Battisti amava il rap, ascoltava i Bee Gees e creò la discomusic

“Ho avuto l’onore di lavorare con due geni della musica italiana, Battisti e Battiato. Con Franco ho realizzato sei album e di Lucio sono stato l’ombra: gli selezionavo i turnisti”. Alberto Radius commenta la riedizione rimasterizzata in vinile de La batteria, il contrabbasso eccetera, pubblicato da Sony e contenente una vera chicca: la versione dell’album cantata in spagnolo, inedita in Italia, oltre a un booklet con commenti di musicisti e Mogol con la supervisione di Paolo Maiorino.

“Durante la gravidanza di sua moglie, Lucio, per evitare i fotografi, decise di venire a dormire a casa mia in via Novara a Milano, a due passi dallo stadio. Pur di stare lontano dai riflettori accettò di stare in una stanza con un letto a castello, uno sopra e uno sotto. In quel periodo, mi fece sentire un sacco di melodie: se avessi registrato tutto quello che ha suonato davanti a me oggi sarei miliardario”. L’album, musicalmente, è stato una vera svolta, riuscendo a elaborare i canoni della nascente discomusic con grande originalità: “Durante la registrazione ascoltava da Guccini ai Bee Gees, soprattutto Saturday Night Fever. Con il mio gruppo Il Volo avevamo fatto alcuni tentativi con il ritmo in quattro quarti ma lui l’ha fatto meglio. Già con Mi ritorni in mente si era ispirato agli Earth Wind & Fire per l’uso dei fiati e delle pause ma non la chiamerei discomusic, piuttosto una sua reinterpretazione di gran pregio. Quando registrava, solo Mogol poteva accedere: anche se è un grandissimo paroliere secondo me sulla musica ci capiva ben poco. Lucio, invece, conosceva tutto della musica contemporanea, lavorava giorni e giorni anche solo su una sfumatura di una canzone, era ossessivo nei dettagli. Lui viveva per la musica e la musica l’ha sempre ricompensato”.

Tra i musicisti “ingaggiati” da Radius anche una eccellenza: “In molte tracce ha suonato la chitarra Ivan Graziani”. La modernità degli arrangiamenti, in particolare su Ancora tu è il frutto di una ricerca sonora senza tregua: “Insieme a Lavezzi e Mogol abbiamo accompagnato Lucio a Londra per vedere ‘che aria tirava’. Siamo capitati in un negozio di strumenti musicali e tornammo in Italia con uno dei primi sequencer e sintetizzatori disponibili. L’ultima volta che l’ho incontrato a Roma durante la serie di album con Pasquale Panella – che a me non è mai piaciuto –; era completamente intrigato dal rap, ben dieci anni prima della sua esplosione”. Per i fan di Lucio da segnalare anche la riedizione in vinile di Amore non amore e il libro di Ivano Rebustini e Luca Bernini Specchi opposti, dedicato al periodo post-Mogol.

“Con la Rai ho tenuto il punto per evitare banalità su Imma”

“La dobbiamo finire di dire che ho un brutto carattere, ho carattere e basta!” esclama Imma Tataranni in tivù, interpretata dall’attrice Vanessa Scalera. La sostituto procuratore di Matera aggredisce la vita e il crimine a colpi di commedia, in bilico tra leggerezza e abnegazione. Un personaggio di carta, già amato dai lettori, che approdato sul piccolo schermo ha sedotto milioni di italiani. Un successo che Mariolina Venezia rinnova con il suo ultimo Ecchecavolo. Il mondo secondo Imma Tataranni, in libreria per Einaudi. La scrittrice lucana, premio Campiello nel 2007 con Mille anni che sto qui, attinge ispirazione da una terra che mescola masserie disabitate e parabole satellitari, pompe di benzina e mucchi di pietre.

Come nasce il personaggio di Imma? Si è forse ispirata all’ispettrice Petra Delicado di Giménez-Bartlett?

Me lo chiedono spesso. Non ho ancora letto la Giménez-Bartlett, ma forse i due personaggi hanno una matrice culturale comune: Spagna e Basilicata si somigliano un po’.

Imma è una donna scontrosa e sopra le righe. Come la sua autrice?

Mi vede così? In realtà, Imma non è un personaggio autobiografico, anche se attraverso di lei ho voluto invitare le donne a non aver paura di esprimersi e di essere se stesse.

Ci parli del suo nuovo Ecchecavolo

Lo definirei un libro liberatorio e alla fine pacificante. Oltre a indagare sui piccoli suonatori di arpa girovaghi di Viggiano, e su altri sorprendenti personaggi, la Tataranni questa volta immagina il mondo come dovrebbe essere. Nei polizieschi mi affascina la mente del detective, i suoi pensieri che a volte fanno corto circuito con le indagini.

Essere una scrittrice del Sud fa la differenza?

