Dalla Pa alla Webuild, il caso Rettighieri può costar caro al colosso

La nomina da parte di Webuild di Marco Rettighieri a presidente della controllata Webuild Italia potrebbe configurare un caso di violazione della norma sul pantouflage, la disciplina sull’impiego da parte dei privati di ex funzionari pubblici, e costare alla più grossa impresa di costruzioni d’Italia la possibilità di partecipare agli appalti del Pnrr.

Nei giorni scorsi il Fatto ha rivelato l’assunzione del manager avvenuta a giugno, un mese dopo le dimissioni da responsabile dell’attuazione del Piano straordinario delle opere portuali di Genova: una trentina di appalti che il decreto Genova del 2018 ha consentito al commissario per la ricostruzione del Morandi, Marco Bucci, e all’Autorità portuale di avviare con le stesse deroghe (specie agli obblighi di gara) concesse per ricostruire il viadotto crollato. Pochi giorni fa, Webuild Italia si è candidata all’ampliamento del cantiere navale di Sestri Ponente (400 milioni), una delle opere maggiori del piano, in cordata con Fincantieri.

Secondo Gianluigi Pellegrino, avvocato amministrativista esperto di appalti, non è solo una questione di opportunità: “Mi sembra difficile escludere a cuor leggero che il caso non configuri un pantouflage”, spiega. La norma prevede che i funzionari pubblici che abbiano “esercitato poteri autoritativi o negoziali… non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso soggetti privati destinatari dell’attività della Pa svolta attraverso i medesimi poteri”.

Secondo Pellegrino “il fine della norma è impedire che un funzionario pubblico eserciti i suoi poteri per captare la benevolenza di un privato da cui poi ottenere incarichi. Nel caso in questione, i destinatari potrebbero essere considerati gli interessati agli esiti della sua attività di coordinatore della progettazione, cioè i potenziali appaltatori, non ancora titolari di un rapporto con la Pa nel momento puntuale in cui il funzionario esercita i suoi poteri, ma potenzialmente sì”. Nel caso di specie, ad esempio, la progettazione di fattibilità tecnico-economica dell’appalto fu bandita dal Rup (Responsabile unico del procedimento) “sentito il responsabile Rettighieri”. “In astratto, secondo la ratio della norma, l’indirizzo della progettazione potrebbe esser stato dato dal funzionario pubblico per favorire nell’appalto un soggetto da cui poi farsi ricompensare”, continua Pellegrino.

Il legislatore è intervenuto a monte proprio per evitare questo rischio potenziale. “E lo ha fatto, a riprova della valenza temporalmente estesa della nozione di destinatari, sancendo la nullità dei contratti sottoscritti dalla Pa con l’impresa dopo l’assunzione del funzionario (nonché quella dell’assunzione stessa), ma anche vietando all’impresa che abbia commesso pantouflage, di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni”. Qui sta il punto: se Anac, titolata ai controlli, accerta un pantouflage, la legge prevede il divieto di firmare nuovi contratti con la Pa. Contattata, Webuild si è limitata a riferire di “non ravvisare ipotesi di pantouflage”. L’appalto verrà aggiudicato giovedì. Nei verbali di apertura delle buste con le offerte, Webuild ha specificato sua sponte, che Rettighieri è stato responsabile del piano Genova “senza l’attribuzione di poteri autoritativi o negoziali”. Il Rup e altri funzionari dell’Autorità portuale gli hanno fatto eco. Ottenuta poi da Webuild l’assicurazione che “nello studio e predisposizione dell’offerta sarà escluso ogni contributo, partecipazione o intervento di Rettighieri”, il Collegio di gara ha ammesso l’offerta. A presiederlo sarà Maurizio Michelini, distintosi nelle vesti di Rup dei lavori di ricostruzione del Morandi – effettuati proprio da Fincantieri-Webuild (in questo caso la capogruppo) – quando, in occasione di una visita al cantiere di Salvini, si vantò del risultato ottenuto avendo “buttato nel gabinetto il codice dei contratti”.

Se l’Anac optasse per l’interpretazione più dura, Webuild Italia potrebbe avere dei problemi a fare la parte del leone nel Pnrr.

Primo sciopero anti-Draghi. Il 16 la protesta di Cgil e Uil

Mario Draghi affronterà il suo primo sciopero generale. Cgil e Uil (senza la Cisl) hanno annunciato la protesta più dura con astensione dal lavoro di 8 ore per il prossimo 16 dicembre, “con manifestazione nazionale a Roma e con il contemporaneo svolgimento di analoghe iniziative interregionali in altre 4 città”. Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, segretari di Cgil e Uil, interverranno alla manifestazione di Roma, che si svolgerà in piazza del Popolo.

