Sanremo torna a Morandi&Iva: rock addio, ecco la Restaurazione

Una mezza restaurazione, con il rock sparito dai radar. Amadeus esuma dal sepolcreto discografico i numi tutelari della memoria sanremese, mettendoli a confronto con la brigata dei rapper e dei teen-idol pop.

Ventidue Big (meno male: alla vigilia se ne minacciavano 26, con l’angoscia di tirare l’alba pure quest’anno), più i due vincitori della competizione Giovani, da proclamarsi il 15 dicembre. Grandi e piccini parteciperanno a una sola gara all’Ariston, dal 1° al 5 febbraio. Molte le sorprese nell’elenco annunciato dal direttore artistico nel Tg1 officiato da Giorgino. Vien da chiedersi se certi presunti scoop abbiano influito sulle scelte di Amadeus: dalla lista sparata da Signorini su Chi, molti sono i trombati. E altri sono entrati in extremis, come è storia a ogni Festival. Ecco i Grandi Vecchi, destinati a riequilibrare la cifra sanremese con le esigenze del pubblico generalista: si riaffacciano in competizione, dopo decenni, Massimo Ranieri (occhio al suo pescaggio nei tesori di Aznavour), Iva Zanicchi, Gianni Morandi. Volendo anche Donatella Rettore, schierata in coppia con la rivelazione Ditonellapiaga (e potrebbe essere un cocktail davvero micidiale).

Il cantautorato di nicchia ha il volto di Giovanni Truppi, quello consolidato la faccia da schiaffi di Fabrizio Moro. E la grazia di una candidata alla vittoria come Elisa, che guida il plotone delle splendide quarantenni Noemi ed Emma (più Giusy Ferreri). Achille Lauro si butta nella bagarre non senza scopo, Mahmood tenta il bis alleandosi con Blanco, e gli altri sono moneta sonante per gli adolescenti di Spotify: la spagnola Ana Mena, La Rappresentante di Lista, Aka 7Even, Irama, Dargen D’Amico, il quotatissimo Sangiovanni, Michele Bravi, Rkomi, la wild card rap Highsnob e Hu. Ci sono pure Le Vibrazioni: ma nell’anno post-Maneskin è acqua liscia nel motore del rock.

Taglio dei Tgr Rai: Usigrai-Fuortes, liti ed email al vetriolo

L’incontro c’è stato, ma lo stallo resta. Parliamo del taglio dell’edizione notturna dei tg regionali annunciata da Carlo Fuortes dal 9 gennaio che in Rai sta provocando polemiche a non finire, con l’Usigrai sul piede di guerra tra minacce di scioperi e la denuncia dell’ad per condotta anti-sindacale. Fuortes e Daniele Macheda, segretario Usigrai, si sono visti venerdì, un incontro informale finito però in un nulla di fatto: l’ad vuole tagliare e il sindacato dei giornalisti si oppone. Il faccia a faccia era stato preceduto da uno scambio di mail al vetriolo tra lo stesso Macheda e il direttore delle risorse umane, Felice Ventura. Nella prima mail Ventura invita l’Usigrai a un incontro per un’informativa sul tema per domani, 6 dicembre. Macheda, però, rifiuta l’incontro perché, secondo il sindacato, un confronto sarebbe dovuto avvenire prima e non “a cose fatte”, ovvero dopo che Fuortes ha annunciato la cancellazione dei tg in Vigilanza, dopo averne informato anche il Cda. Insomma, per Macheda la convocazione è inutile e tardiva, nonché “dannosa per il ruolo e l’immagine dell’Usigrai”. Perché “non ci possiamo sedere a un tavolo quando si è già deciso”. “Nessuna decisione definitiva è stata ancora assunta: il tema verrà discusso nel cda del 16 dicembre”, risponde Ventura. l’Usigrai ribatte sottolineando “l’evidente contraddizione” tra quello che dice Fuortes e quel che scrive Ventura. “Possiamo sederci al tavolo solo se si decide di rinviare tutto”, la proposta di Macheda. Poi l’incontro con Fuortes e il nulla di fatto.

