio se in modo ossessivo e bulimico.

Nuvoletta jr torna in libertà: annullata condanna per associazione mafiosa

Secondo l’avvocato Alessandro Diddi, che lo ha difeso sin dal processo di primo grado, “l’assoluzione dall’accusa di associazione camorristica di Giovanni Nuvoletta è l’ennesima riprova dell’errata applicazione del 416-bis”.

È arrivata in Cassazione più di sei anni dopo l’arresto avvenuto a Milano con una sfilza di capi di imputazione che definivano Nuvoletta jr, in sostanza, una sorta di erede del padre, Lorenzo Nuvoletta, il superboss della camorra scomparso nel 1994, che all’apice del suo potere criminale aveva intessuto legami con la mafia siciliana di Totò Riina e Luciano Liggio. Giovanni Nuvoletta, 52 anni, era ai domiciliari da sei anni: da ieri è tornato libero, su richiesta della stessa procura generale di Napoli. È ancora imputato di traffico di sostanze stupefacenti: per questo capo d’imputazione la sesta sezione penale della Cassazione ha disposto un annullamento con rinvio. Prescritti i residui due reati.

Per capire la portata della sentenza bisogna riavvolgere il nastro indietro al 10 giugno 2015, quando a Nuvoletta jr vengono notificate due distinte ordinanze di custodia cautelare: una per concorso esterno nel clan dei casalesi, l’altra per fittizia intestazione di beni e riciclaggio. È il nome di spicco di un’operazione con 10 arresti e sequestri per un valore di 13 milioni di euro. Giovanni Nuvoletta, con la passione dei cavalli e i trascorsi da fantino di successo, viveva a Milano dal 2009, dove aveva aperto un ristorante-pizzeria di tendenza, AMOzzarella. Automobili in seconda fila tutti i giorni per gustarne le prelibatezze e per acquistarne i prodotti caseari, che l’idea originale era stata appunto quella di unire la ristorazione e il commercio in un unico ambiente.

Le indagini del Gico della Guardia di Finanza e della Dda di Napoli hanno puntato dritte su quel cognome pesante e si sono fondate su diversi collaboratori di giustizia che lo hanno tirato in ballo come partecipe di vicende criminali tra il casertano e il napoletano, grazie alle quali avrebbe accumulato le risorse necessarie per avviare le sue attività imprenditoriali al nord. Tra i quali Francesco Diana, l’ex reggente della fazione Bidognetti del clan dei Casalesi, Michele Barone ed Oreste Spagnuolo. Ed inoltre Biagio Di Lanno, Roberto Perrone e Domenico Verde del clan Polverino di Marano. Sono pentiti di vecchia data, e raccontano fatti non freschissimi, risalgono agli anni 90 e i primi 2000. Riferiscono che Nuvoletta jr avrebbe acconsentito a nascondere le loro armi in uno stabilimento balneare del litorale domizio e che avrebbe partecipato a qualche ‘puntata’ con gli uomini di Polverino per importare droga. Il Tribunale di Napoli Nord lo assolve dall’imputazione di camorra, ma gli infligge 14 anni per gli altri reati. Che salgono a 16 in Corte d’Appello a Napoli con il riconoscimento dell’associazione camorristica. Cancellata il 3 dicembre dalla Cassazione, che ha accolto il ricorso dell’avvocato Diddi fondato sull’inattendibilità dei collaboratori di giustizia, che avrebbero reso versioni discordanti, non lineari e prive di riscontri.

Suburra ’94, telefoni clonati. E il giudice diventò fantasma

Il giudice Paolo Adinolfi, scomparso di casa il 2 luglio 1994, non aveva il profilo del suicida o del fuggitivo. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e il suo omicidio, più che un’ipotesi, pare una certezza. È ancor più certo, però, che se Alvaro Fiorucci (ex caporedattore di Rai Umbria) e Raffaele Guadagno (eccellente investigatore di polizia giudiziaria) non avessero pubblicato La scomparsa di Adinolfi (Castelvecchi editore, prefazione di Giovanni Bianconi) la sua storia sarebbe rimasta lì dov’era: nell’oblio. È assai probabile che la morte di Adinolfi sia maturata nel contesto del suo lavoro e forse, per riaprire e risolvere il suo caso, proprio da lì bisognerebbe ricominciare a scavare. Giudice del Tribunale fallimentare di Roma, negli anni 90 si era occupato di fallimenti legati a società che, spesso, portavano agli ambienti della Banda della Magliana e più precisamente di Enrico Nicoletti. Ambienti che univano grandi interessi imprenditoriali a grandi interessi criminali. Gli autori riannodano i fili delle due inchieste che, purtroppo, non hanno portato all’individuazione dei colpevoli né al ritrovamento del suo corpo. Il contesto è quello della Capitale negli anni 90 e – come scrivono gli autori – dei “frammenti di Suburra”.