Sembra quindi una cosa seria anche se indetta di corsa per provare ancora a incidere sulla discussione della legge di Bilancio. Il giudizio dei due sindacati sulla manovra economica è impietoso: “Pur apprezzando lo sforzo e l’impegno del premier Draghi e del suo esecutivo – scrivono Cgil e Uil – la manovra è stata considerata insoddisfacente da entrambe le organizzazioni sindacali”. Il cahier de doléance è lungo e verte “sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza, tanto più alla luce delle risorse, disponibili in questa fase, che avrebbero consentito una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un’occupazione stabile”.

La discussione interna al sindacato non è stata semplice. Landini aveva più volte inviato segnali di malcontento e la gestione del rapporto con i sindacati da parte del governo ha sempre confidato nel vecchio motto “l’intendenza seguirà”. Però la Cgil non se l’era sentita finora di rompere con la Cisl che si è detta contraria ad acuire i contrasti con Draghi. La confederazione di Luigi Sbarra definisce “sbagliato” il ricorso allo sciopero che equivarrebbe a “incendiare il conflitto sociale”.La Uil, invece, mantenendo la linea movimentista che l’aveva caratterizzata negli ultimi anni, ha detto sì e quindi lo sciopero si farà a due.

Assetto che ricorda quello del 2014 quando le due organizzazioni manifestarono insieme contro il governo Renzi sul Jobs Act. “Doveva essere proclamato molto prima, non a ridosso di Natale a Finanziaria praticamente approvata”, dice invece l’oppositrice interna alla Cgil, Eliana Como. Palazzo Chigi, infine, si limita a notare che “la manovra è fortemente espansiva e il governo ha sostenuto lavoratori pensionati e famiglie con fatti, provvedimenti e significative risorse”.

B. nel terrore: indagini, debiti e pressing mafioso “Piango sotto la doccia”

1993. Dopo l’arresto di Totò Riina il 15 gennaio in uno strano blitz del Ros, che non perquisisce e lascia incustodito il suo covo a disposizione dei mafiosi, gli altri capi di Cosa Nostra – Provenzano, Bagarella, Brusca, Cannella e i fratelli Graviano, in contatto con Gelli, gruppi neofascisti e varie logge deviate – danno vita al partito secessionista “Sicilia Libera”: ultima di una serie di “leghe meridionali” sorte negli ultimi mesi un po’ in tutto il Sud. Dell’Utri, che in Fininvest si è sempre occupato soprattutto di soldi e di pubblicità, è come tarantolato dal virus della politica, fino a quel momento esclusiva di Letta e Confalonieri. Sulle prime s’interessa anche lui a Sicilia Libera. Ma poi cambia linea e spinge per un nuovo partito tradizionale, con l’ossatura di Publitalia, guidato dall’amico Silvio: quello a cui sta lavorando da un anno sotto traccia con Cartotto. Berlusconi ne parla ai direttori delle sue testate fin da marzo. E lo annuncia come cosa fatta il 4 aprile a Bettino Craxi in un incontro ad Arcore con Cartotto e poche settimane dopo a Indro Montanelli. Intanto il cerchio di Mani Pulite si stringe sempre più attorno al Biscione e si avvicina pericolosamente al vertice, cioè al Cavaliere.

8 aprile. Gianni Letta, vicepresidente di Fininvest Comunicazioni, viene interrogato da Di Pietro e ammette un finanziamento illecito di 70 milioni di lire al segretario Psdi Antonio Cariglia: ”La somma fu da me introdotta in una busta e consegnata tramite fattorino”. Lo salverà l’amnistia del 1990, che ha già miracolato Berlusconi per la falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla P2.

18 maggio. Viene arrestato per corruzione Davide Giacalone, già consulente del ministro delle Poste Oscar Mammì per il piano delle frequenze tv, poi ingaggiato dalla Fininvest per 600 milioni (verrà in parte assolto e in parte prescritto). Il 18 giugno il pool di Milano fa arrestare Aldo Brancher, assistente di Confalonieri, per due tangenti: una di 300 milioni al Psi e un’altra equivalente a Giovanni Marone, segretario dell’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, in cambio di spot sulle reti Fininvest per la campagna ministeriale contro l’Aids.

Berlusconi è terrorizzato: il gruppo è sull’orlo della bancarotta e le banche creditrici lo commissariano imponendo il tagliatore di teste Franco Tatò come nuovo Ad (nel 1992 i debiti, secondo Mediobanca, hanno raggiunto i 7.140 miliardi di lire). Quasi tutte le aziende del Biscione sono sotto inchiesta. I protettori politici escono di scena l’uno dopo l’altro (Craxi indagato a Milano e dimissionario dal Psi, Andreotti indagato per mafia a Palermo). Il governo Amato è caduto in aprile per i troppi ministri indagati, sostituito dai “tecnici” di Carlo Azeglio Ciampi. Il Pds di Achille Occhetto ha appena fatto incetta di sindaci alle Amministrative e ha il vento in poppa, aiutato dalla nuova legge elettorale maggioritaria in cantiere (Mattarellum). E dalla Sicilia si fanno sempre più asfissianti le pressioni a suon di bombe degli amici degli amici.

