Rsf vs Maggioni: “Devono parlare anche i No vax”

La lotta alla disinformazione è un valore, ma la censura no. Reporters sans Frontières bacchetta la neo direttrice del Tg1 Monica Maggioni che nella sua prima uscita pubblica dopo la nomina ha rivendicato di aver già portato a casa non una, ma ben due vittorie: dice di aver abolito il pastone politico che, par di capire, è stato fatto trangugiare per anni e anni ai telespettatori nel telegiornale della rete ammiraglia a sua insaputa e sì che è stata pure presidente della Rai. Ma è certa del fatto suo soprattutto su un’altra questione: non darà mai voce a coloro che mettono in discussione la politica di vaccinazione del governo. Ché “non puoi mettere sullo stesso piano uno scienziato e il primo sciamano che passa per la strada. Deve tornare a contare la competenza, non tutte le opinioni hanno lo stesso valore” ha detto Maggioni prendendo le distanze da chi si ostina a invitar tutti, magari per far comprendere perché milioni di italiani rifiutano il vaccino e molti di più contestano l’efficacia del green pass imposto dal governo con l’obiettivo di contenere la diffusione del virus. “Anche in tempo di Covid il pluralismo delle opinioni nei media pubblici deve essere preservato” ha commentato RSF che ogni anni denuncia le minacce ai giornalisti in giro per il mondo stilando anche una classifica della libertà di stampa a livello internazionale che vede l’Italia piazzata malissimo.

Con una serie di tweet l’organizzazione non profit ha stigmatizzato anche l’ex premier Monti che prima ha invocato una sorta di fatwa nei confronti delle voci di dissenso (“Siamo in guerra serve una somministrazione dell’informazione meno democratica”) poi ha provato ad aggiustare il tiro dicendo di esser stato frainteso ma ribadendo il concetto (“Non ho parlato di censura ma di democrazia. Il tema del ruolo dell’informazione nella gestione di una situazione di emergenza come quella del Covid si pone proprio nelle democrazie, perché nei regimi autocratici il controllo del potere pubblico sull’informazione c’è sempre. Teniamoci stretta questa libertà ma c’è da chiedersi come affronta una democrazia le situazioni di emergenza”).

Parole finite nel mirino di Reporters sans Frontières che ha fatto pure all’ex presidente del Consiglio barba e capelli: “RSF è profondamente preoccupata per la nascente volontà politica di controllare l’informazione in Italia. Il senatore ed ex premier Mario Monti ha recentemente chiesto restrizioni alle libertà e modalità meno democratiche per quanto riguarda la diffusione delle informazioni”. Per poi chiosare a proposito di libertà di informazione e servizio pubblico come sia sempre importante la lotta alla disinformazione, uno scopo che però “non può essere perseguito a spese della restrizione del pluralismo dei media e della censura delle opinioni critiche nei confronti del governo”.

Uno spunto di riflessione che ha fatto finire Reporters sans Frontières stessa sul banco degli imputati. Infiocinata dal Foglio che mette in discussione l’attendibilità dell’ong francese che “ogni anno ci delizia con le sue pagelle sulla libertà di stampa”. E soprattutto da Lucia Goracci, l’inviata del Tg1 che difende Maggioni e già che c’è se la prende con Bianca Berlinguer. “Quando anche RFS perde una buona occasione per tacere” chiosa rilanciando i tweet dell’Ong per poi chiamare in causa la conduttrice di Cartabianca rea di dar spazio a tutti invocando il pluralismo come bene primario. “Ora ci pensa lei (la Berlinguer, ndr), che ospita puntualmente no vax urlanti – per poter loro a sua volta gridare: ‘Stia zitta!’ – a tutelare l’informazione”.

La Cisl organizza la piazza pro-Mario contro Cgil e Uil

Sarà che politica e media avevano un po’ perso l’abitudine agli scioperi generali, sarà che la personalità di Mario Draghi ad alcuni rende impossibile l’idea stessa dell’opposizione, ma le reazioni alla scelta di Cgil e Uil di indire uno sciopero generale (eccetto il settore sanitario) per giovedì 16 dicembre sono tra lo stupito e l’indignato. Lo si vede a contrario anche da quanti si premurano di definire lo sciopero “legittimo”, cosa che è già stabilita da Costituzione e leggi.

Il risultato è che raramente due sindacati confederali sono stati così isolati nell’arco parlamentare e tra i kingmaker del dibattito pubblico. La Cisl, che ha scelto di non aderire alla protesta ritenendola “la strada sbagliata”, ha deciso invece di marcare ancora di più la distanza con gli altri confederali, isolandoli maggiormente e facendo ancor più felici governo e commentatori unificati: il comitato esecutivo di quella che fu l’organizzazione di Pierre Carniti ha annunciato infatti per sabato 18 “una manifestazione nazionale responsabile e costruttiva che punta a migliorare i contenuti della manovra e a impegnare il governo sulle stringenti priorità economiche e sociali senza incendiare i rapporti sociali e industriali”. La piazza dei buoni per meglio dialogare col Governo dei Migliori.

