“Novantesimo centrista”. Il partitone degli eletti corteggiabili per il Colle

La frenesia che caratterizza i cambi di casacca in Parlamento è fedele cartina al tornasole dell’approssimarsi dell’elezione del presidente della Repubblica.

Dopo gli arrivi in casa Forza Italia (su tutti Gianluca Rospi e Alessandro Sorte da Coraggio Italia), ieri il senatore Leonardo Grimani ha annunciato il proprio addio a Italia Viva: “La spinta del progetto riformista – spiega l’ex renziano, tentato da Azione – si è esaurita. C’è bisogno di costruire un contenitore più grande. Aderirò per ora al gruppo Misto e metterò le mie energie a disposizione di un nuovo percorso”. Va da sé che il primo appuntamento in cui far pesare queste “energie” è l’elezione del capo dello Stato, con Grimani che, ponendosi nel Misto, ingrossa un variegato calderone di deputati e senatori le cui mosse per il Colle sono al momento indecifrabili, ma risulteranno decisive in un contesto in cui né centrodestra né centrosinistra hanno la maggioranza assoluta dei grandi elettori.

È proprio per emergere in questa ressa indistinta di ex 5 Stelle, centristi e peones senza patria che alcuni partiti si stanno organizzando per creare un gruppo unitario senza il quale sarà molto difficile votare il successore di Sergio Mattarella. A confermare le trattative sono i diretti interessati: “Stiamo ragionando seriamente con Coraggio Italia – ha ammesso il renziano Ettore Rosato – per rafforzare un’area che crede nel lavoro di Draghi”.

Per quanto millesimali nei sondaggi, in caso di intesa Italia Viva e CI potrebbero contare su una pattuglia di una settantina di parlamentari, più qualche delegato in arrivo dalle Regioni: Iv conta 26 deputati e 14 senatori, Giovanni Toti ha 23 eletti a Montecitorio e 7 a Palazzo Madama. Ma potenzialmente l’area di centro è ancora più vasta. Il gruppo +Europa-Azione ha 5 parlamentari, ma qui l’ostacolo al dialogo con “Coraggio Italia Viva” sono i rapporti tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, un giorno alleati e il giorno dopo nemici. Decisivi saranno poi i 6 deputati di Centro democratico e i 5 di Noi con l’Italia, con l’abaco che – anche al netto delle fisiologiche defezioni – si avvicina già ai 90 grandi elettori, quasi il 10 per cento del totale.

Senza dimenticare chi è nel Misto per mancanza d’alternativa, come la senatrice Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella, ex forzista, a gennaio promotrice del gruppo dei responsabili che avrebbe dovuto sostenere un nuovo governo di Giuseppe Conte. Oggi Lonardo potrebbe tornare decisiva, come testimonia l’iniziativa messa in piedi ieri dal marito al Teatro Brancaccio di Roma: una grande fiera del centrismo riunito sotto una nuova sigla (Ndc, Noi di centro) con l’obiettivo dichiarato di aggregarsi anche in vista del voto sul Colle. “La mia idea è una Margherita 2.0 – esordisce Mastella – quelli che sono al centro devono mettersi insieme”. Non Calenda, però, perché “pensa a se stesso”. In platea applaudono tra gli altri Rosato, Gaetano Quagliariello (CI) e, appunto, la signora Lonardo. Tutti consapevoli che toccherà fare i conti con loro.

“Mario viene eletto? Difficile mettere un supplente a Chigi”

