Soltanto la Costituzione può difenderci dall’orda liberista

Il 4 dicembre 2016, il popolo italiano respinse con referendum la modifica della Costituzione, proposta da Matteo Renzi, al fine di rafforzare l’esecutivo, riducendo, nello stesso tempo, la “rappresentanza popolare” e i “poteri referendari” del popolo sovrano.

Si trattava di una riforma che voleva dar forza, alla politica dei governi succedutisi dopo l’assassinio di Aldo Moro, che mirava a cancellare l’intervento dello Stato nell’economia e procedere il più velocemente possibile alla svendita del nostro “demanio costituzionale”.

Una politica chiaramente ispirata alla distruzione dei successi economici raggiunti dall’Italia nei primi anni del secondo dopoguerra e favorita da alcuni Stati occidentali.

Essa era ispirata alle idee neoliberiste, secondo le quali “la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, tra questi deve esserci una forte concorrenza e lo Stato non deve intervenire nell’economia”. In sostanza si tratta di non considerare la dignità dell’uomo, di abolire la solidarietà, che è fondamento dell’esistenza stessa dei popoli; nonché, il “demanio costituzionale”, e cioè quel complesso di beni e servizi sui quali si fonda la “costituzione” e la “identità” dello Stato comunità. Il contrario di quanto prevedeva il “sistema economico keynesiano”, accolto in Costituzione.

Il primo colpo contro quest’ultimo fu inferto, forse inconsapevolmente, dal ministro Andreatta, il quale, con una semplice lettera a Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, in data 12 febbraio 1981, dispensò detta banca dall’obbligo di acquistare i buoni del Tesoro rimasti invenduti, facendo in modo che diventasse impossibile pagare i nostri debiti stampando moneta.

Il colpo mancino più duro all’intervento dello Stato nell’economia fu dato, tuttavia, dal governo Amato, il quale (dopo un mese e nove giorni, dal discorso che fece Draghi, il 2 giugno 1992, sul panfilo Britannia sul quale c’erano la regina Elisabetta e 100 delegati della City londinese, invocando un forte impulso della politica per attuare la “privatizzazione” dei beni del popolo), emise il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, trasformando in SPA le aziende di Stato IRI, ENI, INA e ENEL, che poi furono vendute, dai governi successivi e specialmente dal governo Prodi a prezzi estremamente bassi.

Dopo di che c’è stata la privatizzazione di numerosissimi enti e aziende di Stato, che è impossibile enumerare. E oggi l’azione deleteria del pensiero neoliberista viene disinvoltamente continuata dal governo Draghi, il quale ha firmato il cosiddetto Trattato del Quirinale, che istituzionalizza la nostra inferiorità economica nei confronti della Francia e ora ha l’ardire di proporre al Parlamento un disegno di legge che esalta la “concorrenza” fino al punto di porre a gara sul mercato europeo e internazionale persino il servizio dei taxi e quello delle spiagge, sempre ignorando, e mai nominando, la nostra Costituzione.

Ma è proprio la Costituzione la nostra forza. E dobbiamo farla valere, non solo contro Matteo Renzi, come è stato con il referendum del 2016, ma anche nei confronti di altri governi, come l’attuale, che insistono nel ritenere il sistema economico neoliberista un dato della Natura, mentre i fatti dimostrano che si tratta semplicemente di un cinico disegno studiato a tavolino, per togliere ricchezza al popolo, proprietario del “demanio costituzionale”, e donarla alla finanza e alle multinazionali.

Cancellando così millenni di civiltà, e riconducendo tutti a uno stato di soggezione, se non di schiavitù.

 

Dai vari “Puzzeristi” ai “Candeggisti”: questi sono i no-vax

Si parla molto, forse troppo, di no-vax e no-pass, peraltro diversi (spesso: non sempre) tra loro. Ne esistono varie tipologie.

Puzzeristi. Hanno elevato Stefano Puzzer, surreale e sgrammaticato Che Guevara dei portuali triestini, a maestro di vita. Lui, nel frattempo, va a Roma per incontrare Draghi o il Papa. E ovviamente non lo filano. Poi va all’Onu per incontrare non si capisce bene chi, a nome di chi e soprattutto su cosa. E altrettanto ovviamente non lo filano. Lui ci rimane male e registra video tristi, in cui maledice il mondo cinico e baro, ma garantisce che non si arrenderà. Menomale. Nel frattempo i suoi fan, per tirarlo su, cominciano a far circolare foto in cui Puzzer incontra addirittura Kofi Annan. Vorrebbe essere un tentativo di per far credere al mondo che Puzzer è stato davvero incontrato dai grandi della Terra, solo che Annan è morto da tre anni. A quel punto parte il perculamento generale via web, con fotomontaggi che mostrano il mitologico Puzzer incontrare JFK, Papa Giovanni Paolo II, John Lennon e Winston Churchill. Pare che attualmente Puzzer sia in tour con Jimi Hendrix, Jim Morrison, Elvis e Janis Joplin. Non mollare, Stefano!

Nobelisti. Sono quelli che, pur non sapendo nulla di scienza, si atteggiano a fenomeni solo perché hanno letto di straforo qualche sito di complottari, oppure la controinformazione su Telegram del Gengio della Rassinata. Spicca in tale contesto il professor Cacciari, a cui sempre andrà il nostro (sincero) affetto, ma che ultimamente è appena un po’ confuso. Lo scorso mercoledì, a Otto e mezzo, il filosofo ha citato “la presidente della Bayern” (Monaco?), l’insondabile Kamper (chi?) e il Premio Nobel Melon, che non ha mai vinto il Nobel e che soprattutto non si chiama Melon. Uno strike in piena regola. Daje!