Venezia, l’ossessione dei banchi a rotelle. Gettati con il pretesto del mal di schiena

Sono ormai i 40 banchi a rotelle più famosi d’Italia quelli del liceo “Benedetti Tommaseo” di Venezia, sin da quando la foto che li immortalava su un’imbarcazione con destinazione discarica ha creato scompiglio al punto da far aprire una istruttoria alla Corte dei Conti. Il rimpallo, a ottobre, era stato senza mezzi termini: dalle accuse all’ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, a quelle verso la preside del liceo, Stefania Nociti, che aveva sostenuto non ci fosse mai stato un ordine, fino alla replica della struttura dell’ex Commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, che riferiva i termini sia dell’ordine stesso che della sua accettazione. Oggi emerge un altro dettaglio. Qualcuno ha effettuato una richiesta di accesso agli atti per ottenere la il decreto con cui la preside Nociti ha ordinato lo sgombero dei banchi e dalla sua lettura emerge che alla base ci fosse anche una indicazione arrivata dall’assessore all’Istruzione del Veneto o quantomeno una interpretazione di un messaggio diffuso qualche settimana prima.

Nel decreto di ottobre 2021, la preside Nociti rileva diverse cose a suo dire andate storte: poca chiarezza negli ordini dei banchi, il loro presunto arrivo privo di documentazioni di accompagnamento e schede tecniche che avrebbe reso impossibile inventariarli, la scarsa comunicazione sulla consegna da parte del ministero, il loro inutilizzo e il loro ingombro. Ma soprattutto, la decisione della preside considera che “in data 1° febbraio 2021, la Regione Veneto attraverso l’assessore all’istruzione Donazzan, in seguito a un incontro con i sindacati, ha bandito l’utilizzo dei banchi a rotelle perché provocherebbero mal di schiena e danni posturali in quanto non ergonomici”. Anche per questo, dunque, il 21 ottobre decide di buttarli tutti.

Il contesto di quel periodo è in linea con quanto è scritto nero su bianco e con l’ossessione per queste sedute: l’assessore Donazzan, proprio dopo una riunione con le organizzazioni sindacali, aveva deciso a febbraio di avviare un’indagine per sapere quanti dirigenti scolastici avevano spedito nei magazzini o nelle soffitte le famose sedie con le ruote. Così come a luglio del 2020 aveva definito i banchi stessi pericolosi per il loro uso distorto. A farle da spalla era stato il leader della Lega, Matteo Salvini, con un post su Facebook.

“Mancano 1000 giudici”: il Csm avverte Cartabia

Il Csm è pronto a lanciare l’allarme sulla mancanza di pm proprio mentre si devono realizzare gli “ambiziosi obiettivi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè lo smaltimento dell’arretrato e il taglio della durata dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e del 25%. Alla ministra Marta Cartabia verrà chiesto dunque di procedere sin da subito alla riforma del concorso, consentendo la partecipazione dei giovani appena laureati in giurisprudenza. Le preoccupazioni sono contenute in una proposta di risoluzione che il plenum voterà lunedì prossimo. “Su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio in uffici giudiziari sono 9.131”, si legge nel documento messo a punto della VI Commissione. Mancano più di mille pm e la carenza “è destinata ad aggravarsi” per effetto dei pensionamenti. Per questo “è quanto mai necessario” riformare il concorso, aprendolo come una volta a tutti i neo-laureati in giurisprudenza, in modo tale che si arrivi al reclutamento di magistrati “in numero pari” a quelli messi a bando.