Mi identifico poco nelle macro-definizioni. Ognuno di noi è composto di tanti elementi che lo rendono unico, e così è unico il mio Sud, che cerco di raccontare al di là dei cliché.

Perché ha scelto proprio il genere giallo per riprodurlo sulla pagina?

Il giallo consente di esplorare luoghi e storie, di incontrare personaggi. Mi sembrava adatto per dipingere una Basilicata sospesa fra tradizioni arcaiche e globalizzazione, in qualche modo metafora dell’Italia. I suoi contrasti generano drammi, ma anche situazioni comiche, che mi diverto a far vivere.

Ma il giallo non è inflazionato? Siamo un popolo di eroi, santi e commissari.

Per quanto mi riguarda, cerco di reinventare il genere attraverso un lavoro sulla lingua, anzi sulle lingue che compongono il nostro universo mentale. E una dose di realismo maggiore del solito. Direi che i miei sono gialli iperrealisti.

Secondo lei perché i polizieschi non conoscono crisi?

Il mistero avvince, da sempre. Se a questo si aggiunge un’ambientazione ben descritta, e personaggi non banali, il lettore ci trova interesse e intrattenimento.

La sua scrittura ha subito contraccolpi dopo il successo della fiction?

Non credo. Anche se la Imma della fiction è fisicamente un po’ diversa da quella letteraria, ne ha mantenuto lo spirito. In questo ultimo libro c’è anche qualche considerazione ironica del personaggio letterario su quello televisivo: alla fine Imma ci sta a essere rappresentata più alta e più magra…

È vero che ha avuto dissapori con gli sceneggiatori Rai?

Più che altro ho tenuto il punto per evitare che Imma fosse banalizzata. Non doveva apparire come una matta o una nevrotica, ma come una donna autorevole, che agisce in modo consapevole. Casomai provocatoria, in certi momenti. Mi sembra che l’obiettivo sia stato raggiunto. Il pubblico l’ha capita.

Si può dire che lei ha reso la Basilicata un tòpos letterario, che ha riscattato la sua terra natale?

Non penso che la Basilicata avesse bisogno di un riscatto. I territori, come le persone, devono semplicemente svilupparsi secondo le proprie peculiarità, senza rincorrere modelli esteriori. Possiamo dire che io sono una delle sue peculiarità?

Lei nasce come poetessa: la poesia quanto ancora sopravvive nella sua scrittura di genere?

Sopravvive nei passaggi che mi vengono ispirati dal paesaggio. I paesi abbandonati, i calanchi, le colline ondulate risvegliano la mia vena lirica.

Cinquanta sfumature di Brass. Bordelli, culi, film e Tinta

Goliardico. Ironico. Sessualmente spudorato. Profondo, talmente profondo da volerlo celare con ogni possibile provocazione. È Tinto Brass nell’autobiografia scritta con la moglie Caterina Varzi. Ne riportiamo alcuni passaggi.

 

Infanzia. “Il mio vero nome è Giovanni. Da bambino trascorrevo molto tempo a disegnare. Un giorno mio nonno Italico disse: ‘Abbiamo un piccolo Tintoretto in casa’. In breve da Tintoretto si passò a Tintino, poi piano piano a Tinto”.

In famiglia. “A tavola mia madre sedeva alla destra di mio padre. Mentre serviva il pranzo, a volte il Papi la attirava a sé e allungava le mani dappertutto. ‘Smettila, ci sono i bambini’ diceva lei con tono di sottile imbarazzo, mentre tentava di dargli schiaffetti… Mia madre aveva un culo bellissimo”.

Pulsioni. “Quando riuscivo ad avvicinarmi alla porta del bagno spiavo dal buco della serratura. Guardare mia madre o le cameriere che facevano pipì e sentire lo scroscio dell’urina divenne un piacere che si è protratto per tutta la vita”.

Contrasti. “Mi mandarono via di casa e cambiarono la serratura perché mi ritenevano un pessimo esempio per i miei fratelli. Avevo diciassette anni… Una mattina ricevetti la punizione peggiore. Io e mio padre uscimmo per prendere il vaporetto da San Marco. Mi lasciò al manicomio maschile, dove rimasi alcuni giorni. Per un fascista come lui ricorrere a punizioni estreme a fini educativi era normale”.

Bordelli. “Quando decisi di cambiare università non fu per ragioni di studio. A Padova avevano chiuso i casini, mentre quelli di Ferrara erano aperti”.

Tinta. “Era una scopatrice intrepida. Provocante e scatenata, ma con la mente lucida. Già allora le piaceva spingere i nostri rapporti sessuali oltre ogni limite, e questo mi provocava erezioni imbarazzanti”.