L’elezione del nuovo presidente della Repubblica sarà, o almeno potrebbe essere, anche una partita sul filo delle norme e delle prassi costituzionali. Soprattutto ora che si ipotizza la salita al Colle di un presidente del Consiglio in carica, Mario Draghi. Opzione che finora non si è mai concretizzata nella storia repubblicana. Anche se Andrea Pertici, professore di Diritto costituzionale all’Università di Pisa, ricorda: “Nel 1992 l’allora premier Giulio Andreotti fu in piena corsa per il Quirinale, e nel 1955 anche il presidente del Consiglio Mario Scelba era tra i papabili per il Colle”.
Se Draghi venisse eletto capo dello Stato, al suo posto a Palazzo Chigi subentrerebbe il ministro più anziano, ossia Renato Brunetta, o ci sono altre opzioni?
Le strade possibili sono due. E la prima è che Draghi venga eletto entro il 3 febbraio, ovvero prima della scadenza dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. A seguito delle dimissioni da presidente del Consiglio, gli verrebbe chiesto, come sempre, di rimanere in carica per gli affari correnti e così Mattarella avvierebbe le consultazioni per il nuovo governo, essendo nel pieno delle sue funzioni. Di certo Mattarella nominerebbe il nuovo governo, e poi Draghi potrebbe giurare.
Qual è la seconda via?
L’altra ipotesi, che considero più problematica in base alle norme e alle prassi, è che le dimissioni di Draghi siano accolte in via definitiva, mentre solo il resto del governo rimarrebbe in carica per gli affari correnti. E a quel punto sarebbe sostituito da Brunetta, il ministro più anziano. Ma in un’ipotesi del genere forse sarebbe opportuno nominare un vicepremier più in linea con il premier uscente prima dell’elezione al Colle di Draghi, o almeno prima delle sue dimissioni da Palazzo Chigi. L’ipotesi però – come dicevo – è assai problematica perché la legge 400 del 1988 prevede la supplenza per assenza o impedimento temporaneo del presidente del Consiglio. Ma le dimissioni di Draghi a seguito dell’elezione al Quirinale e il successivo giuramento non rientrerebbero tra questi casi, determinando un impedimento permanente.
Quindi…
La prima ipotesi, con la nomina del nuovo governo da parte di Mattarella, mi sembra più ordinata.
Poniamo che si sfori la scadenza del 3 febbraio, o che Mattarella si dimetta subito dopo l’elezione di Draghi.
Se si va oltre il 3 febbraio, ritengo che vi sia la prorogatio di Mattarella fino all’elezione del nuovo presidente. Ma un caso del genere non è mai accaduto. Invece, se Draghi fosse eletto prima della scadenza di Mattarella e quest’ultimo dovesse dimettersi per consentire l’insediamento del nuovo presidente, ci sarebbe la supplenza del presidente del Senato per pochissimi giorni o anche solo per ore. Ed è già successo.
E se invece, rimasto in carica Mattarella, i tempi per formare il nuovo governo andassero oltre il 3 febbraio?
In ogni caso, il giuramento e l’entrata in carica del presidente eletto non può andare oltre la scadenza del mandato del presidente in carica.
La proposta di alcuni senatori del Pd di una legge costituzionale per vietare la rielezione al Colle ha irritato molto Mattarella.
Trovo la proposta abbastanza incredibile. Se fosse approvata, in caso di rielezione Mattarella verrebbe di fatto delegittimato. Si immagini lui al Colle, con un provvedimento in vigore che vieta altri casi simili. Così si scaricano sul presidente nodi politici, e capisco la sua irritazione.

Quirinale, Salvini boicotta B. FI: “Se ci va Draghi, elezioni”

Il paradosso del Colle è presto detto: ci sono due candidati (quasi) ufficiali, ma entrambi hanno una folta schiera di oppositori. Sono Mario Draghi che vuole traslocare da Palazzo Chigi al Quirinale per succedere a Sergio Mattarella ma ampi settori del Parlamento – bluffando o meno – preferiscono che resti a Palazzo Chigi. E poi c’è Silvio Berlusconi che ha già fatto partire lo scouting tra i parlamentari del gruppo Misto per arrivare a quota 505 voti al quarto scrutinio ma rischia di essere impallinato, in primis, dai suoi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni che non hanno intenzione di assecondare il suo sogno di una vita. Tant’è che il leader della Lega gioca su più tavoli, nessuno dei quali però contempla l’idea di sostenere convintamente Berlusconi al Quirinale: probabilmente già la prossima settimana, Salvini vedrà in via riservata Enrico Letta per capire se ci sono le condizioni per mandare Draghi al Colle con una maggioranza ampia al primo scrutinio (l’ipotesi preferita dal leghista) e poi avrà un colloquio, telefonico o vis a vis, con Matteo Renzi per provare a eleggere un presidente che sia vicino al centrodestra. Sarebbe il “piano B” del segretario del Carroccio: se non va in porto l’ipotesi Draghi, allora, alla quarta votazione, il centrodestra potrebbe trovare una convergenza sul nome di Pier Ferdinando Casini, che ha ottimi rapporti con i due Matteo e che potrebbe contare anche su parecchi voti del Pd visto che l’ex presidente della Camera è stato eletto proprio con i dem. Un altro nome sul tavolo è quello di Marcello Pera, consigliere di Salvini e vicino a Renzi tramite Denis Verdini. Tant’è che Antonio Tajani, per conto di Berlusconi e per rispondere agli alleati, replica che Draghi deve rimanere premier, altrimenti si “andrà a votare”.