È forse il caso di ricordare che il precedente più recente di questa geometria della spaccatura sindacale risale al 2014, quando Cgil e Uil decisero lo sciopero contro il Jobs act e la Cisl invece no (anche se all’epoca non organizzò una piazza a oggettivo sostegno della riforma del lavoro di Renzi). Curiosamente, sia detto en passant, tra le possibili candidate del Pd nel collegio lasciato libero da Gualtieri a Roma c’è la segretaria Cisl dell’epoca, Anna Maria Furlan: se non altro Italia Viva dovrebbe appoggiarla senza neanche discutere.

Il resto del dibattito sul tema è un balletto di puro posizionamento. I democratici, ad esempio, invitano al dialogo: “Proviamo fino all’ultimo minuto utile a cercare di capire quali sono le cose che possiamo ancora fare grazie all’azione del governo e in Parlamento nel confronto sulla legge di Bilancio” (questo è Francesco Boccia, vicino al segretario Enrico Letta). Dall’altro lato c’è un certo scetticismo: “Al momento ci sono zero possibilità che si possa ritirare la sciopero, non ci sono dialoghi avviati. Vediamo comunque su quali punti il governo intende modificare le sue proposte” (questo è il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri).

In realtà spazi per dare un contentino accettabile ai due sindacati reprobi al momento non pare ce ne siano molti: sulle pensioni siamo al ritorno alla legge Fornero con qualche pezza a colori e alla promessa di un tavolo per studiare misure dal 2023 in poi; sul fisco l’accordo di maggioranza che concentra i maggiori benefici per i redditi tra 40 e 55mila euro non pare in discussione (è appena il caso di ricordare che oltre il 70% della platea sta sotto i 28mila euro); sul lavoro che dall’estate 2020 aumenta solo se precario non c’è né un euro né una parola (una in particolare: “causali”); pure la mitica legge contro le delocalizzazioni selvagge, più volte annunciata, è ancora misteriosamente nei cassetti…

Si potrebbe continuare, ma il problema di molti non è il merito, ma “evitare lo sciopero generale”, come dice Antonio Misiani, sinistra Pd: “Una nuova stagione di conflitti sociali è un danno per tutti”. Però la mancanza di conflitti sociali non pare averci fatto troppo bene finora.

Ma per il salario minimo compromesso al ribasso

Sulla carta è un nuovo passo avanti a favore della direttiva Ue sul salario minimo; nella sostanza, però, ridimensionerà il provvedimento con un compromesso al ribasso. L’accordo raggiunto lunedì tra i ministri del Lavoro dei Paesi Ue dà il via libera al negoziato dei prossimi mesi con il Parlamento europeo. Il testo uscito dall’intesa tra governi è stato salutato con favore anche in Italia, ma è meno stringente di quello approvato due settimane fa dagli eurodeputati.

Per fare un esempio, il Consiglio ha suggerito di lasciare il 70% come copertura dei contratti collettivi nazionali, mentre il Parlamento si era spinto fino all’80%. Il Consiglio ha voluto poi specificare che in quella percentuale rientrano anche i contratti che non contengono previsioni sui salari e, in ogni caso, il 70% non va considerato “un obiettivo”, ma solo un indicatore sotto il quale spingere gli Stati membri ad adottare misure per il dialogo tra le parti sociali. Alcuni Paesi, in particolare il blocco del Nord e del Sud, avevano provato già attraverso i loro eurodeputati a ostacolare il cammino della direttiva, ma il testo poi ha retto quando è stato sottoposto al voto palese in aula. Dal Consiglio, invece, è uscito annacquato. Un altro esempio: ai Paesi che adottano un salario minimo legale il Consiglio lascia ampi margini di scelta sui criteri per quantificarlo, così come nella raccolta dei dati. Circostanze che renderanno meno agevoli i confronti internazionali.

La direttiva, così come approvata dalla Commissione Von der Leyen, non impone – né può farlo – ai Paesi di introdurre un salario minimo per legge, lasciando libera scelta sulla via alternativa della contrattazione collettiva. Su questo punto di partenza incontestato né il Parlamento né il Consiglio potranno incidere, anche volendo. Lo scopo dichiarato dell’esecutivo europeo – in controtendenza rispetto alle politiche di austerità – è contrastare il dumping salariale che negli anni ha contribuito alle delocalizzazioni industriali nell’Est, i cui Stati ora si oppongono. Si cerca di far convergere verso l’alto gli stipendi dei lavoratori andando a incidere in aree caratterizzate da una debolezza storica dei sindacati. Una volta approvata la direttiva, a prescindere dai contenuti, ogni nazione dovrà recepirla.

L’Italia vive una situazione paradossale: pur con una solida copertura dei contratti nazionali, ha un problema salariale dovuto al proliferare di contratti pirata, ma anche gli accordi dei sindacati rappresentativi in alcuni casi prevedono retribuzioni molto basse. Per il nostro Paese sarà comunque l’ultima occasione per inserire il salario minimo nell’agenda di governo, tema che vede la contrarietà di sindacati, Confindustria e partiti di centrodestra. La posizione del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, non è netta, quindi gli unici sostenitori convinti sono i Cinque Stelle. “Il testo del Consiglio – dice la parlamentare europea Daniela Rondinelli (M5S) – è decisamente meno ambizioso di quello approvato dal Parlamento, ma confidiamo nella futura presidenza francese della Ue”. Il semestre guidato da Parigi inizia il 1º gennaio. Bisogna fare in fretta perché poi toccherà a Repubblica Ceca e Svezia che vorranno mettersi di traverso.

