Presidenzialismo e destra: B. fa il ruffiano con Giorgia

“Attendo di sapere quando potrò venire a firmare la vostra petizione per l’elezione diretta del capo dello Stato”. La sorpresa nel discorso (telefonico) di Silvio Berlusconi ad Atreju arriva alla fine. Non è la prima volta che l’ex premier abbraccia il presidenzialismo: l’ha già fatto in passato, nel 2008, quando tornò a Palazzo Chigi, ma pure nel 2012 e nel 2014, in pieno patto del Nazareno. Ma sempre all’interno di una riforma generale. Ora il Caimano dice sì al presidenzialismo proposto da FdI, ma da parte sua esporsi adesso sul tema ha tutt’altro sapore, visto che, almeno sulla carta, potrebbe essere lui la scelta del centrodestra per il Quirinale.

Ieri ad Atreju, la festa di FdI quest’anno coniugata in versione natalizia, l’ha rimarcato anche il leader Udc, Lorenzo Cesa. “Se Berlusconi si candiderà al Colle, noi tutti abbiamo il dovere di sostenerlo anche per senso di riconoscenza”, ha spiegato il centrista davanti allo sguardo non troppo convinto della Meloni. Che si è ben guardata dal commentare. Lei, del resto, è quella che più di tutti frena sulla questione. Matteo Salvini, invece, va avanti a stop and go: un giorno sembra che Berlusconi sia il miglior candidato possibile e quello dopo svicola e butta la palla in tribuna.

Ieri, però, forse preso in contropiede, anche lui s’è attaccato alla diligenza presidenzialista. “Federalismo, riforma della giustizia e presidenzialismo: su queste basi il centrodestra può lavorare unito per modernizzare il Paese”, afferma il leader leghista.

Nel suo intervento, ecumenico e natalizio, Berlusconi evidenzia come l’orizzonte temporale del voto è il 2023, “perché sarà allora che la nostra alleanza si candiderà a tornare alla guida del Paese”, sottolineando come quella del centrodestra “per noi è una scelta irreversibile”. Insomma, niente centrini o maggioranze Ursula. “Non voglio negare le cose che oggi ci dividono: noi sosteniamo con convinzione il governo Draghi a cui voi legittimamente vi opponete – continua il leader forzista – ma tutti vi riconoscono di condurre un’opposizione responsabile e all’altezza della gravità della situazione”. Del resto, secondo l’ex Cav. “non potrebbe essere diversamente visto che siete guidati con autorevolezza da colei che da giovanissima è stata uno dei migliori ministri”. Ma “per noi la scelta di centrodestra è l’unica possibile, non abbiamo un piano B”, rintuzza la Meloni.

Della candidatura di Berlusconi ha parlato anche Giuseppe Conte, usando una formula che spesso, a destra, viene utilizzata per Benito Mussolini: “C’è rispetto verso un leader che ha fatto anche cose buone ma, complice anche un conflitto d’interessi pervasivo, ha compiuto passaggi che non sono nel dna del M5S”. Di tutt’altro tenore le parole di Alessandro Di Battista: “Berlusconi? In questo Paese tutti dimenticano e nessuno paga mai”.

I club di Forza Italia e la spola dell’ambasciatore Mangano

1993, 27 luglio. Nella notte Cosa Nostra e i suoi suggeritori esterni sferrano un nuovo attacco allo Stato, con altre tre autobombe politico-mafiose, in simultanea. Una colpisce il Padiglione d’arte contemporanea in via Palestro a Milano: 5 morti e 13 feriti. Due sventrano le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma: alcuni feriti lievi. Quest’ultimo è un avvertimento al Vaticano, dopo la scomunica dei mafiosi da parte di Giovanni Paolo II, la lettera dei familiari dei detenuti al Papa contro il carcere duro e il coinvolgimento della Chiesa nella trattativa Stato-mafia per l’ammorbidimento del 41-bis (a cui sta lavorando il nuovo vertice del Dap col ministro della Giustizia Giovanni Conso). Ma il primo destinatario del messaggio di morte è la politica: i santi delle due basiliche richiamano i nomi di Giorgio Napolitano, presidente della Camera, e di Giovanni Spadolini, presidente del Senato. Quella notte un misterioso black-out manda in tilt le linee telefoniche di Palazzo Chigi. Ciampi, isolato e costretto a comunicare via cellulare, dirà di aver temuto un colpo di Stato.

6 settembre. Berlusconi inaugura il primo club di Forza Italia: la sede è in via Chiaravalle 7/9, il palazzo abitato da Rapisarda e, per alcuni anni, anche da Dell’Utri.

Intanto la Procura di Torino indaga su un giro di false fatture nelle sponsorizzazioni sportive, che porterà ben presto al coinvolgimento di Publitalia e di Marcello Dell’Utri. Anche a Milano si scoprono fondi neri nelle casse di Publitalia. In ottobre Bettino Craxi consegna a Di Pietro un memoriale in cui accusa i maggiori gruppi imprenditoriali italiani, tra cui la Fininvest, di avere, “in varie forme dirette e indirette, certamente finanziato o agevolato i partiti politici e, anche personalmente, esponenti della classe politica”.

