La moda del vinile? Disco rotto

Era un rito da catecumeni, anzi da setta profana. Dopo aver comprato “l’ultimo” 33 giri dei Led Zeppelin o dei Genesis, la comitiva si intruppava nella stanza del fortunato proprietario del disco, cui spettava il compito di officiare l’“introibo” della cerimonia: far scendere la puntina sul long-playing (confidando nel giusto peso dell’accessorio, senza rischiare l’aratura del solco o il graffio irreparabile) e attendere, in un silenzio carico di aspettative, di farsi trasportare in universi inesplorati per una nuova avventura del rock e pop.

Un suono caldo, profondo, avresti detto umano nella sua difettibilità, invadeva l’ambiente: oggi fa nostalgia a ripensarci, ma quel prodigio esoterico era invece una caratteristica del dispositivo, un meraviglioso inganno per le orecchie, anche se la chiamavi “alta fedeltà”. Ti ci ritrovavi avvolto, dentro quel mondo magico, e guai all’amico sbadato che lordava la superficie dell’Lp con le dita unte di pizza, l’oscena impronta del reo da scomunicare. Album artisticamente supremi e registrati (nel trentennio aureo tra i 50 e gli 80) appositamente per essere trasferiti sul cerchio di vinile.

Più tardi venne il gelido, surrettiziamente “eterno” Cd, e nel ’93 i long-playing furono parcheggiati in obitorio. Nessuna casa discografica li produceva più, la tecnologia aveva infilato un raggio laser nel cuore degli irriducibili. Eppure, per il vinile era solo una morte apparente: dopo la rianimazione lazzaresca del 2007 da parte di major ed etichette indipendenti e un ostinato inseguimento al compact, il 2021 è stato l’anno del sorpasso. Ok, sempre di nicchia si tratta: ma nonostante il salto generazionale, con gli adolescenti del Terzo millennio abituati a “sentire” (il verbo definisce una fruizione distratta, effimera) in totale isolamento cuffiettaro le playlist dello streaming, il vecchio vinile è tornato ribaldamente in salute.

Gli operatori confidano in un boom natalizio, e già i dati del primo trimestre 2021 certificati dalla Fimi parlavano di un volume d’affari attorno al vinile di 4,7 milioni di euro contro i 4,4 del Cd, per una crescita esponenziale del 121 per cento dal 2010. Briciole, se pensiamo che lo streaming si mangia l’80 per cento del mercato nazionale e mondiale, ma succulente. Perché rilanciano la “musica solida” con il feticismo tattile – erotico – che delizia gli appassionati, a fronte di quella “liquida”, impalpabile, inafferrabile, dei download e dei brani che evaporano dentro uno smartphone.

Un ritorno all’antico? Sarebbe come sperare nella scomparsa delle auto in favore dei fiacre. Non è neppure una minaccia all’economia di scala della filiera musicale. Che è in crescita ovunque, si badi bene: un settore che globalmente vale 21,6 miliardi di dollari, con una quota-vinile da 889 milioni di biglietti verdi. E l’Italia è l’ottava potenza del pianeta rispetto al consumo di Lp. Tanto che le case discografiche sono tornate a stampare con regolarità le nuove uscite proprio in questo formato. Sì, ma con che qualità?

Le produzioni contemporanee o del catalogo dai Novanta in poi sono state concepite per essere masterizzate su Cd o per lo streaming: quindi con una compressione dei suoni che penalizza la “spazialità” del vinile vecchia maniera. Anche la “pasta” utilizzata è spesso di qualità inferiore rispetto a quella delle stagioni ruggenti (a meno di aprire il portafoglio per l’Hd Vynil, un futuristico procedimento che tra laser e 3D garantisce mirabilie); per non dire del problema dell’impianto in cui ascoltare (e non sentire) i brani. Un tempo il combinato disposto piatto-equalizzatore-casse troneggianti era il mausoleo tecnologico che occupava una vasta area della casa, con l’audiofilo a largheggiare in spese pur di far godere i padiglioni auricolari. Oggi esistono valigiotti portatili da cento euro, ma un vinile violentato da certe pseudo-testine non regge più di dieci repliche.

