Grandi nomi al Festival, la concorrenza arruola uno molto, molto “in alto”

 

PROMOSSI

Sanremo/1. Orfano di Fiorello (che probabilmente ci sarà solo per una puntata, l’ultima) Amadeus ha puntato tutto sulla gara. Ed è riuscito a convincere molti importanti artisti a presnetarsi sul palco non come ospiti, ma come concorrenti. Ed erano anni che la lista dell’Ariston non vedeva nomi così. A partire da Gianni Morandi, in gara con un brano scritto da Jovanotti, passando per Elisa, Emma, Achille Lauro per arrivare a Massimo Ranieri, Iva Zanicchi e Noemi. Noi, detto così per inciso, faremo il tifo per Giovanni Truppi, napoletano, cantautore e autore de “L’avventura”, uscito in estate con la Nave di Teseo (ascoltare per credere “Borghesia”). Vasco dovrebbe essere il super super ospite della prima puntata, ed è attesa nella settimana anche Laura Pausini. Non era facile tirare fuori dal cilindro questa edizione numero tre senza proporre una fotocopia delle precedenti. Almeno per ora, sulla carta, Amadeus c’è riuscito: bravo.

 

NON CLASSIFICATI

Sanremo/2. Leggiamo sul Corriere che dal 3 al 5 febbraio, in parziale sovrapposizione con le date del Festival di cui sopra, si svolgerà la prima edizione del Festival della canzone cristiana di Sanremo, la cui direzione artistica è affidata al cantautore fiorentino Fabrizio Venturi. Dovete sapere che l’anno scorso sul sito della Diocesi di Sanremo il vescovo pubblicò una lettera nella quale accusava il Festival di blasfemia e “mancanza di rispetto e derisione verso la fede cristiana esibite in forme volgari e offensive”. Con chi ce l’aveva? Con le le performance di Fiorello e Achille Lauro, comparsi sul palco dell’Ariston, rispettivamente con una corona di spine e piangendo lacrime di sangue. Venturi (che condivide il pensiero del vescovo) sostiene però che la kermesse non nasce in conseguenza di quelle esibite volgarità ma “perché la potenza della musica è illimitata. Voce e canto sono un grande dono di Dio, qualcosa che tutti possono comprendere. Strumenti che intendo usare per evangelizzare il mondo. Mondo fondato su tre sole evidenze, tre realtà “murate” su cui non si discute: si nasce, si muore, Dio esiste. I valori cristiani sono scomparsi dalle canzoni di oggi. Il nostro sarà un festival per cantare un inno al Signore, per arrivare ai cuori che il Covid oggi ha reso aridi più di ieri”. Attenzione però: “Il motore che ci spinge è Dio, è lui che ha scritto il copione”. Con un autore così… se a RaiUno ci fosse qualcuno con un po’ di spirito, gli farebbero fare il DopoFestival… Comunque: occhio alla concorrenza, Ama.

 

BOCCIATI

Del Debbio e del Silvio. In settimana si è parlato di uno stop strategico disposto da Mediaset per le trasmissioni “Fuori dal coro” di Mario Giordano e “Dritto e Rovescio” di Paolo Del Debbio. L’indiscrezione è poi velocemente rientrata. Ecco come ha chiarito lo stesso Del Debbio: “Mauro Crippa, il direttore generale per l’informazione Mediaset, mi ha garantito che si chiude il 16 dicembre e si riapre il 13 gennaio, come sarebbe stato nella norma perché di mezzo c’è l’Epifania. Che è quello che per me fa testo, il resto sono chiacchiere, io mi fido di lui”. Dunque niente pausa lunga o lunghissima (cioè fino a fine gennaio). Cos’era successo? Si dice che il problema fosse il tasso di populismo dei due talk, che darebbero eccessivo spazio ai no vax. E quindi? Troppo populismo avrebbe danneggiato la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale. Cioè con tutto quello che B. ha combinato in vita sua (condanne per frode in primis, l’elenco completo sul Fatto di questi giorni), è convinto che il problema siano Del Debbio e Giordano?

 

Juonior Messias, ex dilettante troppo bravo. Per quelli delle plusvalenze meglio i bidoni

Ll 17 ottobre di un anno fa, dopo aver assistito a Crotone-Juventus 1-1, postai su Twitter il seguente commento: “Arthur, ex Barcellona, 72 milioni. Messias, ex Chieri e Gozzano, 100 mila euro. Trovate la differenza”. Eravamo solo alla quarta giornata di campionato, sia Arthur che Messias erano alle loro prime apparizioni in Serie A rispettivamente nella Juventus e nel Crotone ma quel che a sorpresa balzava all’occhio era la superiore bravura del brasiliano del Crotone, a quel tempo 28enne (oggi le primavere sono 29), con ogni evidenza più completo e più “giocatore” del tracagnotto e monocorde brasiliano ex Barcellona. Sorpresa doppia, se non decupla. Perché mentre Arthur era stato acquistato dalla Juventus per la bellezza di 72 milioni più 10 di bonus (totale 82) e con un ingaggio netto di 5 milioni più bonus per 5 stagioni, Messias era giunto a Crotone pagando al Gozzano 100 mila euro (avete letto bene: centomila euro) e per uno stipendio di 110 mila euro che ai suoi occhi erano tantissimi, visto che col calcio arrotondava lo stipendio da fattorino. Per capirci, tra ammortamento-cartellino e ingaggio Arthur costava e costa tuttora alla Juventus 21 milioni l’anno bonus esclusi, Messias al Crotone 135 mila euro a stagione. Ebbene, è passato un anno e Messias, che nel retrocesso Crotone aveva messo a segno 9 gol contro l’unico segnato da Arthur nella Juventus, dopo essere passato al Milan in prestito con diritto di riscatto per 8 milioni più 1 di bonus, in un pugno di partite ha già firmato più gol di quanti Arthur ne abbia realizzati in una stagione e mezzo alla Juve (uno, appunto), uno dei quali è valso al Milan nientemeno che la vittoria sul campo dell’Atletico Madrid in Champions League.