29 ottobre. Maria Cordova, la pm di Roma che indaga su tangenti al ministero delle Poste in cambio di vari appalti, della legge Mammì e del piano sulle frequenze tv, chiede al gip Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa) l’arresto di Carlo De Benedetti, Adriano Galliani e Gianni Letta. Ma la Iannini arresta solo De Benedetti e si astiene sugli altri due perché sono amici di famiglia. Letta e Galliani restano a piede libero. L’inchiesta finirà fra assoluzioni e prescrizioni.

In autunno, come racconterà il suo braccio destro pentito Nino Giuffrè, Bernardo Provenzano stringe un patto con Marcello Dell’Utri: fine delle stragi in cambio dell’alleggerimento della pressione poliziesca e giudiziaria, dei sequestri dei beni e della legge sui pentiti (come già chiesto da Riina nel “papello” consegnato a uomini dello Stato nell’estate del ’92). Poi interpella le famiglie mafiose in una sorta di “elezioni primarie” di Cosa Nostra. E, tra il progetto secessionista di Bagarella e Graviano (“Sicilia Libera” e le altre leghe meridionali) e quello tradizionale di Berlusconi e Dell’Utri, sceglie il secondo. “Provenzano – riferirà Giuffrè ai pm – ci disse: ‘Con Dell’Utri siamo in buone mani’. E ci mettemmo tutti a lavorare per Forza Italia”. La neonata Sicilia Libera viene sciolta all’improvviso.

Novembre. Il ministro Conso non rinnova il 41-bis a 334 detenuti mafiosi, venendo incontro alle aspettative di Cosa Nostra. Dell’Utri, mentre lavora con Berlusconi agli ultimi dettagli di Forza Italia, ha due appuntamenti ravvicinati nel suo ufficio di Publitalia a Milano 2 con Vittorio Mangano. Dalle sue agende sequestrate alla segretaria, alla data del 2 novembre si legge: “Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale”. E più avanti: “Mangano verso 30.11, cinque giorni prima convoca con precisione”. Reduce da undici anni di carcere per mafia e traffico di droga, l’ex “stalliere” di Arcore è stato promosso capo della famiglia mafiosa di Porta Nuova e ha partecipato alle decisioni della Cupola sulle stragi.

Nelle stesse settimane il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, convoca Gaspare Spatuzza, il suo killer di fiducia, che ha già organizzato le stragi di Milano, Firenze e Roma, e gli commissiona un’autobomba per sterminare un gran numero di carabinieri a Roma. Spatuzza chiede il movente degli “strani” attentati dell’estate, quando è stato costretto – contro le prassi di Cosa Nostra – a sparare nel mucchio, uccidendo persino una bambina a Firenze: “Ci stiamo già portando dietro un po’ di morti che non ci appartengono, non sono i morti tipici di Cosa Nostra – i giudici, i poliziotti, i carabinieri, i politici scomodi – ma degli innocenti”. Graviano risponde: “C’è in piedi una situazione che, se andrà a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati. Tu ne capisci di politica?”. Giovanni Brusca aggiungerà che i carabinieri dovevano pagare il mancato rispetto delle promesse fatte nella trattativa. Spatuzza si trasferisce a Roma e individua lo stadio Olimpico come il luogo ideale per la strage contro i militari dell’Arma in servizio d’ordine al termine di una partita.

23 novembre. Da un supermercato a Casalecchio di Reno, Berlusconi anticipa l’annuncio del suo ingresso in politica dichiarando che alle elezioni per il sindaco di Roma (dove lui nemmeno vota) sceglierebbe il candidato missino Gianfranco Fini contro Francesco Rutelli.

25 novembre. Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, fonda a Milano l’Associazione nazionale del Club di Forza Italia. Il 1993 si chiude con due nuove inchieste che terrorizzano Berlusconi. La Procura di Torino raccoglie le confessioni del presidente del Torino Calcio, Gian Mauro Borsano, deputato del Psi, il quale racconta i fondi neri che il Milan gli versò nel marzo del 1992 in cambio dell’acquisto del calciatore Gianluigi Lentini. Il vicepresidente Adriano Galliani gli versò, oltre alla cifra ufficiale di 18 miliardi e mezzo, un fuoribusta di 10 miliardi e rotti di lire in nero. Ma Borsano era in trattativa anche con la Juventus e di lui il Milan non si fidava: così, a garanzia del perfezionamento del contratto, Borsano dovette cedere in pegno alla società rossonera il suo pacchetto di maggioranza del club granata. In pratica, per diversi mesi, Berlusconi si trovò a controllare due squadre di Serie A: il Milan e il Torino. Un caso clamoroso di conflitto di interessi e di illecito sportivo, che dovrebbe comportare la retrocessione dei rossoneri in Serie B. Ma la giustizia sportiva non fa nulla. Quella ordinaria, invece, procede per falso in bilancio. I pm di Torino trasmettono per competenza il fascicolo a Milano e il Pool mette per la prima volta il naso nei conti esteri del gruppo Fininvest: il caso Lentini è la prima pietruzza della slavina prossima ventura.

20 dicembre. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, ammonisce “chi ha scheletri nell’armadio”: “Tiratevi da parte prima che arriviamo noi”. Un consiglio da amico che resterà inascoltato.

(7 – Continua)

“Col premier al Colle, meglio che non sia lui a formare il governo”

Molti esponenti politici prevedono e vogliono Mario Draghi al Quirinale. Ma Gaetano Azzariti, docente di Diritto costituzionale all’Università Sapienza di Roma, ha più di qualcosa da eccepire: “Nulla da dire sull’autorevolezza di Draghi, molto apprezzato anche a livello internazionale, sebbene non possa nascondersi che una tale scelta potrebbe sottoporre a stress il sistema politico. E sarebbe esclusiva responsabilità dei partiti”.