Guai a strapazzare lì sopra le edizioni originali dei long-playing, preziose non solo sul piano sentimentale. Esempi? Le prime rare stampe del mitologico Black Album di Prince (datate 1987) valgono più di 27 mila dollari nel ranking del collezionismo. Mentre quelle del secondo Lp dei Sex Pistols God Save the Queen toccano quota 16 mila dollari, e il doppio “Ummagumma dei Pink Floyd 13 mila. A patto, ripetiamo, che non si tratti di volgari ristampe. Se possedete questi tesori e non siete intenzionati a rivenderli, adoperate un sistema di riproduzione all’altezza.

Un “alta fedeltà” strepitoso lo pagate molto meno di una di queste gemme, ma se volete stupire il quartierino ne trovate da 60 mila euro. C’è poi il problema di dove acquistare il vinile: la visita – lunga e meditata – nel negozio specializzato è sempre stata parte della liturgia dei devoti. Compulsare le copertine, leggerne le note, scegliere: finché è arrivata Amazon, e addio taverna dei dischi. In Italia quindici anni fa erano in attività ben 1.400 punti vendita (strumenti compresi) mentre una più recente valutazione pre-pandemica ne rilevava solo 250 su tutto il territorio nazionale. Adesso è ancora peggio. Ma i catecumeni non si arrendono: il vinile è l’ostia sconsacrata del rock, la guerra agli isolazionisti delle cuffiette e alla pochezza dello streaming è ormai dichiarata.

Pearl Harbor, ghirlanda di spie

Il 7 dicembre 1941 il Giappone colpisce a sorpresa la flotta americana a Pearl Harbor nelle Hawaii, “una data che resterà segnata dall’infamia” dice Roosevelt davanti a un Congresso pietrificato. Washington sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma non poteva prevedere dove.

Un’operazione aeronavale perfetta e violentissima, il capolavoro militare dell’ammiraglio Yamamoto chiamato a organizzarla pur essendo contrario alla guerra con gli Stati Uniti. Il successo tattico dei giapponesi trascina in guerra l’America isolazionista ma si rivelerà un disastro strategico: Tokyo immaginava che dopo una fulminea espansione nel sud-est asiatico Washington avrebbe trattato la pace. Ma i calcoli dell’Impero erano sbagliati e l’effetto sorpresa svanì soltanto sette mesi dopo con la battaglia delle Midway, quando fu chiaro che il Sol Levante avrebbe perso la guerra.

La preparazione. L’idea i giapponesi l’avevano copiata dagli inglesi che, un anno prima, avevano attaccato con gli aerosiluranti lanciati da una portaerei le navi italiane ormeggiate nel porto di Taranto, di fatto azzerando le velleità del Duce di fare del Mediterraneo il mare nostrum. A Taranto l’addetto militare giapponese va a in missione a scattare fotografie e invia una serie di rapporti al suo ministero.

Nel marzo del ’41 i servizi segreti nipponici fanno sbarcare a Honolulu uno dei propri agenti migliori, Takeo Yoshikawa, che scende da una nave con la ghirlanda al collo come un turista qualsiasi. A settembre la spia sa già tutto delle installazioni militari dell’isola di Oahu dove si trova la baia di Pearl Harbor, la sorvola addirittura con un piccolo aereo preso a nolo, conosce i movimenti della flotta assurdamente ripetitivi. C’è di più: gli americani sanno che navi e aerei sono sotto l’attenta osservazione degli agenti consolari giapponesi, ma come testimonierà mesi dopo il capitano del controspionaggio Theodore Wilkinson davanti ad una delle numerose commissioni d’inchiesta: “…non potevamo impedire le riprese fotografiche, non potevamo arrestare i sospetti, tutti sapevamo che ci spiavano”. La ragione era che le trattative in corso per evitare l’escalation militare dopo anni di tensioni non dovevano essere disturbate, e che “perseguire i diplomatici… avrebbe allarmato eccessivamente la popolazione… mettendo in pericolo la lealtà della parte nipponica dei residenti”.

I piloti giapponesi si allenano per mesi sul cielo di Kagoshima, che ha una conformazione geografica simile a Pearl Harbor. Diventano esperti nelle picchiate fino a pochi metri di altezza prima di sganciare le bombe; i tecnici inventano alette speciali per migliorare l’efficacia dei siluri nei fondali bassi.

L’attacco. “I musi gialli hanno in mente qualche diavoleria” – Così Cordell Hull, segretario di Stato americano, poche ore prima dell’attacco.