Ai gollisti non piace l’ultrà Ciotti, meglio Valérie la moderata

“È la prima volta nella sua storia che il partito del generale De Gaulle ha eletto una donna come candidata per le Presidenziali”. Sono state le prime parole di Valérie Pécresse, ieri, dopo il voto dei tesserati dei Républicains che l’hanno preferita a Eric Ciotti nella corsa per l’Eliseo. Pécresse, 54 anni, governatrice della regione di Parigi Île-de-France, che fu consigliera di Jacques Chirac e due volte ministra di Nicolas Sarkozy (dell’Insegnamento superiore e del Bilancio), raggiunge Marine Le Pen del Rassemblement National e la socialista Anne Hidalgo nella battaglia per spodestare Emmanuel Macron. “La Francia è diventata un puzzle, le restituiremo la sua unità, la sua dignità, la sua fierezza”, ha detto.

Erano partiti in cinque a pretendere la candidatura di LR. Al primo turno erano stati eliminati a sorpresa il favorito Xavier Bertrand e Michel Barnier, l’ex negoziatore Ue della Brexit. Al ballottaggio era arrivato invece primo, davanti a Pécresse ma per un soffio, Eric Ciotti, il più a destra della destra gollista, vicino alle idee radicali del polemista Eric Zemmour. Dopo il primo turno, gli eliminati hanno riconosciuto la sconfitta e invitato i loro sostenitori a votare Pécresse. Risultato finale: 60,95% per lei, 39,05% per Ciotti. Le neo candidata rappresenta una destra moderata e centrista. Negli ultimi mesi, dibattito dopo dibattito, ha difeso la soppressione di 150.000 posti di funzionari nelle amministrazioni, la creazione di una “carbon tax” alla frontiera Ue, la riduzione dei sussidi statali per i richiedenti asilo. Ha messo al centro del suo programma famiglia e scuola. Ma non potrà non tenere conto del risultato raccolto dal suo sfidante, che sposta a destra l’asse del partito e che intende contare: lo scrutinio, ha detto Ciotti, congratulandosi con la vincitrice, “dimostra che le idee della destra forte e senza compromessi sono al centro delle aspettative dei francesi”. La missione, non facile, di Pécresse sarà dunque di richiamare gli elettori della destra moderata scippati da Macron nel 2007, dopo lo scandalo che ha travolto il candidato LR François Fillon, e quelli della destra più dura, tentati da Zemmour e Le Pen. Finora nei sondaggi Pecresse non ha raccolto più dell’11% in un ipotetico primo turno di aprile e, con la ripresa fulminea dell’epidemia di Covid-19 in Francia, il suo primo meeting dell’11 dicembre è stato annullato. Ma la sua candidatura può rilanciare il partito. Ieri, nel discorso da neo-candidata, ha preso le distanze da Macron: “Tra noi c’è una differenza di linea politica, ma anche di natura – ha detto –: Macron ha una sola ossessione, piacere. Io ho una sola passione, fare”. Ma è soprattutto agli elettori dell’estrema destra che si è rivolta: “Non c’è bisogno di essere estremisti per essere offensivi, né insultanti per essere convincenti – ha detto –. Volteremo la pagina Macron, senza strappare le pagine della storia di Francia”. E ha chiamato a sé “tutti i patrioti”. Oggi comincerà la campagna nel territorio di Ciotti, deputato delle Alpi-Marittime. Se la candidatura di Pécresse potrebbe disturbare Macron, è invece potenzialmente una buona notizia per Marine Le Pen che ha già invitato gli elettori di Ciotti a raggiungerla: ” Valérie Pécresse è la più macronista di tutti. I delusi da noi troveranno una difesa senza complessi della nazione, dell’identità, delle frontiere”. Rispetto a Le Pen, e anche a Zemmour, in difficoltà dopo la folgorante ascesa nei sondaggi, Pécresse ha il vantaggio di poter presentare una squadra di governo praticamente già pronta e di mostrare un’unità di partito da far invidia, soprattutto alla gauche disgregata

Povertà, Covid, violenza: la Grande Mela è bacata

“Sono stati quindici minuti di violenza casuale e terribile a Manhattan. Prima uno studente di Ph.D. a Columbia University, il trentenne Davide Giri, viene accoltellato a morte a Mornigside Park. Tornava a casa, erano le 11 di sera, dopo un allenamento di calcio. Qualche minuto e un altro studente italiano, Roberto Malaspina, 27 anni, viene aggredito poco lontano e ferito al torso. Non rischia la vita.