Le manovre di Salvini, dunque, assumono un peso ancora più rilevante: nessuna di esse prevede un sostegno convinto alla candidatura di Berlusconi. Il leader della Lega sa che una parte del suo gruppo non accetterebbe la corsa del neo “moderato” Berlusconi (si parla di 30 leghisti pronti a non votarlo) e inoltre è consapevole che quella del leader di Forza Italia non possa che essere una candidatura di bandiera. Per questo continua a ripetere che serve un Presidente “equidistante e condiviso da tutti”. L’importante, ha ribadito ieri, è che non abbia in tasca la tessera del Pd. Anche Giorgia Meloni, che ieri ha smentito la notizia di suoi incontri con Letta, ha fatto capire che la candidatura di Berlusconi esiste solo sulla carta: “I numeri sono complicati”. Per questo ieri Antonio Tajani, capita l’antifona, ha fatto muro sulla candidatura di Draghi dicendo che deve rimanere a Palazzo Chigi: “Non vedo nessuno che abbia la stessa autorevolezza di Draghi, in grado di tenere politicamente una maggioranza così eterogenea”. E poi, in funzione dell’ascesa di Berlusconi, ha usato l’arma da “fine di mondo” rivolgendosi ai parlamentari del gruppo Misto impauriti dalle urne: “Se Draghi viene eletto si va al voto”. Preoccupazioni reali anche negli altri partiti visto che l’elezione del premier al Quirinale potrebbe far rotolare tutto verso la fine della legislatura.

Quella di Tajani però è più una risposta agli alleati Salvini e Meloni, che sono scettici sull’elezione di Berlusconi al Colle. Al netto di Draghi, i due vorrebbero candidare l’ex premier come “bandiera” del centrodestra per puntare su un altro cavallo dal quarto scrutinio. Ma Berlusconi non si vuole far bruciare e quindi, se capirà che non ci sono le condizioni, potrebbe fare anche un passo indietro ufficiale. Ma alla condizione di rimanere centrale e far ingoiare un presidente a lui amico. Sarebbe una delusione, ma un po’ meno amara.

Mattarelli e giacchette

Che deve ancora dire o fare Mattarella per scollarsi di dosso le lingue appiccicose degli stalker che insistono per il suo bis? Il dito medio alzato? Il gesto dell’ombrello? Un’esclamazione in siciliano, tipo “’sta minchia”? L’altroieri ha fatto trapelare “un certo stupore” per l’acrobatica lettura del ddl costituzionale Zanda-Parrini che vieta la rielezione del capo dello Stato, interpretato da politici e giornaloni come un’astuta manovra per farlo rieleggere. Una barzelletta che i due buontemponi pidini hanno insufflato e lasciato galoppare per una settimana, salvo poi smentirla ora che Mattarella s’è incazzato. Quel pesce di nome Zanda dice che “è giusto il divieto di rielezione”, infatti lui nel 2013 rielesse Napolitano. E ora tutti a dire che Mattarella ha ragione, non se ne può più di chi lo tratta da bugiardo e lo “tira per la giacchetta” (i presidenti, poverini, non hanno giacche, ma solo giacchette, anzi una sola a testa).