I “falchi” del gruppo, da Dell’Utri a Previti a Giuliano Ferrara, spingono Berlusconi a contrattaccare: la Fininvest deve entrare in politica per salvarsi. Ma il piano preoccupa le “colombe” Letta, Confalonieri e Maurizio Costanzo, che sconsigliano l’operazione.

14 maggio. In via Fauro a Roma, uscendo dal teatro Parioli, Costanzo scampa per miracolo a un attentato mafioso.

27 maggio. Un’altra autobomba provoca cinque morti (tra cui una bimba di 50 giorni) e numerosi feriti alla torre dei Pulci di Firenze, in via dei Georgofili, accanto agli Uffizi. Quelli di Roma e Firenze sono i primi due attentati di Cosa Nostra fuori dalla Sicilia: una nuova strategia terroristica finalizzata a destabilizzare lo Stato colpendo il patrimonio artistico e religioso.

22 giugno. La Guardia di Finanza perquisisce gli uffici Fininvest di Milano e Milano2 in un’indagine su indebiti rimborsi Iva. La società protesta: “È il 57° intervento della Guardia di Finanza presso sedi e uffici Fininvest nell’ultimo periodo”.

23 giugno. Confalonieri e Brancher sono indagati a Milano per finanziamento illecito al Psi.

29 giugno. Dell’Utri, Previti e altri due fedelissimi berlusconiani, Antonio Martino e Mario Valducci, fondano a Milano, presso il notaio Roveda, l’“Associazione per il buon governo”. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto (Alla Ricerca del Buongoverno) diventano il “riferimento ideologico” dei nascenti club di Forza Italia.

3 luglio. Berlusconi riunisce ad Arcore, come ogni sabato, i dirigenti del Biscione e i direttori delle testate del gruppo. E traccia un quadro fosco della situazione politica e aziendale, dicendosi “perseguitato dai giudici”. Cartotto riferirà le sue parole in quei giorni convulsi: “Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica, mi distruggeranno, mi faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte. E diranno che sono un mafioso. Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere quando sono sotto la doccia…”. Negli stessi giorni Salvatore Cancemi, primo boss pentito della Cupola di Cosa Nostra, si consegna alla giustizia e comincia a parlare in gran segreto di mafia e politica: racconterà al pm di Caltanissetta Ilda Boccassini quel che sa sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri, la mafia e le stragi del 1992-93.

12 luglio. Berlusconi dirama via fax ai direttori delle testate del gruppo un memorandum di 11 pagine approntato dai legali Fininvest dal titolo “Valutazioni dei comportamenti dei giudici di Tangentopoli”. Gli house organ del Biscione, che fanno ascolti e vendono copie raccontando con simpatia l’indagine Mani Pulite, dovranno iniziare ad attaccare la magistratura, accusandola di ogni sorta di abusi e illegalità. Obbediranno tutti, tranne il Giornale di Montanelli. Al punto 4 della velina c’è una frase sospetta: “In alcuni casi (emblematico il caso Andreotti), gli inquirenti, sulla base di dichiarazioni perlopiù inattendibili di pentiti compiacenti e desiderosi di ottenere benefici, aggiungono l’addebito dell’associazione mafiosa (…) che priva l’inquisito di fondamentali garanzie processuali in materia di libertà personale”. Ma ancora nessun pentito – che si sappia – ha parlato della Fininvest. Berlusconi cita Andreotti, che però è senatore a vita e non può essere arrestato senza il permesso del Parlamento (che nessun gip ha chiesto). E nessun politico è stato ancora arrestato per mafia. Chi sono allora le presunte vittime private della “libertà personale” dalle toghe per le accuse dei pentiti? Berlusconi – osserveranno i pm di Palermo – “non può che riferirsi ai mafiosi doc, che nello stesso periodo hanno avuto garanzie da Dell’Utri”.

(6. continua)

Bonafede, Appendino&C. È la “carica degli 85”

La carica dei comitati, con 17 coordinatori e complessive 85 nomine. “Ma arriveranno altri comitati e i referenti territoriali” assicura Giuseppe Conte. “Io non sarò un uomo solo al comando, ma nessuno andrà più in ordine sparso” avverte. E per convincere i suoi anche in vista del Colle, ecco i ruoli, che verranno votati dagli iscritti nel fine settimana. I 4 comitati che entreranno nel Consiglio nazionale vanno a big, con Alfonso Bonafede ai Rapporti territoriali, Chiara Appendino alla Formazione (quindi alla Scuola del M5S), Fabio Massimo Castaldo ai Rapporti europei e internazionali, e Gianluca Perilli ai Progetti. Negli altri, veterani e qualche giovane. A guidare il comitato economico sarà Stefano Buffagni, mentre alla Sicurezza va Giuseppe Brescia e alla Salute Pierpaolo Sileri. Lucia Azzolina avrà Istruzione e Cultura, Giulia Sarti la Giustizia. Tra gli altri, Roberta Lombardi agli Enti locali, Vittoria Baldino alle Politiche giovanili e Nunzia Catalfo al Lavoro.