Ritiene una forzatura eleggere per la prima volta al Colle un presidente del Consiglio in carica?

Avrà pure un senso il fatto che si tratterebbe del primo caso. I presidenti della Repubblica sino ad ora eletti sono state figure di grande esperienza politica o di grande competenza tecnica, ma in nessun caso impegnati nella prima linea del governo al momento della loro elezione. Tutte le difficoltà procedurali di cui si parla in questi giorni riflettono una situazione poco meditata. Leggo di esponenti politici secondo i quali Draghi dovrebbe continuare al Colle il proprio lavoro, e ciò dimostra incultura costituzionale. Il capo dello Stato è colui che deve verificare l’operato dei governi: sovrapporre la funzione di governo con quella di garanzia è preoccupante.

Poniamo che Draghi venga eletto: come si eviterebbe una crisi di governo incontrollabile?

Un sistema politico accorto avrebbe solo una via. La Carta stabilisce che le Camere devono essere convocate 30 giorni prima della scadenza del mandato del presidente della Repubblica in carica. Se non vogliamo trovarci in un grave imbarazzo istituzionale Draghi dovrebbe essere eletto in brevissimo tempo, nella prima votazione, per permettere a Sergio Mattarella di procedere alla nomina del nuovo governo entro la scadenza del suo mandato, prevista il 3 febbraio. E il presupposto politico è un accordo per la nomina di Draghi al Colle ma anche di un suo successore a capo del governo. Tutto dovrebbe avvenire prima del 3 febbraio, ossia prima che l’attuale presidente del Consiglio assuma le funzioni di capo dello Stato, altrimenti sorgerebbero conflitti difficilmente districabili.

Mattarella potrebbe dimettersi appena eletto Draghi.

A mio avviso sarebbe inopportuno: Mattarella dovrebbe prima risolvere la crisi di governo.

Altrimenti sarebbe Draghi a nominare il suo successore a Palazzo Chigi…

Proprio per questo non auspico le dimissioni di Mattarella.

Se Draghi gestisse la crisi, sarebbe un conflitto di interessi?

Mi limito a dire che sarebbe sicuramente inopportuno, anche se per lui sarebbe di certo un obbligo costituzionale gestire la crisi una volta assunte le funzioni presidenziali. Evitare questa situazione non dipende da Mattarella e da Draghi ma dal sistema politico, che dovrebbe fare di tutto per evitare di sottoporre a stress il sistema costituzionale.

Draghi al Quirinale comporta dei rischi, insomma.

Anziché delle persone, si dovrebbe discutere dei difficili compiti che dovrà svolgere il prossimo presidente. Stiamo eleggendo un garante politico della Costituzione per i prossimi sette anni, che saranno sicuramente turbolenti dal punto di vista sociale, perché il post emergenza per il Covid e il rilancio dell’economia non saranno un pranzo di gala, ma anche da un punto di vista istituzionale, visto che il prossimo Parlamento dovrà essere rivoluzionato in conseguenza del taglio dei parlamentari. Dovremo cercare un presidente che rappresenti l’unità nazionale, ma che sia anche attento che tutti i prossimi cambiamenti avvengano nel perimetro della Carta tuttora vigente.

E un bis di Mattarella?

Esprimo un fortissimo apprezzamento per la sensibilità costituzionale di Mattarella, l’unico che si rende conto del fatto che la rielezione di un capo dello Stato sarebbe un vulnus difficilmente recuperabile. Non perché sarebbe incostituzionale, e infatti c’è il precedente di Giorgio Napolitano. Ma gli equilibri costituzionali si fondano su regole e precedenti. Una seconda rielezione al Colle consoliderebbe una prassi che è meglio non affermare.

Draghi al colle? Brunetta, poi Franco a Chigi

Il cimento è di quelli più eccitanti ché sottopone alla teoria la classica prima volta. E così studiosi ed esperti di varia estrazioni si confrontano da tempo sull’eventuale e inedito trasloco di un presidente del Consiglio al Quirinale. Mai accaduto in sette decenni e passa della nostra storia costituzionale. Sempre, appunto, che su Mario Draghi confluiscano entro le prime tre votazioni i due terzi dell’assemblea di Montecitorio formata dai parlamentari e dai delegati regionali (articolo 83 della Carta). Difficile, infatti, che il premier possa essere tenuto “coperto” fino al quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta. E tenendo conto, comunque, che sul Migliore presidente in pectore aleggia come uno spettro il tormentone del Mattarella bis. Il capo dello Stato ha ripetuto fino alla noia che non vuole un secondo mandato – ha già trovato casa e sta preparando gli scatoloni – ma in un Parlamento fuori controllo e balcanizzato tutto può succedere. Senza dimenticare che ieri sera a Milano, alla tradizionale prima della Scala, il presidente è stato accolto da un’ovazione condita da gioiose urla inneggianti al bis.