Resta da capire con chi ce l’avesse Mattarella. Forse col Corriere, che il 24.11 titolava: “Quirinale, la proposta del Pd: via la rieleggibilità. La speranza è anche quella di lasciarsi una via d’uscita per un Mattarella bis”? Improbabile, infatti ieri titolava: “Stupore e irritazione. Mattarella conferma il no al bis, dopo le interpretazioni sul ddl che lo vieta” (le interpretazioni del Corriere). Ce l’aveva con Repubblica, dove il 3.12 quel gran genio di Folli auspicava “Una via nazionale al Mattarella bis”, “una carta che potrebbe – anzi, dovrebbe – essere presa in considerazione”, “un’intesa sul ddl costituzionale che vieta la rielezione”, così “Mattarella potrebbe essere votato per restare in carica fino al termine dell’iter, coincidente più o meno con la scadenza della legislatura nel ’23”? Difficile, infatti ieri Rep fischiettava: “Il ddl e le voci sul bis, l’irritazione di Mattarella: ‘Fantasie, io non ci sto’” (fantasie di Rep). La Stampa, nella certezza che Mattarella non ce l’avesse con lei, ieri sparava: “L’ira di Mattarella. Perde la pazienza: ora basta insistere sulla rielezione”. E bollava con parole di fuoco “il gioco al massacro” sul “possibile ripensamento” del Presidente che “ha manifestato varie volte la volontà di lasciare” e ora “si ribella” alla “confusione e faciloneria con cui si sta giocando con la più alta istituzione” per “far rientrare dalla finestra il congelamento del tandem Mattarella-Draghi appena uscito dalla porta”. E poi “ci si chiede perché metà degli elettori non va più a votare”, con “questo mediocre spettacolo”! Parole sante, se non fossero firmate da Marcello Sorgi, che il 28.11 scriveva: “Il virus apre al bis di Mattarella”, alla “conferma dell’equilibrio Mattarella-Draghi”. In attesa di scoprire se Mattarella ce l’aveva con Sorgi, una cosa è certa: Sorgi ce l’ha con Sorgi.

Storia dei radicali, che erano bravi a fiutare l’Italia (e ora stanno con Salvini)

Non bisogna amare il Partito radicale per apprezzare la ricostruzione di Gianfranco Spadaccia. Intanto perché è un compendio di oltre 60 anni di politica italiana con gli occhi di chi ha sostenuto l’apertura democratica e civile manifestatasi a partire dagli anni 60 e intuita già alla fondazione di quel partito, nel 1955. Il referendum sul divorzio, nel 1974, ben cristallizza la “mutazione antropologica” della popolazione, delle sue classi subalterne, della sua gioventù, e i radicali sanno cogliere meglio e più di tutti questa lunga ventata civile del dopoguerra. Da lì, il successo elettorale del 1976, l’ingresso in Parlamento che si replica fino all’inizio degli anni 90 sia pure nella forma creativa di liste sempre diverse.

Il libro è anche una storia dell’orgoglio militante di un partito che è sempre stato piccolo (un successo i tremila iscritti), ma capace di sviluppare iniziative a getto continuo. Sui diritti civili, democratici, sui diritti etici, ma sempre con l’obiettivo storico di costruire un soggetto laico, liberale e socialista in grado di contendere al Pci, e poi al Pds e al Pd, la leadership del cambiamento. Il paradosso del progetto è che per riuscire doveva sfidare l’elefante comunista che alla fine diventerà una controparte e appoggiarsi su un partito, il Psi, che si dimostrerà totalmente inaffidabile. Marco Pannella, leader radicale incontrastato, “ma non un guru”, non riesce a venirne a capo. All’inizio degli anni 90 prova anche, in un nuovo slancio liberista, a cavalcare la tigre berlusconiana. Che però lo fa cadere a terra. E il progetto radicale si sperde tra la dimensione “transnazionale” di poca efficacia, divisioni interne che si accumulano fino alla diaspora attuale in cui, annota Spadaccia, “la lotta per i singoli diritti e le nuove libertà non è più finalizzata a una visione generale di riforma delle istituzioni democratiche”. Anche i referendum si sperdono in una parabola triste di un partito che raccoglieva le firme, a metà degli anni 70, anche con Lotta continua, e oggi si allea con Salvini.

