La crisi climatica non si ferma solo con profitti e tecnologie

Sappiamo che il budget di carbonio a nostra disposizione è quasi esaurito. Per avere due terzi di possibilità di stabilizzare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, il mondo non può emettere più di 420 gigatonnellate di CO2. Seguendo l’attuale traiettoria questo budget verrà esaurito nel 2030. Greta Thunberg ha parlato di “bla bla bla” perché gli obiettivi di decarbonizzazione assunti dai governi alla COP26 non sono sufficienti a far crollare i consumi di carbone, petrolio e gas naturale da subito. Il cantore della globalizzazione Thomas Friedman ha pubblicato sul New York Times un editoriale per dire che per risolvere la crisi climatica servono meno Greta e più Father Profit e New Tech (modello Elon Musk). Il ministro della Transizione ecologica Cingolani ha rincarato la dose affermando che anche a scuola bisogna dedicare “meno tempo alle guerra puniche e più alla cultura tecnica”.

Il problema è che tutte le tecnologia di cui si parla oggi – motori elettrici, pannelli fotovoltaici, idrogeno, nucleare più o meno tascabile – sono conosciute da decenni, se non da una secolo. La scienza da sola informa, ma non guida: dagli anni 50 già si conosceva l’impatto dell’aumento della CO2 sul riscaldamento globale; dagli anni 70 le compagnie petrolifere sapevano di causare il riscaldamento globale; dal 1992 le Nazioni Unite avevano invocato una riduzione delle emissioni di CO2 del 20% nel 2005 rispetto al 1988. Eppure le emissioni sono aumentate in quegli anni del 34%. Father Profit e New Tech hanno preferito carbone, petrolio e gas naturale facendo passare negli ultimi 40 anni la concentrazione atmosferica di C02 da 330 parti per milione (ppm) a 410.

Questo perché nessun regime energetico è stato solo il prodotto di innovazioni tecnologiche, ma del combinato di interventi governativi, rapporti di forza tra classi sociali e tra comunità nazionali, e cambiamenti culturali. L’avvento del carbone nella produzione di cotone durante la rivoluzione industriale inglese era trainato dalla necessità di manodopera a basso costo nelle città. L’espansione del petrolio fu incentivata dalle necessità dell’industria bellica, da giganteschi piani infrastrutturali pubblici come la costruzione di autostrade, nonché dal controllo quasi-imperiale sui giacimenti in Venezuela e nel Golfo Persico.

La sostanza delle misure prese nell’Unione europea per la “transizione energetica” fanno leva su Father Profit e New Tech. Lo fanno con incentivi a consumi più sostenibili (tipo auto elettriche), con la “finanzia verde”, con la tassazione del carbonio e il mercato delle emissioni (ETS), con il supporto pubblico alla ricerca privata. Ammesso e non concesso che spingano piani di completa riconversione industriale (piuttosto che spin off verdi delle stesse aziende), tutte queste misure di mercato non scongiurano l’aumento dei costi dell’energia per i cittadini e rilanciano gli attuali rapporti di forza sociali. Mirano a garantire profitti agli investitori privati che invece dovrebbero sobbarcarsi investimenti monumentali.

La crisi energetica di questi mesi e la crisi ambientale sono collegate perché piani come il Green Deal europeo non arginano i rincari. ll Gestore dei mercati energetici ha registrato per le forniture del 24 novembre il prezzo di 289 euro per mille kWh, il prezzo medio più alto da quando nel 2004 è nato il mercato dei chilowattora. Solo l’aumento delle bollette elettriche a livello Ue (150 miliardi nel 2021) vale due terzi del totale delle erogazioni a fondo perduto del Recovery plan europeo ed è 15 volte i fondi stanziati per la “transizione giusta”. Tutti i governi provano a tagliare le bollette ricorrendo alla fiscalità generale.

Siamo di fronte a una “crisi energetica” la cui soluzione passa per scelte internazionali, europee e nazionali. Sul piano internazionale con un dialogo cooperativo per ridurre in modo coordinato la produzione di idrocarburi, garantendone un prezzo stabile. Sul piano europeo serve una profonda revisione del libero mercato che è incompatibile con un’offerta stabile di energia a prezzi accessibili per i più poveri e la sostenibilità delle imprese energetiche (in Gran Bretagna ne sono fallite ben 30). Dovranno crearsi joint ventures pubbliche e private nella ricerca e nelle sviluppo di nuove tecnologie, nonché collaborazioni su scala europea nelle infrastrutture. Sul piano nazionale occorre comprendere che l’elettricità, come l’acqua, è un servizio pubblico essenziale, non un prodotto commerciale. Le forniture dovranno tornare ad essere erogate in gran parte da comunità locali, imprese a maggioranza pubblica e cooperative di lavoratori e utenti, specie ora che la transizione richiede enormi investimenti.