La Ue ne fa una buona: i rider saranno lavoratori dipendenti

È il giorno in cui l’Unione europea lancia l’offensiva alle piattaforme digitali, specialmente quelle che consegnano cibo a domicilio. Ieri il via libera in Commissione alla direttiva – sarà illustrata stamattina – che ha l’obiettivo di aumentare le tutele per chi lavora tramite app. Inevitabile pensare ai rider di Glovo, Deliveroo, Uber Eats e le altre multinazionali del settore. Il testo andrà ora all’esame di Parlamento e Consiglio Ue.

Sulla scia di una risoluzione approvata mesi fa dall’Europarlamento, Bruxelles vuol far emergere la reale natura di questi addetti, finora quasi tutti inquadrati come collaboratori autonomi e pagati “a consegna”. La direttiva stabilisce invece i criteri in presenza dei quali i fattorini e gli altri gig worker andranno considerati dipendenti e come tali trattati: minimi salariali o applicazione dei contratti collettivi, protezioni per malattia e congedi familiari oltre al diritto alla pensione e a un assegno di disoccupazione.

Gli indicatori sono diversi, ma per far dichiarare la subordinazione sarà sufficiente dimostrarne almeno due tra quelli in elenco. Per esempio, se chi lavora non ha il potere di determinare la sua paga e la sua prestazione è controllata tramite i mezzi elettronici, questi due fattori saranno le spie del rapporto di dipendenza. La casistica è ampia: le restrizioni alla libertà di scegliere i turni, spesso coartati dalle penalizzazioni previste dagli algoritmi, le norme di condotta da tenere con il cliente, il divieto di sostituzione e subappalto. Tutti parametri che faranno scattare il vincolo di assunzione da parte della piattaforma: l’onere di dimostrare il contrario, infatti, a quel punto graverà sull’azienda.

L’altra parte del pacchetto riguarda gli algoritmi. Quei meccanismi con cui oggi alcune app stilano il punteggio dei rider, la classifica dei più efficienti e affidabili. Proprio in Italia, a dicembre 2020, abbiamo avuto una decisione pilota da parte del Tribunale di Bologna: il sistema, essendo impersonale, discrimina quelli che non hanno portato a termine le consegne perché malati o perché aderenti a uno sciopero. Deliveroo in quel caso si era difesa sostenendo che non è previsto l’intervento umano, ma per i giudici era proprio quello il problema. Ora infatti la direttiva stabilisce che le regole dell’algoritmo devono essere comunicate con chiarezza a chi lavora, specialmente per quanto riguarda i dati trattati, e deve essere comunque assicurata la presenza di una persona in carne e ossa nelle decisioni.

Nei calcoli della Commissione, in Europa ci sono 28 milioni di persone che lavorano tramite piattaforma: un universo composito formato soprattutto da autonomi genuini. Ma sono ben 5,5 milioni quelli non correttamente inquadrati, sostanzialmente dipendenti. Ecco perché la direttiva punta a farne emergere almeno 4 milioni. Da questa “regolarizzazione” dovrebbero trarre beneficio anche le casse degli Stati: gli introiti dei contributi recuperati dovrebbero aggirarsi tra 1,6 e 4 miliardi di euro, a seconda della platea. Bruxelles ora dovrà lavorare di diplomazia e da oggi presenterà le nuove norme come uno strumento per armonizzare un settore nuovo, non certo come una misura anti-imprese: il lavoro nella gig economy è oggi un far west in cui ogni Stato e ogni tribunale interpreta la situazione come può e sa.

“Finora in Europa c’è stata una vera e propria Babele dei diritti – ha spiegato l’eurodeputata Daniela Rondinelli (M5S) – Un’anarchia giuridica che ha penalizzato milioni di lavoratori”. L’obiettivo sarà avere norme chiare di inquadramento per ridurre il contenzioso. In Italia i tribunali, a parte alcune eccezioni, non hanno imposto le assunzioni da dipendenti dei fattorini, ma hanno stabilito la “etero-organizzazione”, una forma ibrida di lavoro alla quale vanno comunque assicurate le tutele dei subordinati, a partire dai salari dei contratti nazionali validi. Le piattaforme non si sono mai adeguate – tranne Just Eat – e hanno consacrato il modello firmando un contratto di comodo col sindacato Ugl, un accordo bocciato dai giudici del lavoro e amministrativi, oltre che dal ministero, ma ancora applicato. Il ministro Orlando si è già detto pronto a nuove norme nazionali per i rider. Lo disse anche il suo predecessore Di Maio.

Fotocopie e gomme auto: spese pazze di Solinas&C.

Circa 40 milioni di debito fuori bilancio, di cui una trentina maturati dall’assessorato degli Enti Locali guidato da Quirico Sanna, proprio mentre la Corte dei Conti solleva parecchi dubbi sulla gestione economica della Regione. Il Consiglio della Sardegna ha appena votato per coprire l’enorme buco provocato da centinaia di fatture non pagate, un’anomalia che imbarazza la giunta di centrodestra di Christian Solinas. La lista dei debiti fa gridare allo scandalo le opposizioni, guidate da Massimo Zedda: “L’assessorato non ha impegnato un euro in sintonia con le leggi”.