Sordi. “La collaborazione con Alberto fu incredibile. Era di immensa bravura e lavorava con rigorosa professionalità, senza i capricci di alcuni attori di oggi. Aveva una capacità straordinaria di cogliere tutti gli aspetti psicologici dei protagonisti che interpretava, trasfigurando con la mimica i suoi tratti somatici”.

Mangano. “Mi confidò che non le piaceva essere Silvana Mangano, era convinta di non meritare un successo arrivato per caso. Detestava i suoi seni prosperosi e le sue forme. Fumava una sigaretta dietro l’altra e mangiava pochissimo per evitare di ingrassare”.

La chiave. “Avrei voluto che a interpretare la protagonista fosse un’attrice come la Loren o la Mangano, ma per la scabrosità del soggetto ricevevo risposte negative. Letta la sceneggiatura, Ponti disse: ‘Cos’hai al posto del cervello, sperma?’”.

Sandrelli. “Determinata a fare il film, in un provino si è mostrata senza alcun pudore nature. Il lavoro sul set per lei non fu una passeggiata… Le perplessità le venivano la sera prima di girare, ma sul set si stabilì tra noi un rapporto di fiducia e non si tirò indietro”.

Caprioglio. “Semplice e pragmatica; sapeva che era un’occasione per farsi conoscere… Per sua fortuna la madre, sin da bambina, le aveva insegnato che l’imprevedibile svolge un ruolo decisivo. Per questo, prima che la figlia uscisse di casa, le diceva: ‘Fatti il bidet, non sai mai chi puoi incontrare’… Fu l’inizio di una forte passione. Ricordo la sera della prima di Lulu. Cenammo in fretta, mi disse che doveva raggiungere Gianni De Michelis, poi scomparve per un lungo periodo. Capii dai giornali che era con lui in Sudamerica. A Debora piace sentirsi desiderata. La normalità l’annoia. La rividi a Venezia dopo qualche tempo. Facemmo l’amore in una calle, in fondo alla quale a un certo punto scorsi Bruna, la sorella di Tinta”.

Scambismo. “Può essere un modo per conoscersi meglio, creare complicità… Per me si trattava di una modalità eccitante. Neutralizzava la mia gelosia e dava al rapporto con Tinta una maggiore vitalità”.

Ammirati. “Il nostro primo incontro sarebbe potuto finire in tragedia. Una mattina sul Lungotevere, a un semaforo Tinta tamponò il motorino guidato da Anna Ammirati, che si voltò e disse: ‘Li mortacci! Guarda ’sti stronzi!’. Scesi dalla macchina per scusarmi. Quando mi riconobbe, Anna scoppiò a ridere: ‘Tinto Brass!’. Le domandai, un po’ ammiccando, se si era fatta male da qualche parte… Lei, sorridendo, con erotica complicità rispose: ‘Certo! A momenti mi ammazzavate… ma se mi fai fare un film non vi denuncio’”.

Galiena. “Fu lei a insistere per avere la parte, e chiese con ostinazione di fare il provino. Venne nel mio studio e mi disse che la sua incertezza iniziale derivava dal fatto che aveva pochi peli pubici. Solitamente, nelle scene più erotiche risolvo il problema con un parrucchino. Durante la preparazione del film, ho sempre consigliato alle attrici degli impacchi di olio di ricino sulla fica. Un rimedio di cui sono venuto a conoscenza frequentando i vari casini di Venezia”.

Culofilia. “Prima premessa: il culo è lo specchio dell’anima. Seconda premessa: ognuno è il culo che ha. Conclusione: mostrami il culo e ti dirò chi sei”.

Crisi e rinascita. “Nel 2006 ho attraversato un periodo difficile. È stato l’anno in cui è morta Tinta, il motore della mia vita, il cancellino dei miei dubbi, il pozzo delle mie certezze, l’allucinogeno dei miei sogni e, soprattutto, il fiammifero della mia lussuria… Dopo vissi una profonda solitudine. È stato grazie a lei se ho capito che anch’io so essere un buon compagno di vita. Adesso con Caterina lo capisco sempre meglio… Quando non sarò più in grado di badare a me stesso, Caterina sceglierà la cosa più giusta per me”.

Bambini affamati e dollari spariti

Dall’Afghanistan ci giungono notizie devastanti sulle condizioni dei bambini in quel Paese e filmati ancor più raccapriccianti dove si vedono questi piccoli ridotti alla fame e denutriti.

Secondo il World Food Program, Organizzazione Onu: “Circa 3,2 milioni di bambini sotto i cinque anni d’età soffrono già di malnutrizione acuta e un milione potrebbe presto perdere la vita”.

Si sottace pudicamente che se l’Afghanistan è ridotto com’è ridotto, non solo per la condizione dei bambini, è perché viene da vent’anni di occupazione occidentale e durante gli ultimi cinque, i Talebani hanno dovuto combattere anche l’Isis che, dopo la sconfitta dello Stato islamico Araka e Mosul, è penetrato anche in Afghanistan.