Il Partito radicale, Gianfranco Spadaccia, Pagine: 764 Prezzo: 24 Editore: Sellerio

 

“Con duemila battute racconto la realtà”

Georges Simenon nasce un venerdì 13 nella città belga di Liegi ma la madre lo registra all’anagrafe con la data del giorno prima. A dispetto della superstizione la sua vita si snoda nel Novecento sotto una buona stella. Scrittore tra i più celebrati, vanta mezzo miliardo di copie vendute e traduzioni in ogni angolo del pianeta.

Liegi e la madre sono i due ingressi agli estremi del lungo corridoio di duemila pagine di Pedigree e altri romanzi, in libreria per Adelphi. Pedigree, pubblicato nel 1948, è il romanzo dove più scopertamente Simenon sparge il seme della propria autobiografia. Racconta i luoghi dove è cresciuto, la sua infanzia prigioniera del decoro borghese, e mostra come in una radiografia le arterie del suo immaginario. La sovrapposizione con Roger Mamelin, il protagonista, è però lecita fino a un certo punto perché sebbene sia tutto vero, “nulla è esatto.” Proprio come in Lettera a mia madre (1974), scritto durante l’agonia di Henriette Brüll, fiamminga dura e orgogliosa che lo voleva pasticciere e con la quale i rapporti furono sempre tormentati (indispettita dal successo del figlio, gli restituì prima della morte il denaro che le aveva procurato). Bisogna seguire le orme di questa madre ostile per individuare il motore della creatività di Simenon, il quale scrive il primo libro quando si emancipa da Henriette e scrive l’ultimo quando lei muore. Salvo un’ultima incursione con Memorie intime nel quale omaggia la figlia Marie-Jo, che si toglie la vita nel 1978.

Amico di Gide e di Fellini, l’autore belga si è tuffato in una dismisura che non ha eguali: dalle quattrocento opere scritte e pubblicate, svariate sotto pseudonimi, alle diecimila donne vantate nel suo curriculum di erotomane. Pochi come lui alimentano la suggestione iconica dello scrittore al lavoro: sveglia alle cinque, tende tirate, whisky accanto alla macchina da scrivere. Senza contare il mito della velocità di composizione. Un capitolo al giorno, per otto giorni. Poi tre giorni per le correzioni. Le leggende si sprecano. Come quando riceve una telefonata di Orson Wells. La segretaria puntualizza che il maestro sta scrivendo un nuovo libro e dunque non può passarglielo. “Non importa, aspetto in linea” replica il regista. O quella performance che favoleggia di un Simenon battere a macchina un libro in tre giorni e tre notti dentro una gabbia di vetro appesa davanti al Moulin Rouge. Su consiglio della scrittrice Colette attinge a un vocabolario ridotto: “Mi bastano duemila parole per raccontare la realtà”. Riesce a combinarle, con il suo nome in copertina, in 117 “romanzi duri” come lui stesso li etichetta, e in 75 polizieschi con protagonista il commissario Maigret.

Il suo debito con Balzac è lampante, non solo per la vena prolifica ma per il talento di riprodurre sulla carta anche la battuta più insignificante carpita nelle stazioni, nei mercati. Da L’uomo che guardava passare i treni a La camera azzurra Simenon, indifferente alla grande Storia, si mette in un angolo e racconta quello che vede nelle coscienze e nei tinelli: sentimenti deteriorati, ambizioni meschine, bramosie sessuali, rovesci finanziari. “Non si vive la storia, si vive la propria piccola vita, la vita di un istante dell’umanità.”