Terzoreichisti. Credono davvero che il green pass sia equiparabile al nazismo. Fanno più rabbia che pena, e spiace che tra questa mandria di personaggi improbabili e spesso irricevibili ci sia anche una persona (quando vuole) intelligente e illuminata come

Freccero. Ripijati, Carlo!

Fascisti. Quelli alla Fiore o Castellino, che lucrano sulla rabbia e sull’ignoranza. Come sempre han fatto i fascisti, del resto.

Ioapristi. Belli come la Duna e decisivi come Tabacci, mandano ancora in tivù quel tale (Biagio Passaro) che riprese in diretta social la devastazione della Cgil a Roma, e poi si stupì pure della galera convinto di non aver fatto nulla di male. Un genio vero. Biagio nuovo Cesare Beccaria!

Anticristi. Per loro il vaccino serve solo per sterminare tutti e (già che ci siamo) negare pure la vita eterna, dunque condannandoci per sempre in chiave spirituale. Mica niente.

Grafenisti. La menano col vaccino “siero genico”, ignorando ovviamente cosa voglia dire. Straparlano di grafene, 5G, mercurio, feti morti e altri demoni. Non cambiano mai idea, scrivono come un ripetente in terza elementare e fanno più danni della grandine.

Candeggisti. Alle cure ufficiali preferiscono “terapie domiciliari” a base di Idrossiclorochina, vermifughi e clisteri di candeggina. Basaglia ha fallito.

Povisti. Fan di Povia, credono a tutto quello che il loro idol… no, scusate, loro non esistono. Ho esagerato con le licenze poetiche.

Loysti. Sono incarnati da tal Maddalena Loy, giornalista ex Foglio e Unità (già questo mix dice molto) riconvertitasi al culto del no-pass ferocemente ostentato. Imperversa in tivù, interrompe tutti, ragiona coi paraocchi e veicola teorie tanto discutibili quanto sommamente colpevoli. Brrrrrr.

Montesaniani. Enrico Montesano ha indovinato qualche film. Poi ha smesso di far ridere. Ora ha ricominciato. Pure troppo, forse.

Concludendo. C’è un limite a tutto, tranne che all’ignoranza no-vax che confina – e tracima – nella follia più sconsiderata. Sono pochi, ma anche in pochi fanno più danni di Renzi (no, forse di Renzi no). Buona catastrofe.

 

Pnrr, l’ultima chance per il rilancio del Sud

Mentre il Pnrr regala grandi sogni al Mezzogiorno, l’ultimo rapporto Svimez li sgonfia certificando le debolezze meridionali che rendono irrealizzabili quei sogni.

In 160 anni di storia post-unitaria il divario Nord-Sud non ha fatto che crescere. Nel 1861, subito dopo l’annessione del Mezzogiorno, quando la popolazione italiana era di 26 milioni, il Pil pro-capite (a prezzi del 1911) del Sud, dove vivevano 9 milioni e mezzo, era di 335 lire e quello del Nord era di 337 lire. Dunque, situazione quasi pari. Cinquant’anni dopo, nel 1910, quando gli italiani erano diventati 35 milioni, il Pil pro-capite (sempre a prezzi del 1911) nel Nord era di 612 lire mentre nel Sud, dove vivevano 13 milioni, era di 507 lire. Mezzo secolo era bastato perché il reddito di un meridionale si riducesse all’83% del reddito di un settentrionale. Da Francesco Severio Nitti in poi si sono moltiplicati gli studi per spiegare questo divario crescente e per indicarne i rimedi. L’intervento più imponente, escogitato non da un meridionale ma da un onesto trentino come De Gasperi e da un geniale valtellinese come Pasquale Saraceno, fu la Cassa per il Mezzogiorno varata il 10 agosto 1950 con un finanziamento di 1.000 miliardi per il primo decennio, poi aumentati a 1.280 miliardi.

Quell’anno il Pil pro-capite del Sud (546 lire a prezzi del 1911) era il 53% di quello del Nord (1.022 lire); trentaquattro anni dopo, nel 1984, quando la Cassa fu soppressa, il Pil pro-capite del Sud (2.348 lire) era il 63% di quello del Nord (3.705 lire). Dunque, grazie alla Cassa, il divario era diminuito di dieci punti anche se restava enorme. Oggi il Pil pro-capite è di 35.600 euro nel Nord e di 19.200 euro nel Sud. Ciò significa che, 37 anni dopo la soppressione della Cassa, il divario è tornato al 53%, cioè allo stesso livello del 1950, quando la Cassa fu varata.

Questo dimostra che il Sud, senza la respirazione bocca a bocca di un intervento straordinario, è incapace di mettere a frutto le sue risorse. E dimostra pure che un territorio è sottosviluppato in misura quasi irreversibile quando, pure avendo le risorse per crescere, è tuttavia incapace di metabolizzarle. La Campania ne è un esempio evidente: situata al centro del Mediterraneo, dotata di un clima mite, un terreno fertile, una grande storia, un patrimonio immenso di beni naturali e culturali, oggi questa regione ha un Pil pro-capite (18.500 euro) che corrisponde appena al 48% di quello della Lombardia (38.000 euro). A Milano il Pil pro-capite è di 53 mila euro, come in Svezia; a Napoli è di 26 mila euro, come nella Slovenia o nel Bahrein.

L’Italia intera stenta a metabolizzare le sue risorse: nel settennato 2014-2020 è riuscita a spendere appena il 43% dei 72 miliardi ricevuti dall’Europa nell’ambito dei vari fondi strutturali. Ma sono state le Regioni del Sud a registrare i massimi ritardi in termini di attuazione e i principali problemi in termini di capacità. Come se non bastasse, secondo i dati raccolti dall’Ufficio valutazione di impatto del Senato, i controlli fatti dalla Finanza tra 2014 e 2016 hanno scoperto che nel Mezzogiorno si concentra l’85% di tutte le frodi sui fondi strutturali e sulle spese dirette dell’Unione europea.