Nonostante le fonti di informazione siano più che attendibili: Medici Senza Frontiere a Herat, che peraltro nei vent’anni di occupazione è stata forse la città più protetta perché noi italiani avevamo fatto patti di non aggressione con i Talebani e perché era sotto la protezione del “padrone di casa”, Ismail Kahn, uno dei più potenti signori della guerra; l’inviato del Corriere Lorenzo Cremonesi, in Afghanistan dal 2001 che firma un articolo dal titolo inequivocabile: “Kabul, la fame che uccide i bambini”. C’è qualcosa che non mi suona in questo allarme: si vuole dimostrare che i Talebani, che peraltro sono al governo da soli tre mesi, non sono in grado di governare l’Afghanistan.

Ma il discorso non mi torna per un altro motivo. Durante i sei anni del primo Emirato islamico d’Afghanistan, quello fondato dal Mullah Omar, i media occidentali non perdevano occasione, foss’anche di dettaglio, per infamare i Talebani descritti unanimemente come “brutti, sporchi e cattivi” se i bambini afghani fossero stati nelle condizioni in cui vengono descritti ora se ne sarebbe fatto uno scandalo, mentre su questo aspetto non ci si è mai soffermati. Perché? Per la semplice ragione che bimbi denutriti e alla fame nell’Afghanistan del Mullah Omar non ce n’erano. Come mi ha confermato Gino Strada, in Afghanistan dal 1999, che aveva un ospedale anche pediatrico a Kabul e un altro a Lashkar-gah. Eppure anche quell’Afghanistan veniva da due anni di guerra civile (1994-1996) fra i “signori della guerra”, conflitto cui porrà fine il Mullah Omar conquistando il potere nel 1996, ricacciando i “signori della guerra” oltreconfine e dando i soli sei anni di ordine e di pace a quel Paese. Anche l’Afghanistan talebano si trovava quindi in una situazione da dopoguerra ma bambini alla fame non ce n’erano o se c’erano entravano nelle proporzioni fisiologiche. I Talebani di allora sono stati quindi perfettamente in grado di tenere sotto controllo la situazione alimentare non solo per i bambini ma per l’intera popolazione. Anche se Omar nel 2000 aveva preso l’inaudita decisione di stroncare la coltivazione del papavero da cui si ricava l’oppio, su cui si sosteneva la maggioranza dei contadini afgani, peraltro ricavandone un miserabile 1% sull’intero traffico.

I problemi dei bambini afghani erano semmai di tutt’altro tipo. Soprattutto all’inizio della guerra gli americani hanno utilizzato proiettili all’uranio impoverito che causano leucemie, tumori, deformazioni genetiche, tipo Hiroshima. Che questi proiettili siano micidiali lo dimostra una comparazione con quanto è accaduto ai soldati italiani che hanno combattuto nella ex Jugoslavia, 7600 si sono ammalati di cancro e 400 sono morti. Ma mentre i nostri soldati erano avvertiti del pericolo, un bambino afgano che razzola sul terreno e, come tutti i bambini, raccoglie tutto ciò che gli capita a tiro, questo non lo sa. Raccontava nel marzo del 2003 un vecchio contadino, Jooma Khan, che viveva in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord-orientale: “Quando vidi mio nipote deforme mi resi conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta invece sento che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non poter fuggire”. Del resto fin dall’inizio, il ministro della Difesa americano, Donald Ramsfield, aveva preavvertito che la guerra ai Talebani, considerati “terroristi”, anche se in seguito verrà appurato, senza ombra di dubbio, che non c’entravano nulla con l’attacco alle Torri Gemelle, sarebbe stata “particolarmente sporca” e aveva fatto capire che la NATO avrebbe usato anche “gas tossici e armi chimiche” per stanare i terroristi.

L’unico provvedimento del Mullah Omar nei confronti dei ragazzi fu quello di proibir loro di giocare con gli aquiloni. Cosa che provocò una certa sorpresa perché giocare con gli aquiloni è un’antica tradizione afgana ed era abbastanza sorprendente che proprio il Mullah, notoriamente attaccatissimo alle tradizioni del suo Paese, proibisse quell’innocente gioco infantile. Omar spiegò la sua decisione così: “I ragazzi per lanciare gli aquiloni si arrampicano sui tetti delle case e spesso cadono, abbiamo già troppi storpi in questo Paese per aggiungerne altri per un semplice gioco” (da qui il lacrimoso libro Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini che ha fatto piangere di commozione e di indignazione molti occidentali).