“Don’t worry about it (non preoccupartene)” – L’ufficiale di guardia al radarista che vede sullo schermo una massa di aerei (pensava fossero bombardieri americani il cui arrivo era previsto).

È una domenica mattina, prima delle 8. Al comando Ricognizione stanno verificando la strana segnalazione su un minisommergibile. I giapponesi ne hanno mandati cinque per forzare le reti di protezione e agevolare gli sganci degli aerosiluranti: un’ora e mezza prima un cacciatorpediniere americano ne ha affondato uno al largo, ma incredibilmente ancora nessuno a terra è stato avvisato.

Guidati dalle onde radio dell’emittente commerciale di Oahu KGMB – che trasmette Benny Goodman e Bing Crosby – gli aviatori giapponesi della prima ondata, decollati dalle loro portaerei lontane 230 miglia nautiche dalle Hawaii stanno volando divisi in gruppi di bombardieri, caccia e aerosiluranti. Alle 7.53 il loro comandante Mitsuo Fuchida dà il segnale d’attacco: Tora Tora Tora (Tora in giapponese significa tigre, ma in questo caso To è la prima silaba di totsugeki-attacco e Ra la prima di raigeki-con i siluri). Vedendoli arrivare nessuno crede che possano essere giapponesi. Un marinaio dice a un collega che “una portaerei russa deve essere venuta a farci visita, si vede benissimo lo stemma rosso sulle ali”. Ma la verità arriva subito a suon di esplosioni, Pearl Harbor diventa l’inferno in terra. La prima a essere colpita è la corazzata Oklahoma, poi la California e la Arizona. Colano a fondo in pochi minuti trascinando centinaia e centinaia di marinai. Praticamente tutte le navi, anche quelle nei bacini di carenaggio, sono bersagliate da bombe e siluri. Poi, con la seconda ondata, tocca agli aerei e alle basi di terra. Sui campi di aviazione i giapponesi distruggono decine e decine di aerei, quasi tutti ben allineati e ravvicinati come a farne dei bersagli ideali (la ragione di questo dispiegamento sta nel fatto che in questo modo si pensava di evitare sabotaggi). Alle 10 la strage è compiuta. 5 corazzate affondate, 3 danneggiate, 188 aerei disintegrati. 2400 militari morti. I giapponesi perdono 29 aerei e 5 sommergibili. Per fortuna della marina Usa, le tre portaerei della flotta del Pacifico sono in missione lontane da Pearl Harbor. Mezz’ora dopo l’inizio dell’attacco il segretario della Marina Knox telefona a Roosevelt: “Signor Presidente, sembra che i giapponesi abbiano bombardato Pearl Harbor”. Roosevelt pronuncia solo un “No” soffocato.

La mente di Pearl Harbor. L’ammiraglio Isoroku Yamamoto ha 57 anni ed è considerato un grande stratega quando la Marina imperiale gli ordina di pianificare il blitz. Riesce in un’impresa senza precedenti, organizza una flotta con 6 portaerei, 2 corazzate, 3 incrociatori e centinaia di aerei (autorifornita con le navi cisterna) e la muove per migliaia di miglia nel Pacifico in silenzio radio e invisibile ai ricognitori. Ma è stato addetto navale all’ambasciata giapponese di Washington e conosce la dimensione economico-industriale degli Stati Uniti. Si dice che dopo l’incursione abbia detto “Temo di aver svegliato il gigante che dorme e di averlo riempito di una terribile determinazione”. Quello che è certo è che spera fino all’ultimo che la diplomazia vinca sulla guerra. Il 23 novembre del ‘41 ad una riunione di ammiragli sottolinea che se i negoziati avranno successo potrà disporre il rientro della flotta d’attacco entro l’una del 7 dicembre. I comandanti replicano che l’ordine è difficile da eseguire e lui ha un attacco d’ira: “Lo scopo delle forze armate è di mantenere la pace. Se qualcuno non è d’accordo, gli ordino di non prendere parte a questa operazione e di dimettersi ora”. Gli americani si vendicano il 18 aprile del ’43. Intercettano una comunicazione radio, scoprono che Yamamoto sarebbe stato in volo sulle isole Salomone e mandano i caccia ad abbattere il suo aereo. Le sue ceneri e la sua spada da samurai sono trasportate in Giappone, e ai funerali partecipa un milione di persone.