Tutto ciò legittima l’ipotesi che la valanga di miliardi stanziati dal Pnrr per il Sud, pari al 40% del suo intero ammontare, difficilmente andranno a buon fine. Per utilizzare questi fondi in misura soddisfacente occorre creatività progettuale e organizzazione realizzativa; entrambe queste skill si basano sulla competenza e troppi dati dimostrano che il Sud ne scarseggia. Secondo il recente rapporto Svimez, negli ultimi vent’anni è emigrato un milione di meridionali tra cui 300 mila laureati. Le famiglie del Sud hanno investito sui loro figli per portarli fino alla laurea e poi essi sono stati costretti a emigrare, trasferendo altrove le professionalità acquisite e deprivandone il Mezzogiorno. Tra i professionisti rimasti nel Sud, uno su tre risiede in un Comune che versa in dissesto finanziario e, quindi, presenta un contesto svantaggioso per l’imprenditorialità offrendo scarsi servizi comunali e imponendo maggiore pressione fiscale per il rientro del debito.

La criticità del contesto meridionale è ulteriormente dimostrata dal fatto che il personale impiegato nei Comuni del Sud, rispetto a quello impiegato nei comuni del Centro-Nord ha un livello scolastico più basso: i laureati rappresentano il 32% a Bologna, il 20% a Napoli e l’11% a Palermo. Inoltre il personale che opera nei Comuni meridionali è più obsoleto: l’indice di ricambio è dello 0,70 nel Centro-Nord e dello 0,58 nel Sud; a Palermo rasenta lo zero. Infine, nei Comuni meridionali abbonda il precariato: i dipendenti con contratto a tempo determinato sono il 15% nel Centro-Nord e il 22% nel Sud.

Dunque in tutta Italia, e soprattutto nel Sud, arriveranno i miliardi del Pnrr e dovranno essere tradotti in grandi opere concrete entro il 2026. Se, come tutto lascia prevedere, il Sud sarà meno spedito del Centro-Nord nel progettare e realizzare queste opere, nel 2027 il suo divario con il resto d’Italia, invece di ridursi, aumenterà. Ma in economia le previsioni negative, proprio perché tali, possono provocare una reazione positiva capace di smentirle. Non ci resta che sperare in questo imprevedibile rimbalzo.

 

Le barzellette di Gandhi, ridere con le bugie e la telefonata a Piombi

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Fra le pratiche nonviolente di Gandhi includerei la barzelletta che raccontò al viceré Lord Irwin durante i negoziati del 1931: “Un uomo cammina lungo la spiaggia e disgraziatamente viene colpito alla testa da una noce di cocco. Disgraziatamente la testa gli si apre in due. Sua moglie se ne arriva sulla spiaggia cantando una canzone e vede le due metà e le riconosce. Le raccatta e ci grida dentro, arrabbiatissima: ‘La vuoi piantare?’”.

Il sorriso di complicità con cui la farmacista milf mi porge la bustina con dentro la confezione di gel lubrificante che ho comprato.

La parola che ci permette di accettare i nostri piaceri segreti: fascinazione. Borges aveva una fascinazione per il tango. Nabokov aveva una fascinazione per le farfalle. Io ho una fascinazione per le tette.

Come tutti gli uomini, rido quando dico le bugie. LEI: “Di chi è questo numero di telefono che ho trovato nel tuo cellulare?” IO: “Ah ah ah ah ah. Ti amo”.

Va detta una cosa sugli uomini belli: noi siamo molto amati.

Mi piace andare in libreria e chiedere libri che non hanno. “Avete ‘Il Sud e l’ortopedia’? Avete ‘5000 ricette per alpinisti e impresari di pompe funebri’? Avete ‘Guarire dalle emorroidi con la preghiera’?”.

Daniele Piombi mi diede una mano all’inizio della mia carriera. “Questo è il mio numero di telefono. Quando arrivi a Roma, chiamami”. Un mese dopo arrivo a Roma e qual è la prima cosa che faccio? Vado al Ghetto in un piccolo forno storico dove fanno una torta di ricotta e visciole talmente buona, mi aveva detto una mia amica, che fai molta fatica a non convertirti all’ebraismo. Verissimo. Ma subito dopo la scorpacciata e la circoncisione telefono a Daniele Piombi. “Salve, sono Daniele Luttazzi. Si ricorda di me? Stava affogando al largo di Viserbella e le ho salvato la vita col mio moscone. Mi ha dato il suo numero e mi ha detto di telefonarle quando fossi arrivato a Roma”. E lui mi risponde: “Clic!” Quella fu la svolta. Lo rividi tre anni dopo ai Premi Naxos, avevo vinto qualcosa con quelli di Magazine 3. Non era lui. Chissà chi era quella testa di cazzo di Viserbella.

Mi piacerebbe avere un figlio. Quanto costerà una camicia di forza per bambini?

 

Il passato da attore, la sauna abusiva e il cinema: una vita da Mr. Viperetta

A Testaccio, il quartiere di Roma dov’è nato il 5 agosto 1951, si dice che a sapé fa’ la scena, quarcosa se ruspa, “a saper recitare qualcosa si mangia”. Di scene ne ha viste e recitate tante Massimo Ferrero, ma non tutte riuscite, come parrebbe dall’ultimo mandato d’arresto. I molti guai giudiziari tuttavia non hanno mai scalfito la sapida oratoria vernacolare e l’ego inversamente proporzionale alla ridotta statura fisica del self made man de noantri. È nota la sua fobia per i rettili, eppure per il carattere fumantino è soprannominato “er Viperetta”. Padre bigliettaio dell’Atac, madre casalinga, poca scuola, comparsa in un film a 7 anni, Ferrero – che si definisce “un artista di strada” – la domenica raccoglie i biglietti e li rivende come nuovi. Da adolescente sconta sei mesi di prigione, lui dice per aver fatto volare il cappello del padre di una sua fiamma, vigile urbano. Al carcere minorile lo chiamano er gatto. Macellaio, benzinaio, barista, sposato a 18 anni con Paola, malvista dalla madre perché burina, due figli in rapida successione, Ferrero diventa factotum a Cinecittà. Ottiene piccole parti: “Mi chiesero se volevo fare un film su Pasolini. Dissi di sì. Uno mi toccò il culo. Gli detti una capocciata. Lui a terra gridava: ‘Sei una vipera!’. Ma fu Monica Vitti a chiamarmi Viperetta. Aveva ragione: so ’na vipera”. Svelto come un gatto e velenoso come un serpente, impara e fa carriera: aiuto regista, direttore di produzione, organizzatore generale, produttore esecutivo.