Pnrr: se le mega opere ferroviarie regalano più costi che benefici

La situazione del Pnrr nel campo delle infrastrutture di trasporto è paradossale: per ragioni principalmente ambientali, il piano finanzia quasi solo infrastrutture ferroviarie, che sono totalmente a carico dello Stato e, a differenza delle strade, generano a valle ulteriore spesa corrente. Se anche solo una parte dell’investimento dovesse essere pagato dagli utenti, il loro numero si ridurrebbe di molto. Cioè gli utenti del modo ferroviario manifestano per questo servizio una “disponibilità a pagare” davvero ridotta. Le ragioni ambientali sono dichiarate dal Piano, ma non c’è alcuna analisi per le singole opere. Non sono note neppure le previsioni di domanda e opere con poco traffico servono poco anche all’ambiente, oltre che allo sviluppo economico.

Vediamo alcuni numeri: nel Pnrr ci sono 25 miliardi per costruirne parti di tratte ferroviarie, poi ne occorrono altri 37 da trovare per completarle, e quindi “a costo pieno”, dipende da come staranno dopo il 2026 le finanze italiane. Mancando analisi ufficiali che giustifichino questa nuova ondata di grandi opere “berlusconiane”, una istituzione privata non-profit, “Bridges Research Trust”, ne ha prodotte alcune con risorse proprie, al fine di aprire un dibattito politico su queste scelte. La metodologia adottata è quella impiegata a livello internazionale per le analisi costi-benefici, che non dice sempre dei sì, e forse per questo poco gradita. Lo strumento modellistico per le previsioni di domanda è stato sviluppato recentemente, è in uso anche al Politecnico di Milano e si appoggia a una banca-dati molto dettagliata e aggiornata, forse migliore di quella del ministero competente (Mims). I primi risultati che qui si presentano riguardano 4 progetti ferroviari, per un totale di 30 miliardi.

La Salerno-Reggio Calabria

Il progetto di gran lunga il più rilevante tra quelli di trasporto è la nuova linea ferroviaria AV (alta velocità) Salerno-Reggio Calabria, con un costo minimo a preventivo di 22 miliardi€ (a consuntivo si vedrà). La linea affiancherebbe quella esistente, usata al massimo (vicino ai maggiori centri) al 50 % della capacità e recentemente rimodernata. La nuova infrastruttura AV, finiti gli ulteriori lavori in corso su quella esistente, farà risparmiare ben mezz’ora di tempo. Assumendo le previsioni più ottimistiche possibili, che cioè tutto il traffico aereo tra la Sicilia e la Campania e tra la Calabria e il Lazio sia acquisito dalla ferrovia, si prevede che la nuova linea sarà percorsa da una quarantina di treni veloci al giorno, meno del 15% della sua capacità. Farà risparmiare circa 180.000 tonnellate nette di CO2 all’anno. Con i soli costi di investimento si potrebbero abbattere in altri settori 440 milioni di tonnellate di CO2. I costi risultano essere circa 5 volte maggiori dei benefici sociali (risparmi di tempo, ambiente ecc.) che il progetto genererà. Il progetto di ammodernamento della linea esistente, dal costo di 500 milioni, supera invece l’analisi costi-benefici seppure non con ampio margine.

La Orte-Falconara

Un secondo progetto importante è la “trasversale” Orte-Falconara, che costerà circa 4 miliardi. Già i centri collegati generano qualche perplessità sulla domanda servibile (si ricorda che le ferrovie hanno forti economie di scala, cioè se hanno poca domanda i costi per la collettività di ogni passeggero schizzano alle stelle). E i numeri confermano: con circa 2.000 passeggeri al giorno attuali, e un centinaio acquisiti con il nuovo progetto, i benefici sociali sono un cinquantesimo dei costi. I risultati ambientali sono addirittura negativi: il progetto emette in fase di costruzione più CO2 di quanta ne riesce a risparmiare con il poco traffico che toglie alla strada. Cioè genera un danno netto all’ambiente e grazie a dei soldi pubblici (d’altronde più di un terzo dall’AV spagnola ha dato questo risultato).

Ritocchi all’“Adriatica”

Un terzo progetto, dal costo di un po’ meno di 2 miliardi€, riguarda una serie di miglioramenti sulla linea adriatica da Bologna a Brindisi e qui i risultati, come spesso accade in questi casi, sono positivi: i benefici sociali superano i costi, anche se non di moltissimo. E questo anche mettendo in conto che dal punto di vista ambientale le emissioni di cantiere superano, seppure di poco, i risparmi possibili. In termini di metodo, va notato che non sempre l’ambiente è la variabile dominante (anche se qui si sono usati criteri europei davvero severi).

Restiling della Tirrenica

L’ultimo progetto riguarda interventi di ammodernamento tecnologico sulla linea costiera tirrenica (1 miliardo). Qui sono prevedibili modesti benefici ambientali netti e il totale dei benefici risulta di poco inferiore ai costi. Il bilancio complessivo potrebbe risultare più positivo nel caso in cui l’intervento determinasse uno spostamento di una parte dei flussi di traffico ferroviario tra Torino e Roma oggi istradati via Milano e Bologna soprattutto grazie ai benefici della minor congestione sull’asse principale.