Tocca poi a un uomo che passeggia con il cane a Central Park. Viene solo minacciato. Vincent Pinkney, 25 anni, è arrestato poco dopo. Sarebbe lui il responsabile delle tre aggressioni. Pinkney fa parte di una gang, la “Everybody Killa”, con base a Queens. Era in libertà vigilata. Dai 16 anni in poi, è stato arrestato 11 volte. Il presidente di Columbia, Lee Bollinger, esprime ora cordoglio per la morte di Giri e invia a studenti e personale una email in cui annuncia che la sorveglianza verrà intensificata. Ma gli studenti protestano. Ritengono le misure insufficienti e vogliono, scrive in un tweet uno studente, che Columbia usi “il suo budget miliardario per la sicurezza”. Un’altra studentessa era stata uccisa in zona due anni fa. Protestano i residenti del quartiere, all’incrocio tra Upper West Side e Harlem. E protestano i conservatori, che accusano i liberal di essere troppo “soft” in tema di criminalità.

La zona, in effetti, appare di difficile gestione. Il distretto di polizia accanto a Columbia ha registrato in due anni un aumento del 60 per cento delle violenze contro le persone. Sono triplicati gli incidenti con arma da fuoco. L’esplosione di crimini non riguarda soltanto questo lembo nord di Manhattan. In città, dal 2019, gli omicidi sono cresciuti del 42 per cento. Un senso generale di paura si è impadronito di molti newyorchesi, in una città progressista che, alle elezioni dello scorso novembre, ha però scelto come sindaco un ex capo della polizia, Eric Adams, democratico che promette di essere “duro contro il crimine”. Bill de Blasio, sindaco in uscita, viene considerato responsabile dell’esplosione di violenza. Indebolendo i poteri del Dipartimento di polizia, liberando in tempi di Covid le carceri cittadine di oltre un migliaio di detenuti, De Blasio avrebbe innescato il vortice di violenza. In realtà, il problema è più vasto.

Dopo due anni di pandemia, New York è una città devastata. Il Covid ha colpito ovunque, ma ha colpito con durezza spropositata qui, in una città che vive di circolazione di uomini e servizi. L’aumento della criminalità data proprio a questi ultimi due anni. Nel 2018, New York era la 15esima città più sicura d’America, con un numero di omicidi mai così basso dal 1951. Poi appunto il crollo, in coincidenza con la crisi sanitaria, l’esplosione della disoccupazione e della povertà. Sono aumentati gli omicidi, i furti, gli attacchi per le strade. Il senso di insicurezza è stato nutrito dalla percezione di un decadimento materiale della città. I minori introiti fiscali causati dalla crisi – ci si aspetta, nel 2022, un calo di oltre un miliardo e mezzo di dollari in tasse sulla casa – ha portato al peggioramento dei servizi. Le strade sono dissestate, ricolme di pattumiera. La metropolitana è sporca, degradata, utilizzata soprattutto da coloro che non possono permettersi altri mezzi. La città luna park che Michael Bloomberg aveva creato, paradiso di ricchi e promessa di futuro, appare lontana.