Il grosso delle fatture non pagate, 26 milioni, è per “servizi di vigilanza armata e portierato” negli edifici regionali. Ma ci sono anche 12 Alfa Romeo Giulietta noleggiate nel 2019 dagli Enti Locali, il cui costo – tra leasing e cambio pneumatici – è di 78 mila euro per dieci mesi. La Regione dovrà poi coprire i 106 mila euro dovuti a un eccesso di stampe e fotocopie: solo nel 2019, l’assessorato degli Enti Locali ha speso 155 mila euro, superando il tetto forfettario di 48 mila stabilito dal fornitore. E ancora: 160 mila euro di “telefonia fissa” da aprile 2019 a ottobre 2020, altri 25 mila di “telefonia mobile” e 17 mila euro per “consumo idrico” nel 2019. Dati di cui la politica incolpa i tecnici, con il sindacato dirigenti e direttivi che però incalza Solinas sulla cattiva gestione delle nomine: “La situazione viola la logica e il buon senso e costituisce grave violazione dei principi di buon andamento della Pa”.

C’è poi il parere dei magistrati contabili. Il 26 novembre le Sezioni riunite della Corte dei Conti per la Sardegna hanno sollevato più di un rilievo nella relazione di verifica sul rendiconto della Regione per il 2020. I magistrati ricordano innanzitutto che dal 2011 non è stato ancora istituito il collegio dei revisori: “La mancata costituzione ostacola la Corte dei conti e priva la Regione di un importante istituto di controllo”. A pesare sui conti 2020 è stato il Covid, che ha ridotto le entrate per 458 milioni. Quanto alle uscite, sui fondi per le politiche sociali (97,7 milioni) e il settore agro pastorale (18,3) le Sezioni riunite “osservano che la coerenza temporale fra disponibilità delle risorse e loro impiego è risultata ulteriormente indebolita” da “inefficienze, aggravate dall’emergenza sanitaria” imputabili alla burocrazia. E sulla razionalizzazione delle partecipazioni, la Corte riafferma “la necessità di una celere conclusione delle liquidazioni” e “di una nuova ricognizione delle partecipazioni”.

La verifica di crediti e debiti reciproci con enti e società controllate e partecipate evidenzia “difficoltà informatico-organizzative e partite da riconciliare”. I debiti non riconciliati nel 2020 erano il 6% del totale, in lieve miglioramento dal 9% del 2019. Da qui le “evidenti criticità” nella redazione del bilancio consolidato della Regione che “se non adeguatamente gestite rischiano di inficiare l’utilità del documento”.

Città metropolitane. Consulta: “Legge Delrio illegittima”

L’attuale disciplina sui sindaci delle Città metropolitane è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto e pregiudica la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori. Spetta però al legislatore e non alla Corte costituzionale, introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle Città metropolitane. È quanto si legge nella sentenza n. 240 con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sulla riforma degli enti varata nel 2014 con la legge Delrio, e sulle corrispondenti norme della Regione Sicilia, secondo cui il sindaco delle Città metropolitane non è una carica elettiva poiché si identifica automaticamente con il sindaco del Comune capoluogo, a differenza del presidente della Provincia, eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio. Le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Catania sono state dichiarate inammissibili perché richiedevano un intervento di sistema, di competenza del legislatore. La Corte costituzionale ha evidenziato come la normativa attualmente vigente “non sia in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale” circa l’uguaglianza del voto dei cittadini e la responsabilità politica del vertice della Città metropolitana. La necessità di un riassetto normativo del settore è dovuta anche al fatto che la mancata abolizione delle Province, a seguito del fallimento del referendum costituzionale del 2016, ha reso “del tutto ingiustificato” il trattamento riservato agli elettori residenti nella Città metropolitana.

La “pax mafiosa” e la guerra ai pm sulle mazzette alla Gdf

1994, 19 o 20 gennaio. Il killer delle stragi Gaspare Spatuzza viene convocato dal suo boss Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma. “Era gioioso, felice”, racconterà il pentito ai pm: “Mi comunicò che avevamo chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo, e questo grazie alla serietà di quelle persone con cui avevamo portato avanti questa cosa, e che non erano come quei quattro crasti dei socialisti che avevano tradito le attese”. E chi erano le persone serie? “Quello di Canale 5”, cioè Berlusconi, “e il nostro paesano”, cioè Dell’Utri. I quali, dice Graviano a Spatuzza, “ci stanno mettendo l’Italia nelle mani”. Graviano aggiunge che l’attentato ai carabinieri va fatto comunque, per “dare il colpo di grazia”. La Dia accerterà che il 18 gennaio Marcello Dell’Utri ha alloggiato all’hotel Majestic, proprio di fronte al bar Doney.

23 gennaio. L’attentato allo stadio Olimpico contro i carabinieri del servizio d’ordine, programmato subito dopo la fine della partita Roma-Udinese, fallisce per un guasto al telecomando d’innesco dell’autobomba. Ma i killer mafiosi rimangono a Roma per riprovarci alla prima occasione.

26 gennaio. Berlusconi annuncia, in un videomessaggio trasmesso da tutte le tv pubbliche e private, la sua “discesa in campo” alle elezioni di marzo, perché “questo è il Paese che amo”. In privato, confida a Indro Montanelli e a Enzo Biagi: “Se non entro in politica, mi arrestano e fallisco per debiti”. La sua prima mossa è cacciare proprio Montanelli dal Giornale da lui fondato 20 anni prima: troppo libero e indipendente per i suoi gusti. È la prima epurazione di una lunga serie. La seconda mossa è proclamarsi seguace fervente di Mani Pulite.

