Migrante “legato tre giorni”: muore ospite Cpr in tso

Un giovane tunisino di 26 anni, Wissen Belabdelatif, ospite del Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria (Roma) è morto in situazioni “poco chiare” il 28 novembre scorso, mentre era ricoverato presso il servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale San Camillo della Capitale. A gettare dubbi sulla dinamica del decesso sono stati il consigliere regionale del Lazio di +Europa, Alessandro Capriccioli e il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Il ragazzo, affetto da problemi psichici, ufficialmente è morto per “arresto cardiocircolatorio” ma “bisogna fare piena luce sulla vicenda”, ha detto Capriccioli al termine della visita effettuata presso il Cpr romano. “Il 23 novembre – ricostruisce l’esponente radicale – al fine di un approfondimento della valutazione psichiatrica, il giovane è stato portato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi” di Ostia. Il 25 il trasferimento al San Camillo, poi il decesso il 28. La Procura ha aperto un’inchiesta. Secondo fonti investigative il ragazzo sarebbe rimasto “legato” per tre giorni per permettergli il trattamento sanitario.

La giostra isterica del Dio pallone in Piazza Affari

Nei suoi vent’anni in Borsa, dove ha debuttato il 20 dicembre 2001, tra crolli e rimbalzi l’azione Juventus ha fatto venire il cardiopalmo ai suoi investitori più che una finale di Champions ai suoi tifosi. Nessun settore a Piazza Affari è volatile come il calcio, ma il titolo bianconero svetta anche su questo fronte: nei suoi primi 10 anni l’azione ha perso quasi il 90% del suo valore fino al minimo storico a 0,137 euro del 25 gennaio 2012, poi si è rivalutata di 10,5 volte sino al record di 1,57 euro del 4 aprile 2019. Il 27 dicembre 2018 il titolo era così forte da rimpiazzare precedenti big come Banca Mediolanum e Mediaset nel listino Ftse Mib delle 40 società maggiori. Ma oggi la doppia bufera odierna del nuovo aumento di capitale (il terzo, per 400 milioni) e delle indagini sulle plusvalenze di calciomercato ha fatto perdere di nuovo ai corsi tre quarti del loro valore.

Quando si quotò a 3,7 euro (prima delle rettifiche di prezzo dovute ai due aumenti di capitale da 104,8 milioni del 2007 e da 120 del 2011), il collocamento del 37% del capitale portò la capitalizzazione a 385 milioni, molto più alta di quelle di Lazio e Roma. Oggi in Borsa ne vale 552. Ma già la trimestrale al 30 settembre 2001 avrebbe dovuto far suonare l’allarme: la Juve – primo club a pagare un dividendo – aveva realizzato un utile netto di 56,8 milioni solo grazie a plusvalenze nette di calciomercato per 123,9 milioni. Il fatturato trimestrale era cresciuto del 70% ma era di appena 36,2 milioni, a fronte dei 171 dell’esercizio 2000-01. L’80% dei ricavi arrivava da diritti tv e sponsor. Gli analisti segnalarono invano che l’azione bianconera era offerta a un prezzo troppo caro rispetto ai concorrenti (il multiplo tra valore d’azienda e margine operativo lordo, alla quotazione, era di 30 volte contro una media di 22 in Europa). Così la matricola bianconera già nella prima seduta perse il 5,81%. Sorte migliore era toccata al debutto in Borsa alle altre due squadre quotate di serie A, Lazio e Roma. La prima, nella prima seduta del maggio ’98, aveva guadagnato l’8,5% a 3,3 euro dal collocamento a 3,04. A maggio 2000, nel primo giorno in Borsa la Roma era salita del 3,25% a 5,67 euro dai 5,5 del collocamento.

Da allora, nelle sue 5.096 sedute a Piazza Affari, l’azione Juventus ha fatto letteralmente follie: il titolo bianconero ha segnato ben 33 chiusure giornaliere con rialzi superiori al 10%, con il record di +28,55% del 15 ottobre 2013, e ben 96 con rialzi tra il 5 e il 10%. Ma anche 22 sedute con ribassi superiori al 10% e altre 97 con chiusure in calo tra il 5 e il 10%. L’ottovolante è stato spesso rapidissimo: al record di rialzo quotidiano seguì il giorno dopo il massimo tonfo: -24,2%, 16 ottobre 2013. La schizofrenia è legata ai risultati sul campo: impressionanti furono i tracolli dei corsi seguiti alle sconfitte nelle finali di Champions League del 28 maggio 2003 con il Milan e del 3 giugno 2017 con il Real Madrid. Ma contano anche indiscrezioni e colpi di calciomercato: fece furore il rialzo della primavera 2006, quando il dg Luciano Moggi aveva 50 milioni da spendere per il calciomercato e il titolo volò a 0,785 euro. Poi splose Calciopoli: il 13 maggio 2006 emerse lo scandalo delle designazioni arbitrali, il giorno dopo la Juve vinse il 27° scudetto e l’azione salì del 4,1%. Ma il 27 luglio la squadra fu privata degli scudetti 2005 e 2006 e retrocessa in serie B, per la prima volta nella sua storia. L’arrivo di Cristiano Ronaldo, a luglio 2018, portò l’azione a 1,54 euro, vicina al record storico. La pandemia, con lo stop al calcio e il tonfo delle Borse, il 12 marzo 2020 la fecero crollare a 0,545 euro. Ora la nuova inchiesta e il terzo aumento di capitale l’hanno di nuovo depressa a 0,41 euro.