Le analisi del progetto di ammodernamento della linea esistente Salerno – Reggio Calabria, confrontato con quello di una nuova linea AV sono già esaminabili in dettaglio sul sito di BRT dove verranno rese disponibili anche quelle degli altri progetti. Lo scopo di questa onerosa ricerca, fatta “in supplenza” del ministero, è quello di sollevare dubbi su una strategia di investimento datata (il cemento come strumento di crescita economica), onerosa per le casse pubbliche, e priva di analisi adeguate di supporto.

Il governo ovviamente può ignorare, argomentando, i risultati di queste analisi. Ma non è legittimato a non farne di sue.

Industrie e banche, l’utilizzo già dilaga e amplifica i rischi

Come il pharmakon dei greci, l’intelligenza artificiale per i mercati è al contempo rimedio e veleno, motore e guasto. La sua progressiva adozione sta cambiando l’industria e la finanza, ma pone rischi crescenti e pervasivi in ambito economico, sociale e politico. Secondo l’ultima edizione dell’AI Index Report, pubblicata a marzo dall’Università di Stanford, l’anno scorso gli investimenti globali in intelligenza artificiale sono aumentati del 40% rispetto al 2019 a 67,9 miliardi di dollari. La pandemia ha causato il consolidamento degli operatori del settore e l’aumento di fusioni e acquisizioni, cresciute del 121,7% dal 2019.

Nonostante il Covid c’è stato un aumento del 9,3% degli investimenti privati nell’AI, superiore a 2018 e 2019 (5,7%), sebbene le startup siano diminuite per il terzo anno consecutivo. Dal 2010, quando erano di 1,3 miliardi, i finanziamenti alle aziende di nuova costituzione hanno segnato un tasso di crescita medio annuo superiore al 40%. Anche l’Italia è presente in questo comparto, ma per ora agli ultimi posti delle classifiche internazionali per investimenti e occupazione.

L’adozione dell’AI dilaga. Le funzioni in cui le aziende hanno adottato maggiormente le sue applicazioni variano in base al loro settore. Il maggior utilizzatore industriale è il comparto automobilistico, mentre nella finanza l’intelligenza artificiale è usata soprattutto per gestire i rischi. Un sondaggio condotto per il World Economic Forum del 2020 ha mostrato che la grande maggioranza degli attori della finanza mondiale (85%) utilizza già qualche forma di AI. Le sue applicazioni nel settore finanziario stanno anche cambiando il tipo di attori che popolano questi mercati e i loro modelli di business, come con gli intermediari finanziari che si affidano alle aziende di tecnologie digitali (fintech) e alle multinazionali Big tech.

La storia delle ultime crisi globali, come quella iniziata nel 2008, dimostra che per la sua interconnessione il settore finanziario può produrre forti effetti economici su altri comparti, ad esempio in caso di crolli dei mercati finanziari. Ecco perché le autorità di regolazione di tutto il mondo hanno già notato che l’interazione tra AI e settore finanziario può avere conseguenze profonde e importanti. Ad esempio, il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria nel 2018 ha pubblicato un rapporto che incoraggia le banche a sfruttare l’intelligenza artificiale come tecnologia per aumentare l’efficienza. Tuttavia, le autorità hanno sottolineato che anche le sue applicazioni nel settore finanziario possono indurre alcuni rischi specifici. L’avvento dell’AI richiederà un maggiore controllo, ad esempio quando la sua applicazione diventerà la regola in alcuni segmenti finanziari che non sono sottoposti ad alcuna regolamentazione, come il sistema bancario ombra (shadow banking). Data la sua gigantesca dimensione (50.900 miliardi di dollari nel 2018, il 13,6% di tutte le attività finanziarie globali secondo gli ultimi dati disponibili), proprio lo shadow banking è una delle principali fonti di rischi sistemici per la stabilità economica mondiale.

Nonostante le crescenti preoccupazioni associate all’intelligenza artificiale, gli sforzi per affrontare questi problemi sono però limitati a una minoranza di aziende. Questioni come l’equità dell’AI continuano a ricevere relativamente poca attenzione e nel 2020 il numero delle imprese che considera rilevanti i pericoli di questo strumento è calato. La sicurezza informatica rimane l’unico rischio considerato rilevante dagli utilizzatori. Nella corsa al guadagno, manager e azionisti vedono solo la possibilità di realizzare maggiori profitti e dimentichino i rischi. Il Titanic dell’economia mondiale accelera, ma l’iceberg dell’AI incombe sulla sua rotta.

Intelligenza artificiale e dati, gli Stati provano a fare i furbi

C’è movimento in campo digitale intorno a Bruxelles: dopo solo un anno, manca l’ultimo miglio per l’approvazione definitiva del Data Governance Act (Dga), primo tassello per la strategia europea sull’economia dei dati che ne normerà raccolta, scambio e utilizzo. Parallelamente si fanno passi avanti nei negoziati sul regolamento per l’Intelligenza Artificiale (AI Act): è il passo successivo, l’AI si nutre infatti prima di tutto di dati. Eppure, eterno ritorno, ogni volta si prova a indebolire le tutele per gli utenti. Sta accadendo ora, durante le prime discussioni e, senza un freno, continuerà con l’indebolimento dei limiti sul riconoscimento facciale per le forze dell’ordine, la discrezionalità degli Stati e le agevolazioni a Big Tech. Ma andiamo nel dettaglio.