La svolta arriva col secondo matrimonio: impalma Laura Sini, erede di un impero di caseifici nel Lazio. Soldi veri, grazie ai quali si fa produttore indipendente, tra alti e bassi. Scatta una serie di funamboliche scorribande finanziarie. Dice che il suo motto è “compra, vendi, guadagna e pentiti”, ma più pentiti sono alcuni che l’hanno incrociato. A febbraio 2009 Ferrero entra nella compagnia aerea Livingston. Ne esce un anno e 8 mesi dopo, con un buco di 40 milioni e 500 dipendenti a casa. Per questa vicenda ad aprile 2017 patteggia un anno e 10 mesi per bancarotta: “Me so’ spaccato cuore e culo e c’ho pure rimesso la faccia”. Il 15 dicembre 2009 rileva per 59,5 milioni dalla liquidazione del gruppo Cecchi Gori la gestione del cinema Adriano e di altre dieci sale romane. Il 12 giugno 2014, sebbene sia romanista sfegatato, compra la Sampdoria per una somma ignota. Per cedergli la squadra di Serie A la famiglia Garrone deve però anticipare 107 milioni a copertura debiti e perdite. Er Viperetta diviene un habitué del calcio in tv, tra sceneggiate e risse verbali. Finisce anche il secondo matrimonio: nel 2015 l’ex moglie lo denuncia per truffa e minacce, lui replica con un esposto per calunnia. Dalla nuova relazione con Manuela Ramunni ha due figli.

I problemi non mancano. A settembre 2015 la Procura di Roma gli sequestra per vertenze fiscali un appartamento di 13 vani ai Parioli, dove è costretto a demolire opere irregolari compresa una sauna. A luglio 2017 è indagato per appropriazione indebita, autoriciclaggio, fatture false: per i pm avrebbe sottratto 1,2 milioni alla Samp, dirottando sui conti di una sua società parte dei ricavi della vendita di un calciatore. Ma il 3 luglio 2020 viene prosciolto con formula piena insieme alla figlia Vanessa, al nipote Giorgio e ai manager Andrea Diamanti e Marco Valerio Guercini. Ieri, a 70 anni suonati, l’ultima disavventura. Pare di sentirlo, er Viperetta, mentre si ripete “a chi tocca nun se ’ngrugna”.

Ferrero fa crac: “Sei fallito”. Patron della Samp in cella

“Io me potevo legà tutti al cazzo che non c’ho” dice Vanessa Ferrero il 22 febbraio di quest’anno spiegando all’ex dipendente Dario Lemma che “sulla carta comando io”. Non l’ha fatto per “rispetto” e perché non le è “convenuto”. Ma Vanessa si sente in forte credito con suo padre Massimo Ferrero – “non se credesse che co’ sti contentini che m’ha dato, cioè pagamme la macchina … famme arrivà n’altra, e i mille euro! Che m’ha sistemato?” – e si lamenta che – “però cazzo!” – mentre le banche la chiamano in continuazione “te ne stai andà in Africa, stai a partì per venti giorni, io te sto a dì che non magno, a pezzo de merda”. E così prefigura che quando sarà arrivato il momento passerà all’incasso: “Pagheremo tutti i debiti e tutto (…) e sposterò un milione a me (…) guarda io li utilizzerò solo per paga’ allo Stato i miei debiti! Perché la libertà non ha prezzo, quello che avanza è mio! Poi fate come cazzo vi pare”. Vanessa da ieri è agli arresti domiciliari (accusata di aver sottratto 740mila euro, ndr) e, suo padre è in carcere: sono accusati di bancarotta fraudolenta. Il procuratore di Paola Pierpaolo Bruni e la Guardia di Finanza hanno scandagliato la gestione familiare di ben 4 aziende guidate, secondo l’accusa, dal dominus occulto Massimo Ferrero, patron della Sampdoria (s’è dimesso, ndr) e vecchia volpe del cinema italiano.

E sembra davvero presa da una commedia all’italiana l’episodio andato in scena al commissariato di Roma nel 2014 quando Roberto Coppolone, uomo di fiducia del Viperetta si presenta per regolare denuncia di furto d’auto (un’Audi S8). E – citiamo dal verbale – precisa quanto segue: “All’interno del veicolo asportato v’erano custoditi, all’interno di una borsa in pelle, alcuni documenti e precisamente Libro giornale, Registri Iva, Libro Inventari, verbali di assemblea (…) e altri documenti allegati delle seguenti società (…)”. Per Bruni e il gip Rosamaria Mesiti s’è trattato di una messa in scena bella e buona: l’obiettivo – si legge nell’ordinanza d’arresto – era quello di “non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”. Per l’accusa le quattro società sono state utilizzate come bancomat e tutte sono fallite (in quattro anni, dal 2017 al 2021) a causa di magheggi finanziari e distrazioni di fondi.