Questa folle altalena solleva una domanda: ha senso (tranne che per i proprietari) quotare in Borsa una squadra di calcio? Ma nessuno, tantomeno Consob, pare volersela davvero porre. The show must go on.

Plusvalenze “negative”: nei bilanci il fantacalcio

Chissà se il signor Ugo (nome di fantasia) e lo State of Wisconsin Investment Board, entrambi azionisti della Juventus, un giorno si sono chiesti: come mai il club ha comprato Cristian Romero dal Genoa per 26 milioni e l’ha lasciato in prestito prima al Genoa e poi all’Atalanta? E come mai l’Atalanta l’ha riscattato per 16 milioni (da pagare alla Juve, per di più, in tre comode rate) e l’ha ceduto 24 ore dopo al Tottenham per circa 55 milioni guadagnandoci ben 39 milioni? E come mai Genoa e Atalanta sono i principali creditori della società bianconera? E come mai l’operazione Romero iniziata con Fabio Paratici direttore generale della Juve termina con Paratici dg del Tottenham? Qualcuno dirà: è il calcio, bellezza. Qualcun altro: è il mercato. Diciamola tutta: è il calciomercato e, se aggiungiamo che siamo nel regno de “la palla è rotonda”, diventa facile chiudere la questione con i tarallucci e con il vino. Sarà. Ma fino a un certo punto. Perché i risparmi del signor Ugo (e di tutti gli azionisti) sono tutelati dall’articolo 47 della Costituzione e la Consob deve occuparsi anche di una società di calcio quotata. Inoltre la cessione di Romero (e non solo) è nel mirino della procura di Torino che indaga sulla Juve per falso in bilancio. E quindi, per una volta, i tarallucci e il vino mettiamoli da parte.

Per quanto tifosoe appassionato, un azionista resta un azionista e il 24,3% del capitale di Juventus Football Club spa è in circolazione sul mercato azionario. Nessun azionista può conoscere nel dettaglio le operazioni del titolo su cui ha investito. Ma una società di calcio ha una peculiarità in più: il 30% dei ricavi della Juve, nell’esercizio 2019/2020, è costituito dalla voce “proventi da gestione diritti dei calciatori”. Tradotto: dal “calciomercato” (e dalle relative plusvalenze). La percentuale – oggi scesa al 9% – nel 2018/2019 ammontava al 25,3% e nel bilancio precedente al 20,3. In altre parole: un quarto dei ricavi è dipeso dal calcio mercato e dalle plusvalenze (ho ceduto il calciatore a una cifra superiore a quella di acquisto). Ora: chi può stabilire qual è il prezzo corretto, nell’acquisto di un calciatore, se non il mercato e l’accordo tra le parti? Siamo nell’alea assoluta. Ma queste operazioni rappresentano una componente essenziale del bilancio e, quindi, dell’investimento fatto dall’azionista. Non tutte le società quotate sono uguali. Il Manchester United negli ultimi 10 anni ha realizzato plusvalenze per 122 milioni. La Juve 166 nel solo esercizio 2019/2020. Quindi il signor Ugo dovrebbe esultare. E con lui anche l’azionista Alaska Permanent Fund Corporation. Ma se volessero addentrarsi nelle operazioni, se provassero a trovare una logica esclusivamente economica, ne ricaverebbero una labirintite. Scoprirebbero che, per le campagne trasferimenti, il maggiore creditore della Juve è proprio il Genoa: gli deve 31,1 milioni. E dall’ultimo bilancio scoprirebbero che proprio al Grifone la Juve ha venduto Manolo Portanova (10 milioni) ed Elio Petrelli (8 milioni) realizzando una plusvalenza da ben 18 milioni. Ottimo: sono entrati 18 milioni in cassa, penseranno Ugo e l’azionista City of New York Trust, prima di passare alla voce “acquisti” e notare che quei 18 milioni sono in qualche modo ritornati nelle casse del Genoa che, per la stessa cifra, ha venduto alla Juve Nicolò Rovella. Vabbè, si diranno: pari e patta. Ma se andassero a controllare un po’ meglio, tra le righe del calcio mercato, scoprirebbero anche che Rovella era in scadenza di contratto: aspettando soli 4 mesi la Juve avrebbe potuto acquistarlo a molto meno. Uno pensa: forse la Juve aveva necessità di Rovella. Poi cerca la sua presenza in bianconero e non lo trova: dal Genoa, Rovella, non se n’è mai andato, perché è rimasto lì in prestito. A ’sto punto uno dice, vabbè sarà stato un affare comunque, fammi vedere quanto valgono oggi ’sti tre calciatori? Clicca sul sito transfermarkt.it e scopre che Rovella (acquistato a 18 milioni) ne vale 6, Portanova (venduto a 10) ne vale 1 e Petrella (ceduto a 8) ne vale 250mila. Presa la calcolatrice, l’azionista scoprirebbe che la Juve ha acquistato per 18 milioni un calciatore che oggi ne vale 6. E che al Genoa ne ha venduti due, sempre per 18 milioni, che in totale oggi valgono 1 milione e 250mila euro. E che tutto questo fa bene al bilancio. A gennaio la Juve vende al Genoa –che è creditore della Juve per circa 31 milioni e debitore dei bia nconeri per 26,3 –Stefano Sturaro per 18 milioni (plusvalenza da 13,6) con un pagamento in 4 anni (quindi 4 milioni l’anno). Un mese dopo il Genoa vende alla Juve Luca Zanimacchia per 4 milioni. Ora, deve essere una coincidenza, ma la somma coincide la quota tonda tonda di una rata. Quanto vale oggi Sturaro (che poi ha avuto, purtroppo per lui, degli infortuni)? Per transfermarkt.it 4,5 milioni. E Zanimacchia? 400mila euro. Poiché non è il Fantacalcio la Procura di Torino sta indagando e solo al termine delle indagini, e di un eventuale processo, si stabilirà se configurano un falso in bilancio per la Juve o no.