27 gennaio. I boss latitanti Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati a Milano, dove cenano in compagnia del loro favoreggiatore Giuseppe D’Agostino, che da mesi ospita a Palermo Giuseppe Graviano. Prima della partenza per Milano, Giuseppe gli ha dato appuntamento a Milano e gli ha offerto un lavoro in città così da aiutarlo a seguire il figlio, il baby calciatore Gaetano, che nel 1992 ha sostenuto un provino nei “pulcini” del Milan su raccomandazione di Dell’Utri.

27-28 marzo. Berlusconi vince le elezioni politiche grazie a una coalizione a scartamento variabile: al Nord con la Lega Nord di Umberto Bossi e nel Centro-Sud con Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Attende dal presidente Oscar Luigi Scalfaro l’incarico di formare il governo. E tenta subito di annettersi la bandiera del pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, come ministro dell’Interno, mentre Ignazio La Russa propone la Giustizia a Piercamillo Davigo. Ma entrambi i pm rifiutano.

8 aprile. I boss Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella – racconterà il primo una volta pentito – rispediscono Vittorio Mangano a Milano da Dell’Utri per consegnargli un avvertimento a lui e a Berlusconi: “Devono scendere a patti altrimenti, senza la revisione del maxiprocesso e del 41-bis e la fine dei maltrattamenti in carcere, le stragi continueranno”. Il fallito attentato all’Olimpico può essere ritentato in qualunque momento. Mangano deve aggiungere, per rassicurare gli “amici” milanesi, che “anche la sinistra sapeva” della trattativa. Quindi, se il governo Berlusconi farà qualcosa a beneficio di Cosa Nostra, non incontrerà opposizioni, perché dietro la prima trattativa c’era “la sinistra” (nel senso – spiegherà Brusca – della “sinistra Dc, che fino ad allora aveva governato il Paese” ed era dunque ricattabile). Mangano va e – sempre secondo il racconto dei pentiti – torna raggiante: “Dell’Utri ha detto ‘grazie, grazie, a disposizione’”. Il commando di Spatuzza rientra da Roma a Palermo: Cosa Nostra non ha più bisogno di sparare. La guerra è finita. La trattativa sembra andare a buon fine: non resta che aspettare, dando tempo e serenità ai nuovi “referenti” per mantenere gli impegni. Inizia una lunga “pax mafiosa”.

11 maggio. Il governo Berlusconi giura al Quirinale dopo un braccio di ferro tra il premier, che tenta di piazzare alla Giustizia il suo civilista di fiducia Cesare Previti, e il presidente Scalfaro, che lo blocca per il conflitto d’interessi e lo dirotta alla Difesa.

13 luglio. Il primo vero atto del governo Berlusconi è il decreto Biondi (Alfredo, ministro della Giustizia) che riduce al minimo la custodia cautelare in carcere. Sulle prime si pensa solo a un provvedimento per salvare gli inquisiti di Tangentopoli (in particolare Paolo Berlusconi e gli altri manager Fininvest appena indagati per le mazzette alla Guardia di Finanza). Pochi notano, nelle pieghe del testo, tre norme favorevoli ai mafiosi. 1) La custodia cautelare diventerà molto più difficile e più breve anche nei processi di mafia, così molti imputati saranno scarcerati per decorrenza dei termini prima della fine del processo e potranno darsi alla fuga prima che la pena diventi definitiva. 2) Il carcere preventivo per i reati di mafia, ora obbligatorio, diventerà facoltativo: il giudice rischierà in prima persona arrestando un mafioso a sua discrezione. 3) Sarà abolito l’articolo 371-bis del Codice penale (ideato da Giovanni Falcone contro l’omertà, ma approvato solo dopo la sua morte) che prevede l’arresto in flagranza per i testimoni falsi o reticenti così sarà molto più facile ottenere testimonianze compiacenti, visto che chi mente o si cuce la bocca non rischia più la galera. Il decreto “salvaladri” viene ritirato quasi subito a furor di popolo, sull’onda delle proteste di piazza sposate da Bossi e Fini. Ma è solo rimandato: diventa un disegno di legge e verrà approvato di lì a un anno. A cavallo del decreto – racconterà il pentito Salvatore Cucuzza – Dell’Utri incontra due volte Mangano nella sua villa a Como e gli annuncia in anteprima le nuove norme pro-mafia.

In sette mesi di vita, il primo governo Berlusconi passa tra una lite e l’altra con Bossi e vara un condono fiscale, un condono edilizio e la legge Tremonti sugli sgravi fiscali alle imprese per gli utili reinvestiti, che fa risparmiare un po’ di tasse alla Fininvest. Intanto avanza l’inchiesta sulle tangenti Fininvest alle Fiamme Gialle. Il Pool scopre che l’ultima è stata pagata da poco, nei giorni delle elezioni, fra marzo e aprile, per addomesticare una verifica fiscale disposta dal Garante per l’editoria, Giuseppe Santaniello. Il quale sospetta che la Fininvest aggiri la legge Mammì controllando interamente i tre canali Telepiù (di cui potrebbe possedere solo il 10%) tramite prestanomi. Il che, come emergerà dalle indagini sui conti esteri del Biscione, è vero. Ma, se la cosa emergesse ora, segnerebbe la fine dell’impero berlusconiano. La sanzione infatti è la revoca delle concessioni, cioè lo spegnimento immediato di Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Ecco che cosa non devono scoprire i finanzieri in cambio delle mazzette Fininvest.