 

Suu Kyi, arriva la prima condanna. La Casa Bianca: “Liberatela”

Quattro anni di carcere per l’ex leader deposta nello scorso febbraio dai generali. È solo la prima condanna rispetto a 11 capi d’imputazione e ha riguardato la violazione delle misure anti-Covid e “incitamento al dissenso”. Con lei è stato condannato Win Myint, l’ex presidente. Le altre accuse parlano di corruzione, rivelazione di segreti di Stato, importazione illegale di walkie talkie. In teoria si arriva, con il cumulo delle pene, a più di cento anni di carcere. Di come sia andata l’udienza non si sa nulla perché a porte chiuse. Il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha definito la sentenza “un affronto alla giustizia” e la Casa Bianca ne ha chiesto il rilascio. Ma i generali in Birmania spadroneggiano. Da febbraio si contano almeno 1.300 morti e 10.000 arresti. Domenica a Yangon una pattuglia in auto ha travolto una protesta pacifica causando cinque morti.

Dal comizio-rissa Zemmour ottiene tanta pubblicità

Inchiesta avviata, 59 arresti, giovani picchiati: questo il bilancio del primo comizio elettorale di Eric Zemmour, domenica scorsa, al Parco delle esposizioni di Villepinte, periferia di Parigi. Il candidato all’Eliseo vi ha riunito circa 12 mila militanti per lanciare il suo movimento di estrema destra, “Reconquête!”. Un meeting che si prospettava ad alta tensione e così è stato. Il fatto più grave ha coinvolto alcuni attivisti di SOS Racisme. Quando hanno mostrato la scritta sulle magliette “No al razzismo” dei militanti di Zemmour hanno lanciato sedie contro di loro e li hanno picchiati a sangue. La polizia di Bobigny ha aperto un’inchiesta. I fatti dividono la classe politica. “Non pensavamo che la situazione degenerasse così. In un Paese democratico tutti hanno il diritto di difendere le proprie idee”, ha osservato Dominique Sopo, presidente di SOS Racisme. L’associazione ha ottenuto il sostegno della sinistra: “La violenza non ha posto nella democrazia”, ha detto l’ecologista Yannick Jadot. “Non sarebbero dovuti venire a provocarci”, ha invece reagito il clan Zemmour. Allo stesso modo diverse figure della destra hanno puntato il dito contro l’intrusione degli attivisti. Anche Valérie Pécresse, neo candidata dei Républicains: “La provocazione nei meeting l’ho subita anche io e non è mai piacevole. Bisogna affrontarla con sangue freddo”. Il Rassemblement National ha mostrato solidarietà con Zemmour. Al suo arrivo in sala, il polemista è stato afferrato al collo da un uomo, fermato per “violenze premeditate”. Zemmour ne è uscito con una slogatura al polso e ha sporto denuncia. Anche alcuni giornalisti sono stati strattonati e cacciati dalla sala.

Germania, il duro anti-Covid che vuole l’obbligo del vaccino

Occhiali tondi e papillon, Karl Lauterbach si è sempre presentato al grande pubblico come uno scienziato prestato alla politica. Ci sono ministeri più importanti e nomi meno conosciuti che ottengono più potere, ma la nomina di Lauterbach come ministro della Salute è senza dubbio quella che fa più discutere. Il socialdemocratico è un epidemiologo e all’Università di Colonia insegnava (è in aspettativa da oltre 15 anni) Economia sanitaria. È stato eletto al Bundestag per la prima volta nel 2005, ma è diventato noto a tutti i tedeschi durante la pandemia. È un convinto difensore delle rigide misure per bloccare i contagi. Con la nomina che riceverà domani prende il posto del conservatore Jens Spahn, 41 anni, oggetto di dure critiche per l’attuale situazione in cui si trova il sistema sanitario. Oggi la Germania ha grande disponibilità di posti letto in terapia intensiva, ma mancano medici e infermieri per curare i malati.