La festa neo-dc della Meloni parte con Di Maio e Giorgetti

Per Luigi Di Maio è la prima volta. Giancarlo Giorgetti invece è un habitué. Sono loro i protagonisti della prima giornata di Atreju 2021, insieme al forzista Antonio Tajani e Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia. Il leghista e il pentastellato sono seduti vicini: confabulano, parlottano e ridono, segno di una certa familiarità. Una frequentazione che loro stessi hanno ammesso dopo esser stati beccati da uno scatto al tavolo della pizzeria “Da Michele”, a Roma. “Ci vediamo una volta al mese”, disse Di Maio.

E così a partire dalla confezione moderata del titolo – il Natale dei conservatori – con tanto di mercatino di Natale “solidale e tricolore”, l’edizione 2021 della festa di Fratelli d’Italia, che riprende dopo due anni di stop, è molto democristiana. Tiene dentro tutti, come nemmeno Mario Draghi. “Di solito siamo il primo appuntamento della stagione politica, questa volta saremo l’ultimo prima della grande partita del Quirinale”, dicono gli organizzatori.

Forse che ragionando qui, in piazza Risorgimento, proprio all’ombra del Cupolone di San Pietro, i leader politici troveranno la soluzione al grande rebus del Quirinale? Chissà, di certo nelle prossime giornate fino a domenica non mancherà nessuno: mercoledì ci saranno Giuseppe Conte e Marta Cartabia; giovedì Enrico Letta con Bruno Vespa e Maurizio Belpietro; venerdì toccherà a Matteo Salvini; sabato invece Matteo Renzi insieme a Marcello Pera, Ignazio La Russa, Luciano Violante e Sabino Cassese. Domenica chiude Giorgia Meloni, mentre oggi parlerà Silvio Berlusconi, in collegamento. Una sfilata di leader e parlamentari da far invidia al salotto di Porta a Porta.

Vista la gran marmellata di ospiti, potrebbe esser davvero un’occasione per schiarirsi le idee in vista di febbraio. O per confonderle ulteriormente. S’è cominciato ieri quando, dopo aver tergiversato un po’ sul reddito di cittadinanza (“Io ho cambiato idea su diversi temi, mi fa piacere che Berlusconi lo abbia fatto sul reddito”, gongola Di Maio), il discorso è scivolato dolcemente sul Quirinale. E anche qui il titolo lo dà il ministro degli Esteri. “Sul Colle temo molto la profonda spaccatura nel centrodestra, soprattutto a opera di Salvini, che pure su questo non so quanto sia affidabile. Sicuramente è più affidabile Giorgia Meloni”, afferma, lisciandosi la platea che applaude divertita.

Ognuno, poi, ribadisce le sue posizioni. Per Tajani “Draghi deve restare a Palazzo Chigi perché è l’unica personalità in grado di andare avanti con un governo che tiene insieme forze politiche così diverse”. Così Berlusconi potrà provarci con un competitor in meno: nessuno lo dice ma tutti lo pensano.

Per Lollobrigida, invece, “si elegga il presidente e poi si vada al voto, perché solo un governo politico con un programma preciso può mettere a terra il Pnrr e fare le riforme”. Secondo Di Maio, invece, Colle ed elezioni “sono due questioni distinte che non vanno mischiate”. Inoltre, “le urne sarebbero un azzardo anche sul fronte della pandemia perché stiamo vedendo come in tutti i Paesi europei in cui si è votato il virus abbia ripreso fiato, a cominciare dalla Germania…”.

Insomma, la legislatura vada a scadenza, anche con un altro governo. Giorgetti, invece, il primo a lanciare Draghi al Colle, non fa nessun nome ma spiega che “un esecutivo dell’emergenza con tutti dentro ha senso solo se prende decisioni e governa, altrimenti, se deve vivacchiare dentro una campagna elettorale permanente di un anno, allora meglio lasciar perdere…”.

Il gelo, pure a Roma, punge, rendendo più verosimile l’Atreju natalizia, dove non mancano presepi, panettoni, vischio e vin brulè. “Sembra di stare a Cortina…”, dice qualcuno.