Ai domiciliari sono finiti gli amministratori delle società del gruppo: oltre alla figlia Vanessa Ferrero, il nipote Giorgio Ferrero, Giovanni Fanelli, Aniello Del Gatto e Roberto Coppolone. Bruni ha fatto luce sulle operazioni sospette delle società (con sede in Calabria) Ellemme Spa, Blu Cinematografica Srl, Blu Line Srl e Maestrale Srl. L’inchiesta si fonda ovviamente sull’analisi dei documenti contabili ma le intercettazioni sono piuttosto esplicite: “Mo mi padre m’ha detto: ‘ma chi potemo mette al posto suo come amministratore? Che cazzo ne so! Infatti io devo veni’ da mi padre per parla’… che la situazione è drammatica”.

Non è l’unica, Vanessa Ferrero, a parlare di situazione drammatica. “Cioè è stata fatta talmente tanta merda dentro queste società – dice al telefono il commercialista Gianluca Vidal intercettato mentre parla con Andrea Diamanti (non indagati, ndr) – che è veramente preoccupante come sono state gestite (…) la tasca destra è uguale alla sinistra e la destra e la sinistra allo stesso modo…”. “Il problema” risponde Diamanti “è che è una tasca comune che si chiama Massimo Ferrero”. Poi aggiunge: “La cosa drammatica (…) nel senso che io sto lavorando cazzo… per riprendere lui! E lui non lo capisce questo! Non lo capisce! Quindi quando lui ti dice ‘no ma … io voglio prendere più di questo’ e io gli dico ‘Massimo sei fallito!’”. E ancora: “(…) Lui ogni giorno deve trovare un posto dove bucare e far scendere i soldi… il tema è che se davvero gli bloccano tutto… alla fine non è tanto possibile fare tutte queste cose! (…)”.

Per il gip esisteva “un preciso disegno criminale”. Massimo Ferrero avrebbe gestito “realmente il patrimonio sociale compiendo complessi intrecci societari, avvalendosi sia dei propri familiari che di soggetti di fiducia”. Era sua, per l’accusa, “la cabina di regina” che ha portato allo “svuotamento, deliberatamente programmato, degli asset” e al fallimento delle società. Con buona pace dei creditori e dell’Erario. Una bancarotta ammontante a diversi milioni di euro e sintetizzata in 38 capi di imputazioni. La Ellemme secondo gli inquirenti si sarebbe accollata un debito di circa 1,2 milioni che diverse aziende del gruppo avevano verso Rai Cinema Spa. Il tutto “rinunciando a incassare i crediti dalla stessa vantati nei confronti di Rai Cinema Spa senza richiedere alcuna controprestazione e senza pattuire interessi corrispettivi”. Tanto è bastato per cagionare “il dissesto della società Ellemme Group srl”. Il presidente era Vanessa Ferrero (era anche amministratore unico della “Ferrero Cinemas Srl”). Di fatto, però, le redini dell’azienda erano in mano al padre Massimo come di “Global di Media srl”, “Mediaport spa” e “Mediaport Cinemas Srl”, società che avevano ceduto il debito alla “Ellemme” poi fallita per “effetto di operazioni dolose”. Ma nelle carte della Procura c’è anche lo yacht che il presidente della Sampdoria ha utilizzato a titolo gratuito dal 2008 al 2011 e per il quale, però, la società “Blu Line”, poi fallita, ha pagato circa 2 milioni e 300mila euro di leasing nonostante “un debito tributario” pari a quasi 500mila euro.

“Non vaccinate i bimbi già infettati dal virus”

In Francia, dal 15 dicembre, saranno aperte le vaccinazioni anti-Covid per i bambini dai 5 a 11 anni più fragili, mentre per l’estensione a tutta la fascia d’età si valuterà entro fine d’anno, in attesa di ulteriori pareri scientifici. Un parametro importante di confronto arriverà da oltreoceano. D’altronde è passato quasi un mese dall’inizio delle vaccinazioni per i bambini di 5-11 anni, negli Stati Uniti, dove sono stati vaccinati circa quattro milioni di bambini su 28 totali. Ancora non disponibili dati sugli effetti avversi della sorveglianza semi-attiva V-Safe coordinata dai Cdc (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie). Invece, sono consultabili le segnalazioni spontanee nel sistema Vaers (sorveglianza “passiva”). In questo database, sono già rendicontati effetti avversi di varia intensità. Purtroppo il limite delle segnalazioni passive sta nella difficoltà di indagine immediata e nell’adesione limitata dei cittadini. Un parametro di confronto però può essere stabilito con i dati del sistema di V-Safe registrati per i giovani di 12-17 anni. In questo caso, il sistema ha documentato reazioni “con impatto sulla salute”, corrispondenti a reazioni di grado 3-severe (e, di rado, anche di grado 4-potentially life-threatening), nei ragazzi di 12-15 anni rispettivamente: 10,6% e 25,4% dopo la prima e la seconda dose; nei ragazzi di 16-17 anni, rispettivamente 11% e 28,6%.

Il vaccino pediatrico è stato approvato sulla base dei dati cumulativi riportati da Pfizer a Fda, l’agenzia del farmaco americana, a fine ottobre. Lo studio ha coinvolto due gruppi di bambini, uno formato da 3.109 bambini (vaccinati), e l’altro con 1.538 bambini (non- vaccinati, il gruppo placebo). In nessuno dei due gruppi si sono registrati decessi, né malattia “grave”. Quindi la valutazione dell’efficacia dichiarata da Pfizer al 90,7% si è basata interamente sui casi sintomatici di Covid, e si riferisce ai sintomi lievi. I partecipanti al trial erano prevalentemente bianchi, con un’età media di circa 8 anni. Dei destinatari di Bnt162b2 (vaccino Pfizer), l’11,5% era obeso, l’8,8% aveva prove di una precedente infezione da SarsCov2 e il 20,6% aveva comorbidità che li ponevano ad un rischio maggiore di Covid-19 grave. Più del 70% dei partecipanti sono stati arruolati negli Stati Uniti, il resto in altre parti del mondo.