Per le strade ci sono circa 45 mila senza casa. Sono meno dei 60 mila che De Blasio ha ereditato nel 2014, al momento dell’elezione a sindaco – l’aumento vertiginoso degli affitti durante l’amministrazione Bloomberg aveva cacciato dalle loro case migliaia di residenti. Oggi gli homeless sono meno, ma più visibili. Non vengono più arrestati. Non vengono cacciati. La città ne ha ospitati 8 mila negli hotel durante la pandemia. Ora che gli hotel sono tornati alla normalità, gli homeless tornano a vagare. Ce ne sono decine a ogni angolo. Con il freddo, affollano le stazioni della metropolitana. Chiedono un dollaro, offrono improbabili servizi. Molti hanno problemi di salute mentale. Sono l’immagine più tragica della caduta di New York. Come altrettanto devastante è l’immagine di interi quartieri che la crisi ha svuotato. Canal Street, a Chinatown, è un luogo fantasma. Hanno chiuso ristoranti, negozi di griffe contraffatte, parrucchieri e pedicure. Nei quartieri di antica ricchezza non va meglio. Molte vetrine su Madison Avenue sono buie. Interi grattacieli per uffici di Midtown sono vuoti.

New York ha un problema di criminalità ma, ha scritto il New York Times in un pezzo sulle chiusure dei ristoranti, ha anche un problema di identità. C’è l’ansia per la crescita di omicidi e reati. C’è soprattutto l’ansia per una città che negli ultimi due anni è cambiata, che ha visto spegnersi molte delle sue luci e che oggi cerca, faticosamente, un futuro.

Biden tradisce la sinistra dem con Walmart

Joe Biden conquista un voto che pesa. Ma rischia di perderne migliaia. Il presidente democratico flirta con Walmart, colosso del commercio al dettaglio negli Usa, maggior datore di lavoro privato americano, ma così facendo si attira le critiche dei sindacati, che con Walmart hanno contenziosi, specie per il trattamento delle minoranze. Per Biden, il flirt con Walmart indica un cambio d’atteggiamento importante. Nel 2008, quando faceva campagna per la nomination democratica – uscì presto dalla corsa, che sarebbe poi diventata un testa a testa tra Hillary Clinton e Barack Obama –, l’allora senatore si presentò nello Iowa prendendosela con Walmart: “Il mio problema con loro è che non vedo nessun segno che si preoccupino di come sta la classe media”. Perse le primarie di brutto, ma probabilmente lo sfogo anti-colosso non fu determinante. Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti del Potomac. Oggi, Walmart è un alleato chiave dell’Amministrazione Biden. Non solo perché in tempi di Covid s’è mobilitato su sollecitazione della Casa Bianca per garantire gli approvvigionamenti in un momento critico, ma anche perché è ormai divenuto un grande finanziatore del Partito democratico.

Senza però tradire del tutto i Repubblicani ‘primo amore’: nel 2004, secondo i dati forniti a Politico da Open Secrets, un gruppo che fa i conti in tasca alle aziende e ai partiti, Walmart diede 1,32 milioni di dollari ai Repubblicani e solo 358.500 dollari ai Democratici; nel 2020, ha foraggiato le due campagne allo stesso modo, con 596 mila dollari. E i Democratici, che in passato non accettavano soldi dall’azienda, ora sono inclini a farlo: anche con l’intervento di lobbisti, l’azienda ha trovato ascolto presso il partito e i membri del Congresso. La Walmart Stores Inc è una multinazionale fondata nel 1962 da Sam Walton e quotata dal 1972, ma tuttora controllata dalla Famiglia Walton, che mantiene oltre il 50% del capitale. Al 31 luglio 2020, aveva 11.496 negozi in 27 Paesi, il che ne fa la più grande catena al mondo della grande distribuzione organizzata. Questa settimana, Biden ha scherzato con il Ceo della catena di supermercati Doug McMillon, dichiarando di “avere speso da Walmart più tempo di quanto non voglia ammettere”. E ha poi citato la collaborazione dell’azienda con l’Amministrazione per garantire gli approvvigionamenti agli americani durante la pandemia. In due altre occasioni, il capo dello staff della Casa Bianca, Ron Klain, ha twittato citazioni di McMillon a sostegno dell’Amministrazione. Altri passi della Walmart hanno trovato echi favorevoli fra i Democratici: l’impegno ad accogliere rifugiati afghani; le iniziative per vaccinare gli americani nei suoi supermercati; e il favore con cui accompagna le scelte economiche dell’Amministrazione Biden. Ma il flirt del presidente con la Walmart disorienta la sinistra del partito e i sindacati. Su Politico, Bianca Augustin di United for Respect nota con amarezza: “È significativo che nelle dichiarazioni di plauso verso gli amministratori delegati non si faccia menzione dei lavoratori cui i profitti si devono. Abbiamo bisogno che i nostri leader siano dalla parte dei lavoratori essenziali che stanno mantenendo il Paese in funzione… Abbiamo bisogno di leggi e regole che inducano McMillon a fare le scelte giuste” e a non limitarsi a ‘indorare la pillola’. Il senatore Bernie Sanders la accusa di pagare salari da fame. Altri critici le contestano annunci senza seguito: un anno fa, Walmart suscitò attenzione con la decisione di non esporre più armi automatiche, ma dopo poco tempo ritornò sui suoi passi. E di recente ha annunciato progetti ambiziosi sul fronte clima, ancora da attuare. Anche dal punto di vista dell’equità razziale l’azienda desta perplessità.