Ma è interessante scoprire che nell’operazione Romero (acquistato dal Genoa) chi fa il vero affare è l’Atalanta (lo acquista dalla Juve per 16 milioni e lo rivende all’istante per 55 al Tottenham) che, nel bilancio 2019/2020, è in cima alla speciale classifica dei creditori bianconeri con 33,8 milioni. E fin quando si tratta di operazioni come Romero o Cristiano Ronaldo, per informarsi, basta leggere un quotidiano sportivo. Ma (con rispetto parlando) come fa l’azionista Shell Canada 2007 Pension Plan 400 quando si parla di Kevin Monzialo ceduto dalla Juve al Lugano per 2,5 milioni (oggi ne vale 200mila) con una plusvalenza in bilancio di 2,3 milioni, e si scopre che, nello stesso giorno, e per la stessa cifra, dal Lugano arriva Cristopher Lungoyi (oggi ne vale 600mila)? Operazioni come queste hanno costituito, negli ultimi 4 anni, fino al 30% dei ricavi bianconeri. Ora, cedere o acquistare un brocco, pensando che sia il nuovo Maradona, di per sé non è reato ed è quasi impossibile scoprirlo solo leggendo un bilancio. Ma la pena prevista per l’eventuale falso in bilancio, se la società è quotata in Borsa, diventa più alta e consente di intercettare gli indagati. Ed è questo il punto chiave dell’inchiesta: a quanto pare i dirigenti juventini, al telefono, del via vai di acquisti e cessioni hanno parlato parecchio.

I giornali di destra: da nemici a fanatici delle misure sanitarie

Un anno fa, con quasi 25 mila contagi e oltre 800 morti al giorno, erano i giornali della “libertà”, della guerra alla “dittatura sanitaria”, del guai a “toglierci il Natale”. Si permettevano addirittura di mettere in dubbio l’efficacia dei vaccini che sarebbero arrivati di lì a poco. Oggi, un anno e un governo dopo – sarà l’effetto dei “Migliori” contro il “peggiore” Giuseppe Conte – è tutto cambiato: Libero e Il Giornale, improvvisamente, sono diventati i giornali più vaccinisti e rigoristi d’Italia. Le chiusure per Natale sono “più che giuste” e, se potessero, i giornalisti dei due quotidiani andrebbero a cercare i no vaxa uno a uno, casa per casa, coi forconi. Filippo Facci, che 12 mesi fa invitava a disobbedire alle chiusure di Conte, oggi dice addirittura che i no vax “vanno arrestati tutti”. Tutto questo crea un cortocircuito nel centrodestra: Alessandro Sallusti, direttore di Libero, se la prende ogni giorno con Matteo Salvini e Giorgia Meloni che, secondo lui, lisciano il pelo ai no vax (“Sono paraculi”), mentre si è aperta una guerra tra Vittorio Feltri e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro proprio sulla bontà di Green pass e vaccini (“fai cattivo giornalismo”, “sei pazzo da legare: ti ho assunto io e porta rispetto”). Per non parlare dei leader del centrodestra che adesso non hanno nemmeno più giornali di riferimento sulle misure anti-pandemia in Italia.

Ma riavvolgiamo il nastro. Primi di dicembre 2020, nel pieno della seconda ondata. Contagi alle stelle, morti verso quota mille, ospedali di nuovo pieni.