Forse vi starete chiedendo: che ci azzecca con l’attualità del calcio questo confronto Arthur-Messias? Beh, ci azzecca. Perché quando la Juventus, nell’estate del 2020, concluse col Barcellona lo scambio Pjanic-Arthur cedendo il bosniaco per 60 milioni più 5 di bonus (totale 65) realizzando l’incredibile plusvalenza di 41,8 milioni per un calciatore bolso e in chiaro declino che oggi sverna in Turchia dopo essere stato trattato al Barça come un appestato, il direttore dell’area sportiva Paratici, fresco di premio “Football Leader” come miglior dirigente dell’anno (sic) venne incensato come “il mago delle plusvalenze”: poco importava che il giocatore avuto in cambio nel grottesco baratto, per l’appunto Arthur, andasse a zavorrare il bilancio juventino per la sanguinosa cifra di 82 milioni di cartellino più 5 netti di stipendio (più bonus) per 5 stagioni e che fosse sostanzialmente un bidone. Anche se il mondo è pieno di calciatori che costano mille volte meno di Arthur e sono mille volte più bravi di Arthur, come l’ex fattorino di Casale, Chieri e Gozzano Junior Messias, nuova stella del Milan, la verità è che da noi il calcio è finito nei matti: e il pasticciaccio brutto delle plusvalenze farlocche della Juventus, che da anni racconto su queste pagine senza che nessuno dica bah, salvo scandalizzarsi se poi i magistrati aprono un’indagine con tutto il management della Real Casa indagato a partire dall’imperatore Caligola Andrea Agnelli, quello che puntava ai milioni della Superlega non sapendo più come fare per tamponare i debiti esplosi per le sue manie di grandezza, è lì a dimostrarlo. Per salvarlo ci vorrebbe un nuovo Messia. Messias, che pure era bravo, era lì sotto gli occhi di tutti, ma costava troppo poco.

 

Uno spettro si aggira per l’Unione Europea: i temibilissimi cicisbei, ricamatori del diritto

Uno spettro s’aggira per l’Europa. Monta ovunque una specie umana non certo insolita ma a cui l’Unione Europea sta offrendo inimmaginabili archi di trionfo: sono i cicisbei del diritto, i ricamatori eccellenti di un diritto così fine, ma così fine, da fuoriuscire non visto, con abilità suprema, dal senno degli umani. Sono loro ad avere prodotto il memorabile e recente documento della Commissione europea intitolato “Unione dell’uguaglianza”. È il documento in cui, oltre a cose condivisibili, si raccomanda di non utilizzare nomi tipici di una religione, come potrebbero essere Maria e Giovanni, e di non usare più l’espressione “Buon Natale”. Per non erigere barriere tra i popoli. Quasi che l’unione implichi la fine per decreto di tutte le tradizioni e non la loro valorizzazione.

Quasi che in un processo di unificazione fondato sul supremo principio di libertà le diversità culturali debbano essere piallate e non accolte. Come dicono i miei studenti, darei un rene per sapere chi ha scritto quel documento, e passarne in rassegna le espressioni dei visi. Per intuire in controluce, attraverso le nazionalità e le biografie, magari anche attraverso gli sguardi, i processi mentali che hanno portato a concepire una raccomandazione tanto impellente e decisiva per le sorti dell’Europa; salvo concludere, di fronte alla rivolta dell’opinione pubblica non solo cattolica, che il documento andava ritirato perché “non è ancora maturo il momento”.

Qualche lettore vorrà però sapere a questo punto che cos’è un cicisbeo. Sacrosanta curiosità. Dice dunque il dizionario: “Nel 700, l’accompagnatore ufficiale di una dama (con una sfumatura di galanteria e leziosità, che non è in cavalier servente)”. Estensivo: “Vagheggino, corteggiatore galante”. Insomma un signore in parrucchino, amorevolmente lezioso e dedito ad accompagnare la dama di cui è invaghito, la quale potrebbe qui essere metaforicamente rappresentata come la Legge.

Un corteggiatore assiduo che, mosso dal suo vanitoso e compiaciuto status e dal totalizzante impegno che ne consegue, non trova ovviamente tempo per vedere o per capire ciò che gli accade intorno. Così da privare di ogni valore sociale lo stesso oggetto della sua passione. E infatti: si immaginerebbe che gli alfieri europei del diritto vedessero che cosa accade intorno e dentro il loro continente, dalle stragi nei mari alle infernali disuguaglianze degli umani, e dunque reclamassero a voce alta che nell’Unione degli eguali chi vi lavora abbia – dal Portogallo alla Polonia – pari diritti. Di voto e di cittadinanza, o di libera convivenza con i propri figli. Oppure reclamassero che ovunque viga il principio che le imprese paghino le tasse sui loro profitti, con l’assoluto divieto di fioritura di impertinenti paradisi fiscali nel cuore dell’Europa. Ma i giuristi cicisbei puntano diritti alle vette dello spirito, e inviano piuttosto raccomandazioni sui nomi e sulle feste, responsabili, loro sì, di diseguaglianze insopportabili. E a loro fanno eco quelli che, a partire dall’Italia – paese con il genio del rococò e dell’arte per imitazione –, hanno trasformato in parte i nostri nomi in asterischi. Per renderci davvero uguali.