Premesso questo, cosa accadrà in caso di elezione di Draghi? Quello che trapela dal Colle stesso spazza via le ipotesi più complesse o ardue, in particolare quella che prevede Draghi congelato al governo in attesa dell’insediamento e lo stesso Mattarella a fare le consultazioni. No, la strada è molto più semplice, secondo quanto riscontrato dal Fatto. Cominciamo dalla convocazione dal Parlamento in seduta comune da parte del presidente della Camera, Roberto Fico. In base al dettato della Carta (articolo 85), deve avvenire 30 giorni prima che scada il settennato del capo dello Stato uscente. Mattarella venne eletto il 29 gennaio 2015 e s’insediò il successivo 3 febbraio. Quindi il suo mandato terminerà il 3 febbraio 2022. Probabilmente, però, Fico convocherà i grandi elettori in una data tra il 18 e il 20 gennaio. Una volta eletto, Draghi dovrebbe dare immediatamente le dimissioni da presidente del Consiglio. A quel punto, nel Consiglio dei ministri, prenderà il suo posto il ministro più anziano: il forzista Renato Brunetta, 71 anni, titolare di un dicastero senza portafoglio, quello per la Pubblica Amministrazione. L’indicazione proviene dal regolamento adottato con decreto del presidente del Consiglio il 10 novembre 1993 e che disciplina il funzionamento interno del Consiglio del ministri. Il ministro più anziano subentra qualora non ci sia un vicepresidente nominato, come nel caso di questo governo. Fatto questo passaggio, Draghi aspetterà il giorno del giuramento e dell’insediamento al Quirinale. Se ciò dovesse avvenire prima della scadenza del 3 febbraio, Mattarella darebbe le dimissioni come avvenuto già altre volte in casi analoghi. Una volta capo dello Stato nel pieno delle sue funzioni, a Draghi resterebbero altre due tappe istituzionali: ricevere le dimissioni di Brunetta e contestualmente avviare le consultazioni per formare il nuovo esecutivo.
A quel punto si dovrà formare un nuovo governo. Ed è in questo quadro che si inseriscono le trattative politiche. Un disegno politico – e il relativo gioco degli incastri – è già stato pensato talmente bene che ne è stato informato anche il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, braccio destro del presidente Emmanuel Macron, e i diplomatici che fanno riferimento alla Farnesina. Giancarlo Giorgetti, testa d’uovo del leghismo, ne è l’ideatore. Perché i vantaggi ricadrebbero, in primis, su di lui. In estrema sintesi il piano prevede questo: Mario Draghi viene eletto al Quirinale, Daniele Franco (attuale ministro dell’Economia) prende il suo posto a Palazzo Chigi fino al 2023 e al Tesoro va proprio Giorgetti. Il ministro dello Sviluppo economico e numero due della Lega poi, tra due anni, potrebbe aspirare a un posto da Commissario europeo, carica ambita già nel 2019 e sulla cui nomina si era consumata la crisi del governo gialloverde. Non è un caso, dunque, che Giorgetti sia uno dei pochi che sostiene ufficialmente l’ascesa di Draghi al Quirinale e sia stato il primo a farlo nell’intervista al libro di Bruno Vespa: “Sarebbe un semipresidenzialismo de facto” aveva spiegato il titolare del Mise.

Se Draghi ormai non fa più mistero di aspirare al Colle – e, dicono i bene informati, Giorgetti non parla mai senza prima consultarsi con lui – ad approvare il piano sarebbe anche Luigi Di Maio, che con il vicesegretario della Lega ormai ha un rapporto molto stretto, consolidato con l’insediamento del governo Draghi. I numeri due di Lega e M5S si parlano, creano scenari, si spartiscono il potere. L’idea di spostare Draghi al Colle, Franco a Palazzo Chigi e Giorgetti al Mef farebbe gola al ministro degli Esteri visto che a quel punto si libererebbe la casella del ministero dello Sviluppo economico che, secondo fonti leghiste, potrebbe andare alla dimaiana Laura Castelli. Che l’operazione sia nella testa dei protagonisti lo dimostra anche il fatto che ne siano al corrente anche gli alleati internazionali dell’Italia: lo scorso 25 novembre ne sarebbe stato informato anche Le Maire, ministro del Tesoro francese, durante un colloquio al Mise con Giorgetti e Franco in seguito alla firma del trattato tra Italia e Francia. Gli alleati chiedono stabilità all’Italia, soprattutto dopo l’uscita di scena della cancelliera Angela Merkel in Germania. In particolare adesso che ci sono i fondi del Pnrr da spendere. Così Giorgetti in questi mesi ha ricevuto spesso Le Maire in via Veneto e il suo viaggio negli Stati Uniti è servito proprio per tranquillizzare Washington e per accreditarsi in vista dei suoi prossimi ruoli in Italia e in Europa. Sulla strada della realizzazione di questo piano, però, c’è un grosso ostacolo. Si chiama Matteo Salvini. Il leader della Lega ha già fatto capire, infatti, di voler eleggere Draghi al Colle ma per l’obiettivo opposto a quello di Giorgetti: staccare la spina al governo e tornare all’opposizione, in vista delle elezioni del 2023.

Uno scenario che Giorgetti vuole scongiurare tant’è che, in un incontro riservato di pochi giorni fa con il leader della Lega, gli ha fatto capire che sia lui sia i governatori del Nord (e le truppe parlamentari al seguito) non lo seguirebbero all’opposizione. Se Di Maio non ha lo stesso problema con Conte – a cui Draghi al Colle e Franco a Chigi potrebbero anche andar bene –­anche l’ex capo politico del M5S vuole evitare le elezioni anticipate. Per questo da settimane mette in guardia da chi, come Salvini, vuole “il voto subito” tant’è che lunedì, dalla festa di Atreju, è arrivato a spiegare: “Sul Colle è più affidabile Giorgia Meloni che Salvini”. Come dire: almeno lei gioca pulito.