Il governo Conte, dopo aver introdotto il meccanismo dell’Italia a colori (giallo, arancione, rosso), pensava a nuove restrizioni in vista delle feste natalizie. Le prime pagine di Libero e Il Giornale di quei giorni parlano da sole: “Italiani chiusi, clandestini a spasso. Siamo discriminati” (Libero, 01.12), “Natale senza i tuoi. Festa rubata: il moralismo burocratico” (Il Giornale. 04.12). Poi le restrizioni effettivamente arrivarono con un nuovo Dpcm – zona rossa nei giorni di festa, cenone solo coi parenti stretti – e nelle due redazioni sembrava essere arrivata l’apocalisse: “Difendiamo il Natale da chi vuole cancellarlo” (Il Giornale, 15.12), “Il governo è impazzito, la gente fugge disperata. Nuovi divieti incomprensibili e inutili” (Libero, 19.12), “Il nemico degli italiani (foto di Conte, ndr). Paese in rivolta per i soprusi del premier” (Libero, 20.12). Augusto Minzolini, firma di punta del quotidiano di casa Berlusconi, il 6 dicembre firmava un editoriale dal titolo emblematico: “La guerra di Natale. Conte in guerra contro il Paese”. Svolgimento: “Lo spiegamento è da guerra moderna: 70 mila uomini, droni, controlli a tappeto. C’è da chiedersi se siamo in Italia o in Iraq. (…) Siamo diventati uno Stato di polizia per fronteggiare il Covid-19”. Vittorio Feltri, allora direttore di Libero, spiegava che gli italiani erano “più perseguitati dal governo che dal coronavirus” (19.12). Facci, firma di punta del quotidiano filo-salviniano, il 10 dicembre si ergeva a nuovo Gandhi nostrano e firmava un articolo dichiarando che non avrebbe rispettato i divieti: “Quando disobbedire è un dovere”. E su twitter aggiungeva: “Siete davvero rinscemiti tutti, a tal punto sudditi? Riprendetevi la vostra vita, se ne avete una”. Il 10 dicembre Libero, in prima pagina, metteva in dubbio anche i vaccini: “Il vaccino della discordia. Molti lo vogliono, moltissimi lo rifiutano. Cresce il fronte degli scettici, secondo cui si rischia la sterilità” (10.12).

Un anno dopo è tutto cambiato. Ora il governo giallorosa non c’è più e nel frattempo è arrivato Mario Draghi. Chiusure, imposizioni, Green pass e Super green pass adesso profumano di rose. Per Sallusti, diventato direttore di Libero, i no vax sono “come i terrapiattisti”, per Feltri (spodestato da Sallusti) il Super green pass per il Natale non basta: “Draghi, adesso serve l’obbligo”. E ancora: “Io amo i vaccini, sono meglio dello spritz”. Minzolini, neo direttore del quotidiano di casa Berlusconi, non grida più allo “Stato di polizia”. Anzi: “No vax all’angolo per salvare il Natale” titolava Il Giornale il 23 novembre. Anche Libero, ormai diventato il quotidiano più draghiano di Draghi, non sta più nella pelle. “La destra è sì vax” (15.11). E ancora: “Buon Natale solo ai sì vax” (25.11). Sentite Facci: “I no vax sono socialmente pericolosi, che è uno dei presupposti per l’arresto e, nel caso, per la cura nell’infermeria del carcere. (…) Non sono solo stupidi: sono nocivi. E sono irredimibili: l’obbligo vaccinale dovrebbe accompagnarsi (facoltativa) all’assistenza psichiatrica”. Come passa il tempo.

Super green pass, ecco le regole

Da domani, lunedì 6 dicembre, arriva il Green pass rafforzato e quello base viene esteso soprattutto nel settore dei trasporti. Dal 15 si amplia la platea dell’obbligo vaccinale vero e proprio.

Con oltre 16 mila nuovi casi registrati ieri e la provincia di Bolzano che si appresta a raggiungere il Friuli-Venezia Giulia in zona gialla, entra in vigore il Super green pass, che si ottiene solo con la vaccinazione o la guarigione. Durerà nove mesi dall’ultima dose (e non più dodici) o dal tampone positivo (e non più sei). Servirà per andare al cinema, a teatro, al ristorante, allo stadio, alle cerimonie pubbliche e per sedersi ai tavoli del bar anche in zona bianca o gialla, mentre in zona arancione consentirà di evitare le restrizioni previste. È la principale novità del decreto legge 48 del 24 novembre, una misura decisa per convincere i non vaccinati a immunizzarsi che non si ritiene possa avere un grande impatto in termini di riduzione dei contatti interpersonali e dunque sulla circolazione, ancora piuttosto sostenuta, di SarsCov2. Per il momento questa misura durerà fino al 15 gennaio. Con la terza dose, oggi possibile per tutti gli over 18 purché siano trascorsi cinque mesi dalla seconda, il Green pass durerà nove mesi dall’ultima iniezione. Ma non è necessario farla subito al quinto mese per non far scadere il certificato.

Basterà invece il Green pass normale, quello che si ottiene per 72 ore con un tampone molecolare negativo e per 48 con un antigenico rapido negativo, per andare a lavorare, per prendere i treni a lunga percorrenza e gli aerei, per frequentare palestre e piscine. Fin qui era già così ma da domani, seconda novità dell’ultimo decreto, l’obbligo di Green pass (normale) si estende ai treni regionali e al trasporto pubblico locale (autobus, metropolitane, tram) e agli spogliatoi per l’attività sportiva anche all’aperto. Nelle eventuali zone arancioni, però, per palestre, piscine e spogliatoi sarà necessario il Green pass rafforzato. Naturalmente saranno molto difficili i controlli sul trasporto regionale e locale, la legge quindi prevede che siano a campione come quelli sui posti di lavoro. L’obbligo di Green pass comunque riguarda tutti dai 12 anni in su, compresi i ragazzi già vaccinabili che vanno a scuola. Le immunizzazioni per i bambini tra i 5 e i 12 anni, oggetto di serrato confronto nella comunità scientifica, cominciano il 16 dicembre ma non saranno in alcun modo collegate al Green pass.