C’è pure la casetta di Babbo Natale. Il Santa Claus di Giorgia Meloni si chiama Massimo, ha 72 anni e viene da Tivoli, fuori Roma. “A me al Quirinale piacerebbe Bersani…”, sussurra infreddolito.

Berlusconi al Quirinale: oltre 150 mila dicono no

Da quando esiste change.org, il sito più famoso per promuovere petizioni online, in Italia soltanto una cinquantina di appelli hanno superato le 150 mila sottoscrizioni.

Tra questi, da ieri, c’è anche la petizione del Fatto contro la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale, che adesso viaggia già verso le 160 mila adesioni.

Un risultato enorme se si pensa che è stato raggiunto in meno di una settimana e proprio nei giorni in cui diversi esponenti politici rilanciano il nome di B. come nuovo capo dello Stato. Per dare l’idea: la raccolta firme pro-Silvio lanciata da Libero è ferma sotto alle 10 mila sottoscrizioni. Segno che, nonostante i tentativi di riabilitare Berlusconi, i nostri lettori e una bella fetta di società non dimenticano ciò che rappresenta.

 

I PARERI

Lorenza Carlassare

Inadatto. Possibile che non abbiamo imparato niente?

Purtroppo non esiste un motivo giuridico per affermare che Silvio Berlusconi non sia legittimato a puntare all’elezione a presidente della Repubblica, non essendo previsto alcun divieto neanche per chi, come lui, ha avuto problemi con la giustizia.
Ma non c’è dubbio che Berlusconi sia totalmente inadatto al ruolo, motivo per cui aderisco alla petizione del Fatto: la figura del capo dello Stato è strutturata sul- l’idea dell’imparzialità, della neutralità di un uomo che oltre a essere super partes deve anche apparire come tale. Senza dimenticare che il presidente della Repubblica dovrebbe essere una figura davvero al di fuori di ogni controversia sulla sua persona, sulla sua vita privata e su quella pubblica. Tutto ciò mi sembra una condizione incompatibile con Berlusconi, che invece si è reso protagonista di vicende poco qualificanti.
E come potrebbe lui esprimere e rappresentare l’unità del Paese? La sua candidatura ci dice che non solo non siamo in grado di pensare al futuro, ma anche che non sappiamo trarre davvero alcuna lezione dal passato, dato che ormai Berlusconi dovremmo conoscerlo tutti molto bene.

 

Gianfranco Pasquino

Sempre lui. Mai avuto decoro e c’è il solito conflitto di interessi

Per definire la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale vorrei riprendere l’espressione che usò l’Economist qualche anno fa, anche se allora si riferiva al suo incarico da presidente del Consiglio: “Unfit”, inadatto. Il giudizio vale a maggior ragione oggi, visto che si parla dell’elezione del capo dello Stato. Sono due le principali ragioni che mi rendono inadatto Berlusconi. La prima: quando ha ricoperto cariche pubbliche importanti, Berlusconi non lo ha fatto con decoro e onore, come tra l’altro indicherebbe la Costituzione.
E poi la seconda: resta, irrisolto, un gigantesco e monumentale conflitto di interessi. Berlusconi non può ricoprire una carica pubblica del genere perché potrebbe svolgere l’incarico occupandosi dei suoi interessi oppure anche solo perché qualcuno potrebbe avere il legittimo sospetto che questo succeda. È un tema vecchio più di 25 anni, ma se possibile stiamo anche peggio di allora. Perché non solo non abbiamo mai risolto il problema del conflitto di interessi, ma non abbiamo neanche fatto tesoro di quello che abbiamo vissuto.

 

Testi raccolti da Lorenzo Giarelli

Conte non si candida: “Resto tra la gente”. Colle: caos giallo-rosa

Ci aveva davvero riflettuto, era quasi pronto a candidarsi. Ma poi Giuseppe Conte ha capito che lo aspettavano al varco per abbatterlo, con Carlo Calenda primo cacciatore nella sua riserva, e con lui una folla di aiutanti, da Matteo Renzi a tanto centrodestra, e vai a fidarti di certi dem o perfino di qualche grillino. Ecco perché ieri sera in conferenza stampa a Montecitorio, il presidente del M5S ha detto no, grazie: “Ho declinato la proposta di Enrico Letta e del Pd di candidato nelle elezione suppletive per la Camera di Roma”.