Passano gli anni ma gli assiomi del settore digitale e tecnologico sono gli stessi: le norme generali devono nascere in un contesto internazionale e (luogo comune) liberare l’innovazione dai “lacci e lacciuoli” delle leggi che la frenano. Il campo di applicazione di questo ormai trito ritornello riguarda la profilazione degli utenti a fini pubblicitari, la raccolta delle informazioni per educare gli algoritmi e insegnargli a prendere decisioni sempre più simili a quelle dell’uomo, i database e gli strumenti di sorveglianza delle forze dell’ordine, le soluzioni per rendere le città più efficienti, le opzioni “smart” degli oggetti di uso quotidiano e così via. L’Europa, per la prima volta, sta cercando di armonizzare l’intero ecosistema che compone il mercato digitale – anche con l’obiettivo di favorire la concorrenza e lo sviluppo di aziende europee – con diverse iniziative legislative: dati, antitrust, tecnologia. E deve fare in fretta: la crescita esponenziale dei servizi online durante la pandemia e le prospettive future lo rendono ormai inevitabile. Ma mentre i regolamenti vengono approvati in tempi quasi record, lo stesso accade anche con i tentativi di ammorbidirli.

La prova plastica sta nei primi negoziati in corso in Europa sulla stesura dell’AI Act, il regolamento sull’Intelligenza artificiale. Ad aprile la Commissione Europea ha pubblicato la sua proposta di 85 articoli che molte aziende considerano solo un nuovo peso. In breve, il regolamento prevede quattro livelli di rischio per le tecnologie con AI: 1) Inaccettabile: riguarda i casi in cui l’intelligenza artificiale è considerata una minaccia alla sicurezza e ai diritti fondamentali delle persone (riconoscimento biometrico in tempo reale, credito sociale, sistemi subliminali pericolosi); 2) Alto rischio: i casi in cui l’AI è usata per infrastrutture critiche (trasporti, istruzione, sicurezza dei prodotti, lavoro, servizi essenziali, frontiere, giustizia). Impone determinati standard di sicurezza, come registri per garantire tracciabilità e informazioni chiare così come la supervisione umana; 3) Rischio limitato: prevede solo obblighi specifici di trasparenza (per esempio se l’utente interagisce con un umano o un bot oppure se sta vedendo una immagine realizzata con deepfake). Infine, 4) Rischio minimo: libero uso di applicazioni semplici, come i videogiochi o i filtri antispam.

Su questo regolamento, lunedì scorso è stato diffuso dalla presidenza slovena il testo delle proposte del Consiglio Ue che, secondo le associazioni che lottano per la tutela degli utenti, pur con alcuni elementi positivi, prova già di fatto ad annacquare alcuni punti fondamentali. Dalla lettura delle 109 pagine del rapporto emerge che i Paesi dell’Ue chiedono di avere competenza esclusiva in materia di sicurezza nazionale e che i sistemi di intelligenza artificiale sviluppati per scopi militari siano esclusi dal campo di applicazione del regolamento, così come quelli sviluppati per ricerca e sviluppo scientifici. Un altro punto riguarda la definizione dei sistemi di intelligenza artificiale, per distinguerli meglio dai classici programmi software mentre in favore di Big Tech c’è la richiesta di escludere dalla categoria “ad alto rischio” i sistemi di “general purpose” (come ad esempio le “Api”) che vengono adattati da chi li usa (i clienti di Google&C, in sintesi) in base alle necessità di sviluppo dei loro servizi.

Ci sono poi criticità sul riconoscimento biometrico che la Commissione ammette per le forze dell’ordine, in tempo reale per terrorismo e reati gravi. La richiesta è che possano utilizzarlo anche attori che collaborano con esse, quindi aziende private che sono così libere di schedare i cittadini per conto delle forze dell’ordine. Sul Fatto avevamo già raccontato delle decine di casi, spesso molto vaghi, per cui veniva autorizzato, dal traffico di stupefacenti al rapimento di bambini ma anche truffe e raggiri. Adesso si aggiunge l’eventualità della protezione delle infrastrutture critiche. Pure i database delle forze dell’ordine potrebbero essere sottratti ai controlli obbligatori , così come la consultazione incrociata con altri.

Secondo il Consiglio Ue, inoltre, risultano ancora troppo vaghi i requisiti per identificare i sistemi ad alto rischio e sarebbe irrealistico pensare che gli Stati possano garantire trasparenza e tracciabilità sulle informazioni. “Un certo numero di delegazioni – si legge – ha sottolineato che, sebbene ciò dovrebbe essere previsto il più possibile, non dovrebbe essere un requisito assoluto”. Insomma: gli Stati puntano al ribasso e a mantenere il più possibile autonomia su aspetti fondamentali per l’industria e la sicurezza.