Venga dunque messo all’indice Giovanni, e anche Maria, ci dicano pure come chiamare i figli.

È la burocrazia, bellezza. Come previde Max Weber un secolo fa, è arrivata l’epoca degli “specialisti senza intelligenza”. Una persona che stimo mi ha obiettato che le mie sono reazioni sarebbero un po’ conservatrici, quasi da “anziano”. Io invece penso che queste fantasie giuridiche certifichino la decadenza dell’Europa ancor più del suo tasso di natalità. Di cui sono precisamente il frutto. Segno di una civiltà invecchiata e pigra. Senza sangue e senza slanci. L’habitat perfetto e naturale per la specie dei cicisbei. Per il loro pensiero, per il loro diritto.

 

Milano. La destra clericale all’attacco di Albertini: ”È massone”. Ma lui: “Falso, ero amico di Martini”

Ultrà cattolici contro la massoneria, ancora una volta. Accade a Milano. Protagonista l’ex sindaco della città Gabriele Albertini, peraltro candidato mancato della destra alle ultime elezioni amministrative.

La storia origina da una cerimonia agli inizi di novembre della delegazione lombarda del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, importante ordine equestre cattolico. In quell’occasione è stata consegnata una medaglia d’oro di benemerenza al generale Francesco Paolo Figliuolo per il suo impegno nella lotta alla pandemia. E così si è scatenata l’indignazione della Nuova Bussola Quotidiana, giornale online di matrice ciellina che si colloca nella destra clericale dichiaratamente no vax e antibergogliana. Ma a essere attaccato non è solo il generalissimo chiamato da Mario Draghi. La polemica ha investito pure Albertini, presente all’evento quale “Rappresentante di Milano dell’Ordine Costantiniano”.

Questo il motivo, secondo il quotidiano clericale: “L’adesione dell’on. Albertini alla massoneria, come si evince chiaramente da Erasmo, notiziario del Goi, il Grande Oriente d’Italia, dicembre 2018, anno III n. 11”. Per la dottrina della Chiesa, l’iscrizione alla massoneria è incompatibile con la fede cattolica e il Goi è la maggiore obbedienza massonica del Paese (oltre ventimila fratelli). L’articolo richiamato è una recensione al libro in due volumi di uno storico del Grande Oriente: Maestri per la città di Giovanni Greco, opera dedicata ai sindaci massoni degli ultimi due secoli. Per lo studioso in grembiule Albertini è stato “massone in pectore durante il suo mandato (dal 1997 al 2006, ndr), essendo stato iniziato alla Libera Muratoria solo dopo, nel 2015”. Interpellato dal Fatto il Gran Maestro del Goi Stefano Bisi si limita a dire: “Ho conosciuto Albertini in vari dibattiti pubblici, lo chieda a lui”.

Ed ecco quindi la risposta dell’ex sindaco, rinforzata da varie “prove” documentali. La prima è una lettera del 15 ottobre del 2019 firmata da Antonino Salsone, presidente del Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Lombardia del Grande Oriente d’Italia. Missiva che poi Albertini inviò al conte Giuseppe Rizzani, delegato lombardo dell’ordine costantiniano. In pratica Salsone attesta che “Ella (Albertini, ndr) non è operativo in alcuna delle 75 Logge massoniche lombarde affiliate al Grande Oriente d’Italia e, per quanto a me noto, in alcuna Loggia di altra circoscrizione regionale del suddetto Goi”. Non solo. Cattolico di formazione gesuita, Albertini spiega che durante i suoi due mandati furono erogati oltre 33 milioni di euro ad “Associazioni, Enti e Istituzioni cattoliche”. In particolare, l’ex sindaco si definisce “allievo e discepolo” dell’allora arcivescovo (gesuita) di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini. Dense tracce di questo legame si trovano sul sito della Fondazione martiniana (un’intervista di oltre un’ora all’ex sindaco) e in un libro del 2008 dello stesso Albertini: Sindaco senza frontiere, pubblicato da Marietti 1820, tra le più note case editrici cattoliche d’Italia.

Resta solo la curiosità di conoscere la fonte dello storico Giovanni Greco, massone del Grande Oriente d’Italia.

 

Il gigantismo del sig. Pereira soffoca il Maggio fiorentino

Il soprintendente del Maggio Musicale fiorentino Alexander Pereira ha appena, candidamente dichiarato che “il Teatro del Maggio è troppo grande per Firenze”. Una vera bomba.