Non correrà nel collegio di Roma Centro, lasciato libero dal sindaco dem Roberto Gualtieri, che gli hanno offerto più volte, e questa sembrava quella buona. Perché Letta – ma anche Nicola Zingaretti, raccontano – lo volevano in Parlamento, innanzitutto per controllare da vicino gli agitatissimi gruppi parlamentari dei Cinque Stelle, appena in tempo per le votazioni per il Quirinale, visto che per il seggio vacante si voterà il 16 gennaio. Meglio averlo lì, e questo lo pensavano anche diversi 5Stelle: “Se Giuseppe resta fuori per diversi dei nostri sarà più facile andare per conto proprio nel voto segreto”. Ma alla fine Conte si è ritratto, dopo una telefonata con il segretario del Pd al quale ha spiegato le sue ragioni. L’altro ha capito, senza insistere troppo. “Dopo un nuovo supplemento di riflessione, ho capito che ho ancora molto da fare per il M5S, non mi è possibile dedicarmi ad altro”, ha sostenuto Conte. Vuole dedicarsi alla nuova struttura del Movimento, “e voglio continuare a viaggiare per l’Italia”, insomma portare avanti il suo tour. Però a pesare è stato soprattutto altro, il Calenda che ha promesso di sfidarlo in una zona dove è fortissimo. E poi vari segnali, da quelli del centrodestra romano – “vado a fare volantinaggio per Calenda” prometteva il forzista Giro – fino alle frasi di alcuni dem (“Evitiamo di usare il collegio di Roma per fare le primarie interne al campo largo di centrosinistra” avvertiva Tommaso Nannicini). Quindi, niente. Piuttosto, una conferenza stampa per presentare i nuovi comitati del M5S che andranno in votazione nel fine settimana, 85 incarichi per placare i parlamentari. Ma i gruppi senza di lui nel Palazzo esploderanno sul Quirinale? “Non credo che la mia presenza in Parlamento sia necessaria: anche se non eletto ciò non mi impedirà di partecipare da protagonista all’elezione” giura l’ex premier. Anzi, “il M5S sarà la forza più compatta nell’affrontare questo passaggio”. Ottimista, forse, il Conte che parla così di Silvio Berlusconi: “Non lo voteremo per il Quirinale, ma gli fa onore la sua posizione sul Reddito di cittadinanza”. Sillabe che sono un segnale sempre in vista del Colle, “perché bisogna parlare anche con FI, non lasciarla al Pd” traducono dal M5S.

A pochi passi da dove Conte annuncia il suo no, al Tempio di Adriano in piazza di Pietra, c’è Carlo Calenda che presenta il libro di Marco Bentivogli. “Non ce l’ho con Conte, ma penso che sia un fatto essenziale per la politica italiana che il M5S scompaia e che non metta mai più piede a Roma”, dice. E non risparmia Letta: “Prima di combinare un altro macello facendosi dire di no da Conte, possiamo sentirci 5 minuti?”. Sulla propria corsa è ambiguo. L’annuncio ha ottenuto il suo effetto. In campo potrebbe esserci Bentivogli. Nel Pd in molti se la prendono con il segretario, accusato di aver fatto una mossa azzardata.

In gioco a questo punto c’è l’alleanza. Al Nazareno, a caldo, non mettono fuori il leader di Azione, ma il tema esiste. Tanto è vero che lui pensa già a correre al centro da solo alle prossime elezioni. O, chissà, con Renzi e Coraggio Italia. Sul seggio di Roma 1 è tutto da rifare. Il Pd pensa a Enrico Gasbarra, Cecilia D’Elia (favorita) o Annamaria Furlan.

I No Vox

Ormai, in questo paese di pazzi, basta un nonnulla per essere iscritti ai No Vax pur avendo in corpo tutti i vaccini su piazza. Ma vale la pena di correre il rischio, quando sono in gioco valori un po’ più importanti e durevoli di una puntura: il diritto di manifestare liberamente il pensiero e il diritto-dovere a un’informazione senza autorizzazioni né censure. Va di moda, fra le grandi firme, teorizzare e addirittura vantare il bavaglio ai No Vax, categoria mefistofelica che inzeppa in un unico girone infernale anche chi critica il Green pass per lavorare e obietta sul vaccino ai bambini. Viene il dubbio che questi insigni colleghi, fra cui due direttori di tg (ma la Maggioni non intervistò quel gentiluomo di Assad?), si siano scordati le basi del nostro sporco mestiere. Che non è un collegio per educande né un catechismo delle virtù, ma il racconto del mondo così com’è, non come dovrebbe essere. Il cronista parla con tutti, coi santi e coi diavoli (molto più divertenti), poi scrive tutto. Nel 1923 Giulio De Benedetti, sulla Gazzetta del Popolo, intervistò il 34enne Adolf Hitler, che gli anticipò il suo folle programma: “purezza della razza, abolire la democrazia, distruggere socialisti ed ebrei”. Gli pose tutte le domande e, se qualcuno avesse letto le risposte, anni dopo si sarebbe risparmiato tanti tartufeschi stupori. Montanelli intervistò, fra gli altri, il dittatore Francisco Franco e il capomafia Calogero Vizzini. La Fallaci l’ayatollah Khomeini e Gheddafi. Biagi lo stesso Gheddafi, Sindona, Liggio, Buscetta e il terrorista nero Delle Chiaie. Pansa il principe golpista Borghese. Joe Marrazzo i boss Piromalli e Cutolo. Zavoli e la Rossanda i brigatisti rossi.