Per questo motivo durante questa quarta ondata di Covid in diversi ospedali si è dovuto scegliere quali pazienti ricoverare e quali no. In campagna elettorale Lauterbach ha annunciato, dagli studi televisivi, un cambio di passo. Appena resa pubblica la sua nomina il neo ministro ha commentato: “Con noi non ci saranno tagli alla sanità”. Poi parlando della pandemia ha aggiunto: “Ci vorrà più tempo di quanto molti pensano, ma ce la faremo”. Lauterbach è a favore della vaccinazione obbligatoria, sarà il suo primo impegno. Il Parlamento probabilmente voterà prima di Natale, in tempo per lanciare la campagna a febbraio. L’epidemiologo è nato 58 anni fa a Oberzier, una cittadina a pochi chilometri da Aquisgrana, sul confine tedesco con Belgio e Paesi Bassi. Suo padre lavorava in un caseificio e nonostante gli ottimi risultati scolastici gli insegnanti lo avevano destinato a un istituto professionale. In un’intervista rilasciata qualche anno fa, Lauterbach ha detto che si trattò di una discriminazione basata sul ceto sociale di appartenenza. Riuscito a iscriversi a Medicina, a cavallo tra gli anni 80 e ’90, frequenta l’Università del Texas e poi quella di Tucson in Arizona. Dopo laurea e dottorato agguanta una borsa di studio per Harvard. Ottiene una cattedra a Colonia e si butta in politica. Si iscrive al partito conservatore Cdu. Poi nel 2001 passa con i socialdemocratici e quattro anni dopo viene eletto in parlamento. Diventa un uomo di partito tanto che nel 2019 si candida per diventare co-presidente. Durante l’ultimo governo Merkel è il ministro ombra della Salute, guida la delegazione del Spd in tutti gli incontri con Spahn. E da inizio pandemia diventa ospite fisso della televisione pubblica. La sua intransigenza per l’allentamento delle misure antiCovid lo ha reso un bersaglio dei no-vax tedeschi. In Germania una persona su tre non è ancora immunizzata. Ma non è solo la pandemia ad attrarre le critiche per Lauterbach. Negli anni l’epidemiologo ha appoggiato una serie di politiche che potrebbe implementare adesso arrivato al dicastero. La prima è la liberalizzazione della cannabis. Lauterbach si è espresso anche a favore della legalizzazione della cocaina. Ha chiesto più volte il divieto assoluto per la pubblicità del tabacco. Inoltre vuole una riforma del sistema sanitario. In Germania coesistono pubblico e privato, creando un sistema di due classi di assistenza sanitaria. Come teorizzato dal premio Nobel Amyrta Sen, suo professore ad Harvard, Lauterbach vorrebbe che il sistema di salute aiutasse a bilanciare le disuguaglianze economiche.

“Capitan Coraggio”. La droga sintetica che fa ricca la Siria

C’è un narco-Stato affacciato sul Mediterraneo: la Siria. Per sopravvivere a se stesso, il regime siriano si è trasformato in uno dei principali produttori al mondo di Captagon, un tipo di anfetamina usata per sballarsi ma anche per non sentire la fatica, il dolore e la paura. La produzione ed esportazione di Capitan Coraggio – il soprannome con cui questa droga sintetica è maggiormente conosciuta – sono gestite direttamente dai membri del clan Assad, in primis da Maher, il fratello del presidente-dittatore Bashar. In questi dieci anni di terrificante e sanguinoso conflitto, di cui ancora non si vede la fine nonostante sia scomparso dai media, Maher non solo ha guidato la sua famigerata Quarta divisione contro i civili, ma ha deciso di aumentare esponenzialmente la produzione di captagon. Mentre la già debole economia siriana iniziava a crollare per i costi del conflitto e per le sanzioni, Bashar Assad e i suoi parenti hanno accelerato sulla droga sintetica. Un’attività criminale planetaria che è descritta con dovizia dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) nel suo dossier 2021.

Il dossier dell’Onu conferma inoltre che il traffico è in crescita costante. L’anno scorso la polizia italiana aveva effettuato al porto di Salerno un maxi-sequestro di 84 milioni di pillole nascoste dentro rotoli di carta provenienti dal porto siriano di Latakia, da sempre roccaforte del clan Assad perché originario di questa regione costiera. Le polizie di vari paesi solo nel 2020 hanno sequestrato pasticche di Captagon per un valore di 3,4 miliardi di dollari. Se si pensa che l’olio di oliva, l’articolo principe delle esportazioni siriane, vale 122 milioni di dollari annui, si comprende quanto il traffico di anfetamina sia dirimente per la sopravvivenza degli Assad. La filiera di questo business diabolico è lunga e coinvolge anche Hassan Nasrallah, il leader del partito armato libanese Hezbollah, di fatto una appendice dei pasdaran iraniani nonché un’organizzazione terroristica per la maggior parte degli Stati occidentali. I miliziani di Hezbollah sono stati fondamentali sul terreno per rovesciare le sorti del conflitto a favore del regime di Damasco.