La terza novità del decreto legge 48 è l’estensione dell’obbligo vaccinale, fin qui previsto solo per gli operatori sanitari e per quelli delle Residenze sanitarie assistenziali per anziani e disabili. Dal 15 dicembre riguarderà anche il personale amministrativo di quelle strutture e soprattutto gli operatori scolastici e quelli delle forze di polizia e delle forze armate.

“Ma quale 4ª dose, servirà un richiamo ogni 12 mesi”

“Sarà necessario un richiamo annuale con vaccini aggiornati alle varianti, esattamente come per l’anti-influenzale”. Francesco Vaia, direttore generale e direttore sanitario dell’ospedale Spallanzani di Roma, epicentro italiano della lotta al SarsCov2, è stato uno dei primi già un anno fa a sostenere che la vaccinazione anti-Covid sarebbe potuta diventare annuale, molti altri lo stanno dicendo in questi giorni. E su Omicron spiega: “I dati che arrivano dal Sudafrica non giustificano allarmismi”.

Professore, l’assessore alla Salute del Lazio Alessio D’Amato sostiene che è prematuro parlare di quarta dose. Come stanno le cose?

Resto convinto che dobbiamo immaginare di superare l’emergenza. E, come per l’influenza, fare un richiamo annuale con vaccini che siano però aggiornati alle varianti. L’assessore D’Amato dice la stessa cosa e cioè che è sbagliato immaginare la quarta o la quinta dose. Ma pensiamo, appunto, a un richiamo annuale. La vaccinazione annuale non deve essere un dramma e dobbiamo adottare misure che facciano delle famiglie le nostre alleate, non spaventarle. Con il sorriso e con il buon senso. Ne usciremo, ci siamo.

I grafici mostrano inequivocabilmente l’efficacia dei vaccini sulla malattia grave rispetto allo scorso anno, qual è la giusta strategia per convincere i no vax? L’obbligo?

Dobbiamo convincere le persone, non spaventarle: la scienza si nutre del dubbio, della tolleranza e dell’empirismo. I dati sono inoppugnabili: contagiati, morti, ricoveri, soprattutto quelli gravi sono assolutamente di gran lunga inferiori al medesimo periodo dell’anno scorso e ciò è merito dell’atteggiamento corretto dei cittadini e del vaccino. Rispetto all’obbligo: si potrebbe ampliare la fascia di chi è a contatto col pubblico.

Siamo arrivati al picco o pensa che i contagi cresceranno ancora ai livelli della Germania, per esempio, mettendo a forte rischio ancora una volta commerci e serenità nelle vacanze natalizie?

I tanti catastrofisti hanno vaticinato 30/40 mila contagi al giorno. Non sarà così. L’indice Rt si sta tenendo basso: il quotidiano insopportabile bollettino non dice nulla più se non spaventare le persone. Ne stiamo uscendo e sarà un buon Natale.

Ritiene fondati gli allarmismi sulla variante Omicron? Esiste la possibilità che renda inutili le vaccinazioni?

Io non so come tanti parlino di Omicron senza avere i dati di prima mano che abbiamo noi. Ci stiamo confrontando con i colleghi del National institute for communicable diseases, nostro omologo del Sudafrica, e i colleghi ci dicono: la variante subentrerà alla Delta (che già era subentrata all’Alfa e che potrebbe a sua volta essere sostituita da altra ancora). Non sembra più patogena e non sta destando allarme per cui si potrebbe pensare addirittura ad una variante più benigna, seppur dobbiamo però considerare che la popolazione sudafricana è molto giovane e, quindi, come ci ha insegnato la pandemia meno soggetta a malattia, sopratutto grave. Ma i colleghi sudafricani sono ottimisti e auspicano, tra l’altro, una revisione delle misure di chiusura da parte degli altri Stati e io credo che abbiano validi motivi. Non dobbiamo avere paura. Non vi sono affatto motivi. In Italia abbiamo pochissimi casi e scarsamente rilevanti clinicamente; allo Spallanzani, ad esempio, allo stato zero.

Una falla da 10 miliardi nella minimum tax

Uno studio validato dal senior advisor dell’Ocse, John Peterson, ha già individuato una falla da 10 miliardi di dollari nella nuova minimum tax sulle multinazionali, approvata in pompa magna dal G20 appena l’ottobre scorso. Secondo l’indagine condotta da un gruppo di esperti fiscali, riportata dalla Reuters e ripresa da Italia Oggi, alcune multinazionali digitali con sedi in Irlanda, tra cui le società statunitensi Adobe Ins e Oracle Corp, sarebbero riuscite a produrre deduzioni dal reddito imponibile che le metterebbero al riparo dalla tassazione per tutto il decennio in corso. La pianificazione aziendale, del tutto legittima, si basa sugli sgravi fiscali concessi dalla legislazione irlandese alle transazioni delle proprietà intellettuali. Basta avere una filiale in Irlanda alla quale intestare la rendita di marchi e brevetti per trasferire decine di miliardi di profitti sotto l’ombrello protettivo del principale paradiso fiscale che prospera all’ombra della Ue.