Pd e 5S schierati con il premier. Draghi chiude (tra i malumori)

Enrico Letta sullo sciopero dei sindacati non dice una parola. Giuseppe Conte, nemmeno. Dall’altro lato della maggioranza, Matteo Salvini, viceversa, li sbeffeggia. E anche Italia Viva li critica. Il giorno dopo la proclamazione dello sciopero generale da parte di Cgil e Uil, Mario Draghi decide – di fatto – di interrompere il dialogo, visto che Palazzo Chigi fa sapere che il tavolo sulle pensioni, previsto in origine per questa settimana, slitterà. E i partiti di centrosinistra restano schiacciati tra il premier e i Confederali. Non hanno il peso per spalleggiarli davvero, non hanno neanche quello per indurre il capo del governo a mediare.

Draghi, dal canto suo, aveva offerto in extremis ai sindacati il “contributo di solidarietà” (cioè il rinvio del taglio delle tasse per i redditi sopra i 75mila euro), proprio per cercare di tenere aperto il dialogo. Non era comunque abbastanza, ma alla fine è saltato durante il Cdm, per l’opposizione di Lega, FI e Iv. Non si aspettava lo sciopero. Ma a questo punto non ha alcuna intenzione di chiamare Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri e di provare a ricucire. Tanto si è già fatto, è la sua linea.

Daniele Franco, ministro dell’Economia, fa sapere che il pallino è a Palazzo Chigi. E questo anche se dal premier in giù molti danno a lui la responsabilità della pessima gestione della trattativa, per non aver consultato i leader sindacali in tempo, per aver fatto vedere solo delle slide. E anche se resta nelle ipotesi dei più il premier in pectore, in caso Draghi si trasferisse al Colle.

Il ruolo più ingrato è quello del Pd. Antonio Misiani, responsabile Economia del partito ci tiene a dire che “Draghi dovrebbe migliorare la legge di Bilancio su scuola e previdenza, aprire il tavolo sul sistema previdenziale e affrontare la questione delocalizzazioni, di cui si è parlato nell’ultimo Cdm”. Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che proprio il tema delle delocalizzazioni aveva posto, in realtà inizia la giornata dicendosi “sorpreso” dallo sciopero, perché “la manovra è una manovra che come tutte può avere luci e ombre, ma sicuramente rafforza le garanzie per i lavoratori e aumenta le risorse sul fronte del sociale”. Poi, in giornata, vede le parti sociali per lo smart working. E cerca di spingere sul dialogo, si augura un’intesa. “Bisogna capire bene i motivi di questa protesta, ma se riguarda la manovra, allora ci sono ancora degli aspetti su cui possiamo lavorare”. Perché, spiega, “nell’ultimo Consiglio dei ministri è emersa la possibilità di aprire e mantenere il confronto su questioni fondamentali: le pensioni e le delocalizzazioni. Questo può accadere già nei prossimi giorni”. E intanto, promuove una serie di emendamenti del Pd alla manovra, a partire da quello per l’Ape sociale in favore dei lavoratori edili (ridurre a 30 anni i contributi).

Ieri, infatti, succede un’altra cosa: la presentazione da parte del governo dell’emendamento alla manovra sugli 8 miliardi destinati alla riduzione e rimodulazione di Irpef e Irap, slitta alla prossima settimana. Una qualche mediazione dunque si cerca, a livello parlamentare. Ieri i gruppi hanno presentato i loro emendamenti segnalati (tra gli oltre 600). Per andare incontro ai sindacati, ci sono quelli su professori e personale Ata, oltre a norme che riguardano l’Ape sociale per lavoratori fragili e usuranti (come anticipato, appunto, da Orlando). Poi, starà al governo fare l’istruttoria e vedere cosa recepire.

Intanto, è sulle bollette che il governo potrebbe mettere qualche soldo in più. Difficile lo faccia sul fisco. Mentre che la mediazione sia sufficiente per far cambiare idea a Cgil e Uil resta tutto da vedere.

“Finalmente il conflitto. Su fisco e Rdc, Draghi ha fatto scelte inique”

Fabrizio Barca, già dirigente di Banca d’Italia, ex ministro nel governo Monti, oggi impegnato nel progetto del Forum Diseguaglianze e diversità, sullo sciopero generale non ha dubbi.

Qual è stata la sua reazione?

Restituisce normalità al Paese. La democrazia non è fatta di attacchi dietro le quinte, di “non detti”. Un’opinione diversa deve manifestarsi e tradursi anche in conflitto, anima della democrazia come dice papa Bergoglio, citando Giovanni Paolo II.

Draghi dice che è uno sciopero incomprensibile.

Bastano due scelte inique del governo per motivare questa protesta: la modifica regressiva delle aliquote fiscali dove il picco del beneficio (oltre 700 euro) è raggiunto con 50 mila euro di reddito mentre una persona che sta sui 21 mila, reddito medio degli italiani, ne riceve 120. È una misura che viola persino la modesta legge delega fiscale che assicurava il pieno rispetto della progressività.

E il secondo?