Come è potuto succedere che Firenze si sia trovata con un Teatro sbagliato? È con Renzi a Palazzo Vecchio che si rottama il glorioso Teatro Comunale, cedendolo a Cassa Depositi e Prestiti “e per suo tramite agli allora soci del padre del sindaco, nel frattempo diventato premier. Questi ultimi poi, colpiti dalla lentezza burocratica e dalle inchieste giudiziarie, hanno gettato la spugna e l’immobile è tornato alla Cassa, che l’ha rivenduto al gruppo Hines” (così il Fatto Quotidiano, che ha sempre attentamente seguito questa terrificante vicenda), immobiliaristi americani che ora lo trasformeranno nell’ennesimo, grottesco studentato di lusso di questa povera città.

Via il Teatro vecchio, ecco il Teatro nuovo: inutilmente enorme, proporzionato solo all’ego del Saudita, che lo inaugurò due volte (per finta nel 2011, e poi nel 2014): prima affidandolo alla soprintendente Colombo, poi (di fronte al crescere del debito) commissariandolo con Francesco Bianchi (fratello dell’avvocato Alberto: quello che teneva la cassa della sua fondazione Open, con metodi e fini ora noti a tutti). L’investimento iniziale sfiora i 265 milioni, e insieme allo Stato c’è la significativa partecipazione della Regione il cui contributo aiuta a finire i lavori. Tre anni fa, con uno stanziamento di altri 60 milioni, parte una seconda tranche di lavori per l’apertura di una seconda sala: l’auditorium da 1.000 posti che si inaugura il prossimo 21 dicembre. E che si somma alla sala grande, che ha 1.800 posti: troppi, ammette ora il Soprintendente.

E veniamo a lui. Pereira è un boiardo di Stato che si comporta come se fosse un ministro del Re Sole. È infatti lo Stato, con una media di oltre 16 milioni l’anno, l’azionista di maggioranza della Fondazione: seguono Comune e Città metropolitana con circa 6 milioni, e Regione con 3,2. La complessiva raccolta di sponsorizzazioni private è ferma intorno al 10 % del bilancio annuale. È il fallimento del modello delle fondazioni liriche: che sono sono tutte – tranne la Scala e in parte Santa Cecilia – teatri di Stato, anche se (assurdamente) gestiti dai sindaci. Pereira è un pensionato austriaco 74enne, con un cursus honorum iniziato da dealer all’Olivetti. Da lì è diventato direttore dell’Operahaus di Zurigo e, dopo un rapido passaggio dal Festival di Salisburgo, viene nominato dall’allora sindaco Pisapia alla Scala, dalla quale viene infine allontanato prima della scadenza del mandato, in seguito a una serie di incidenti diplomatici, tra cui il tentativo poi respinto di far entrare nel cda scaligero un fondo d’investimento saudita. Quando Nardella lo porta a Firenze gli viene assicurato lo stesso compenso (240 mila euro annui) che aveva alla Scala: un teatro con un bilancio dieci volte superiore al Maggio! Le produzioni che mette in scena sono sfarzose, costose: troppo.

Il massimo si raggiunge la scorsa estate con il monteverdiano Ritorno di Ulisse in Patria, eseguito al teatro della Pergola affittato per oltre un mese dalla Fondazione Maggio. I costi stellari della produzione non vengono minimamente risarciti dalla bigliettazione: si dice che a fronte di costi che superano largamente il milione, i ricavi siano sotto i 50 mila euro. Davvero irresponsabile, se si rammenta che il Maggio è la Fondazione lirica più indebitata d’Italia, per oltre 50 milioni. Il piano di rientro era stato iniziato dal predecessore di Pereira, Cristiano Chiarot, che tagliò i costi e riempì il teatro a prezzi popolari. La città tornò così a teatro, o ci andò per la prima volta. Il costo dei biglietti era mediamente il più basso d’Italia, e la sala sfiorava percentuali di riempimento inimmaginabili.

Ma col nuovo corso di Pereira imposto da Nardella i biglietti di platea esplodono a un costo medio che sfiora i 200 euro: folle, impopolare, ingiusto. E infatti i biglietti non si vendono, e si grida al successo quando – in rare circostanze – in sala ci sono 600 persone su 1.800 posti. Si capisce che il Teatro vada all’incanto: chi paga di più, decide a chi intitolarne sale e foyer.

Ora la legge di stabilità di Draghi istituisce un fondo di 150 milioni in due anni, utili a ripatrimonializzare la Fondazioni indebitate: un provvedimento tampone che salva soprattutto un marcescente sistema di potere. Così il debito di Firenze viene alleggerito, ma non cancellato: ma sarà inutile, se non ci si chiede per chi è fatta una produzione che costa quanto quella della Scala in una città cinque volte più piccola di Milano, e nella quale il teatro è ancora percepito come non integrato nel tessuto urbano. E poi: è sensata, corretta, sostenibile una politica culturale finanziata dallo Stato alla quale i cittadini non possono permettersi di accedere?

Forse Firenze ha davvero un teatro troppo grande: di certo chi la governa è troppo piccolo.

“Effetto virus: il governo vive con la paura in tasca. Così cede il potere ad altri”

Con la paura in tasca. È il tempo dell’ossessione che si dilata e diviene esercizio quotidiano. La paura come compagna necessaria, la nostra nuova vicina di banco.

In realtà abbiamo bisogno della paura. Anzi senza di essa non potremmo vivere.

Adesso però stiamo esagerando. Forse avremmo bisogno di andare dallo psicanalista, bussare alla sua porta Sarantis Thanopulos.

La paura, quella buona, ci aiuta a esercitare la virtù della prudenza.

A non ubriacarci tutte le sere, a non guidare in modo folle?