(8 – Continua)

La Cartabia s’offre a FdI e Conte si spiega su B.

Prima lei, la Guardasigilli che al Quirinale pensa ma ovviamente mai lo dirà, e che dal palco dà per “imminente” la riforma del Csm. Poi l’avvocato, che per restare leader dei 5Stelle non dovrà ritrovarsela nelle urne per il Colle, altrimenti il M5S esploderebbe, perché come potrebbe votare la ministra della controriforma della Giustizia? In un’Immacolata che per Roma è tutta una pioggia, ecco la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente del M5S Giuseppe Conte, uno dopo l’altra sul palco di Atreju – il Natale dei conservatori, la festa di Fratelli d’Italia dove da giorni si affollano i big della politica italiana, a poco più di un mese dalla riffa per il Quirinale.

Attorno alle 18 tocca all’ex presidente della Consulta, in giacca verde e tanta gentilezza: “Non ho mai partecipato ad alcun dibattito politico, ma questo era un atto dovuto verso l’unico partito d’opposizione”. Giorgia Meloni e la platea applaudono. Ergo, se un segnale andava dato eccolo dalla ministra quirinabile, colei che sarebbe – dicono – la sostituta che Sergio Mattarella vorrebbe. Nell’attesa Cartabia fa il suo, annunciando come “imminente” la riforma del Consiglio superiore della magistratura: “Da domattina alle 8 (oggi, ndr) comincerò a consultare i partiti di maggioranza”. Ma a occhio introdurre il sorteggio per l’elezione del Csm non la convince: “I sistemi elettorali possono incidere, ma non è lì che cambi gli attori che giocano la partita”. Promette: “Il governo lavora per una giustizia che risponda di più ai principi costituzionali”. Con lei ci sono il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e l’ex magistrato Carlo Nordio, che parla di partiti “che si sono consegnati alle Procure”, e attacca il trojan introdotto dalla Spazzacorrotti dell’ex Guardasigilli Bonafede (“una vergogna”). Cartabia glissa, lotta con una tosse insistente e parla d’altro, mentre un diluvio si abbatte sulla manifestazione.

E prima di salutare giura e rivendica: “Affronteremo tutti i nodi, se avessi scelto un ministero dove avere una comfort zone non mi sarei seduta al ministero della Giustizia”. Cartabia se ne va, senza aver detto una sillaba sul Colle. Un quarto d’ora, e sul palco arriva Conte. Dietro di sé ha lasciato altri mugugni nel M5S: tanti, sono per le sue parole su Silvio Berlusconi (“Ha fatto anche cose buone”). Ma a ruminare malumore c’è anche il comitato di Garanzia, composto da Luigi Di Maio, Virginia Raggi e Roberto Fico. Domenica scorsa Conte non li avrebbe pre-avvertiti delle votazioni su vicepresidenti e comitati tematici: e loro non avrebbero affatto gradito.

La certezza è che ad Atreju il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano gli chiede subito della petizione di FdI per il presidenzialismo, e Conte schiva: “Non ci sono le condizioni per una fase costituente, piuttosto introduciamo la sfiducia costruttiva”. Anzi, davanti alla Meloni che invoca il maggioritario, insiste su una legge proporzionale con sbarramento al 5 per cento. Poi rivendica di non aver voluto correre a Roma per il seggio per la Camera: brusio in platea, e il direttore del Tempo Franco Bechis che morde: “Si è rifiutato di perdere, era un pacco”. Conte reagisce – “lei vuole rubare applausi” – e ripete: “Ho declinato il cortese invito di Enrico Letta”. Quindi rilancia: “A tempo debito decideremo come scegliere il leader di coalizione, ma l’ipotesi di fare le primarie non mi spaventa”. Quindi, il Quirinale. Sangiuliano prova a snidarlo: “Si potrebbe avere un presidente non di sinistra?”. E Conte: “Assolutamente sì, l’importante è che sia di alto profilo morale”. Chissà come la prenderanno nel Pd.

E comunque poi arriva il tiro a porta vuota di Bechis: “Mi elenca due o tre cose buone fatte da Berlusconi?”. La gente ride e l’avvocato si rivolge a Meloni: “Giorgia, perché ridono?”. Poi cerca di uscirne: “Credo che nel 1994 Berlusconi abbia contribuito a spingere certi partiti verso una destra più moderna”. Infine, i referendum sulla giustizia: “Apriremo una discussione nel M5S, alcuni potrei sottoscriverli anche io, ma l’impianto non mi convince”. Ma tanto si era già toccato l’acme sul Caimano: modernizzatore.