Il Reddito di cittadinanza: la Commissione costituita per legge ha individuato punti di miglioramento che non vengono minimamente applicati, mentre invece si inaspriscono sanzioni, solo sulla carta applicabili.

Nel libro per Donzelli Diseguaglianze, conflitto, sviluppo, descrive sempre le stesse diseguaglianze oppure oggi c’è un salto di qualità?

La matrice delle diseguaglianze è sempre la stessa: la straordinaria e senza precedenti concentrazione del controllo sulle decisioni, sulla conoscenza e sulla ricchezza frutto della chiusura degli spazi di democrazia e della sostituzione della tecnica alla politica. Il Covid l’ha resa più eclatante perché un’emergenza richiederebbe ancora più democrazia e accesso alla conoscenza.

E cosa si dovrebbe o si potrebbe fare in controtendenza?

Un esempio positivo sono stati i protocolli sindacato-governo che hanno accompagnato la riapertura lo scorso anno. La strada è quella della legge Lorenzin sui vaccini obbligatori agli 0-16, che introducendo l’obbligatorietà la accompagna con una fase di ascolto delle persone.

La diseguaglianza si combatte anche con la democrazia?

Sì, perché un’emergenza richiede ancora più democrazia e accesso alla conoscenza. L’Oms per contrastare l’infodemia indica due cose: buonissima comunicazione e ascolto/confronto con le persone. L’Italia ha fatto la prima parte, sia con Conte (con merito, visto che era una situazione inedita) sia con Draghi. Ma la seconda indicazione non è più da tempo nelle corde di chi governa.

Quali proposte e quale visione per questo Paese?

Tutte le concretissime proposte del Forum Disuguaglianze e diversità sono legate a un concetto semplice: l’articolo 3 della Costituzione. Ogni cosa che facciamo è utile se rimuove gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Da decidere attraverso un pubblico dibattito dove i saperi si combinano, quelli dei tecnici, che sono indispensabili, con i saperi diffusi della società. Questo è l’insegnamento di Amartya Sen. Salario minimo, Consigli del lavoro e della cittadinanza, eredità universale: sono solo alcuni esempi.

E il Pnrr?

I titoli ci sono. Manca l’anima, la risposta coraggiosa alle aspirazioni del Paese. Ma perché non ascoltare le idee che arrivano per promuovere le accelerazioni della transizione ambientale che favoriscono imprese creative e persone vulnerabili? O l’estensione a 100 aree marginali di quei patti educativi inventati da associazioni e insegnanti in molti territori? O il cambio di metodo per migliorare la vita degli anziani non autosufficienti… Dobbiamo farcela.

Nel suo libro c’è un duro attacco alla debolezza della borghesia italiana. È debole anche con il Governo dei Migliori?

Come hanno scritto nel tempo Marcello De Cecco e Pierluigi Ciocca, la debolezza della grande borghesia italiana è un fatto connaturato al Paese. Ma c’è una effervescenza della media borghesia imprenditoriale diffusa, senza la quale l’Italia sarebbe ferma. Ma chi governa, anche in questo momento, non cerca il dialogo con la parte migliore, preferendo puntare su sussidi e trasferimenti a pioggia, in un modo molto anti-liberale, come del resto è il liberismo.

Come fa a emergere questa parte?

Serve un soggetto politico. Ci sono stati momenti della storia italiana in cui tutti i partiti costituzionali erano anche luogo in cui si mescolavano, in misure diverse, i creativi, le parti più avanzate sia del lavoro che dell’impresa. I partiti erano un luogo e questa cosa è venuta meno.

Un partito come setaccio delle energie migliori?

Direi un partito come luogo di incontro. Era stato il tentativo iniziale dei meet-up M5S, poi inariditi. Le Agorà del Pd sono un tentativo diverso, ma con simile scopo.

E come emerge il “partito che non c’è”?

In realtà non lo so, lo scriviamo con franchezza nel libro. E allora vanno tentate diverse strade: approfittare di partiti che scelgono di mettersi “a repentaglio” cioè aprirsi davvero; liste civiche di sinistra che aggreghino fermenti sociali e di movimento oppure, ancora, nuove aggregazioni attorno all’incontro di giustizia sociale e ambientale. Vedremo chi avrà più filo da tessere.

“Tasse, pensioni, lavoro: la manovra è per pochi”

“Lo ricordo a chi forse lo ha dimenticato: la Costituzione riconosce il diritto di protestare pacificamente anche tenendo conto della condizione particolare che stiamo attraversando”. Nel presentare le ragioni dello sciopero generale proclamato per il 16 dicembre, il segretario della Uil, Pierpaolo Bombardieri, sembra quasi giustificarsi dopo 24 ore di attacchi piovuti da parte di chi ha dato degli irresponsabili a lui e al leader Cgil, Maurizio Landini. Alla mobilitazione di giovedì prossimo contro la manovra non parteciperà la Cisl, che ritiene “sbagliato ricorrere allo sciopero e radicalizzare il conflitto in un momento tanto delicato per il Paese”. Landini e Bombardieri, quasi sulla difensiva, hanno evitato di polemizzare con il sindacato di Luigi Sbarra, anche se il segretario Cgil ha puntualizzato che la piattaforma di proposte su pensioni e fisco era stata presentata da Cgil, Cisl e Uil, così come la richiesta di destinare tutti gli 8 miliardi al taglio del cuneo fiscale per i lavoratori e pensionati. Ma il governo si è presentato ai sindacati con un accordo di maggioranza già raggiunto e ora – ha fatto notare Landini – “1 miliardo andrà al taglio dell’Irap con cui si finanzia la sanità”. Ma la porta sembra non chiusa del tutto. Per Landini il dialogo non è infatti interrotto e si dice disponibile al confronto anche prima dello sciopero generale, ma “servono cambiamenti molto forti”. “Ci dicono che la manovra è espansiva, è vero, ma per chi? Non per tutti”, dice Landini.