Nella comédie humaine di Maigret le vite deragliate dei criminali sono accolte da un vizioso che le comprende. Quando, in L’amico d’infanzia di Maigret, il commissario risponde all’ex compagno di scuola fallito: “Non ho mai giudicato nessuno”, a stare sotto la lente delle indagini è la pietas che si deve alla fragilità di cui siamo tutti impastati. Ecco allora che i lettori continuano ad amare quell’odore di pipa, quel randagio col cappotto pesante che non ha orari, che si aggira per bar scalcinati e gabbiotti di portinaie pettegole, che si scola bicchierini di Calvados, che a una donna di qualsiasi età chiede se è stata l’amante del sospettato. Tutto sotto un cielo grigio nel quale o è appena piovuto, o sta per piovere, o piove. Il lettore, come Maigret, appoggia la fronte al vetro gelato di una finestra e guarda al mondo con disincanto, arreso alle mille ombre dell’esistenza, perché persino “la verità non sembra mai vera”.

Läckberg debutta con un mentalista: ed è subito caccia al serial killer mago

Siamo ormai alla seconda domenica di Avvento e sotto l’albero di Natale cominciano ad affollarsi serial killer di ogni latitudine ed estrazione sociale. Del resto, tra lucine, presepe e tavolate, cosa c’è di più riposante di un tomo di centinaia di pagine sulla caccia a uno psicopatico? Diciamo dunque che l’ultimo libro di Camilla Läckberg, star del thriller scandinavo da quasi trenta milioni di copie vendute nell’intero orbe terracqueo, corrisponde in pieno alle aspettative natalizie. Costruito per vendere-vendere-vendere, stavolta la svedese si presenta in coppia e verga il voluminoso Il codice dell’illusionista insieme con Henrik Fexeus, “mentalista di fama internazionale”. Tocca dunque mettere da parte tutte le nostre riserve sui mentalisti (virus che ha contagiato orde di giallisti) e affrontare la scalata a questo codice che nel titolo riecheggia ambizioni danbrowniane.

Siamo ovviamente a Stoccolma e l’omicida seriale è un illusionista. Fa trovare, cioè, le sue vittime segate, squarciate e numerate con giochi mortali di magia. Così una squadra speciale della polizia ingaggia come consulente il mentalista più noto della Svezia, l’affascinante Vincent Walder, che ha l’ossessione dei numeri. La sua partner nell’inchiesta è un’altra “fissata”: la detective Mina Dabiri, misofoba. Ovvero ha paura di toccare qualsiasi cosa e gira con guanti e gel disinfettante. Il racconto è alternato con quadretti del 1982, laddove una mamma con nevrosi multiple vive isolata in un bosco con i due figli. La trama sovente vira al rosa ché Vincent e Mina si piacciono ma lui è incasinato, nel senso che la sua seconda moglie è la sorella della prima. In ogni caso, il ritmo è impressionante. Un polpettone saporito, appunto, allestito alla perfezione.

Il codice dell’illusionista, Camilla Läckberg ed Henrik Fexeus, Pagine: 719, Prezzo: 22, Editore: Marsilio

 

“Volevo nascere statua, ma sono solo una lumaca”

“Su una foglia appassita d’insalata dove non restano che rimpianti da rimasticare, posso al massimo trovar ragioni di compiacimento. Il passato non nutre. Me ne andrò come sono arrivata. Intatta, carica dei difetti che mi hanno tormentata. Avrei voluto nascer statua, e sono solo una lumaca nel guscio”.

Si apre così La bastarda, l’opera che nel ’64 rese famosa Violette Leduc in Francia, ora riedita da Neri Pozza che ha già ripresentato Thérèse e Isabelle per rilanciare una penna cardine del 900 ancora poco nota in Italia. La prefazione è di Simone de Beauvoir che nel ’58 le suggerisce di scrivere un racconto autobiografico. Leduc è sconcertata. Ha cinquant’anni, teme che la memoria la tradisca, “mi sono salvata grazie alle ondate dell’immaginazione” dirà, e si chiede a chi potrebbe interessare la vita di una sconosciuta, di una bastarda nata dalla relazione tra una cameriera e l’erede della famiglia presso cui era a servizio, che mai la riconobbe. Un conto è esser l’autrice de Il secondo sesso ma lei chi è?