La società civile in questi giorni ha reagito attraverso una richiesta di revisione del regolamento sottoscritta da 115 organizzazioni. “Riconosciamo che i sistemi di intelligenza artificiale esacerbano gli squilibri strutturali di potere – scrivono – con danni che spesso ricadono sui più emarginati della società. In quanto tale, questa dichiarazione collettiva definisce l’appello della società civile verso una legge sull’intelligenza artificiale che metta in primo piano i diritti fondamentali”. Rilevano che c’è troppa rigidità e che i divieti e le tecnologie ad alto rischio possano essere aggiornate continuamente in linea con la loro rapida evoluzione. “Destinare ex ante i sistemi di intelligenza artificiale a diverse categorie di rischio non considera che il livello di rischio dipenda anche dal contesto in cui un sistema viene implementato e non può essere determinato completamente in anticipo”, scrivono. Sostengono la necessita di vietare qualsiasi tipo di tracciamento biometrico e predittivo e rilevano l’assenza di diritti e di vie “per fare ricorso agli individui quando sono influenzati negativamente dall’Ai, quindi la possibilità di chiedere un risarcimento per violazioni o eventuali danni generati da questi sistemi”. Infine, ancora una volta, rilevano che viene lasciata eccessiva discrezionalità agli Stati sul recepimento delle leggi e il ricorso a queste tecnologie nei diversi contesti: sarà valida anche per le sanzioni.

Ci sono comunque ancora un paio d’anni per aggiustare il tiro e la discussione in Parlamento si preannuncia molto calda se si considera che gli europarlamentari hanno già adottato una risoluzione contro la sorveglianza biometrica di massa. “Una posizione politica su questo tema è quindi già stata espressa – spiega Brando Benifei, europarlamentare (Alleanza progressista di Socialisti e Democratici) nonché relatore della norma – È ragionevole pensare quindi che su questo punto ci sia già una maggioranza”. Il capodelegazione del Pd segnala poi anche altri rischi: “Andrà affrontato il tema dell’uso dell’Intelligenza Artificiale sui luoghi di lavoro, non toccato nella proposta della Commissione, e si dovrà fare con tutte le parti sociali. Così come bisognerà lavorare sulle certificazioni per l’immissione dei prodotti che ricorrono all’Ai nel mercato interno”. La Commissione prevede infatti un fitto ricorso all’autocertificazione, con la possibilità di controlli di conformità in un secondo momento. “Bisogna anticiparli – spiega Benifei – soprattutto se si tratta di tecnologie che interessano i diritti fondamentali delle persone”.

Reddito di cittadinanza. La cattiva narrazione dei “divanisti” fannulloni

 

Vorrei parlare di Reddito di cittadinanza e di Reddito di emergenza. Sono ormai circa 3 milioni le famiglie che ricevono detta indennità senza effettuare alcun tipo di lavoro. Spesso, i percettori di tale indennità lavorano al nero, incentivando così anche l’evasione contributiva. Il governo dovrebbe anche vincolare le indennità a un lavoro effettivo di pubblica utilità. I percettori delle indennità potrebbero essere impegnati in lavori nei Comuni di residenza per la vigilanza presso scuole e per le strade cittadine, anche per segnalare quei numerosi casi di continuo abbandono dei rifiuti solidi urbani. Necessiterebbe utilizzare i percettori del Reddito di cittadinanza anche per coprire gli eventuali vuoti di organico nei Comuni, senza contare che il loro utilizzo servirebbe anche a ridurre i costi di gestione degli stessi Comuni.

Mario De Florio

 

Gentile De Florio, la narrazione dei ‘divanisti’, dei poveri come nullafacenti che non vogliono lavorare e che percepiscono il Reddito di cittadinanza, è ormai smentita dai dati. Mentre una marea di imprenditori, diversi politici e buona parte dell’opinione pubblica li definivano “fannulloni”, 540 mila beneficiari del Reddito di cittadinanza hanno trovato un lavoro mentre ricevevano il sussidio. Se questi si sommano a quelli che un’occupazione già ce l’avevano al momento in cui hanno chiesto il sostegno, il totale fa 720 mila. Insomma, al netto dei suoi difetti, che non sono le politiche attive, il Reddito di cittadinanza ha il merito di aver dato un po’ di respiro a qualche milione di italiani (troppo pochi comunque) negli anni della pandemia e aver mostrato che i centri per l’impiego non funzionano bene per tutti. Così come le modifiche sul reddito inserite in manovra sono ritenute pessime da tutti gli addetti ai lavori e da Chiara Saraceno che presiede il comitato di valutazione del reddito. Le proposte degli esperti sono state totalmente ignorate preferendo invece interventi che lasciano irrisolti tutti i principali problemi e ne creano di nuovi, introducendo “disposizioni palesemente assurde e inutilmente punitive” come il fatto che la seconda proposta vada accettata anche se è all’altro capo del Paese. Intanto numeri e dati restano l’arma migliore contro le cattive narrazioni.

Patrizia De Rubertis

MailBox

 

Perché nessuno parla del vaccino cubano?

Credo fermamente nei vaccini e nella scienza. Da tempo però mi faccio una domanda alla quale ho trovato solo rare risposte. Per quale motivo nessuno parla del vaccino cubano? Ho letto di una collaborazione tra Cuba e un gruppo di ricercatori italiani. In tempo di varianti e della vergogna di gran parte dei Paesi a basso reddito senza copertura vaccinale, vorrei qualche informazione su questo vaccino che mi sembra molto interessante. L’unico articolo trovato è sul Manifesto. Grazie come sempre da una affezionata lettrice.

