Sappiamo che il budget di carbonio a nostra disposizione è quasi esaurito. Per avere due terzi di possibilità di stabilizzare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, il mondo non può emettere più di 420 gigatonnellate di CO2. Seguendo l’attuale traiettoria questo budget verrà esaurito nel 2030. Greta Thunberg ha parlato di “bla bla bla” perché gli obiettivi di decarbonizzazione assunti dai governi alla COP26 non sono sufficienti a far crollare i consumi di carbone, petrolio e gas naturale da subito. Il cantore della globalizzazione Thomas Friedman ha pubblicato sul New York Times un editoriale per dire che per risolvere la crisi climatica servono meno Greta e più Father Profit e New Tech (modello Elon Musk). Il ministro della Transizione ecologica Cingolani ha rincarato la dose affermando che anche a scuola bisogna dedicare “meno tempo alle guerra puniche e più alla cultura tecnica”.
Il problema è che tutte le tecnologia di cui si parla oggi – motori elettrici, pannelli fotovoltaici, idrogeno, nucleare più o meno tascabile – sono conosciute da decenni, se non da una secolo. La scienza da sola informa, ma non guida: dagli anni 50 già si conosceva l’impatto dell’aumento della CO2 sul riscaldamento globale; dagli anni 70 le compagnie petrolifere sapevano di causare il riscaldamento globale; dal 1992 le Nazioni Unite avevano invocato una riduzione delle emissioni di CO2 del 20% nel 2005 rispetto al 1988. Eppure le emissioni sono aumentate in quegli anni del 34%. Father Profit e New Tech hanno preferito carbone, petrolio e gas naturale facendo passare negli ultimi 40 anni la concentrazione atmosferica di C02 da 330 parti per milione (ppm) a 410.
Questo perché nessun regime energetico è stato solo il prodotto di innovazioni tecnologiche, ma del combinato di interventi governativi, rapporti di forza tra classi sociali e tra comunità nazionali, e cambiamenti culturali. L’avvento del carbone nella produzione di cotone durante la rivoluzione industriale inglese era trainato dalla necessità di manodopera a basso costo nelle città. L’espansione del petrolio fu incentivata dalle necessità dell’industria bellica, da giganteschi piani infrastrutturali pubblici come la costruzione di autostrade, nonché dal controllo quasi-imperiale sui giacimenti in Venezuela e nel Golfo Persico.
La sostanza delle misure prese nell’Unione europea per la “transizione energetica” fanno leva su Father Profit e New Tech. Lo fanno con incentivi a consumi più sostenibili (tipo auto elettriche), con la “finanzia verde”, con la tassazione del carbonio e il mercato delle emissioni (ETS), con il supporto pubblico alla ricerca privata. Ammesso e non concesso che spingano piani di completa riconversione industriale (piuttosto che spin off verdi delle stesse aziende), tutte queste misure di mercato non scongiurano l’aumento dei costi dell’energia per i cittadini e rilanciano gli attuali rapporti di forza sociali. Mirano a garantire profitti agli investitori privati che invece dovrebbero sobbarcarsi investimenti monumentali.
La crisi energetica di questi mesi e la crisi ambientale sono collegate perché piani come il Green Deal europeo non arginano i rincari. ll Gestore dei mercati energetici ha registrato per le forniture del 24 novembre il prezzo di 289 euro per mille kWh, il prezzo medio più alto da quando nel 2004 è nato il mercato dei chilowattora. Solo l’aumento delle bollette elettriche a livello Ue (150 miliardi nel 2021) vale due terzi del totale delle erogazioni a fondo perduto del Recovery plan europeo ed è 15 volte i fondi stanziati per la “transizione giusta”. Tutti i governi provano a tagliare le bollette ricorrendo alla fiscalità generale.
Siamo di fronte a una “crisi energetica” la cui soluzione passa per scelte internazionali, europee e nazionali. Sul piano internazionale con un dialogo cooperativo per ridurre in modo coordinato la produzione di idrocarburi, garantendone un prezzo stabile. Sul piano europeo serve una profonda revisione del libero mercato che è incompatibile con un’offerta stabile di energia a prezzi accessibili per i più poveri e la sostenibilità delle imprese energetiche (in Gran Bretagna ne sono fallite ben 30). Dovranno crearsi joint ventures pubbliche e private nella ricerca e nelle sviluppo di nuove tecnologie, nonché collaborazioni su scala europea nelle infrastrutture. Sul piano nazionale occorre comprendere che l’elettricità, come l’acqua, è un servizio pubblico essenziale, non un prodotto commerciale. Le forniture dovranno tornare ad essere erogate in gran parte da comunità locali, imprese a maggioranza pubblica e cooperative di lavoratori e utenti, specie ora che la transizione richiede enormi investimenti.