Le tensioni tra governo e sindacati non mancano. Il primo terreno di scontro è la previdenza: per far fronte alla scadenza di Quota 100, Draghi ha proposto Quota 102 per il 2022 più qualche concessione su Ape sociale e Opzione Donna. Troppo poco per Cgil, Cisl e Uil che vogliono discutere sin da subito su come cancellare in maniera strutturale la legge Fornero. Draghi ha proposto di avviare il confronto su questo nelle prossime settimane, quindi spostando almeno al 2023 gli effetti dell’eventuale controriforma. Oltre alla sostanza, c’è pure un problema di metodo. Gli incontri delle ultime settimane tra governo e sindacati sono quasi sempre avvenuti a decisioni già prese. C’è quello avvenuto dopo l’accordo di maggioranza sulla riforma del fisco, i cui benefici – hanno ricordato i due segretari – andranno principalmente ai redditi medio-alti. Per Landini è grave anche quello che è avvenuto con il contributo di solidarietà per i redditi sopra 75 mila per frenare il caro-bollette. I sindacati erano favorevoli, ma la maggioranza di Draghi lo ha affossato.

Oltre a previdenza e fisco, Cgil e Uil rinfacciano al governo di non aver rispettato i patti presi con il ministro Andrea Orlando sulla riforma degli ammortizzatori sociali. “I soldi sono ancora pochi – ha insistito Bombardieri – pagheranno aziende e lavoratori”. Poi c’è l’eterno rimandare la legge contro le delocalizzazioni industriali e l’assenza di provvedimenti contro l’aumento dei contratti precari che emerge da Inps e Istat.

Nonostante questa bocciatura netta della manovra, che non è una sorpresa, a Palazzo Chigi sono rimasti molto infastiditi dallo sciopero generale. Per senso di responsabilità, la filiera della sanità – medici, infermieri, addetti alle mense e alle manutenzioni – è stata esclusa dall’astensione. Ci sarà la manifestazione nazionale a Roma e altre locali in varie Regioni. Tra i risultati del Governo dei Migliori c’è quello di aver portato due sindacati su tre a rispolverare la protesta unitaria di tutte le categorie di lavoratori.

Lesa Migliorità

Qualche spunto per il cabaret. Zerovirgola, il politico più impopolare, già convinto di aver ucciso il politico più popolare che però rimane tale, ora crede di avere bloccato la sua candidatura a Roma-1 facendogli paura: e tutti lo assecondano, come si fa con i casi umani. Carletto dei Parioli, suo compare di litigate e di mitomania, noto perché si candida a tutto, anche alla Federpesca, e sempre con un partito diverso, annuncia che correrà a Roma-1 per fare il deputato, essendo già eurodeputato (col Pd) e consigliere comunale (con Azione), dopo aver contribuito ad affondare Italia Futura (Montezemolo) e a farsi trombare con Scelta Civica (Monti). Ma, siccome Conte non si candida più, rinuncia precisando che avrebbe stravinto. Un po’ come quando si sentiva già sindaco di Roma (“vinco al primo turno”): poi arrivò terzo, mancando il quarto posto solo perché la destra gli aveva regalato Michetti.

Conte si esercita a spiegare perché il M5S non può votare B. al Colle: ieri gli è scappato detto che “ha il conflitto d’interessi”, ma ha subito rimediato aggiungendo che “ha fatto molte cose buone” (fortuna che non gli han chiesto quali). Con un altro po’ di training, forse riuscirà a rinfacciargli un eccesso di cerone. Il compito più ingrato spetta a Minzo: dopo i peana del padrone al Reddito di cittadinanza, deve registrare altre flautate parole di B. (“Il voto al M5S aveva motivazioni tutt’altro che ignobili. I 5Stelle hanno dato voce a un disagio reale che merita rispetto”), senza poter aggiungere “luridi bastardi”, sennò perde il posto. Ora che Mattarella dice no al bis, Cassese dichiara che “la rieleggibilità non è prevista neanche per i giudici della Consulta, secondo l’art. 135 della Costituzione: perché non dovrebbe valere anche per il capo dello Stato?”. Strano: nel 2013, quando l’amico Napolitano si fece rieleggere, non fece una piega. E il 13 agosto ’21 disse l’opposto: “La Costituzione non prevede che il mandato non sia rinnovabile: se è rinnovato nei termini previsti, è possibile”. Faceva prima a citare il proverbio toscano: “La legge è come la pelle dei coglioni: più la tiri, più si allunga”. L’intera stampa è listata a lutto per lo sciopero generale Cgil-Uil contro Draghi, tipico caso di lesa migliorità: “Incredulità di Draghi” (Rep), “Stupore nel governo” (Corriere), “L’ira di Draghi” (Messaggero), “Fermatevi, finché siete in tempo”, “Premier sbigottito” (Stampa), “Follia dei sindacati” (Giornale), “Ci mancava solo questo” (Libero). Tra le prefiche inconsolabili si segnala per acume Cappellini di Rep: “C’è il rischio che la piazza diventi l’occasione di un raduno di scontenti, No Vax compresi”. Ma a tutto c’è rimedio. D’ora in poi, se i sindacati vogliono proprio fare i sindacati, solo raduni di contenti.