Il Caimano fa shopping natalizio. E torna pure Scajola per aiutarlo

Sotto Natale, si sa, è tempo di shopping. E Silvio Berlusconi vuole sfruttare il periodo per trovare un regalo sotto l’albero: il Quirinale. Così, negli ultimi giorni, il leader di Forza Italia e i suoi emissari si stanno concentrando sugli ex azzurri di Coraggio Italia alla Camera per provare a recuperare qualche voto utile e arrivare così alla soglia dei 505 voti, il quorum al quarto scrutinio per essere eletto. I totiani a Montecitorio sono un pacchetto che fa gola a Berlusconi: 24 voti in tutto. Così, è partita l’offensiva che nelle prossime ore darà i primi risultati: sarà ufficializzato il ritorno in Forza Italia dei deputati lombardi Stefano Benigni e Claudio Pedrazzini. Arriveranno dopo Gianluca Rospi, ex M5S e poi di Coraggio Italia!, che è stato il primo a passare in Forza Italia a ridosso del voto per il Colle. Sia Benigni che Pedrazzini avevano aderito a Cambiamo! di Giovanni Toti nel settembre 2019 ma a maggio, quando era avvenuta la fusione con il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, avevano deciso di non seguirlo nel nuovo movimento Coraggio Italia! ed erano rimasti nella nebulosa del Gruppo Misto. Entrambi saranno portati da Alessandro Sorte, deputato bergamasco rientrato in Forza Italia una settimana fa dopo un incontro ad Arcore proprio con Berlusconi: “Lo voterò al Quirinale e sono in grado di convincere altri 6-7 colleghi” aveva annunciato Sorte dopo il suo ritorno a casa. E finora lo scouting sembra dare i primi frutti.

È lui, raccontano fonti azzurre, che sta contattando, per conto di Berlusconi, a uno a uno i deputati del Misto ma anche diversi suoi ex colleghi dentro Coraggio Italia!. Dopo una lunga gavetta in Forza Italia –­consigliere comunale a Brignano Gera d’Adda (Bergamo), consigliere regionale e poi assessore alle Infrastrutture con Roberto Maroni – il recordman di preferenze nella Bergamasca aveva deciso di sbattere la porta due anni fa proprio insieme ai colleghi Benigni e Pedrazzini. Adesso li farà tornare e sta provando a convincerne altri. Il pressing è molto forte anche sulla deputata Fabiola Bologna e su Emilio Carelli, eletto con il M5S. Quest’ultimo ha lasciato i grillini il 2 febbraio scorso, proprio nel giorno in cui fallirono le trattative per un governo Conte ter e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella convocò Mario Draghi per dargli l’incarico. Poi ha aderito a Coraggio Italia! ma Berlusconi sogna un suo ritorno in Forza Italia: i due si conoscono da una vita, visto che Carelli è stato dal 1980 al 2003 un punto di riferimento del Biscione – prima Fininvest, poi Mediaset – come inviato per il Tg5, caporedattore e vicedirettore di Tgcom prima di passare a Sky nel 2004. Berlusconi vorrebbe un ritorno di Carelli anche per dare un volto alla sua campagna per il Colle, oppure che sia lui a garantirgli i voti del gruppo dei totiani. Del suo approdo in Forza Italia i due avevano già parlato a inizio giugno durante un faccia a faccia ad Arcore. Ora Carelli fa sapere: “Il blocco del centrodestra può essere determinante, la candidatura di Berlusconi è vera e concreta e può stupirci”.

Lo scouting dentro il gruppo di Coraggio Italia!, portato avanti anche dal capogruppo azzurro Paolo Barelli, però sta facendo arrabbiare molto Toti e Brugnaro che teoricamente non sarebbero ostili a una candidatura di Berlusconi al Quirinale. “Ma se continua a portarci via gente, i nostri voti se li scorda” dice un big del partito. Insomma, in un attimo il leader azzurro potrebbe conquistare una manciata di voti ma perderne oltre 20 visto che al Senato i sette esponenti totiani guidati da Gaetano Quagliariello e Paolo Romani sono compatti e Toti e Brugnaro possono contare su un pacchetto di 12-13 fedelissimi a Montecitorio. Berlusconi, dunque, deve stare attento a non innervosire gli alleati. Anche perché presto potrebbe nascere la federazione tra Coraggio Italia! e Italia Viva che tra Camera e Senato potrebbe contare su una settantina di voti molto utili in vista dell’elezione del Quirinale. Nel frattempo per Berlusconi arrivano altri endorsement di peso dentro Forza Italia: prima quello del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, suo avvocato, secondo cui Berlusconi “è l’ultimo statista rimasto e ha tutti i titoli per essere eletto”; ieri poi è arrivato anche quello di Claudio Scajola, sindaco di Imperia ed ex ministro nei governi Berlusconi. A La7 Scajola ha detto: “È stato sempre un buon arbitro”.

 

I PARERI

 

Inaccettabile L’aspetto imbarazzante è che qualcuno la ritenga un’opzione

L’ipotesi di Berlusconi presidente della Repubblica non è accettabile, mi sento imbarazzata persino a discuterne, dopo tutto quello che ha fatto. Per questo ho aderito alla raccolta firme del Fatto.
Lui non si arrende mai, lo sappiamo, e infatti non mi meraviglia che ci stia provando. Semmai c’è da meravigliarsi di quanti gli stanno intorno e considerano percorribile un’opzione del genere. È questa la cosa ignobile: che qualcuno gli stia dando una sponda. In questo Paese c’è stata una classe dirigente di colpevoli e Berlusconi ne è chiaramente parte, con ombre irrisolte su cui tuttora indaga la Procura di Firenze, che si occupa delle stragi di mafia.
Ma che cosa ci vuole in questo Paese perché qualcuno sia escluso dalla comunità civile? Mi stupisco sempre della capacità di fantasia di questo popolo.