L’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo che ha condotto per 10 anni la trattativa internazionale sulla tassazione delle multinazionali, ha ammesso che queste aziende potrebbero continuare indisturbate a trasferire i loro utili anche dopo l’entrata in vigore dell’aliquota minima globale, nel 2023. Ma non solo loro. Gli esperti avvertono che l’Irlanda potrebbe essere utilizzata ancora come “sponda” per abbattere le imposte anche da altre compagnie, se le regole anti-elusione non venissero maggiormente dettagliate, lasciando ai singoli Paesi larga autonomia nel determinare il reddito imponibile.

L’elusione fiscale concessa finora alle multinazionali costa agli Stati 240 miliardi di dollari l’anno e toglie preziose risorse ai governi per finanziare il welfare. La triplice emergenza economica, sanitaria e climatica che il mondo sta attraversando, dal 2008 a oggi, ha avuto tra le sue conseguenze un’ulteriore polarizzazione della ricchezza a beneficio delle grandi società che monopolizzano il mercato delle piattaforme e delle tecnologie digitali, della farmaceutica, dell’energia. Oggi i loro profitti vengono tassati ad aliquote molto basse, fino al 9% in Olanda, 12,5% in Irlanda. L’aliquota minima – fissata dal G20 di Venezia al 15% – permette al Paese dove la multinazionale ha la casa madre di tassare i profitti spostati nei paradisi fiscali per la differenza tra l’aliquota effettivamente pagata e l’aliquota minima globale. Una quota verrà riconosciuta anche ai Paesi dove vengono realizzate le vendite dei prodotti. Tuttavia la misura riguarderà solo multinazionali con più di 20 miliardi di fatturato e che realizzano extraprofitti globali sopra la soglia del 10%. Inoltre l’accordo comporta l’impegno a eliminare tutte le forme di imposta sui servizi digitali che molti Paesi hanno introdotto finora per intercettare i profitti assai sfuggenti delle multinazionali. Per l’Italia si parla di un recupero dalla minimum tax di circa 2,7 miliardi, che serve appena a compensare il gettito della web tax nazionale, destinata all’abrogazione. I Paesi emergenti riceveranno poche briciole. Secondo stime di Oxfam e Oxford Economics, per 52 Paesi più poveri si parla in media di 10 milioni di euro annui di extra-entrate.

“Io so’ io…”, ma il risanatore finora ha raccolto solo flop

“Moralità ed etica sono due pilastri a cui ciascuno di noi può decidere se aderire o meno. Personalmente le ritengo fondamentali (…). Il mio valore principale è il rispetto delle persone”. Così, nel giugno 2018, il presidente di Ita Airways, Alfredo Altavilla, all’Università Cattolica di Milano, parlava agli ex alunni che si sono distinti professionalmente. Il 24 novembre, il Fatto ha dato invece conto dei contenuti di un audio di una riunione interna della compagnia in cui Altavilla insulta ripetutamente i suoi collaboratori (“ma queste priorità puttana troia le devo scegliere io porca puttana non tu cazzo. Chi cazzo ti ha dato questa autorità?”) e minaccia licenziamenti indiscriminati.

A quanto pare, il 58enne manager tarantino ama dare di sé un’immagine un po’ artefatta: in un’altra intervista sostiene di essere stato lui a proporre a Sergio Marchionne di acquisire Chrysler. In Fiat dal 1990, Altavilla fu effettivamente al fianco di Marchionne durante le trattative con l’azienda e il governo Usa. Tuttavia, come scrive nel suo Overhaul lo “zar dell’auto” Steven Ratter, incaricato di condurre le trattative da Barack Obama, la proposta arrivò a Torino direttamente dal numero 1 di Chrysler, Robert Nardelli.

Certo è che i vertici di Fiat spinsero per ridurre il costo del lavoro dei dipendenti statunitensi il più possibile. Non solo con mezzi leciti. La Casa torinese è stata condannata negli Usa a pagare una multa di 30 milioni di dollari per aver elargito 3,5 milioni in tangenti ai leader del sindacato Usa dei lavoratori dell’autoper oliare la trattativa. Chiusa l’operazione Chrysler, Altavilla viene messo a presidiare la parte debole del gruppo: l’Europa. I profitti si fanno negli Usa, soprattutto grazie a Jeep rilanciata da Michael Manley, altrove si cerca di tenere botta. Da un punto di vista strettamente industriale i risultati del manager non sono brillanti. Nel 2012, quando assume il ruolo di responsabile per Europa la quota di mercato di Fiat nel Vecchio continente è del 7,3%. Nel 2018, quando lascia, è scesa al 6%. Nello stesso intervallo la francese Psa, che nel 2021 si unirà a Fca in posizione di forza per dare vita a Stellantis, ha visto la sua fetta di mercato salire dal 13 al 15,8%. Dal 1995 al 2001 Altavilla si era occupato delle attività di Fiat in Asia. Anche qui senza lasciare ricordi indelebili. La Cina era e resta il punto debole della casa italiana che presidia ancora oggi meno dell’1% del più grande mercato al mondo. Pare che Altavilla non ispirasse grandi simpatie tra i colleghi. Considerato il “poliziotto cattivo” di Marchionne, era quello che ne implementava le decisioni più dure dal punto di vista occupazionale: un ristrutturatore più che un manager industriale. Sta di fatto che quando bisogna scegliere il nuovo ad, Altavilla si considera tra i papabili: l’azienda però sceglie Michael Manley e lui se ne va.