Non solo. A riconoscere il perimetro dei nostri limiti, a custodire i legami affettivi, di amicizia. La paura di rovinarla, per esempio, riduce la tentazione di usare parole offensive in un momento d’ira, perché abbiamo consapevolezza che c’è un bisogno di conservare quel legame, quella relazione di lavoro, integro. Dunque avvertiamo la necessità di non superare quel limite.

Ora però la paura buona è finita. Ci sta sfiancando quella cattiva.

La pandemia è il colpo finale a una condizione che già ci vedeva dentro quell’enorme catino in cui bruciavano tutte le nostre sicurezze: a un lavoro, a una casa, ai figli. Lo sviluppo ordinato e conosciuto della nostra vita. Nel decennio appena trascorso abbiamo affrontato una parola nuova, la precarietà, che ci ha buttato nel pozzo nero dell’instabilità. Nessuna sicurezza ma un’altalena di percezioni, tutte peggiorative del nostro ideale di vita. E avevamo di fronte uno scenario esterno anch’esso nuovo: la crisi climatica che può apparire una questione lontana da noi. Eppure avvicinava ciascuno al sentimento costante di preoccupazione di un futuro oscuro, e alla nostra incapacità di trovare un espediente per aggirarlo. Senza risposte siamo rimasti con la paura in tasca. Io dico che la pandemia ha fatto ingresso in una società che già aveva la paura addosso.

Adesso siamo al parossismo. All’ossessione quotidiana.

Adesso ci fa paura vivere.

Il virus è un mistero che ci debilita.

Il mistero destabilizza e la destabilizzazione ci conduce a manipolare la realtà.

Ciascuno di noi ha paura. Secondo lei anche chi governa ha paura?

Certo. Ed è la condizione più insidiosa perché riduce l’equilibrio e sottopone il potere a uno stress pericoloso.

Allarmi che sembrano annunciare il disastro, poi improvvisa quiete. Ha visto l’andamento dell’informazione istituzionale sulla variante omicron? Lunedì scorso sembrava che il mondo stesse per scoppiare. Martedì si era già quasi ristabilito.

La paura ingracilisce i poteri rappresentativi, le istituzioni democraticamente elette, perché i gestori, i governanti sono anch’essi pieni di paura.

I governi, pieni di paura, perdono forza. A vantaggio di chi?

In questo caso a vantaggio di altri poteri: per esempio delle industrie farmaceutiche, di alcune multinazionali. Il potere ufficiale e istituzionale si infragilisce perché il governo delle cose e della società è sottoposto all’ossessione del mistero sconosciuto e i tentativi di fronteggiarlo sono spesso empirici, provvisori, poco meditati. Quindi le decisioni risentono di questo limite.

Siamo nel campo della psicopolitica.

È l’effetto di una condizione generale instabile. Che si aggrava nelle situazioni estreme, nei casi limite. Sono infatti pericolosissime le situazioni di panico (da non confondere con gli attacchi di panico). Scegliamo, per salvarci, soluzioni che la logica, la ragione documentano come impossibili.

Come quei ragazzi che si infettano volontariamente di Covid per sfuggire al vaccino che è studiato per farci sfuggire al Covid.

Esatto. Ricorda il giorno dell’attacco alle torri gemelle la visione di quei poveretti che si lanciavano dal cinquantesimo piano per tentare di schivare il fuoco e la morte? La paura che diviene ossessione ci induce a sviluppare realtà parallele, teorizzare ipotesi fantastiche, illustrare l’impossibile e mostrare di credere all’impossibile.

Qual è il prezzo più grande che stiamo pagando?

Escludendo la tv che ci riporta ogni giorno al punto di partenza dell’ossessione?

Escludiamola.

Il prezzo salato è lo scollamento dei legami naturali, di quelli familiari, di quelli affettivi. Retrocediamo poco alla volta dietro la porta di casa. E mettiamo il lucchetto ai nostri sentimenti, in definitiva alla nostra vita.

Addio a Volcic, il mitteleuropeo che raccontò l’Urss e zar Putin

Demetrio Volcic era un galantuomo e un grande giornalista, di una scuola ormai in via di estinzione: competente, misurato, rigoroso, ironico, coltissimo. È morto a Gorizia ieri mattina. Era nato a Lubiana novant’anni fa, madre goriziana, padre triestino: “Sono figlio della Mitteleuropa”, mi disse una volta a Vienna, uno dei suoi tanti recapiti professionali, “non ho mai sopportato l’idea che un muro dividesse casa mia e quella di molti miei parenti. O che ci fosse una Cortina di Ferro, tanto ideologica quanto geografica: ma ho descritto questo mondo spezzato cercando d’essere oggettivo e realista”.

Mescolava identità e patrie (scherzando, le chiamava “matrie”), era poliglotta: parlava sei o sette lingue. Gran signore nei modi e nei gesti, non disdegnava il buon cibo e soprattutto il buon bere: “A Mosca, serviva per sciogliere lingue e pensieri di chi sapeva ma non poteva parlare”. Conversazioni a tavola che diventavano indizi, tracce, soggetti per libri e corrispondenze. Fu voce e volto storico della Rai da Mosca, lo era stato da Praga, da Varsavia e lo fu poi da Vienna, divenuta piazza cruciale con la caduta dell’Urss. Diresse il Tg1 dal 1993 al 1994, ma essendo bravo ed onesto durò troppo poco. Andò ad insegnare dottrine politiche e politica internazionale all’università di Trieste. Poi fu senatore per il Pds, e parlamentare europeo per i Democratici della Sinistra.