Quindi si può, anzi si deve intervistare chiunque, specie per scandagliare i meandri del Male. L’abbiamo sempre sostenuto, difendendo la Leosini per le interviste “maledette” ad assassini di ogni risma, e la Lucarelli per il colloquio con Ciontoli sul delitto Vannini. Abbiamo dato ragione pur a Vespa, attaccato per un raro lampo di servizio pubblico con l’intervista a Riina jr.. E citiamo questi fior di criminali non per equipararli ai No Vax, che non violano alcuna legge finché i vaccini sono facoltativi. Ma per ricordare ai “No Vox” che, togliendo la voce ai No Vax, non diventano più buoni: rendono solo un pessimo servizio ai cittadini, chiudendo occhi e orecchi su un fenomeno mondiale di milioni di persone. Il fatto che sia un fenomeno negativo, per i danni che arreca alla salute (anzitutto di chi ne fa parte), non giustifica il silenziatore, anzi deve moltiplicare inchieste, interviste e curiosità. Per capire dove sbagliano i No Vax, ma anche i Sì Vax che non riescono a convincerli. O s’illudono di farlo fingendo che non esistano.

“In ‘Cops 2’ ne abbiamo per tutti: dalla polizia ai facili perbenisti”

“I social hanno ammazzato le risate, ma la commedia italiana non è progressista”. Questa sera e il 13 dicembre su Sky Cinema Uno arriva Cops 2 – Una banda di poliziotti, le nuove avventure del commissariato di Apulia: alla regia c’è il riconfermato Luca Miniero. E torna il cast corale con Claudio Bisio, Pietro Sermonti, Giulia Bevilacqua, Francesco Mandelli, Guglielmo Poggi e Dino Abbrescia.

Luca Miniero, che serie è Cops 2 – Una banda di poliziotti?

In senso tecnico una collection, due film da cento minuti, ma hanno anche elementi orizzontali, dunque, serialità. Mischio i generi, comico, demenziale, ispirandomi al thriller americano, non alla commedia classica italiana.

L’indimenticabile Scuola di polizia, vero?

Per i contenuti, ma dal punto di vista visivo Brooklyn Nine-Nine: abbiamo aspirato a quella perizia registica.

Nella seconda stagione in sceneggiatura la affianca il giallista Sandrone Dazieri: risultato?

La sua conoscenza del noir ha reso più solida la struttura dello script, sicché ci siamo concessi il lusso di improvvisare, di lasciarci andare.

“Commissario, questo è il motivo per cui siamo entrati in polizia. (Quale?) Sparare liberamente alla gente”. Con lasciarsi andare intende questo?

È la battuta più forte della serie, concordo. Ma ne abbiamo per tutti: la polizia, il perbenismo, il vittimismo della comunità gay. Ovviamente, chiamandosi Cops i poliziotti sono quelli più presi di mira.

La battuta era scritta o l’ha improvvisata Mandelli?

Ce l’ha regalata Francesco sul set, ma avendola conservata al montaggio ne prendo la paternità.

La Santa de La grande bellezza, Giusi Merli, qui si scopre profana: “Bacialo, coglione”, impugnando il crocefisso.

La battuta non fa ridere di per sé, e provinando me ne sono accorto: diverte per come la dice lei, freddamente, per questo l’ho scelta. Che sia l’alto di Sorrentino o il mio basso, Giusi è sempre efficace.

Il Gay Pride ad Apulia: esigenza poetica o committenza civile?

Chi è a favore del ddl Zan e chi no, provax e novax, interisti e milanisti, Pisa e Livorno: indipendentemente dall’importanza del tema, nel confronto noi italiani mettiamo la stessa foga. Qui il nostro Tommaso provocatoriamente organizza il Pride nel giorno della processione: non bandiera liberatoria, ma conflitto basso.

Si fa più fatica dopo il Covid a intrattenere il pubblico?

Le corde comiche del Paese non le ha indebolite la pandemia, bensì due fattori: i social, che hanno frammentato il divertimento facendo della commedia qualcosa di faticoso da sopportare, e la corrente enorme disponibilità cinematografica, che ha svilito il valore del singolo film.

Se ne esce, come?

Bisogna fare film rigorosi dal punto di vista della regia, che facciano ridere è meno importante: le commedie sono sciatte di natura, giacché si affidano al verbale, ma oggi non può più essere così.

Nel 2002 il suo primo lungometraggio, Incantesimo napoletano: oggi ci sta sotto l’intero audiovisivo italiano, o sbaglio?