Nel trial autorizzativo un partecipante nel gruppo “vaccinati” è uscito dal programma a causa di evento avverso di piressia e neutropenia (è una riduzione del numero di neutrofili circolanti. Se di grave entità, aumenta il rischio e la gravità di infezioni batteriche e fungine). Per la prima coorte, le analisi hanno portato all’identificazione di 19 partecipanti con eventi avversi di interesse nel gruppo Bnt162b2 e 6 nel gruppo placebo. L’angioedema è stato riportato in tre giovani (0,19%) nel gruppo del vaccino rispetto a uno (0,13%) nel gruppo placebo. Una partecipante, di 6 anni, nel gruppo Bnt162b2, ha avuto un evento avverso di porpora di Henoch-Schonlein (una vasculite sistemica). Il numero di partecipanti al programma di sviluppo clinico è troppo piccolo per rilevare potenziali rischi di miocardite associata alla vaccinazione. La sicurezza a lungo termine del vaccino Covid-19 nei partecipanti di età compresa tra 5 e 12 anni sarà studiata in cinque studi di sicurezza post-autorizzazione, incluso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare le sequele a lungo termine di miocardite/pericardite post-vaccinazione.

Un dato interessante è emerso nel sottogruppo dei bambini “guariti” (8,8%), nessuno si è riammalato. Per interpretare il dato abbiamo interpellato Marty Makary, docente alla Johns Hopkins School of Medicine e alla Bloomberg School of Public Health: “Se un bambino ha già avuto il Covid non ci sono basi scientifiche per la vaccinazione. In fondo al rapporto Pfizer di 80 pagine, consegnato ad Fda per l’approvazione del vaccino, c’è questa parte cruciale: nessun caso di Covid-19 è stato osservato nel gruppo vaccino o nel gruppo placebo nei partecipanti con evidenza di precedente infezione da SarsCov2”. Quindi, ci spiega il professor Makary “l’immunità naturale è robusta nei bambini, dato il loro sistema immunitario più forte. Una vaccinazione indiscriminata contro il Covid può causare danni involontari tra i bambini con immunità naturale”. Ma, chiarisce Makary “se un bambino ha un fattore di rischio per Covid (patologie importanti), il beneficio del vaccino potrebbe superare il rischio”.

L’analisi della Fda basata sul database delle richieste di risarcimento sanitario Optum, ha evidenziato come il rischio in eccesso di miocardite/pericardite si è avvicinato a 200 casi per milione di maschi completamente vaccinati di età 16-17 anni e 180 casi per milione di maschi completamente vaccinati di età 12-15 anni, circa 1 caso ogni 5 mila inoculi. Dopo Israele e Stati Uniti, anche l’Italia partirà con le vaccinazioni pediatriche tra pochi giorni. “I vaccini riducono la trasmissione e la gravità dell’infezione, ma non impediscono l’infezione”, ci spiega Robert Dingwall, membro del Comitato Jcvi per le vaccinazioni in Gran Bretagna, “sbaglia chi pensa che funzioni come i vaccini contro il morbillo o la polio, in modo che nessuno si infetti mai”.

“Con Omicron ricavi record per Big pharma”

L’ultimo a gridarlo è stato Bernie Sanders. “Quel che è troppo è troppo”, ha scritto il leader della sinistra radicale americana e senatore del Partito democratico: “La scorsa settimana otto investitori di Pfizer e Moderna hanno guadagnato 10 miliardi di dollari mentre si diffondevano le notizie della variante Omicron”. Non è chiaro chi siano questi investitori menzionati da Sanders, a ogni nuova variante di SarsCov2 annunciata le speculazioni in Borsa sono dietro l’angolo, infatti la scorsa settimana i valori dei titoli hanno subito forti fluttuazioni mentre imperversava l’allarmismo su Omicron. Ma la sostanza del ragionamento è ormai condivisa da tantissimi, da destra a sinistra: medici, ministri, diplomatici, scienziati, attivisti; l’Oms, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale. “La sospensione sui brevetti dei vaccini anti-Covid è giusta ed equa”, scriveva già a maggio Nature.

Sono d’accordo ormai anche quasi tutti i Paesi del mondo, compresi Stati Uniti e Cina, eppure da oltre un anno la proposta avanzata dai governi di India e Sudafrica giace immobile sul tavolo dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’ultima riunione, a inizio mese, doveva essere decisiva. È stata rimandata a data da destinarsi: la priorità è ora la gestione di Omicron, è stato spiegato. La questione dei brevetti ora non merita neanche una riunione su Zoom.

Chi sta riuscendo a congelare la discussione? A fare da scudo ci sono l’industria farmaceutica, il settore finanziario e alcuni Stati. Chi continua a opporsi diplomaticamente alla moratoria sui brevetti sono Svizzera, Regno Unito e Unione europea, quest’ultima seppur divisa al suo interno. La Germania di Angela Merkel, sede di Biontech, finora è stata contraria (non è chiaro cosa ne pensi il neo cancelliere Olaf Scholz). La Francia di Macron è d’accordo. L’Italia di Draghi ha tenuto finora una posizione sfumata: l’ultima volta che ne ha parlato, il premier ha detto che “l’Italia è aperta a questa idea (della sospensione, ndr), in modo mirato, limitato nel tempo e che non metta a repentaglio l’incentivo a innovare per le aziende farmaceutiche”. Poi ha aggiunto: “So che Ursula (Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ndr) ha un’altra idea, che è anch’essa molto innovativa e che in prospettiva è più realistica”. Era maggio, l’idea della Von der Leyen – puntare sugli accordi volontari tra case produttrici – non ha funzionato: a oggi i dati dicono che solo il 3% dei vaccini è andato in Africa, allora la quota era del 2%, pochi passi avanti.