Parlava schietto e penetrante, sfoggiava ironìa condita da sapide battute nel ritrarre il pianeta comunista dell’Est, le trame occulte del Cremlino ai tempi mummificati di Breznev, i retroscena naif della glasnost e le “sterzate” di Gorbaciov, sino ai giorni caotici della sua deposizione. L’Urss in macerie. Tornò a Mosca, da saggista, per descrivere l’era di Putin. Il titolo del suo libro, perfido, spiegava tutto: “Il piccolo zar”.

Israele. Tel Aviv, quanto mi costi: viverci ormai è un lusso

Tel Aviv è la città più cara al mondo in cui vivere, almeno nel 2021. L’aumento dell’inflazione ha fatto crescere il costo della vita a livello globale nella città costiera israeliana, e i prezzi – tutti i prezzi – nella “Miami del Mediterraneo” sono schizzati in alto, bruciando ogni record. La città ha scalato cinque gradini conquistando per la prima volta il primo posto nella classifica stilata dall’Economist Intelligence Unit, la divisione di ricerca e analisi del settimanale britannico The Economist. L’indice mondiale del costo della vita viene compilato confrontando i prezzi in dollari statunitensi di beni e servizi in 173 città. L’ascesa di Tel Aviv è dovuta in parte alla forza dello shekel rispetto al dollaro, nonché per gli aumenti dei prezzi dei trasporti e dei generi alimentari, dell’abbigliamento e del fashion in genere. Ma soprattutto sono i prezzi di ristoranti stellati e quelli degli hotel sul lungomare a far segnare conti da capogiro, per non parlare dei cocktail bar sulla bellissima spiaggia.

Parigi e Singapore quest’anno sono arrivate al secondo posto, seguite da Zurigo e Hong Kong. New York era al sesto posto, con Ginevra al settimo. A completare la top 10 nell’ordine c’erano Copenhagen, Los Angeles e Osaka, in Giappone.

L’anno scorso, il sondaggio aveva dato il primo posto insieme a Parigi, Zurigo e Hong Kong. Roma nella classifica attuale è al 48° posto, nella statistica precedente era in posizione numero 32. Il maggior salto in classifica – secondo il Rapporto – lo ha fatto Teheran passata dal 79° posto al n umero 29. “La riproposizione delle sanzioni statunitensi all’Iran – ha sottolineato il Rapporto – ha portato a continue carenze di merci e aumento prezzi di importazione”. I dati di quest’anno sono stati raccolti in agosto e settembre quando i costi del trasporto merci e delle materie prime sono aumentati e mostrano che in media i prezzi si sono incrementati del 3,5% in termini di valuta locale, il tasso di inflazione più veloce registrato negli ultimi cinque anni. Sempre in valuta locale l’aumento medio del prezzo dei servizi è cresciuto in modo significativo, trainato dal paniere della spesa che contiene i generi alimentari, ed è aumentato anche il prezzo dei beni per la casa, delle automobili e del carburante.

 

Eucap in Niger: la “sicurezza” per giustificare gli sperperi

Il quartier generale di Eucap Sahel Niger, a Niamey, occupa un edificio imponente vicino al ministero della Giustizia e a una manciata di chilometri dal palazzo presidenziale. Sono passati dieci anni da quando il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), la diplomazia Ue, ha istituito la missione civile per il potenziamento delle capacità delle forze di sicurezza in Niger, composta principalmente da ufficiali di polizia, con un solo e unico obiettivo: operare una riforma fondamentale delle forze interne nigerine.

Un’azione parallela alla strategia militare, sviluppata principalmente dai francesi attraverso le operazioni Serval e Barkhane. “La strategia si basa su tre punti: difesa, diplomazia, sviluppo”, osserva un consulente che lavora nella regione. Dal 2012 Eucap ha speso in Niger 241 milioni di euro. Un budget utilizzato dalle direzioni successive per acquistare attrezzature tecniche, come droni e 4X4, e per la fornitura di benzina, da destinare alle forze nigerine. I soldi sono stati spesi anche per formare le forze dell’ordine locali. Il programma Eucap propone diversi tipi di formazioni, tenute da funzionari della polizia europei: tecniche di intervento, polizia scientifica, analisi criminale, prevenzione della contraffazione di documenti, rispetto dei diritti umani. Circa cento funzionari prestano attualmente servizio nel paese, distribuiti principalmente su due siti: a Niamey, la capitale, e a Agadez, nel nord. Di recente la missione è stata prolungata di altri due anni, fino all’estate del 2022. La tabella di marcia è rimasta invariata: lotta alla criminalità organizzata, ai gruppi terroristici e all’immigrazione irregolare. Sempre di recente, è stata anche inaugurata la seconda forza di protezione delle frontiere del paese, la CMCF (Compagnia Mobile di Controllo delle Frontiere), i cui ufficiali sono stati formati da Eucap. Con sede nel sud-est del Niger, a Birni’N’Konni, la missione della CMCF è di contrastare i transiti dei migranti lungo le rotte migratorie più trafficate del continente africano. La creazione di una terza forza è stata annunciata all’inizio di luglio, per intervenire lungo il confine con il Mali. Malgrado un buon bilancio di facciata della missione, con 19.000 agenti di polizia nigerini formati, diversi osservatori europei denunciano l’opacità di Eucap in Niger, dove l’insicurezza interna continua a crescere. “La commissione è in una logica puramente contabile. È interessata solo a formare il maggior numero di agenti nigerini possibili, ma senza elaborare una strategia”, sottolinea un ex dirigente di Eucap a Niamey. “Alcuni agenti nigerini sono stati formati ben sei volte, su diverse tematiche e senza alcuna logica”, osserva Léonard Colomba-Petteng, ricercatore in Scienze politiche e specialista della regione. La missione a volte si pone degli obiettivi che sembrano non tenere affatto conto della realtà locale: “I poliziotti in Niger o in Mali vengono per esempio formati a azioni di polizia giudiziaria. Molto bene. Ma perché possano mettere in pratica le tecniche che hanno imparato, dovrebbero poter aver accesso a degli strumenti, che non sempre sono disponibili”, sottolinea un alto funzionario di polizia di stanza nel Sahel. “Dovremmo avere un’azione coordinata. A volte invece non sappiamo neanche cosa Eucap stia facendo”, continua un funzionario della delegazione dell’Unione europea in Niger, a Niamey. “Nessuno capisce veramente cosa fa Eucap. Alcune formazioni che propone sono identiche a quelle del Civipol, un organismo collegato al ministero francese degli Interni che interviene anche in Niger. Hanno anche gli stessi manuali”, aggiunge un ricercatore che lavora nel Sahel.