Maria Grazia De Vivo

 

La strana scomparsa dell’aumento dell’Iva

Scusate, forse vista l’età (67 anni) mi sto rimbambendo quindi vi chiedo aiuto. Mi pare di ricordare che fino allo scorso anno, ogni volta che si avvicinava l’approvazione della legge di bilancio, una delle grandi incognite, che suscitava infinite discussioni, fosse il problema di disinnescare il sempre rinviato rischio di aumento dell’Iva (che incideva, ma posso sbagliare, per diversi miliardi). Che fine ha fatto?? Sparito?? Un altro miracolo di super Mario?? Se poteste chiarirmi ve ne sarei eternamente grato, perché potrei tornare a dormire, di notte.

Giovanni Medri

 

Una favola ingiusta sul pubblico impiego

Come ex dipendente pubblica, sono stanca di continuare ad ascoltare l’elenco di tutti quelli che sarebbero i lati negativi del lavoro pubblico, come se esistesse un unico comportamento generalizzato. Io ho lavorato per 20 anni come bidella e per lo meno nella struttura dove operavo, la Rodari di Torino, devo dire che il lavoro aumentava ogni anno di più, quando qualcuno andava in pensione: crescevano le aule e i vari spazi da pulire. Dopo ho lavorato per più di 20 anni in una grande biblioteca di Torino, Villa Amoretti: quante volte ho sentito dire che chi faceva quel lavoro leggeva un sacco di libri… In realtà, oltre a seguire prestiti e restituzioni, alcuni di noi si occupavano anche dell’organizzazione degli eventi culturali, oltre a compilare le statistiche. Io e qualche altro collega ci portavamo del lavoro da finire a casa, mai retribuito. Noi dipendenti comunali avevamo uno stipendio più basso del privato, non abbiamo mai avuto la 14sima, per cui le vacanze dovevamo farle uscire dalla stessa cifra mensile, non ci pagavano gli straordinari. Versavamo contributi più alti, perché saremmo andati in pensione col sistema retributivo. Un bel giorno, però, arrivò la legge Fornero che scelse giusto il mio anno: il 1952. Così andai in pensione a 62 anni, 43 di lavoro e l’ultimo anno conteggiato col contributivo. Quindi, di che privilegi stiamo parlando?

Giulia Motta

 

Non lasciamo a Sgarbi il ruolo del virologo

Vittorio Sgarbi, illustre esperto d’arte, quando viene interpellato in televisione, ribadisce di essersi vaccinato e pertanto sta tranquillo; se altri hanno evitato il vaccino sono fatti loro mentre a lui non gliene frega niente. La sua avversione per le mascherine è immutata: eppure potrebbe mettersene una con l’effigie significativa di una capra. I virologi di professione, che conoscono la materia ben più degli improvvisati virologi, suggeriscono di vaccinarsi però tenendo presente che l’immunità non sarà del 100%. E se la mancata vaccinazione prolunga il periodo di emergenza a soffrirne siamo tutti che peniamo per questa vita sacrificata. Ma poi, deve esserci un governo, un presidente del consiglio a deliberare o dobbiamo sostiturlo con un critico d’arte?

Antonio Fadda

 

Danneggiare l’ambiente ci serve per vivere?

La medaglia ha sempre due facce. Oggi l’italiano deve confrontarsi con la realtà del proprio portafoglio che si dimostra gonfio di tanta carta straccia. Dobbiamo maledire o ringraziare gli speculatori delle risorse energetiche che stanno approfittando per impoverire le masse? Inutile parlare dei danni e della speculazione politica che ha iniziato una campagna di guerra contro le energie verdi, meglio comprendere perché siamo una Società ridicola. Il nostro PIL è elevato, ci rende una potenza mondiale, ma quanto di ciò che produciamo è, non dico necessario, almeno utile? E quanto non danneggia l’ambiente? La bottiglia di plastica necessita di petrolio per produrla, ed energia elettrica dalla fonte al cliente e poi al riciclo: ma è proprio necessaria?

Emilio Baldrocco

Gigi (Marzullo) è proprio l’uomo giusto per rilanciare l’immagine di Babbo Natale