Con tre romanzi all’attivo è a quel tempo ancora scrittrice per scrittori (Camus la introduce in Gallimard, Genet e Sartre la elogiano) ma i lettori latitano o la bollano scandalosa. Quando decide di seguire il consiglio di Beauvoir è il 23 giugno 1962. Ne La bastarda convivono tutte le sfumature dell’eterna lotta con se stessa a trovare forma e senso solo nella scrittura: solitudine estrema, folle sete d’amore, le relazioni perse e impossibili in partenza, erotismo “chiave privilegiata del mondo”, la convinzione di esser brutta dunque non desiderata e di poco valore e allo stesso tempo la smania per l’indipendenza, l’egocentrismo, i capricci, la fuga dai legami quando si fanno troppo stretti.

Servito da uno stile preciso quanto appassionato, istintivo ma poetico, La bastarda prende avvio dall’infanzia, un “duro paradiso” vissuto accanto a una madre che la considera un errore per proseguire con gli anni del collegio a Douai tra ribellione, insofferenza alle regole ma anche iniziazione ai sentimenti e alla carnalità perché è lì che sperimenta un trasporto febbrile prima per la compagna Isabelle e poi per l’insegnante di musica Hermine. E ancora Parigi dove incontra Maurice Sachs, scrittore ebreo omosessuale di cui s’invaghisce salvo poi sposare un vecchio amico fotografo, legame destinato a finire malissimo per terminare con la parentesi in Normandia dove scappa con Sachs e che coincide con la stesura de L’asfissia, l’esordio che lui la sprona a metter su carta non potendone più dei suoi racconti d’infanzia, sino al ’44, quando lui parte per la Germania lasciandola a campare di mercato nero. È qui che si ferma la narrazione, a pochi mesi dall’incontro che le cambierà la vita, quello con Beauvoir, al café Flore di Parigi, quando le allungherà il manoscritto de L’asfissia.

La bastarda, scrive nella postfazione Carlo Jansiti, “è la trasposizione romanzesca di una vita. Non è un regolamento di conti ma una spietata requisitoria contro di sé e al tempo stesso una redenzione”. A una giornalista Leduc disse: “Ho cercato di essere franca, perché non c’è nessuna ragione che sia riservato agli uomini di parlare delle questioni intime. Quando scrivo posso raccontare tutto, niente m’imbarazza. Sono sola con me stessa”. Chi non resta solo è il lettore, travolto da una piena.

La bastarda, Violette Leduc, Pagine: 640, Prezzo: 20, Editore: Neri Pozza

Christopher Coltzau, il pittore di taglieri che spedisce in tutte le parti del mondo

Incidere dei taglieri in legno può essere non solo un hobby rilassante, ma anche una vera e propria forma d’arte. Christopher Coltzau, nato cinquant’anni fa a Lubecca, nell’estremo nord della Germania, vive insieme alla famiglia in campagna, a pochi chilometri di distanza dal suo paese di origine. Nella lettera che ha inviato alla nostra redazione, descrive la sua vita come “semplice, piena di soddisfazione e più o meno autosufficiente”. La moglie gestisce un piccolo pollaio, mentre i loro cinque figli vanno ormai tutti a scuola. Lui, invece, ha trovato nell’incisione dei taglieri il catalizzatore di una passione che lo accompagna fin da bambino, quella per il legno, a cui dedica gran parte delle sue giornate. I suoi primi lavori, dice, sono stati scolpendo la superficie dei banchi di scuola con il proprio nome; gli insegnati si arrabbiavano, ma lui proprio non riusciva a farne a meno. Poi è arrivata la laurea in ingegneria, il matrimonio, la vita in campagna e soprattutto l’attività di pittore, tutti degli snodi fondamentali per quella che è la sua vita oggi. “Ho dipinto per molti anni, ma dopo la nascita del mio primo figlio cercavo qualcosa che mi permettesse di vivere vicino alla mia famiglia senza fargli respirare gli odori nocivi delle vernici” spiega Christopher, parlando di come abbia realizzato di quanto “fosse affascinante intagliare il legno e stamparlo. E così mi sono concentrato su quello”. Da sette anni raccoglie taglieri da tutto il mondo, incidendoli, decorandoli e spedendoli in ogni angolo del globo. “Fino a oggi ho inviato 277 taglieri in 35 nazioni diverse” scrive nella lettera inviata al Fatto, introducendo il progetto che raccoglierà tutti i suoi lavori, il Cutting Board Tribune. Una sorta di albo illustrato sui taglieri, che l’autore descrive come “un’àncora che lega gli spazi privati di chi partecipa al progetto”. Se volete mandare i vostri vassoi di legno a Christopher, potete inviarli a PO Box 1220, 23807 Wahlstedt, Germania. Oppure contattandolo sulla sua pagina Instagram, @time_cuttingboards.