“La notte brucia” e con lei l’esistenza (maledetta) di tre amici e delle loro famiglie

C’è il regista Abel Ferrara che interpreta il compro-oro di fiducia della gang. C’è Marcello Fonte (Dogman) che fa l’autista. E c’è Aniello Arena (Reality) che fa il loro pusher. Già tre camei di tale levatura varrebbero il film, ma non è così.

Il cortometraggio La notte brucia della regista Angelica Gallo, presentato al Torino Film Festival (premio Rai Cinema Channel), fa di più: mette in evidenza un quadro vivo e reattivo della nostra contemporaneità degradata, e lo fa senza sconti, senza retorica e senza enfatizzazioni: uno spettacolo turpe, senza sogni, senza amore, senza armonia, senza bellezza, fatto di cocaina, piccole rapine, spray al peperoncino, periferie abbandonate, infanzie straziate.

Un mondo che, in Italia, abbiamo imparato a vedere da tempo al cinema, però sempre con quel pizzico di enfasi di troppo. Non in questo film, dove tutto è più che plausibile, a partire dai tre attori protagonisti Eugenio Deidda, Lorenzo Di Iulio e Valerio Bracale, davvero credibili, con dialoghi ben scritti, fino alla fotografia, dove dominano le luci al neon – sottotesto esistenziale di quella grande pinacoteca di massa che è la periferia appena sub-urbana – che abbondano (ma che non strabordano).

In questo cortometraggio (distribuito da Save the cut – son of a pitch) sembra di vedere per immagini un racconto di Pier Vittorio Tondelli, nello specifico “Postoristoro”, ossia una realtà più vera del vero, che (fortunatamente) finisce per perdere quella verosimiglianza forzosa che fa maniera e sensazione stucchevole insieme. È atto, non azione, questo film: non ha un vero capo né una vera coda, è come se fosse un frammento di una vita tragica estrapolato a caso, in un suo giorno qualunque di un mese indefinito, ma freddo. Perché la degenerazione che esce da questo ritratto è servita così: tre amici, piccoli furti in discoteca, piccole righe di coca, piccole amicizie, famiglie devastate, fino a una rissa finale tra di loro. Ma non sono pugni né calci, sono solo testimonianze di una sconfitta annunciata. Alla fine del film viene voglia di aprire un libro bello e di accendere una abat-jour. E di dimenticare che là fuori piove un mondo freddo.

Guerra stellare alla Terra: una cometa sta per colpirla

“La scienza è politicizzata, oggi ci sono i cosiddetti ‘fatti alternativi’”. Leonardo DiCaprio è il protagonista di Don’t Look Up, scritto e diretto dal premio Oscar Adam McKay (La grande scommessa), distribuito in cinema selezionati l’8 dicembre e poi disponibile su Netflix dal 24: “È un film sulla crisi climatica, a cui Adam ha aggiunto un senso di urgenza: una cometa che colpirà la Terra entro otto mesi”.

Leo incarna il misconosciuto professor Randall Mindy che con la laureanda in astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre una cometa in rotta di collisione con il nostro pianeta. Problema, nessuno se ne cura: “I climatologi cercano di comunicarci l’impellenza del tema, ma è come – osserva DiCaprio, attivista ambientale di lungo e appassionato corso – se fossero relegati all’ultima pagina del giornale. Siamo inondati da troppe altre cose”. A Randall e Kate non resterà che partire per un tour mediatico, subito compromesso dall’indifferenza del presidente degli Stati Uniti Janie Orlean (Meryl Streep), che pare echeggiare il Donald Trump negazionista del climate change: “Ci sono innumerevoli fonti d’ispirazione, ovvero le persone assurde che occupano spudoratamente posizioni pubbliche. È stato divertente – confessa la Streep – mettere insieme questo personaggio, che ha evidenti difficoltà di apprendimento e pensa solo ad accumulare soldi e potere, ancora più soldi e più potere, e a esibire belle unghie e bei capelli”.

La soddisfazione per lo sviluppo dei caratteri di Don’t Look Up è anche di DiCaprio, che da tempo ambiva a un film sul tema ambientale: “Adoro i due scienziati: Kate è incredibilmente schietta, una tipa alla Greta Thunberg, il mio cerca di agire all’interno del sistema. Mi piace la sincerità di Adam nello stigmatizzare come oggi siamo totalmente distratti dalla verità”. E non fa eccezione quella che riguarda “il Covid, un argomento scientifico completamente nuovo. È un film molto importante di cui ho l’onore di far parte, in un momento così particolare”, sottolinea l’attore, che definisce la climate crisis “la questione più rilevante di cui tutti noi dovremmo parlare, ci vogliono gli artisti per cambiare la narrazione, per creare dibattito”.

Meryl Streep estende la missione alla politica: “Dobbiamo votare per chi crede nell’imminenza di questa minaccia per le nostre vite. I ricchi, i poveri, tutto scaturisce dalla crisi climatica. Ingiustizia, iniquità, ma se non sopravviviamo, non importa più nulla”.