I suoi manager di colore non incoraggiano i giovani afroamericani a trovare impiego: la paga non è male, dicono, ma l’ambiente non è favorevole alle minoranze e le possibilità di carriera sono minime. Se sei nero, entri commesso ed esci commesso, è il sentimento diffuso. Per ottenere un riconoscimento, devi lavorare più degli altri ed essere più bravo degli altri; e il minimo errore non ti viene perdonato. Lo dicono alcuni dei 56 direttori, manager e supervisor ‘black’ in un sondaggio interno: gli afroamericani sono il 21% della forza lavoro con 1,6 milioni di dipendenti – contro il 13,4% della popolazione –. Spesso i neri hanno i compiti meno retribuiti e più precari: rappresentano il 28% delle assunzioni, ma solo il 13% di quanti passano da precari a stabili; e solo l’8,4% ‘fa carriera’, proporzione immutata dal 2014.

La società lascia indietro i più deboli

 

“Nel 2020 due milioni di famiglie italiane vivono in povertà assoluta con un aumento rilevante (+104,8%) rispetto al 2010 (980.000)”.

Dal Rapporto Censis 2021

 

Un certo scalpore ha suscitato la notizia dell’assegnazione del premio per il migliore studio legale agli avvocati di Gkn per la chiusura dello stabilimento fiorentino e l’esubero di circa 430 dipendenti. Tanto più che i premiati si sono detti su Facebook “orgogliosi” per tanto onore. Soddisfazione sommersa dalla indignazione e, infatti, subito cancellata. Commentando l’episodio, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha detto: “Dobbiamo pensare a cosa sia successo per arrivare a questo punto, bisogna riflettere sul come sia possibile che diventi quasi normale che uno rivendichi di avere assistito a quel tipo di licenziamento”. Per poi concludere: “Se c’è chi rivendica, magari pensa anche che possa portare qualche prestigio”. Se il ministro vuole davvero “riflettere” è sufficiente che si guardi in giro e si chieda da quanto tempo le cosiddette emergenze sociali sono scomparse dal dibattito pubblico e retrocesse dall’informazione mainstream tra le varie ed eventuali. I poveri sono raddoppiati? Due milioni di famiglie sono quasi alla fame? Qualche titolo per un paio di giorni, i consueti editoriali pistolotto, balbettii sparsi della politica e quindi cala di nuovo il silenzio. I licenziamenti? Dopo la fine del blocco (insieme alla campagna di vaccinazione e al Pnrr il terzo problema che Mario Draghi era stato chiamato a risolvere dal capo dello Stato), ecco il consueto spettacolo: multinazionali in fuga, aziende chiuse, lavoratori in piazza con fischietti e campanacci, altri tavoli di crisi che si aggiungono alla novantina giacenti presso il ministero dello Sviluppo economico. Mettiamoci pure la mutata sensibilità collettiva per tutto ciò che riguarda i temi del lavoro e della occupazione. Che nel secolo scorso dominavano la scena politica e quella culturale, con la popolarità di sindacati e leader sindacali che governi e partiti spesso percepivano come un contropotere da rispettare e da temere. Per non parlare della cultura, della tv, del cinema. Chi penserebbe oggi a film come “La classe operaia va in paradiso” o “Mimì Metallurgico”, che facevano il pieno al botteghino? Mentre sul piccolo schermo l’eroe del giorno è lo stakanovista Renatino, felice di lavorare “trecentosessantacinque giorni l’anno” per il Parmigiano Reggiano. È in questo clima, caro ministro Orlando, che un primario studio legale (non a caso consulente della Lega) può mostrare con orgoglio le sue benemerenze. Tagliare i rami secchi. Delocalizzare la produzione. Ridurre gli organici. Ecco le medaglie di una società che si lascia dietro i più deboli e neppure si volta a guardarli (che poi la pagina su cui campeggiava l’“orgoglio” degli affermati professionisti sia divenuta inaccessibile rivela soltanto l’ipocrisia nazionale del si fa, ma non si dice).