 

“Antichi maestri”, moderne visioni

Dalla fine: una incredibile ovazione del pubblico, dopo un’ora e mezza di risate, accoglie gli attori in proscenio per i saluti. Non è facile ridere con Thomas Bernhard, autore di un umorismo nero e livido, sprezzante e velenoso: di questo va dato merito sia agli interpreti – Sandro Lombardi, Martino D’Amico e Alessandro Burzotta – sia al regista Federico Tiezzi.

Roma, Teatro Vascello, questa sera si è recitato Antichi maestri, un romanzo-commedia dello scrittore austriaco, qui adattato per il palcoscenico dal drammaturgo Fabrizio Sinisi. Protagonista è Reger, un vedovo critico musicale, che a giorni alterni si reca nella sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna per ammirare L’uomo dalla barba bianca di Tintoretto: ne raccoglie pensieri e invettive l’amico Atzbacher, convocato al museo per un misterioso invito, mentre un terzo personaggio – il custode Irrsigler – assiste alla conversazione muto.

Al cuore della “commedia”, una riflessione sull’Arte, sugli “Antichi maestri” della letteratura, della musica, della filosofia, della pittura che sembrano renderci la vita più sopportabile, sin piacevole, salvo poi tradirci, ferirci, abbandonarci : “Alla fine sono soprattutto questi cosiddetti Antichi Maestri che ci abbandonano, e ci accorgiamo che si fanno addirittura beffe di noi nella maniera più infame… Shakespeare e Kant e tutti gli altri ci piantano in asso proprio nel momento in cui avremmo un grandissimo bisogno di loro, non sono una soluzione per noi e non ci sono di alcun conforto, d’un tratto essi sono per noi semplicemente disgustosi ed estranei… Essi non ci danno altro che la conferma del fatto che anche in mezzo a loro noi siamo soli, che siamo abbandonati a noi stessi e che tutto questo è assolutamente atroce”.

Antichi maestri, moderne visioni: Tiezzi ha “immaginato uno spettacolo sul vedere; ho voluto riflettere, analizzare attraverso questo racconto mirabile, i procedimenti della visione teatrale”. Le geometriche scene di Gregorio Zurla e le chirurgiche luci di Gianni Pollini traducono plasticamente il progetto registico, incorniciando i personaggi in un tableau vivant museale, polveroso quanto grottesco, quasi come fece Bacon con Velázquez (anche se nelle note si cita il gigante James Turrell): la gabbia di neon scandisce anche nello spazio l’andamento a quadri della pièce, eppure rischia di impagliare gli interpreti in situazioni grottesche, pose stentoree e posture innaturali. Irrsigler si lascia andare a troppe gag in controscena; Atzbacher si incarta in tonalità flautate; Reger ci prende gusto nei panni del bisbetico indomito. Questo è il limite di un disegno di regia molto forte, scolpito, rigido, per cui gli attori sgusciano qua e là dalle costrizioni con mestiere ed espedienti comici.

La firma di Tiezzi è evidente soprattutto nel finale – coraggioso – che ribalta Bernhard, posponendo alle ultime righe del romanzo le battute sull’“arte di sopravvivere”, salvando così in extremis gli Antichi maestri del e dal tradimento. Seguono applausi scroscianti del pubblico: come detto, il risultato è encomiabile, ma raggiunto con mezzi discutibili, o forse Tiezzi ha voluto farsi beffe dell’Antico maestro Bernhard, tradendolo a sua volta.

In tournée a Parma (Teatro al Parco, stasera); Pescia (Teatro Pacini, domani); San Casciano (Teatro Niccolini, 17 dicembre)