Se i Talebani furono capaci di tener sotto controllo la condizione alimentare, di adulti e bambini, nel periodo 1996-2001, perché non ne sono capaci ora? Le risposte sono due: o la condizione dei bimbi afghani è effettivamente quella descritta dal World Food Program oppure si fa appositamente dell’allarmismo per dimostrare che i Talebani attuali, molto meno rigidi di quelli dei tempi di Omar, non sono in grado di guidare il Paese e quindi, in un modo o nell’altro, bisogna rimettere le mani sull’Afghanistan e per questo si usano anche, con lacrime ipocrite, i bambini.

Il fatto è che gli americani e i loro alleati non hanno mai digerito la vergognosa sconfitta subìta in Afghanistan (l’indecoroso fuggi fuggi da Camp Arena a Herat è una delle vicende più umilianti in cui siano state coinvolte le nostre Forze Armate).

Scriveva ancora Cremonesi sul Corriere (29.11.2021): “La comunità internazionale non ha ancora trovato il modo di inviare aiuti senza legittimare i talebani e rafforzare indirettamente il loro regime”.

I Talebani si sono legittimati da soli vincendo la guerra. È la prima volta, crediamo, che sono i perdenti a voler porre condizioni ai vincitori. È come se, dopo la Seconda guerra mondiale, i tedeschi avessero preteso di porre condizioni agli Alleati.

La sola cosa che devono fare gli americani e gli europei, invece di piangere lacrime di coccodrillo sui bimbi afghani, è restituire quei 9 miliardi di dollari che tengono illegittimamente sequestrati nelle loro banche e che appartengono alla Banca centrale afghana. Si restituiscano quei fondi illegittimamente rapinati e si vedrà che l’attuale governo talebano riuscirà, lasciandogli un po’ di tempo, a risollevare le condizioni del proprio Paese, bimbi compresi.

 

Zaki oggi torna libero, è un buon auspicio in vista della sentenza

La guerra condotta dal dittatore egiziano Al-Sisi fin dalla sua ascesa alla presidenza della Repubblica, sette anni fa, contro coloro che invocano il diritto alla libertà di critica, ha subìto una battuta d’arresto ieri quando il tribunale di Mansoura ha ordinato il rilascio di Patrick George Zaki. Non si tratta però della vittoria completa di questa guerra, bensì di una battaglia e sempre se il 1° febbraio prossimo Zaki verrà assolto dalle accuse assurde che potrebbero rimandarlo nelle terrificanti carceri egiziane per cinque anni (668 giorni già scontati in custodia cautelare). Il “reato” di Zaki, come di migliaia di altri egiziani finiti dietro le sbarre, è stato l’aver diffuso via Internet la propria opinione critica verso la repressione delle minoranze, come quella cristiana coopta cui appartiene. La magistratura egiziana lo accusa di aver diffuso consapevolmente menzogne per screditare e destabilizzare il governo. “Il tribunale ha rinviato il processo a Zaki al 1º febbraio per dare ai pubblici ministeri e agli avvocati difensori il tempo di preparare le proprie argomentazioni”, ha affermato l’Iniziativa egiziana per i diritti personali Eipr, ong egiziana con cui aveva collaborato prima di venire in Italia e che ora lo rappresenta a livello legale.

A luglio, i legislatori italiani hanno chiesto formalmente al governo di concedere la cittadinanza a Zaki nel tentativo di ottenere il suo rilascio. Il primo ministro Mario Draghi ha subito espresso “soddisfazione” e sottolineato che “la questione è stata e sarà seguita da vicino dal governo italiano”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha dichiarato su Twitter: “Primo traguardo raggiunto. Patrick Zaki non è più in prigione.” L’Eipr afferma che Zaki è stato picchiato, sottoposto a scosse elettriche e minacciato dopo il suo arresto ma, come da copione, le autorità egiziane non hanno commentato le affermazioni dell’organizzazione. La mossa è stata accolta con favore dagli attivisti per i diritti umani che da tempo si battono per la sua liberazione, come Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

“Nonostante sia ancora sotto processo, questo è un enorme passo avanti”, ha scritto Noury su Twitter, ricordando anche che tra poco Zaki potrà dormire su un materasso e non più sul pavimento della cella come avviene da un anno e mezzo. Un sollievo non da poco per la sua salute fisica e mentale. I suoi amici però non si sentono così sollevati. Amr Abdelwahab ha twittato: “Stanno ancora processando Patrick per aver scritto un articolo, non siamo sicuri se può viaggiare o se è costretto a recarsi nelle stazioni di polizia. Non siamo sicuri che non lo condanneranno al carcere a febbraio. Sia chiaro, il fatto che oggi ne abbiano ordinato la scarcerazione non significa nulla”. Intanto non si sa se lo studente sia già stato scarcerato. Le leggi in Egitto hanno peraltro ampliato la definizione di “terrorismo” per includervi tutte le forme di dissenso politico, anche quelle pacifiche, ovvero la maggior parte, garantendo ai pubblici ministeri un ampio potere di mantenere le persone detenute in via cautelare per mesi, persino anni, senza mai presentare accuse o presentare prove.