E se babbo Natale esistesse davvero? Sarebbe bellissimo vivere da adulti quel misto di attesa, di emozione, di magia che i bambini aspettano tutto l’anno. Ma se esistesse, chi sarebbe? Nell’immaginario collettivo babbo Natale è un vecchio buonissimo che porta doni e vive in Lapponia, un benefattore. Ma per fare il benefattore bisogna avere una certa tranquillità economica perché anche in Lapponia la vita costa, basta pensare al mangime per le renne! Forse potrebbe contare su una pensione, ma per avere una pensione bisogna aver versato dei contributi, quindi aver lavorato. Ma che lavoro potrebbe fare babbo Natale? Escluderei un impiego statale perché dovrebbe partecipare a un concorso, e se ti presenti vestito da babbo Natale non ti assume nessuno. Andrei più sulle libere professioni: avvocato, commercialista, gommista, ma per fare questi lavori occorrono delle capacità che lui non ha. Sarebbe un vecchio disoccupato, senza alcun reddito, con il vizio di portare regali ai bambini. Poi si sa, dopo un po’ le mode passano, e anche il suo personaggio fatalmente invecchierebbe, non sarebbe più una novità “…ma chi ancora quel vecchietto con le renne? No grazie, abbiamo già dato! “ Babbo Natale per sopravvivere dovrebbe rinnovarsi, andrebbe sostituito con qualcuno che possa contare sul gradimento del pubblico. E in questo senso la televisione potrebbe dare una mano, magari accostandolo a un altro personaggio della fantasia, tipo la Befana. “Babbo Natale e la Befana sorpresi in vacanza a Capri, è l’inizio di un grande amore?” titolerebbe Novella 2000. Ma nessuno farebbe mai la parte della Befana, e poi, babbo Natale per tradizione è single. Per rinnovare il suo mito, ci vorrebbe un personaggio popolare, una specie di incantatore notturno. Chi meglio di Gigi Marzullo!

 

Le lettere di Pasolini, il narratore di se stesso. Affetto e rudezza, doppio registro senza grigi

Antonella Giordano e Nico Naldini hanno pubblicato in questi giorni il libro probabilmente più importante su Pier Paolo Pasolini, Le Lettere. È una produzione grandissima (1.479 pagine) andata in stampa poco dopo la scomparsa di Naldini, ma non prima che Naldini fosse riuscito ad aggiungere 300 lettere inedite alla vita narrata nei testi di Pasolini.

Con questo libro creano intorno al “poeta dialettale,” come lui si definisce più volte, il caso straordinario e senza precedenti di un grande autore che è anche il suo narratore e il suo critico, e sa con esattezza in che punto della sua vita e del suo lavoro si trova, benché la vita sia fatta di forti e diverse tensioni (umane, culturali, politiche ) che non possono comporsi a vicenda.

Le lettere coprono tutto il periodo in cui gli autori hanno potuto rintracciarle (nessuno sarebbe riuscito farlo come loro) ma scelta ed editing sono fortemente segnate dai giorni e dagli anni che si potrebbero chiamare “l’ultimo periodo”, che è di deliberata esposizione al rischio e a un nemico che si rafforza. Questo libro porta comunque un dono grandissimo a chi non ha mai smesso di considerare Pasolini un riferimento della vita italiana e una voce che da senso a ciò che è accaduto e sta accadendo.

Considerate la folla dei grandi italiani che – da Contini a Zanzotto, da Anceschi a Volponi – cercano o rispondono alla voce di Pasolini per avere il compagno di strada che stanno cercando e per liberarsi del falso trionfo delle lettere e delle scienze. Il caso, come appare in questo libro, è ancora più straordinario perché Pasolini scrive e risponde con due soli registri, a volte nella stessa lettera: affetto e rudezza. L’affetto non è mai mondano, mai una pretesa di imbonimento. Quando c’è, è senza cautela, è un dono senza condizioni. Ma il suo tenere la porta socchiusa senza feste e celebrazioni, è ferma e decisa: certe cose non passano, neppure per buona educazione.

Ma, allo stesso modo, non esistono travestimenti o precauzioni (e siamo nel periodo della sua prima comparsa fra i celebri del giovane che sta per essere celebre).

Leggiamo nel libro (parte certamente curata da Naldini, che ci fa capire la sua presenza): “Il 15 agosto (1947) scrive a Silvana Mauri una lettera nella quale la parola ‘omosessuale’, mai finora pronunciata, è detta apertamente, una ammissione resa necessaria dalla lealtà, anche con il rischio di ferire l’amica, anche a costo di perderla”.

Segue una lettera a Contini, bella e malinconica descrizione delle dune dell’Adriatico senza sole. Ma il mondo di Pasolini è tutto invaso di persone e di idee, di voci e di corpi, di avventure e di attesa, di immagini (nascerà il regista) e del poeta nato di gran lunga per primo e vissuto sempre.

È ancora qui, e questo libro ne offre una testimonianza potente.

 

Pasolini. Le lettere A cura di Antonella Giordano e Nico Naldini Pagine: 1.552 – Prezzo: 57 – Editore: Garzanti

Non è il tempo di prendere (e nemmeno redistribuire)

Questo è il momento di dare non di prendere, aveva detto Mario Draghi qualche tempo fa. Col passare dei mesi si è capito che in realtà non pare nemmeno il momento di redistribuire. La vicenda del taglio delle tasse è lì a dimostrarcelo.