Senza l’unanimità, all’Organizzazione mondiale del commercio la sospensione dei brevetti non può passare. Intanto, mentre il tempo scorre c’è chi macina soldi. Il 2 novembre scorso l’americana Pfizer ha detto che quest’anno fatturerà grazie al vaccino 36 miliardi di dollari. Altrettanto dovrebbe fare la tedesca Biontech, cui vanno metà dei ricavi. L’altra americana, Moderna, prevede di incassare grazie al suo vaccino tra i 15 e i 18 miliardi di dollari. Totale: 90 miliardi circa. Anche i profitti sono dal leccarsi i baffi, perché le case farmaceutiche hanno puntato finora a vendere i propri prodotti al miglior offerente, vale a dire alle nazioni più ricche. Effetto collaterale: al momento solo il 3% delle dosi distribuite nel mondo è andato in Africa. Sulla base delle stime fornite dalle tre aziende, Oxfam ha calcolato che le tre società campioni del mercato vaccinale quest’anno faranno 34 miliardi di dollari di profitti lordi, equivalenti a 65mila dollari al minuto, più mille dollari al secondo. Tutto questo prima di aver pagato le tasse. Che, in due casi su tre, saranno parecchio basse. Mentre la tedesca Biontech ha scritto che la sua aliquota effettiva a fine anno sarà del 31 per cento, Moderna e Pfizer verseranno molto meno. La prima ad agosto aveva stimato un’aliquota effettiva del 7%, poi a novembre ha detto più genericamente che pagherà meno del 10%. Pfizer ha invece stimato che quest’anno i suoi utili saranno tassati al 16%. In entrambi i casi, molto meno di quanto versa una normale impresa americana (21%). D’altronde sono le leggi a permetterlo: tra vecchie perdite usate per abbattere il carico fiscale e società offshore (la holding di Pfizer è registrata in Delaware, quella di Moderna in Svizzera), le due società che più stanno beneficiando dell’emergenza-Covid verseranno pochissimo, e questo nonostante abbiano ricevuto “miliardi di dollari pubblici dai contribuenti di Stati Uniti, Germania e altri Paesi”, hanno fatto notare gli attivisti della People’s Vaccine Alliance, di cui fanno parte moltissime ong tra cui l’italiana Emergency.

Chi rischia di perdere di più da un’eventuale sospensione dei vaccini sono dunque gli azionisti di Pfizer, Biontech e Moderna. Il fondatore di Biontech, lo scienziato Ugur Sahin, da quando è iniziata la pandemia ha guadagnato 4 miliardi di dollari grazie al rialzo del titolo in Borsa. L’amministratore delegato di Moderna, Stephane Bancel, quest’anno ha aumentato il patrimonio personale di 4,8 miliardi di dollari. Sono però i grandi fondi internazionali, i colossi della finanza ad aver scommesso le fiche più pesanti sui brevetti dei vaccini. Due, in particolare. Blackrock ha partecipazioni in tutte e tre le aziende per un totale del 9,8%: ai valori attuali, sono 18,1 miliardi di dollari. The Vanguard, altro gigante del settore, è ancora esposto: possiede il 14,8% delle azioni delle tre società, per un controvalore di 28,5 miliardi di dollari al momento. La sospensione dei brevetti rischia di incenerire il valore delle loro partecipazioni, così come quello dei tanti altri fondi d’investimento che hanno scommesso soldi sulle aziende che producono i vaccini. A loro, la liberalizzazione non conviene.

E in Belgio il certificato è illegittimo

Il tribunale di Namur, in Vallonia, ha bocciato il Green pass belga, seconda sentenza contraria al lasciapassare dopo quella di agosto della Galizia, in Spagna.

In Italia non resta che attendere la Corte costituzionale: il prossimo 15 dicembre si pronuncerà sui ricorsi presentati da otto deputati di Alternativa e dal senatore Gianluigi Paragone di Italexit contro l’obbligo di Green pass per accedere in Parlamento. Sperano che la Consulta faccia coriandoli del decreto con cui il governo ha imposto anche agli organi costituzionali di adeguarsi alle nuove prescrizioni. Come ha fatto di recente il Tribunale di Namur in Vallonia che ha stabilito che imporre l’obbligo della certificazione verde per accedere a bar o ristorante rappresenti già una discriminazione e una compressione delle libertà sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti.

I parlamentari in questione, tutti ex pentastellati, però, si sono già visti respingere i ricorsi per la sospensione delle nuove misure presentate di fronte agli organi di giustizia interna della Camera. E da ultimo anche del Senato dove giovedì scorso, la Commissione contenziosi di Palazzo Madama presieduta da Giacomo Caliendo di Forza Italia, in cui siedono anche i due leghisti Simone Pillon e Alessandra Riccardi, ha esaminato la richiesta di sospensione dell’obbligo di Green pass presentata dai senatori Paragone, Carlo Martelli e Mario Giarrusso. Richiesta respinta con rinvio della decisione di merito, ma solo perché nel frattempo era stata fissata l’udienza alla Consulta.

A quanto si apprende, i ricorsi sono stati comunque presentati tardivamente, ma soprattutto sono erronei nell’oggetto sicché risulta essere stata impugnata una delibera dei questori del Senato relativa alle misure anti-Covid riferite non ai senatori ma ai dipendenti dell’amministrazione. Tra cui comunque sono fioccati i ricorsi: in dodici hanno contestato le nuove disposizioni che subordinano al possesso della certificazione verde lo svolgimento della prestazione lavorativa, ma finora senza successo. Anche il loro ricorso è stato respinto in via cautelare: per la Commissione contenziosi, infatti, il tampone è un sacrificio minimo rispetto agli interessi in gioco e comunque risulta indimostrato il pregiudizio grave e irreparabile di ordine fisico e psicologico derivante dal ricorso frequente al prelievo faringo-laringeo. Ma non è tutto: per il tribunalino interno non sarebbe corretto un trattamento diversificato per i dipendenti di Palazzo Madama. Ma guai a dire che il Senato è stato assoggettato alle imposizioni del governo: resta rimessa alla discrezionalità dell’Ufficio di Presidenza valutare gli effetti delle misure sulle attività istituzionali di Palazzo.