La pressione della nostra opinione pubblica e del governo assieme all’evidente comportamento criminale di Al-Sisi e dell’intelligence egiziana circa il raccapricciante omicidio di Giulio Regeni, devono aver fatto propendere i giudici per la scarcerazione di Zaki. Per quanto riguarda la disputa ancora aperta tra la magistratura italiana e quella egiziana sul processo Regeni, va ricordato che la mancata trasmissione da parte egiziana degli indirizzi degli agenti dell’intelligence egiziana accusati dalla magistratura italiana dell’omicidio del ricercatore ha indotto il giudice italiano incaricato a sospendere il processo. Nonostante sia un tragico segreto di Pulcinella che Al-Sisi sapesse ciò che è accaduto a Giulio, la vendita di armi e fregate militari italiane al Cairo non hanno mai subito scossoni.

Chiacchiere e distintivi: pareggio tra Biden e Putin

Ci saranno misure contro la Russia “economiche e di altro genere”, se Mosca prosegue l’escalation della tensione con l’Ucraina. Joe Biden ha avvertito Vladimir Putin in un lungo colloquio virtuale durato oltre due ore – 125 minuti, per i cronometri della Interfax –. “Il presidente Biden – ha reso noto la Casa Bianca – ha ribadito il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale, ha chiesto una de-escalation e un ritorno alla diplomazia”. Il presidente Putin, dal canto suo, ha indicato quali sono le linee rosse che, per la Russia, non possono essere varcate: no all’adesione alla Nato dell’Ucraina e di altri Paesi dell’ex Unione sovietica: nei giorni scorsi, i ministri degli Esteri d’Ucraina, Georgia e Moldavia sono stati insieme nel quartier generale dell’Alleanza atlantica. La nota diffusa dalla Casa Bianca indica che il Vertice avrà un seguito: infatti, “i due presidenti hanno incaricato i loro team di approfondire le questioni affrontate” – ci sarà lavoro per i ministri degli Esteri Antony Blinken e Sergej Lavrov –. Gli Stati Uniti informeranno gli alleati europei dell’esito del colloquio e agiranno “in stretto coordinamento con alleati e partner.”

I due leader hanno anche discusso della stabilità strategica – negoziati nucleari sono in corso fra le due parti –, degli hackeraggi con richiesta di riscatto e del lavoro comune su questioni regionali come l’Iran (dopo la ripresa delle trattative per ripristinare l’accordo sul nucleare con Teheran). Il Vertice, innescato proprio dalla crisi ucraina, è iniziato poco dopo le 16 e s’è chiuso prima delle 19 ore italiane. Biden era nella Situation Room della Casa Bianca. Putin, invece, era nella residenza presidenziale di Soci. Il crescendo di tensione sull’Ucraina degli ultimi giorni è stato molto ‘teatralizzato’ da ambo le parti, con movimenti di truppe russe così evidenti da essere fatti per essere visti dai satelliti Usa e immediate reazioni occidentali. Al quadro ha poi aggiunto una nota melodrammatica il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, mettendo in guardia da un colpo di Stato – non verificatosi – per il 10 dicembre. Al momento dei convenevoli, a inizio video-chiamata, Biden ha detto a Putin di sperare che il prossimo incontro, magari al Vertice del G20 in Indonesia nel 2022. possa essere di persona:i due si sono già visti a Ginevra in giugno. Le ore immediatamente precedenti il colloquio non erano state all’insegna della distensione. Anzi, gli Stati Uniti hanno pure rilanciato le scaramucce con la Cina, con il boicottaggio istituzionale delle Olimpiadi d’inverno di Pechino l’anno prossimo. Mossa che la Cina valuta una “farsa politica”: “Il successo dei Giochi è nella presenza degli atleti, non dei funzionari”.

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva ripetuto che la Russia non ha intenzione d’attaccare nessuno, ma ha le sue linee rosse. Lavrov aveva denunciato “le provocazioni” di Kiev.

L’Amministrazione Biden aveva invece fatto trapelare di preparare sanzioni che, in caso di attacco russo all’Ucraina, potrebbero colpire le più grandi banche russe e la capacità di Mosca di convertire i rubli in dollari e in altre valute; e di stare esplorando l’eventuale evacuazione di cittadini americani dall’Ucraina, se la situazione precipitasse. Sul piano diplomatico, una delle carte da giocare potrebbe essere l’ingresso degli Usa nel formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina), per ripensare il processo di pace tra Mosca e Kiev previsto dagli accordi di Minsk II del febbraio 2015, che non ha mai davvero funzionato. L’ipotesi sarebbe anche gradita agli alleati europei degli Stati Uniti.