Le operazioni per creare il Captagon avvengono in tutta la Siria (la maggior parte del paese è stato riconquistato dai soldati di Damasco, ndr). In alcune zone ci sono le “cucine” dove vengono mescolate le materie sintetiche necessarie a realizzare le pillole, in altre si trovano gli impianti di confezionamento in cui si provvede anche a escogitare sempre nuovi modi per nasconderle e quindi esportarle attraverso le reti di contrabbando. Anche il New York Times ha realizzato un’inchiesta in merito basandosi su informazioni di funzionari delle forze dell’ordine in 10 paesi e dozzine di interviste con esperti di droga, internazionali e regionali, con conoscenza del traffico e attuali ed ex funzionari degli Stati Uniti. Anche da questa inchiesta emerge che gran parte della produzione e distribuzione è supervisionata dall’unità di élite Quarta divisione corazzata dell’esercito siriano.

“Il traffico di droga è emerso dalle rovine di una lunga guerra che ha sconvolto l’economia siriana, ridotto la maggior parte della sua gente alla povertà e lasciato i membri dell’élite militare, politica e imprenditoriale siriana alla ricerca di nuovi modi per guadagnare valuta pregiata ed eludere le sanzioni economiche americane”, si legge. Secondo il rapporto, centinaia di milioni di pillole sequestrate negli ultimi anni in Grecia, Italia, Arabia Saudita, Giordania e altrove provenivano principalmente dal porto siriano controllato dal governo. Sono più di 250 milioni le pillole di Captagon sequestrate in tutto il mondo finora quest’anno, più di 18 volte la quantità ritrovata solo quattro anni fa.

Citando esperti di sicurezza regionali, il Times ha anche notato che il principale ostacolo nella lotta al traffico di questa droga “siriana” è che ha il sostegno di uno Stato che ha poche ragioni per aiutare a sgominarlo. “L’idea di andare dal governo siriano per chiedere informazioni sulla cooperazione è semplicemente assurda. È letteralmente il governo siriano che sta esportando la droga. Non è che guardi dall’altra parte mentre i cartelli della droga fanno le loro cose. È lui il cartello della droga”, ha affermato Joel Rayburn, inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria durante l’Amministrazione dell’ex presidente Donald Trump. Il Captagon è molto usato dai giovani di tutti i Paesi arabi, compresi i figli di papà dell’Arabia Saudita che punisce con la morte e l’ergastolo spacciatori e consumatori, ma per i rampolli dei notabili non è certo un problema trovare i soldi per rifornirsi senza venire colti in flagranza e quindi andare a ballare per giorni e notti ai rave party nel deserto. Dato il basso costo e l’effetto anestetico sulla paura, il Captagon viene usato molto anche dai soldati e dagli abitanti di paesi in guerra o sottoposti ad assedio, come nel caso degli abitanti di Gaza. Nel frattempo i governi della regione hanno lanciato un nuovo allarme perché la rete siriana costruita per contrabbandare il Captagon ha iniziato a spostare droghe ancora più pericolose, come la metanfetamina.

Azienda licenzia 900 persone su “Zoom”

La società di mutui Better.com ha licenziato 900 dipendenti via Zoom. Con una chiamata di gruppo in remoto, il ceo Vishal Garg ha annunciato che l’azienda lascerà a casa prima di fine anno circa il 9% della sua forza lavoro. “Se siete in questa call, fate parte dello sfortunato gruppo che viene licenziato – ha detto Garg secondo una registrazione diffusa dalla Cnn – Il vostro impiego qui è terminato con effetto immediato”. Tra le cause per i licenziamenti citate dal ceo figurano l’efficienza del mercato, le prestazioni e la produttività. La società, sostenuta da Softbank, aveva annunciato che sarebbe diventata pubblica attraverso una Spac, e la scorsa settimana aveva ricevuto 750 milioni di dollari come parte dell’accordo.