 

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Mattarella non è stato di parola sul Conte bis

No, caro Travaglio, non è vero che Mattarella è un uomo di parola. Ricordo perfettamente che aveva detto che dopo il Conte bis non ci sarebbe stato un terzo governo senza elezioni. Invece, senza colpo ferire, ha abbattuto il Conte bis che, tutto sommato aveva iniziato una buona campagna vaccinale, dopo le difficoltà nei primi mesi. E per cosa: per dare la gestione di quella valanga di miliardi ai soliti noti. Che dire poi dell’ometto, l’ex magistrato Violante, che difende il delinquente? A volte mi viene da dire che avevamo ragione quando dicono che avevamo torto.

Sisinnio Bitti

 

In effetti Mattarella aveva detto “o governo Conte o elezioni” e poi ha fatto l’opposto, senza neppure rinviare il Conte-2 (mai sfiduciato) alle Camere. Ma la colpa è soprattutto dei partiti (tutti tranne uno) che gli hanno dato spago perché non volevano votare. Altrimenti avrebbe dovuto sciogliere le Camere. Quanto a Violante, è sempre stato così, anche se molti se ne sono accorti troppo tardi.

M. Trav.

 

I pericolosi referendum di Lega e Radicali

Bisogna cercare di fermare i referendum sulla giustizia voluti da Lega e Radicali, che mettono sotto il potere esecutivo la magistratura togliendo l’obbligatorietà dell’azione penale. Se verranno ammessi questi referendum, significherà la fine di quel lumicino di giustizia in questa nazione, e la vittoria di quei pochi politici che vogliono controllare la magistratura e la giustizia italiana. Fate pressioni affinché vengano bocciati. Già c’è una crisi economica per via della troppa corruzione, figuriamoci poi se la magistratura sarà controllata dal potere esecutivo, cioè quello politico.

Alessandro Tesi

 

Caro Alessandro, solo la Consulta può fermare questi sciagurati referendum. Se li avallerà (e dubito che lo farà per tutti), non resterà che lanciare un’altra grande campagna di mobilitazione, come nel 2006 e nel 2016, per il No.

M. Trav.

 

L’influenza stagionale è molto diversa dal Covid

Tra le varie assurdità e follie apparse in questo disgraziato mondo negli ultimi 18 mesi, vi è sicuramente questa: la tendenza a pensare che il Covid sia l’unica malattia esistente. Anche l’influenza stagionale contagia e, in alcuni casi, ammazza. Allora perché con l’influenza stagionale non viene mai dichiarato lo stato di emergenza? Perché lì non sospendono le libertà? Il sacro principio della salute pubblica scompare?