Approda in Telecom dove diventa consigliere su indicazione del fondo Usa Elliot, all’epoca azionista del gruppo con una quota del 9%. Anche questa volta entra in lizza per guidare la società al posto dell’uscente Amos Genish. Ma, di nuovo, il prescelto è un altro: Luigi Gubitosi. Contro Altavilla gioca la totale inesperienza nel campo di media e tlc. Il manager è anche advisor del fondo britannico di private equity Cvc che in questi giorni dialoga con Kkr per una collaborazione all’offerta su Tim.

Lo scorso 18 giugno arriva la telefonata del Tesoro. Pur non avendo esperienza nel settore aereo, Altavilla viene nominato presidente di Ita. A indicare il suo nome è Francesco Giavazzi, l’economista che fa da consulente economico a Mario Draghi. Il premier e il ministro dell’Economia, Daniele Franco, procedono: Altavilla va ad affiancare l’ad Fabio Lazzerini. Solitamente quella di presidente è una carica meno operativa rispetto a quella di Ad, ma in Ita sembrano valere regole diverse. O meglio, vale la legge di Altavilla, come sembra aver chiarito lo stesso manager di fronte alla richiesta di una convocazione del Cda avanzata da alcuni consiglieri.

Mani Pulite in casa e le stragi: la Fininvest deve farsi partito

1990. Il premier Giulio Andreotti e il Psi di Bettino Craxi impongono alla maggioranza mezza riottosa la legge Mammì: la “riforma” del sistema radiotelevisivo, tanto attesa dopo anni di Far West. Peccato che non riformi un bel nulla, ma cristallizzi l’illegalità esistente. Passerà alla storia come “legge Polaroid” perché è un’antitrust che fotografa il trust: Berlusconi può tenersi le sue tre tv e mezza (ora ha anche una quota nelle tre pay tv Telepiù dove però, per le nuove norme, non può superare il 10% del capitale) e la Mondadori, in cambio del sacrificio del Giornale di Montanelli (che girerà al fratello Paolo). Il 27 luglio il governo pone la fiducia e la sinistra Dc, sdegnata, ritira i suoi cinque ministri: Sergio Mattarella, Mino Martinazzoli, Riccardo Misasi, Carlo Fracanzani e Calogero Mannino. Andreotti li sostituisce in una notte. Qualche mese più tardi Craxi inizierà a ricevere sui suoi conti svizzeri una cascata di soldi dalla Fininvest: 23 miliardi di lire solo nel 1991 dalla cassaforte occulta del Cavaliere, la società estera All Iberian.

Il 15 dicembre, dopo il divorzio dalla moglie, Berlusconi sposa con rito civile Veronica Lario: officiante Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e sindaco di Milano; testimoni degli sposi, Bettino e Anna Craxi, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Intanto fa costruire, per sé e per i suoi cari, un mausoleo funerario nel parco della villa di Arcore, progettato dallo scultore Pietro Cascella in un bizzarro stile egizio-massonico (o “assiro-milanese”), dotato di gruppi elettrogeni talmente potenti da far ipotizzare un progetto di ibernazione. L’opera, una volta ultimata, verrà mostrata con orgoglio a capi di Stato come Michail Gorbaciov e a giornalisti come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, con tanto di loculi già riservati a Previti, Dell’Utri, Confalonieri, Letta ed Emilio Fede. Montanelli, al Cavaliere che gli offre un posto per il riposo eterno, risponde: “Domine, non sum dignus”. Poi si dà alla fuga.

1991. Il 24 gennaio la Corte d’appello di Roma ribalta il lodo Mondadori, dichiara nullo il pre-contratto Formenton-De Benedetti e riconsegna la maggioranza a Berlusconi. Relatore ed estensore della sentenza è il giudice Vittorio Metta, che sarà condannato per corruzione giudiziaria per aver venduto il verdetto (e anche quello coevo sulla lite da 1.000 miliardi di lire fra Imi e Sir) ai tre avvocati berlusconiani Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora in cambio di una tangente in contanti di almeno 400 milioni di lire, provenienti dai conti esteri Fininvest. Berlusconi torna così al comando del primo gruppo editoriale italiano, suscitando la rivolta di direttori e giornalisti. Allarmato dallo strapotere mediatico dell’amico di Craxi, Andreotti affida la patata bollente a un mediatore di sua fiducia, Giuseppe Ciarrapico. E alla fine impone un accordo di spartizione: Repubblica, Espresso e i quotidiani Finegil tornano all’Ingegnere; Panorama, Epoca e i libri restano al Cavaliere, che riceve pure 365 miliardi di lire da De Benedetti a titolo di conguaglio. Berlusconi accetta di buon grado: oltreché delle tv commerciali, ora è il numero uno anche della carta stampata e dei libri.

1992. Purtroppo esistono anche giudici che non si fanno corrompere. Tra gennaio e febbraio, a Roma la Cassazione condanna definitivamente i boss di Cosa Nostra nel maxiprocesso e a Milano inizia l’inchiesta Mani Pulite su Tangentopoli. Marcello Dell’Utri ottiene un provino al Milan per Gaetano D’Agostino, giovane figlio di un complice dei fratelli Graviano (i boss di Brancaccio). Cosa Nostra si vendica del “tradimento” di Andreotti eliminando Salvo Lima, suo luogotenente in Sicilia. In vista delle elezioni politiche del 6 aprile, Berlusconi gira uno spot per le sue tv in cui siede al pianoforte accanto a Bobo Craxi e alla cantante-produttrice Caterina Caselli, esalta “la grande credibilità del governo Craxi” e invita gli italiani a votare Psi.