“Ucraina, la guerra è un bluff. Mosca dagli Usa vuole altro”

“I russi stanno decisamente bluffando, l’escalation militare alla frontiera serve a ottenere risultati politici e il colloquio tra i due presidenti Biden e Putin ne è un esempio. La tattica della pressione armata al confine è completamente inaccettabile, ma non è una cosa nuova per Mosca”, dice rispondendo dall’Ucraina Oleksandr Danylyuk, presidente del Centro ucraino per le riforme ed ex consigliere capo dello stesso ministero.

Presidente Danylyk, l’Occidente è in allarme: è vero che ci sono migliaia di carri armati russi al vostro confine?

È un gioco. Un brillante esempio della strategia russa che, sfortunatamente per noi ucraini, quest’anno ha dato dei frutti: ovvero ottenere un dialogo diretto con Washington e il presidente Biden. La Russia crea problemi che poi si offre di risolvere. Ama giocare col fuoco.

È una strategia che lei, ex consigliere della Difesa di Kiev, conosce bene.

La definizione accademica di quello che la Russia sta facendo adesso è “escaltion per la de-escalation”: creano una minaccia per eliminarla. L’espressione risale agli anni 90, ma la tattica è molto più antica: è l’approccio che i sovietici hanno avuto anche durante la Guerra fredda. Il comportamento russo al confine si spiega con gli ultimi due anni di pressione politica congiunta contro Mosca.

Cosa mira a ottenere il Cremlino schierando truppe e armi?

Concessioni significative. Meno sanzioni ed esercitazioni occidentali vicino ai suoi confini. Soprattutto vuole ridurre il supporto militare degli Usa a Kiev. Come tutti sanno, le capacità della nostra aviazione non sono pari a quelle delle nostre forze di terra. Faccio un esempio: qualche giorno fa il governo ucraino ha chiesto degli addestratori al governo canadese. Sarebbero stati molto lontani dal terreno di guerra a est, sarebbero rimasti nella parte occidentale del Paese, ma il Canada, per paura che la Russia vedesse questo aiuto come una provocazione, non li ha spediti. Spero che Biden mantenga il punto e non si pieghi alla volontà di Putin: ogni volta che i russi ottengono qualcosa, ci dice la storia, cominciano a chiedere altro.

Il presidente ucraino Zelensky, che ha dichiarato recentemente di aver sventato un golpe ordito da Mosca, nelle ultime settimane ha più volte allarmato Washington su un’invasione imminente.

Nonostante sia un gioco strategico, il rischio di un’invasione in Ucraina c’è sempre ed è reale. Otto anni fa ci hanno attaccato, ci attaccano ogni giorno in Donbass. Dal punto di vista del presidente, c’è un solo modo per frenare i russi e per terminare questa guerra: far diventare l’Ucraina un Paese forte o, quantomeno, non renderlo un facile obiettivo per i soldati della Federazione.

Questi allarmi però Zelensky li lancia mentre, in patria, perde molti consensi.

Secondo i sondaggi non è più popolare come quando è stato eletto nel 2019, comunque mantiene il supporto della popolazione. Ma quello che succede con i russi, avviene a prescindere dalle dinamiche della politica interna: Zelensky è a metà del suo mandato, non alla fine.

L’ex comico ha promesso che restituirà agli ucraini la Crimea considerata “territorio occupato” da Kiev, oggi parte della Federazione russa.

Con le truppe russe schierate, fino a un attimo prima che andasse giù, le persone ridevano all’idea che il Muro di Berlino potesse cadere. Il destino della Crimea, come quello dei territori in Georgia e Moldova, dipende dal cambio di regime a Mosca.

Questo conflitto iniziato nel 2014, con oltre 14 mila vittime, come finirà?

Questo non posso prevederlo, ma è ovvio che manca la voglia di terminarlo dall’attuale controparte russa. Il resto del mondo dovrebbe supportare le forze pro-europee e democratiche che ci sono a Mosca, che vogliono un futuro di coesistenza pacifica con il resto del mondo. È dal conflitto in Georgia che la Russia non viene frenata, ma questa è responsabilità del governo Usa dell’epoca. Io un futuro di pace con il Cremlino di Putin non riesco a immaginarlo.

Ma lei riesce a immaginare una Russia senza Putin?

Sono nato in Unione sovietica, di cambiamenti ne ho visti di più drammatici. Tutto muta: questa regola vale in tutto in mondo, Russia compresa.