Le stesse critiche erano già state formulate dalla Corte dei conti europea in un rapporto presentato nel 2018. Nel documento di quarantuno pagine, i revisori criticano la mancanza di procedure di controllo nella maggior parte delle iniziative prese dalla missione europea. “Per esempio, nessuna delle missioni in Niger e Mali ha raccolto informazioni per verificare se i membri delle forze di sicurezza formati da Eucap continuavano a lavorare nello stesso settore per cui erano stati formati”, scrivono i magistrati. Questi ultimi sono anche preoccupati per come vengono spesi i fondi pubblici. Durante la loro visita ad Agadez, i magistrati hanno trovato i locali di un commissariato quasi vuoti, benché fossero stati attrezzati a spese di Eucap anni prima: “Non c’era neanche una sedia, mancava la metà dei tavoli e non sono stati trovati i computer”. Le raccomandazioni dei magistrati europei sono state riprese anche dalla Corte dei conti francese. In un rapporto del febbraio 2021, il suo presidente, Pierre Moscovici, sottolinea “le falle del monitoraggio dei militari addestrati dalle missioni EUCAP in Mali e in Niger”, mentre le spese per la difesa sono in forte aumento. Tra il 2012 e il 2018 hanno rappresentato il 60% degli 1,35 miliardi di euro investiti dalla Francia nella regione. La presenza della missione Eucap fatica a convincere anche i funzionari nigerini. “Non c’è trasparenza”, osserva un poliziotto nigerino a Agadez. “Che indicatori abbiamo per attestare il buon esito dei progetti europei? Non molti”, si preoccupa Ibrahim Yacouba, ex ministro degli Esteri, leader del Movimento patriottico per il Niger (MPN), partito di opposizione. Ad Agadez le critiche riguardano soprattutto il quartier generale di Eucap, un edificio bunker di 13 mila metri quadrati, inaugurato nel 2017, che da allora ha accolto diversi ministri e capi di Stato europei. La città di Agadez, ex crocevia per i viaggiatori che dall’Africa occidentale si dirigevano verso il Maghreb, è diventata, all’apice della crisi migratoria, l’ossessione dei decisori europei, nel tentativo di ridurre drasticamente l’arrivo dei migranti dalla Libia verso le coste italiane. Costruito a tempo di record, il nuovo quartier generale comprende anche diverse palazzine per ospitare i cinquanta funzionari che prestano servizio nella regione, nonché una piscina e un giardino. Il tutto in una città nel bel mezzo del deserto, dove l’acqua potabile scarseggia. “È come un hotel Ritz, ma circondato dalla miseria”, osserva l’ex sindaco della città, Rhissa Feltou. Protetti dietro alti muri perimetrali i funzionari, secondo Feltou, sembrano voler “proteggersi dai poveri”. Eucap Sahel Niger ha affidato l’allestimento della sua sede a una coppia di imprenditori franco-nigerini, basati nella regione da una decina di anni.

Il terreno, così come le palazzine, sono di loro proprietà. La missione affitta i luoghi a caro prezzo: più di 40.000 euro al mese, secondo le informazioni di Mediapart. Eucap ha anche finanziato i lavori di ristrutturazione. Il caso non è isolato. Tra luglio 2016 e luglio 2017, i costi di funzionamento della missione Eucap, che comprendono la manutenzione degli edifici, sono stati pari a circa 11 milioni di euro, secondo un alto funzionario europeo, ovvero poco meno della metà della dotazione totale accordata. Oltre ai costi per la sicurezza, figurano spese sorprendenti, come la manutenzione delle piscine delle case occupate dagli agenti e il pagamento degli abbonamenti alla piattaforma televisiva Canalsat. A Niamey, Eucap si avvale dei servizi di Rissa Ali Mohamed Rissa, un imprenditore locale, che possiede diverse proprietà in città. La missione affitta tre palazzine all’imprenditore, noto come il “King of the Nigerian Bus”, il tutto per 250.000 euro. Citato nell’inchiesta dei Panama Papers, che rivelò un sistema d’evasione fiscale globale, Rissa Ali Mohamed Rissa sarebbe uno dei principali sostenitori del Partito nigerino per la democrazia e il socialismo (PNDS), al potere dal 2011, la formazione del presidente del Niger Mohammed Bazoum. Per giustificare la situazione, la direzione di Eucap Sahel Niger avanza il “carattere temporaneo della missione”, che viene rinnovata “per un mandato ciclico di due anni dall’Unione europea e dal paese ospitante”. Impossibile in queste condizioni, spiegano, prevedere una sistemazione permanente.