Napoli ha grande energia e Sorrentino, che apprezzo assai, e Martone la tengono viva: dal punto di vista cinematografico vale Roma. Ma non ravviso qui e ora miglioramenti profondi, Napoli è sempre stata così, o ci siamo dimenticati Troisi?

Con Paolo Genovese non firma una regia dal 2008: si è rotto un sodalizio.

Io interessato più alla tecnica, Paolo al sentimentale, le diverse anime c’erano già. Non c’è stato un conflitto, ma un rapporto come il nostro umanamente mi mancherà per tutta la vita.

Dall’exploit di Benvenuti al Sud (2010) e Benvenuti al Nord (2012) sono passati dieci anni: è cambiato di più Miniero o il sistema cinema tricolore?

Non il mio modo di farlo, ma il cinema in Italia: la sala è meno centrale, l’offerta ingente e meno esclusiva. Volevamo l’industria? Eccola, l’hanno fatta le piattaforme: molti più film, anche belli, ma non ne ricordi nemmeno il titolo.

E gli autori?

Esiste il film che hai realizzato, non più l’autore, con il risultato che si moltiplicano le occasioni, ma non ci sono più le carriere. Lo dico contro me stesso, il sistema è più aperto, però che fine hanno fatto i curricula?

Nel 2018 ha realizzato Sono tornato, soggetto Benito Mussolini: gli è mancato il successo, non l’attualità. Ma il cinema italiano è davvero antifascista?

Magari fascista no, però non sempre è progressista. Perché se non ti voti all’innovazione, di immagine e immaginario, rischi: non più il ventennio, ma la pregiudizialità di una società che si accanisce contro i più deboli, quello sì.

Materie prime. Ecco la tempesta perfetta: boom dei consumi, aumento prezzi e nodo infrastrutture

Dal rame al petrolio, dal ferro al caffè, il forte rialzo delle materie prime registrato con lo scoppio della pandemia Covid-19 non ha risparmiato nessuno. Le percentuali di crescita sono arrivate anche a tre cifre, toccando in alcuni casi livelli di record di prezzo, innescando una crescita della domanda talmente elevata da non soddisfare la richiesta. Così viene spiegato in maniera spicciola lo stravolgimento di un mercato da sempre considerato di nicchia che, tuttavia, sta solo vivendo l’inizio di un “superciclo” rialzista delle materie prime, cioè un lungo periodo nel quale i prezzi rimangono decisamente al di sopra della loro tendenza storica, ma anche perché condizionato dalle pressioni inflazionistiche, dal ruolo delle politiche monetarie e dalla competizione tra Usa e Cina. Insomma, le tendenze delle materie prime, fin qui snobbate dai più, stanno invece condizionando non solo l’economia, ma anche la politica e lo società. Un monito che dall’inizio della pandemia ha lanciato Gianclaudio Torlizzi, esperto del mercato di materie prime ed energetiche e direttore generale della società di consulenza finanziaria T-Commodity, e che ora è diventato un libro: Materia Rara, come la pandemia e il Green Deal hanno stravolto il mercato delle materie prime, edito da Guerini e Associati.

Torlizzi spiega che questa crisi pandemica non può essere associata a quella finanziaria del 2008. La differenza più evidente è nello stimolo fiscale e monetario attuato dai governi e dalle banche centrali (32 mila miliardi di dollari) che ha portato a un forte aumento dell’offerta di moneta che ora, con la ripresa ora dell’attività economica, ha spinto la crescita del comparto delle materie prime, il cui forte rialzo dei prezzi ha posto le basi per il marcato aumento inflazionistico. Ma come tutti i “supercicli”, anche questo delle materie prime non si spiega solo con un blackout tra domanda e offerta: è il settore della logistica che ha iniziato a rappresentare un mix esplosivo. Subito dopo il primo lockdown, gli operatori hanno iniziato a ordinare nuove navi e nuovi container che però arriveranno non prima di un anno e mezzo. Mentre gli attuali costi di nolo dei container hanno superato 20 mila dollari contro i 3 mila dell’estate 2020. Una tensione che ha fatto emergere la questione dell’arretratezza della maggior parte dei terminal mondiali.

Lo sguardo di Torlizzi si sofferma poi sull’impatto della transizione energetica tra le grandi potenze per contrastare il cambiamento climatico premiando le materie prime, come i metalli, per attuare la decarbonizzazione. Ma è evidente il corto circuito che si è creato: i prezzi del petrolio invece di diminuire, con lo scoppio della pandemia sono aumentati anche per il calo dell’offerta prevista a causa delle politiche ambientali più stringenti. Insomma, una tempesta perfetta ancora in corso i cui effetti sulla vita di famiglie e imprese rappresentano per Torlizzi l’incognita maggiore con cui doversi ancora confrontare.

 

Materia rara Gianclaudio Torlizzi Pagine: 176 – Prezzo: 19,50 – Editore: Guerini e associati