Delitto Khashoggi, ex guardia del re arrestata a Parigi

Un ex membro della Guardia reale saudita, Khalid Aedh Alotaibi, era nel commando di uomini presenti nel consolato di Ryad a Istanbul quando è stato ucciso – era il 2 ottobre 2018 – Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post. Con questa accusa l’uomo, che era nella lista dei ricercati dell’Interpol dopo il mandato di arresto delle autorità turche, è stato preso in custodia all’aeroporto Charles de Gaulle, a Parigi, mentre cercava di imbarcarsi su un volo per Ryad. Seguendo i dati del suo passaporto, gli inquirenti hanno avuto la conferma che Alotaibi, 33 anni, si trovava a Washington negli stessi giorni in cui nel 2018 nella Capitale statunitense si trovava il principe ereditario Mohammed bin Salman, come scrive il Washington Post. In precedenza altre due volte Alotaibi era stato negli Usa in coincidenza con le visite dei membri più importanti della famiglia reale, tra cui re Salman e un altro dei suoi figli. Secondo le autorità turche, Alotaibi e altri sospettati sono giunti all’aeroporto internazionale di Istanbul la mattina del 2 ottobre, per poi ripartire poche ore dopo la scomparsa di Khashoggi. Ankara accusa Ryad di essere responsabile dell’omicidio del giornalista, ma l’Arabia Saudita ha sempre negato.

Nel 2019 un tribunale saudita ha condannato 8 persone per l’omicidio. Cinque sono state giudicate colpevoli di aver partecipato in maniera diretta all’omicidio: nei loro confronti sono state emesse condanne a morte, poi commutate in pene detentive di 20 anni. Altri tre imputati sono stati incarcerati con pene dai 7 ai 10 anni.

Covid, i 5 mln per assistere italiani all’estero senza “spot”. In Olanda spesi solo 248 euro

I 5 milioni di euro erano planati ad aprile di un anno fa, nel pieno della prima ondata, durante la conversione in legge del decreto “Cura Italia”. Un “potenziamento”, si scrisse, “dell’assistenza ai connazionali all’estero in difficoltà”. Poca roba: in media un euro a testa per ciascuno dei circa cinque milioni di italiani che risiedono fuori dai confini nazionali. Ma non tutti, chiaramente, hanno bisogno di assistenza. Ma anche chi ne avesse avuto, avrebbe avuto difficoltà a usufruirne: nessuna pubblicità sulle pagine web di ambasciate e Com.it.es, i comitati che dovrebbero rappresentare le istanze delle comunità italiane all’estero. Solo Canberra – a onor del vero – ne aveva dato notizia, ma l’annuncio è stato prontamente rimosso. E le altre centinaia di sedi nel mondo? Silenzio. Non che l’emergenza non si sia fatta sentire. Tant’è che in alcuni casi – Cordoba, Stoccarda, Colonia, Londra, Parigi – l’incremento dell’assistenza agli italiani in difficoltà si è fatto sentire nei bilanci. Ma altrove – anche in sedi dove la comunità è folta, come Bruxelles o Buenos Aires – gli aiuti post-pandemia non si sono visti proprio. Prendiamo l’Olanda: “Il problema dei nuovi indigenti è grosso e molti stanno commettendo atti di piccola criminalità – mette a verbale Marika Viano del Com.it.es. di Den Haag –. Non hanno di che mangiare e non hanno una posizione ufficiale qui, perché arrivati quando ancora la pandemia non era conclamata”. Il sussidio – come spiegato dalla contabile dell’ambasciata, dottoressa Fanella – sarebbe stato erogato una tantum solo agli italiani che non avessero avuto accesso ad altri fondi locali. Ma l’informazione non diventa di pubblico dominio. La dottoressa Bianconi, responsabile dell’ambasciata a L’Aja, è convinta che la comunità sappia benissimo che la sede offre assistenza, “Covid o non Covid”. Ma il silenzio viene rotto solo da un’iniziativa, “La Spesa del Cuore”, una colletta fra gli stessi membri del comitato per aiutare i connazionali in difficoltà. Perché non pubblicizzare i fondi del Cura Italia e organizzare un’iniziativa con mezzi più limitati e sempre a carico nostro? A domanda, il Comites non risponde, ma dato il successo dell’iniziativa, ha deciso di ripeterla adesso, in concomitanza con le elezioni interne, che ha visto la riconferma di tre dei quattro membri uscenti. Risultato: sono stati spesi 248 euro in più rispetto al 2019, quando non conoscevamo il Covid: 6.908 euro contro 6.660, il 3 per cento in più.

Alla Nuvola di Fuksas di Roma “I soldi della P2” di PaperFirst

Oggi alle 11:45 presso la Sala Vega di Più Libri più liberi presso la Nuvola di Fuksas di Roma, la PaperFirst presenta I soldi della P2 – Sequestri, casinò, mafie e neofascismo: la lunga scia che porta a Licio Gelli di Antonella Beccaria, Fabio Repici e Mario Vaudano. L’inchiesta, ricca di documenti inediti, è stata pubblicata in concomitanza dei 40 anni della scoperta degli elenchi della Loggia. Con gli autori ci sarà la giornalista e scrittrice Stefania Limiti. Modera Marco Lillo. Al termine della presentazione seguirà il firmacopie con gli autori. PaperFirst si trova allo stand C29.