Il Papa: “Sul Natale la Ue fa come le dittature. I peccati della carne non sono tra i più gravi”

Se sul suolo ellenico aveva affrontato i temi delle migrazioni, del rapporto tra le varie anime della cristianità e dell’eutanasia, in volo verso l’Italia Papa Francesco ha allargato il campo. Il suo viaggio a Cipro e in Grecia, il 35° all’estero del suo pontificato, è terminato poco prima delle 13 di ieri con l’arrivo a Roma e sull’aereo da Atene il pontefice ha tenuto la consueta conferenza stampa con i cronisti al seguito, commentando alcuni degli ultimi principali spunti d’attualità. A cominciare dal caso dell’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, che il 27 novembre ha rimesso il suo mandato dopo un’inchiesta giornalistica che gli attribuiva una relazione con una donna. Aupetit, ha detto Bergoglio, è stato vittima “del chiacchiericcio che ne ha distrutto la fama: uno che ha perso la fama così pubblicamente non può governare. Ed è un’ingiustizia”. Francesco ha parlato di “piccole carezze, massaggi, che Aupetit faceva alla segretaria”. “Questa è l’accusa, questo è il ricatto. Ma i peccati della carne non sono i più gravi. I peccati più gravi sono la superbia e l’odio”. Per questo “ho accettato le sue dimissioni non sull’altare della verità, ma su quello dell’ipocrisia”.

Interrogato poi sull’altro tema che ha interrogato la coscienza dei cattolici la scorsa settimana – documento della Commissione Ue, che sconsigliava nelle comunicazioni interne riferimenti espliciti al Natale – Francesco ha utilizzato il concetto di “laicità annacquata”: quel vademecum, poi ritirato in seguito alle polemiche, “è un anacronismo”, ha detto il Papa. “Nella storia tante dittature hanno cercato di fare queste cose, penso a Napoleone, o alla dittatura nazista, alla comunista”, ha aggiunto Francesco. Secondo cui sul piano culturale l’Unione “deve prendere in mano gli ideali dei padri fondatori, stare attenta alle colonizzazioni ideologiche, rispettare ogni Paese per come è strutturato” perché “la varietà non deve uniformare”.

Terzo punto toccato da Bergoglio, la vicinanza con gli ortodossi. Il Pontefice considera “non lontano” un incontro col patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill, visto l’ultima volta nel summit dell’Avana del 2016. “Credo che la prossima settimana venga da me il metropolita Hilarion per concordare un incontro”, ha spiegato il Papa. “Io sono sempre disposto ad andare a Mosca. Per dialogare con un fratello non ci sono protocolli: il fratello è fratello”, ha aggiunto. Da Mosca è arrivata la conferma: “Il 20 dicembre è previsto il mio incontro con Papa Francesco”, ha fatto sapere con una nota il metropolita Hilarion di Volokolamsk.

Thyssen, 14 anni dalla tragedia: “Noi, presi in giro dallo Stato”

“Ci sentiamo presi in giro, traditi da uno Stato di cui non ci fidiamo più”. È il grido di dolore lanciato nel 14° anniversario del rogo della ThyssenKrupp, dalla madre di Giuseppe Demasi, una delle 7 vittime della tragedia avvenuta nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, sulla linea 5 della lavorazione dell’acciaio. Ieri al Cimitero Monumentale di Torino si è celebrato l’anniversario. Sei le condanne definitive arrivate 5 anni fa, tra cui quella del manager Herald Espenhahn, che non ha fatto un giorno di carcere grazie a un ricorso alla Corte costituzionale federale tedesca.

Zaki ora è a Mansoura. Oggi possibile sentenza

Dopo aver passato più di un anno nel carcere di Tora, in Egitto, Patrick Zaki è stato trasferito nella prigione di Mansoura. Il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna è detenuto dal febbraio del 2020 con l’accusa di “diffusione di notizie false” per un articolo non gradito al regim di Al Sisi. Oggi, proprio nel tribunale di Mansoura ci sarà la terza udienza sul suo caso e secondo Eipr, l’ong egiziana per la quale Patrick lavorava come ricercatore, potrebbe arrivare la sentenza: Zaki rischia fino a 5 anni di carcere. In tal caso, dice Riccardo Noury di Amnesty International, “opteremo per la strada diversa, quella della grazia al presidente dell’Egitto. Ma la richiesta dovrà portare la firma del presidente del Consiglio, Mario Draghi”.