Sandra Bonsanti

 

Consigli da comico ci spero, da uomo gli direi: “sei ricco, chi te lo fa fare?”

Devo dire che come comico ho tutto l’interesse che Berlusconi diventi presidente. Con lui al Colle, ogni giorno ci sarebbe una perla in più: il discorso di fine anno a suon di barzellette spinte, i Corazzieri sostituiti dalle Amazzoni, i noiosi saluti ufficiali ai capi di Stato sostituiti da un più cordiale e affettuoso “cucù!”. Come cittadino mi pare un’ipotesi alquanto azzardata che, confesso, non mi farebbe dormire tanto tranquillo. Come uomo, ormai sempre più vicino alla “detestata soglia di vecchiezza”, mi vien da chiedere a Silvio: ma chi te lo fa fare, benedetto il cielo? Sei più che ricco, puoi fare quello che vuoi, hai belle ville dappertutto e dove non ce l’hai, se ti va, te la compri. Goditi la vita senza crearti problemi che sono causa di stress, di continui pensieri e pesanti responsabilità, da’ retta a un bischero! Dedicati alla famiglia, ai figli e ai nipoti, magari lasciando in pace le nipoti di Mubarak, questa volta!

Paolo Hendel

 

“Belluscone” Dopo 30 anni mai avrei pensato di dover firmare un appello

Nel 2014 ho diretto un film il cui titolo è Belluscone, presentato quello stesso anno al Festival del Cinema di Venezia. Già ai tempi di Cinico Tv, parliamo di oltre trent’anni fa, Silvio Berlusconi era diventato un personaggio di Ciprì e Maresco e forse i più anziani ricorderanno che gli dedicammo una “ode a Silvio”, anzi addirittura due (prima nel 1990 e poi 1994), mandate in onda su Rai3 da Blob e Fuori Orario migliaia di volte.
Mai, però, avrei immaginato di trovarmi un giorno nella situazione di dovere sottoscrivere una petizione – quella del Fatto – per scongiurare la minaccia di vedere proprio “Belluscone” diventare presidente della Repubblica italiana. “Ridere ridere ridere”, diceva un personaggio di Ettore Petrolini, che degli italiani aveva capito tutto cent’anni fa.

Franco Maresco

La pulce e l’elefante

Una delle migliori tecniche di disinformazione è quella di ingigantire le notizie marginali per minimizzare quelle fondamentali. Infatti si fa un gran vociare – come se ne andasse delle sorti del centrosinistra e del Quirinale – sul no di Conte alla candidatura a Roma-1, gabellato per un voltafaccia o financo una fuga del leader di partito più popolare d’Italia per paura di due noti frequentatori di se stessi. Un monumentale chissenefrega, tanto più che Conte non ha mai detto di sì e, dopo averci riflettuto, ha declinato come già aveva fatto per le Suppletive a Sassari, Siena e Roma-Primavalle. Naturalmente la stessa canea impazzerebbe se avesse accettato: si direbbe che vuole arraffare l’ultimo treno per garantirsi 15mila euro al mese, con annessa immunità dall’arresto e dalle intercettazioni. Invece, dopo il rifiuto, nessuno segnala l’anomalia di un politico che non cerca immunità né soldi, anzi non vede un euro da otto mesi (non ha riaperto lo studio legale per evitare conflitti d’interessi ed è in aspettativa dall’università), né lo vedrà fino alle elezioni: fa politica gratis.

Ieri intanto il nostro sito raccontava uno scandalo gigantesco: l’ex senatore FI Giancarlo Pittelli, ai domiciliari per concorso esterno in ’ndrangheta (ma tu guarda), scrive alla ministra FI Mara Carfagna per chiederle di “aiutarmi in qualunque modo”. E torna in carcere perché non poteva comunicare con nessuno, salvo i familiari conviventi. Nella lettera, oltre ai consueti insulti agli inquirenti, che sono una specialità della casa (“sono un innocente finito nelle grinfie di folli”, cioè di Gratteri che “manipola” intercettazioni e inventa “accuse folli” e di giudici “asserviti”), il galeotto annuncia alla ministra: “Stiamo preparando un’interrogazione parlamentare che Vittorio Sgarbi proporrà quale primo firmatario. Piero Sansonetti, che non mi ha mai abbandonato, conosce tutti gli atti e i particolari dell’inchiesta”. Cioè: il detenuto sospettato di ’ndrangheta prepara un’interrogazione che un deputato-postino (Sgarbi: ma tu pensa) presenterà come farina del suo sacco e i soliti trombettieri rilanceranno in edicola. Gran finale: “Per eventuali comunicazioni ti lascio il recapito di mia moglie…. Le tue telefonate come ben sai sono tutelate ex articolo 68…”. Cioè chiede a una ministra – suscitandole prevedibile imbarazzo e forse anche un po’ d’inquietudine – di chiamarlo sul numero della moglie, così né lei né lui saranno intercettabili. Di qui il riarresto, perché – scrive il giudice di Vibo Valentia – Pittelli vuole “instaurare contatti” per “incidere sul regolare svolgimento del processo”. Cose che accadono quando si manda al governo la Banda B. e, soprattutto, si medita di lasciarla lì anche in futuro.