“Il Green pass? Faccia lei…” Il colabrodo dei controlli

“Posso prendere la metropolitana senza Green pass?”. Nel gabbiotto di vetro di una stazione della metropolitana di Roma, l’unico addetto alle 8 del mattino risponde: “Non c’è nessuno… Faccia lei”. I controlli non li fa, nemmeno a campione, come del resto i suoi colleghi da San Giovanni a Conca d’Oro. Hanno ragione, spiegano dall’Atac, la traballante azienda comunale dei trasporti: “Le verifiche le fanno i controllori dei biglietti, circa 250 su tre turni (per 360 linee solo di autobus, ciascuna con decine di corse al giorno, ndr). Erano una cinquantina stamattina. Hanno controllato circa 1.300 persone e ne hanno allontanate una trentina non in regola”. Una goccia nel mare di centinaia di migliaia di utenti. “Le multe? Non possiamo farle per il Green pass”, dicono dall’Atac. Possono chiedere i documenti e multare chi è senza biglietto, ma per il Pass no. “Siamo solo in ausilio alle forze di polizia”. All’Atac diversi controllori hanno paura: “Se fai scendere uno o gli fai 400 euro di multa quello magari reagisce”.

Così all’uscita dalle stazioni della metropolitana, ieri, c’erano poliziotti e carabinieri, a volte a favore di telecamera come al capolinea della Circonvallazione Cornelia. Non c’era molta gente per il ponte dell’Immacolata, quattro poliziotti alla fermata per occuparsi a volte di un solo passeggero. Poi anche due vigili urbani. Le tv li riprendevano e un no vax filmava col telefonino: “Guardate com’è ridotta l’Italia”. Erano per lo più stranieri i viaggiatori senza pass, in genere rimproverati e allontanati senza multe. La prima l’hanno fatta i vigili in piazzale Flaminio: 400 euro a un 50enne romeno. “Siamo a disagio pure noi”, confida una poliziotta. Toccherà a loro anche in futuro: due equipaggi al giorno per ciascun commissariato e ciascuna compagnia dell’Arma, notoriamente con organici all’osso. La ministra Luciana Lamorgese, costretta a mobilitarli da Mario Draghi, ringrazia. Cotral, trasporto regionale, invece fa da sé, facilitata dal controllo dei biglietti in partenza almeno ai capolinea: ieri mattina, fanno sapere, hanno verificato 2.000 pass su circa 75 mila biglietti, allontanando 192 persone. Non sono salite a bordo, niente multa.

 

Milano. Alle 8 del mattino alla fermata Lanza della metro due pattuglie miste di poliziotti e controllori chiedono il Pass davanti ai tornelli. “L’obiettivo non è multare ma prevenire”, spiega l’ispettore capo Marco Turchetto. Tra i viaggiatori c’è chi è infastidito e chi è soddisfatto. “Mi sento più sicura non solo per me, ma anche per gli altri”, dice una signora. Sui vagoni c’è meno gente del solito. Gli studenti sono rimasti a casa per il ponte di Sant’Ambrogio. Qualche fermata più in là in piazzale Loreto si entra in metropolitana senza controlli.

 

Torino. Il bilancio dei controlli a campione, a metà della giornata torinese, era di 120 persone controllate e soltanto sei trovate prive di Green pass accompagnate all’uscita. Nel primo pomeriggio, però, dei pattuglioni composti da controllori e vigili urbani non c’era più l’ombra. Il Gruppo torinese trasporti (Gtt) ha messo al lavoro 82 controllori su tre turni e a gruppi di tre: “Non facciamo noi la verifica del pass, ma i vigili che affianchiamo”, dicono.

 

Genova. Le prime manovre sono cominciate una settimana fa. In pochi giorni la chat ha raccolto quasi 1.500 iscritti e centinaia di messaggi. C’è chi cerca passaggi, per sé o per i familiari, e chi si offre. È il gruppo Telegram “Trasporti solidali Genova”, dove la “solidarietà” indica l’aggiramento dell’obbligo del Green pass sui mezzi pubblici. Il primo giorno dei controlli è stato soft: 18 fra poliziotti, carabinieri e vigili aggregati ad altrettanti controllori nei punti nevralgici della città, in particolare alla stazione di Brignole, piena di pendolari. “La mattina chi non era in regola è stato invitato a non salire sui mezzi – spiega l’azienda di trasporto locale, Amt –, nel pomeriggio la polizia municipale ha fatto una decina di multe”. Bus strapieni di studenti nelle ore di punta, senza verifiche. L’altoparlante e le nuove vetrofanie ricordano il Pass. In tarda mattinata rimangono solo i controllori, senza poliziotti. “Da soli non possiamo verificare i certificati”, spiegano.

 

Catania. Sui bus urbani di Catania circa 1400 controlli e oltre un centinaio di passeggeri senza Green pass. Ci pensano i controllori e vigilantes dell’azienda dei trasporti, appena una trentina per 45 linee. I passeggeri rimasti a piedi sono per lo più anziani, ma anche una studentessa che aveva fatto la prima dose di vaccino, ma non aveva il Pass. Assenza totale di controlli invece nella metropolitana. E al terminal dei bus extraurbani ci pensano, se ci pensano, le compagnie.

A fine giornata, a Roma, la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, ammette: “Già nei prossimi giorni le prefetture verificheranno l’efficacia dei piani predisposti a livello territoriale, adottando, se necessario, un’eventuale rimodulazione delle misure”.