Marco Scarponi

 

Perché l’influenza stagionale, malgrado i molti contagi e le molte vittime, ha tassi di infezione e letalità molto inferiori e soprattutto non ha mai mandato in tilt il Sistema sanitario nazionale riempiendo le terapie intensive.

M. Trav.

 

Le criptovalute servono soprattutto ai criminali

Tra le tante riforme, ce ne sarebbe una che tutti gradirebbero: vietare la detenzione e la circolazione di qualsiasi criptovaluta. Le buone ragioni per farlo sono diverse, non ultima quella che le criptovalute permettono trasferimenti anonimi non tracciabili, rendendo la vita più comoda ai delinquenti. Dichiararle illegali non ne causerebbe automaticamente la scomparsa, ma scoraggerebbe molti dall’acquistarle a fini speculativi.

Alessandro Lenza

 

Le ipocrisie di Stato sulle sigarette

Io non fumo, non ho mai fumato. Quand’ero ragazzo qualche compagno di scuola affidava alle sigarette l’espressione della propria virilità. Non ne sono mai stato attratto. Il pacchetto contiene una serie di scritte tipo “il fumo causa il cancro alla bocca” e, perfino, l’indicazione del “numero verde per smettere di fumare”, Alle scritte si accompagna l’orribile fotografia di una lingua colpita da tumore. Non credo di essermi mai imbattuto in un comportamento di tanta straordinaria ipocrisia. Lo Stato italiano, che dalla vendita delle sigarette incassa ogni anno 14 miliardi di euro, invita con le parole a smettere, con i fatti a fumare. Penso alla strega di Biancaneve che, prima di consegnarle la mela, la avverte dicendole che il frutto è avvelenato. Il fumatore non può essere definito Biancaneve, ma lo Stato è sicuramente una strega.

Guariente Guarienti

Il Natale vietato e poi riammesso e i futuri patemi del sig. Pasquale

Essendo nato il 25 dicembre di una settantina di anni fa il signor Natale Gordonera era stato battezzato con quel nome. Si potrebbe discettare sulla fantasia dei genitori ma è certo che la fatidica coincidenza con la venuta al mondo del bambinello ne abbia condizionato la scelta. Ora, fino a una certa età il Gordonera ha mal digerito la cosa. Gli è perché nello stesso giorno ha sempre ricevuto un unico regalo che comprendeva l’omaggio al compleanno e alla giornata di Natale. Col passare del tempo il fatto gli ha sempre dato meno fastidio poiché a una certa età spesso è più il pensiero a contare che non il regalo: basta un augurio insomma o un bigliettino. Pochi giorni orsono però, apprendendo la notizia che la parola Natale sarebbe stata bandita, sacrificata sull’altare del politicamente corretto, con quella “festività”, s’è fatto una corsa presso gli uffici comunali per chiedere informazioni su cosa fare per cambiare nome. Allo sguardo stupito dell’impiegato il Gordonera ha detto di aver sentito che in alcuni negozi sono comparsi cartelli con scritto “Vendesi alberi della festività” e che già circolano menu di ristoranti con la dizione “Menu della festività”. Stando così le cose non vorrebbe incorrere in qualche sanzione se qualcuno e, Dio non voglia !, magari in pubblico lo salutasse con la formula che lo insegue da settant’anni: “Auguri e buon Natale, Natale”. Sfiatato finalmente il Gordonera, l’impiegato ha potuto rispondere. Cambiare nome è cosa che può andare per le lunghe, ci vuole una domanda, una motivazione e non è detto che la risposta sia positiva. Ma soprattutto ha tranquillizzato il nostro perché la norma è stata repentinamente revocata. Bene, mi fa piacere, ha detto il Gordonera grattandosi il barbozzo. Però… “Ecco – ha aggiunto – visti i tempi che corrono e quelli che servono per cambiare nome, non crede sia meglio che avvisi un mio amico di mettersi in pista già da ora. Sa com’è, si chiama Pasquale”.