 

La “pista” il caso fiscom e il viaggio a Milano

Fiorucci e Guadagno ricordano che Adinolfi, pochi giorni prima di morire, aveva contattato un collega di Milano, Carlo Nocerino. “Mi disse – dichiarò il magistrato milanese nel 1994 – che quale delegato per la vicenda Fiscom, era in condizioni di fornirmi notizie e documenti che potevano essere utili alle indagini che stavo conducendo” […]. Fiscom è una delle società di cui Adinolfi s’era occupato da giudice fallimentare. Ma l’incontro con Nocerino non avvenne mai. Nel frattempo Adinolfi scompare. Nocerino si stava occupando del crac di Ambra assicurazioni, nel quale fu coinvolto un nome noto ad Adinolfi, proprio per la vicenda Fiscom.

L’ultima inchiesta porta la firma del pm Alessandro Cannevale (siamo nel febbraio 2003) che con gli autori si sofferma sui forti “interessi economici coinvolti, l’asprezza delle reazioni suscitate dalla ferma e lineare condotta” di Adinolfi, sui “contrasti insorti con taluni dei colleghi, la capacità criminale di alcuni dei soggetti interessati alle società che subivano le procedure fallimentari”. “Le ‘stranezze’ – continua Cannevale – constatate già nelle prime indagini […] possono alimentare solo l’ipotesi che la scomparsa di Adinolfi sia legata a un delitto programmato e posto in essere da una pluralità di persone […]. Si era fatto dei nemici […] e di certi affari molto rilevanti poteva aver conseguito una memoria storica non sostituibile dalla lettura di un fascicolo. La richiesta di un colloquio personale al collega Nocerino è un elemento che testimonia questo sovrappiù di conoscenze, o di capacità di collegamento fra le informazioni, che poteva metterlo in pericolo […]”.

C’è un altro dettaglio sul quale gli autori si soffermano: il 9 maggio 1994 a casa della madre di Adinolfi, all’ora di pranzo, squilla il telefono. La telefonata dura 94 secondi. Gli autori ipotizzano: “Chiunque abbia fatto squillare volontariamente la suoneria […] e abbia parlato con il giudice, aveva una comunicazione importante da fargli. Breve, ma importante. Potrebbe, si può immaginare, aver aggiunto qualcosa. Un particolare, una circostanza, che magari sarebbero stati utili a Carlo Nocerino. Chi può dirlo?”. Il telefono che il 9 maggio chiama casa Adinolfi era intestato a un alto funzionario dell’Eni, Salvatore Russo, al quale però, secondo il responsabile della sicurezza del colosso petrolifero, era stato clonato. Russo peraltro dichiarerà di non aver mai chiamato Adinolfi, che non conosceva e mai aveva sentito nominare, neanche dopo la sua scomparsa.

 

Silenzio di Stato “Nessuno lo ha voluto mai ricordare”

“Certo – conclude Cannevale – essere isolati non è una buona cosa e nemmeno essere lungimiranti. Magari Adinolfi aveva capito qualcosa sulla magistratura italiana che altri, meno perspicaci di lui, hanno capito solo venti anni dopo”. I familiari del giudice non hanno neanche i resti di un corpo al quale portare un fiore. “Oggi – conclude Cannevale – un nuovo impulso alle indagini potrebbe nascere soltanto dalla confessione di qualcuno in grado di dare notizie precise e verificabili, ma non credo che un giorno qualcuno possa trovarsi nelle condizioni di ritenere conveniente una simile confessione”. “Nessuno finora ha voluto ricordare in modo ufficiale Adinolfi – ha commentato il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita – e nessuna associazione o istituzione ha speso una parola nel giorno della sua scomparsa, anche solo per ribadire quanto sia stato retto e integro nel suo operare da magistrato e quanto la sua figura possa essere d’esempio per i giovani che si accingono a svolgere questa professione. Basterebbe questo per non perdere la speranza che qualcosa di nuovo ci restituisca, prima o poi, la verità completa di questo magistrato con la schiena dritta”.

Nudo nella fontana delle Naiadi, polizia lo blocca a manganellate

Completamente nudo e con in mano una bottiglia, un giovane nigeriano ha prima tentato di aggredire un vigile urbano in piazza dei Cinquecento, a Roma, e poi si è arrampicato sulla fontana delle Naiadi di piazza della Repubblica. Alla richiesta degli agenti di scendere dalla fontana, l’uomo ha opposto resistenza. Sul posto è poi intervenuta la polizia. L’uomo è stato circondato da 5 agenti e colpito più volte con lo sfollagente. La scena è stata filmata e diffusa sui social network tramite un video diventato virale.