Il 21 maggio, mentre il Parlamento vota per il nuovo presidente della Repubblica al posto di Francesco Cossiga, Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, rilascia un’intervista a due giornalisti di Canal Plus (che non la manderà mai in onda) e svela l’esistenza di indagini in corso sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano e il riciclaggio mafioso. Due giorni dopo, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta vengono trucidati da Cosa Nostra sull’autostrada di Capaci. Colpito e affondato dall’omicidio Lima e dalla strage di Capaci, il 25 maggio Andreotti esce dalla corsa al Quirinale. Le Camere riunite eleggono capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Che di lì a poco incarica Giuliano Amato di formare il nuovo governo.

Il 4 maggio, intanto, Mani Pulite entra in casa Fininvest. Il pm Antonio Di Pietro firma un decreto di acquisizione di documenti sugli appalti assegnati alla Coge di Parma, società di Paolo Berlusconi. Da allora la valanga non si fermerà più, a riprova del fatto che le indagini sul Biscione non sono l’effetto, ma la causa e il movente dell’entrata in politica del Cavaliere. A giugno il dc milanese Maurizio Prada accusa la Fininvest di una tangente di 150 milioni di lire al suo partito. E un altro diccì, Gianstefano Frigerio, svela di aver ricevuto una mazzetta di 150 milioni per l’appalto della discarica di Cerro Maggiore da Paolo Berlusconi. Che viene indagato per corruzione.

Fra maggio e giugno, mentre a Palermo il Ros dei carabinieri avvia una trattativa con Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino, Dell’Utri convoca un vecchio consulente di Publitalia. Si chiama Ezio Cartotto ed è un abile politico democristiano amico del Biscione. In previsione del coinvolgimento dei vertici del gruppo nelle indagini e dell’imminente crollo dei partiti amici, Dell’Utri incarica Cartotto di studiare in gran segreto “un’iniziativa politica della Fininvest” finanziata da Publitalia (nome in codice “Progetto Botticelli”).

Il 19 luglio, altra strage a Palermo: in via D’Amelio muoiono Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta.

Il 15 settembre Augusto Rezzonico, ex presidente di Ferrovie Nord e poi senatore dc, racconta a Di Pietro che a febbraio Dc e Psi hanno inserito nel nuovo Codice della strada un emendamento per favorire la “Fininvest, unica accreditata depositaria del know how tecnico necessario” per realizzare il sistema di segnalazione elettronico Auxilium per le autostrade, “un business da 1000 miliardi”: il manager Fininvest Sergio Roncucci “mi ringraziò per l’emendamento e mi confermò l’impegno Fininvest a far fronte alle contribuzioni alla Dc per il piacere ricevuto”. A dicembre Paolo Berlusconi è indagato anche a Roma per i “palazzi d’oro”: avrebbe venduto immobili Edilnord a enti previdenziali a prezzi gonfiati in cambio di mazzette all’Ufficio tecnico erariale.

(5. continua)

I parlamentari di Lega e FdI “snobbano” l’alleato Silvio

Dovrebbe essere il loro candidato e invece lo snobbano. Mentre i parlamentari di Forza Italia e Movimento 5 Stelle si dividono sui social sul nome di Silvio Berlusconi per il Quirinale, quelli di Lega e Fratelli d’Italia lo ignorano. A registrarlo è l’agenzia Socialcom con l’aiuto della piattaforma Blogmeter che hanno monitorato l’attività social su Facebook e Twitter dei 945 parlamentari nel mese di novembre legata alla discussione sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Dalla ricerca emerge che i due nomi in testa per il Colle sono Mario Draghi, considerato il candidato “naturale a rivestire il ruolo”, e al secondo posto Berlusconi visto come “unica alternativa, pur se molto divisivo e polarizzante”. Peccato che ad associare la parola “Berlusconi” a “Quirinale” siano solo i parlamentari di Forza Italia – che tifano per lui – e quelli del M5S che invece intervengono spesso per allontanare la possibilità che l’ex premier venga eletto.

L’elemento più significativo però è un altro: chi snobba il dibattito e la candidatura di Berlusconi sono soprattutto i deputati e senatori di Lega e Fratelli d’Italia. “Al momento sono defilati” si legge nello studio. Eppure sono voti che dovrebbero essere fondamentali per Berlusconi al Colle: in tutto, infatti, sono 254 tra Camera e Senato (170 Lega, 84 FdI). Senza tutti questi, il leader di Forza Italia non ha alcuna possibilità di essere eletto. Interessante è anche l’attivismo dei parlamentari del gruppo Misto, particolarmente spaventati dall’idea del voto anticipato. Sono 138 in totale i post pubblicati di iscritti al Misto e tra le parole maggiormente utilizzate ci sono: “governare”, “continuare”, “continuità”. Berlusconi sta puntando proprio a quei voti.