 

Francesco a Lesbo “Nell’èra dei muri naufraga la civilità”

Sorelle, fratelli, sono nuovamente qui per incontrarvi. Sono qui per dirvi che vi sono vicino, e dirlo col cuore. Sono qui per vedere i vostri volti, per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime. (…)

Sì, è un problema del mondo, una crisi umanitaria che riguarda tutti. La pandemia ci ha colpiti globalmente, ci ha fatti sentire tutti sulla stessa barca, ci ha fatto provare che cosa significa avere le stesse paure. Abbiamo capito che le grandi questioni vanno affrontate insieme, perché al mondo d’oggi le soluzioni frammentate sono inadeguate. Ma mentre si stanno faticosamente portando avanti le vaccinazioni a livello planetario e qualcosa, pur tra molti ritardi e incertezze, sembra muoversi nella lotta ai cambiamenti climatici, tutto sembra latitare terribilmente per quanto riguarda le migrazioni. Eppure ci sono in gioco persone, vite umane! C’è in gioco il futuro di tutti, che sarà sereno solo se sarà integrato. Solo se riconciliato con i più deboli l’avvenire sarà prospero. Perché quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose. (…) È un’illusione pensare che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri. Per volgerlo al bene non servono azioni unilaterali, ma politiche di ampio respiro. La storia, ripeto, lo insegna, ma non lo abbiamo ancora imparato. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso che qualcuno è costretto a sobbarcarsi! (…)

Prego Dio di ridestarci dalla dimenticanza per chi soffre, di scuoterci dall’individualismo che esclude, di svegliare i cuori sordi ai bisogni del prossimo. E prego anche l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini! Contrastiamo alla radice il pensiero dominante, quello che ruota attorno al proprio io, ai propri egoismi personali e nazionali, che diventano misura e criterio di ogni cosa. (…)

È triste sentir proporre, come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri, per costruire fili spinati. Siamo nell’epoca dei muri e dei fili spinati. Certo, si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non è alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza. È invece unendo le forze per prendersi cura degli altri secondo le reali possibilità di ciascuno e nel rispetto della legalità, sempre mettendo al primo posto il valore insopprimibile della vita di ogni uomo, di ogni donna, di ogni persona. (…)

In diverse società si stanno opponendo in modo ideologico sicurezza e solidarietà, locale e universale, tradizione e apertura. Piuttosto che parteggiare sulle idee, può essere d’aiuto partire dalla realtà: fermarsi, dilatare lo sguardo, immergerlo nei problemi della maggioranza dell’umanità, di tante popolazioni vittime di emergenze umanitarie che non hanno creato ma soltanto subito, spesso dopo lunghe storie di sfruttamento ancora in corso. È facile trascinare l’opinione pubblica istillando la paura dell’altro; perché invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio? Perché non si parla di questo? Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica! Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate. Occorre approcciare i cambiamenti epocali con grandezza di visione. Perché non ci sono risposte facili a problemi complessi; (…).

Se vogliamo ripartire, guardiamo i volti dei bambini. Troviamo il coraggio di vergognarci davanti a loro, che sono innocenti e sono il futuro. Interpellano le nostre coscienze e ci chiedono: “Quale mondo volete darci?” Non scappiamo via frettolosamente dalle crude immagini dei loro piccoli corpi stesi inerti sulle spiagge. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi. Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte. Non lasciamo che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo “mare dei ricordi” si trasformi nel “mare della dimenticanza”. Fratelli e sorelle, vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà! (…)

E invece si offende Dio, disprezzando l’uomo creato a sua immagine, lasciandolo in balia delle onde, nello sciabordio dell’indifferenza, talvolta giustificata persino in nome di presunti valori cristiani. La fede chiede invece compassione e misericordia – non dimentichiamo che questo è lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza –. La fede esorta all’ospitalità, a quella filoxenia che ha permeato la cultura classica, trovando poi in Gesù la propria manifestazione definitiva, specialmente nella parabola del Buon Samaritano (cfr Lc 10,29-37) e nelle parole del capitolo 25 del Vangelo di Matteo (cfr vv. 31-46). Non è ideologia religiosa, sono radici cristiane concrete. (…)

Preghiamo la Madonna, perché ci apra gli occhi alle sofferenze dei fratelli. Ella si mise in fretta in viaggio verso la cugina Elisabetta che era incinta. Quante madri incinte hanno trovato in fretta e in viaggio la morte mentre portavano in grembo la vita! La Madre di Dio ci aiuti ad avere uno sguardo materno, che vede negli uomini dei figli di Dio, delle sorelle e dei fratelli da accogliere, proteggere, promuovere e integrare. E amare teneramente. (…)