Breve riepilogo. La vasta maggioranza che sostiene Draghi si è accordata per indirizzare gli 8 miliardi della manovra verso i redditi che nella vulgata pubblica vengono definiti “del ceto medio”, ma in realtà sono medio-alti. E infatti i sindacati si sono arrabbiati. Per evitare un’improbabile sciopero generale a Draghi è bastato offrire un mini taglio dei contributi sotto i 35mila euro per il solo 2022. C’è un problema: il governo cercava soldi anche per calmierare la stangata sulle bollette prevista a gennaio. Draghi voleva trovarli rinviando il taglio per i redditi oltre i 75mila euro. Apriti cielo. Il centrodestra ha fatto muro ed è morta lì. “Non andrebbe nella direzione che lo stesso premier Draghi ha più volte ribadito e in cui ci riconosciamo pienamente: non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli”, ha esultato perfidamente Italia Viva. La linea della destra è che “se guadagni 75mila euro l’anno, 4mila netti al mese, non sei ricco”, per usare le parole dell’ex manager Enel Chicco Testa.

Il quadro è desolante per due motivi. Il primo è che nemmeno un congelamento di un taglio delle tasse a chi sta meglio è accettabile per buona parte del nostro arco parlamentare, che si trincera dietro gli slogan del premier. Il secondo è che questa classe politica non conosce la società in cui vive. Il taglio delle tasse premia, in proporzione, redditi che oggi sono medio-alti (dai 28 ai 55mila euro l’anno), non il ceto medio. Oggi con 4mila euro netti al mese sei nel 5% più elevato dei contribuenti. Con un reddito di 35mila euro sei nel top 10%. C’entra l’evasione fiscale, certo, ma c’entra anche un Paese in cui i salari sono fermi e un quarto dei lavoratori è povero.

Questi numeri Draghi li conosce, eppure stranamente stavolta non ha “tirato dritto”, come ama ricordare spesso la grande stampa. Evidentemente non è nemmeno il momento di far pagare di più (o premiare di meno) chi ha sofferto meno la pandemia.

Covid, il no-vax convertito sulla via di Medjugorje e l’ostinazione di Borghi

 

BOCCIATI

UN BEL TACER NON FU MAI SCRITTO. Stephane Bancel, Ad di Moderna, in un’intervista al Financial Times ha parlato della variante Omicron: “Penso che ci sarà un calo materiale di efficacia dei vaccini. Non so quanto, dobbiamo aspettare i dati. Ma tutti gli scienziati con cui ho parlato… dicono ‘questa cosa non va bene’”. Negli stessi minuti in cui Bancel afferma questo, parlando a nome di Moderna, Ugur Sahin, cofondatore di Pfizer-Biontech, sostiene il contrario sul Wall Street Journal: “La nostra convinzione è basata sulla scienza. Se un virus aggira la risposta immunitaria, lo fa contro gli anticorpi ma c’è un secondo livello di risposta immunitaria che protegge dalla malattia grave: le cellule T. Anche se si presenta come ’variante sfuggente’, un virus difficilmente sarà in grado di aggirare del tutto le cellule T”, per cui “il nostro messaggio è: non fatevi prendere dal panico, il piano rimane lo stesso, ovvero accelerare la somministrazione del richiamo”. Le parole di Sahin sono indubbiamente più rassicuranti di quelle di Bancel, che infatti hanno provocato un mancamento alle Borse, ma la vera domanda è : che senso ha confondere cittadini e mercati finché non si è sicuri al 100% di quello che si afferma? Quando questa pandemia si estinguerà, sulla sua lapide campeggerà la scritta: “Non abbiamo mai saputo parlar di lei”.

VOTO 5

 

A CARO PREZZO. “Adesso la mia visione del mondo è cambiata: sarò pronto quanto prima a far sapere a tutti quanto sia importante seguire collettivamente la scienza…”: Lorenzo Damiano, leader del movimento Norimberga 2 (il nome è già tutto un programma) con cui si è candidato a sindaco di Conegliano, attivista no vax-no green pass ha avuto una vera e propria conversione sulla questione virus durante un viaggio a Medjugorje. Nonostante la location suggerisca altrimenti, la Madonna questa volta non c’entra nulla: non solo ad apparire, ma anche a contagiare Damiano, è stato invece il Covid. L’ex irriducibile antivaccinista, finendo intubato in terapia sub intensiva, ha rivisto tutte le sue certezze sanitarie: “A volte bisogna passare per una porta stretta per capire le cose così come sono”. La conversione di Damiano non è l’unica: in questi stessi giorni anche Christian, facchino 52enne che aveva manifestato con i portuali di Trieste contro il green pass, è ricoverato in ospedale: “All’inizio non credevo al virus (…) Sono pentito di non essermi vaccinato”. Che a volte per comprendere le cose sia necessario viverle in prima persona è storia nota, ma in questo caso, perché i più scettici si redimano, è necessario che rischino la pelle. E questo, più che un sentimento di soddisfazione, infonde un senso d’impotenza e di tristezza.

VOTO NC

 

FINO ALLA FINE. “Basta confrontare le tabelle Iss di questa settimana con quelle della settimana precedente per vedere che i ricoveri in terapia intensiva crescono della stessa percentuale per vaccinati e non mentre l’incremento dei decessi è molto superiore fra i vaccinati rispetto agli altri”: nell’ostinazione con cui Claudio Borghi, in barba a fiumi di evidenze scientifiche, studi pubblicati, constatazioni empiriche, difende ancora le sue teorie antiscientifiche, c’è invece qualcosa di commovente.

VOTO 4