Caccia alla “carta” di CR7. “Se esce ci saltano alla gola”

La carta sull’affaireRonaldo, quella che “teoricamente non dovrebbe esistere”, in effetti ancora non c’è. La Procura di Torino giovedì ha nuovamente inviato la Guardia di Finanza nella sede della Juventus poiché, dopo primo sequestro del 26 novembre, non s’è trovata. La gestione di Cristiano Ronaldo è uno dei punti più misteriosi dell’indagine condotta dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai due sostituti Ciro Santoriello e Mario Bendoni. Inchiesta che vede indagati, con l’accusa di concorso in falso in bilancio di una società quotata in borsa, Andrea Agnelli, Pavel Nedved, Fabio Paratici, Stefano Bertola, Stefano Cerrato e, da giovedì, anche il capo dell’ufficio legale Cesare Gabasio. È proprio con Gabasio che parla il direttore generale Cherubini quando, intercettato dai finanzieri, discute di Ronaldo e della “carta” in questione. “Ti dico solo questo”, dice Gabasio, “ho fatto un discorso con, col pres (verosimilmente Andrea Agnelli, ndr) stamattina, no? Solo gli ho detto io non arriverei a far la causa contro di loro […] Fede ti spiego solo perché noi abbiamo quella carta lì che, quella carta famosa che non deve esistere teoricamente, no?[…] quindi sai se salta fuori abbiam … ci saltano alla gola tutto sul bilancio i revisori e tutto […] poi magari dobbiamo fare una transazione finta”.

Par di capire innanzitutto che la “carta” in questione sia collegata all’idea che è preferibile non avviare cause con lo staff di Ronaldo (segno che un contenzioso avrebbe potuto esserci). Inoltre – ed è il dato più importante per la Procura, considerato il reato per cui procede – se la “carta” saltasse fuori i revisori potrebbero aver qualcosa da ridire sul bilancio. E qualcuno potrebbe “saltare alla gola”. Gabasio aggiunge: “non arriverei all’estremo […] di fare una causa perché poi quella carta lì che loro devono tirar fuori non è che ci aiuti tanto a noi […] nel nostro bilancio”. Il punto è che se la “carta” contenesse notizie che andavano per legge comunicate e allegate al bilancio, per la Juventus, si tratterebbe di un enorme guaio giudiziario. L’accusa è infatti molto chiara: gli indagati, secondo la Procura, “riportavano in modo difforme dal vero, nei ‘fatti di rilievo avvenuti dopo il 30 giugno 2021’, alla voce ‘Cessioni Definitive’ i valori economici della cessione del calciatore Dos Santos Aveiro Cristiano Ronaldo alla società controparte Manchester Uniteci al prezzo di 15 milioni”. La frase chiave secondo gli inquirenti è quella in cui si attesta che “il valore di cessione potrà incrementarsi di massimi 8 milioni al raggiungimento di obiettivi sportivi”. Ma gli indagati avrebbero omesso di “esporre gli effetti di una scrittura privata” violando il principio che prevede la comunicazione di “fatti intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio” e “l’obbligo di indicarli con nota integrativa”. La Finanza ci ha provato, il 26 novembre, a chiedere agli indagati di consegnare la “carta” evocata da Gabasio: “Nonostante specifica richiesta, non è stato rinvenuto né prodotto dalla parte”. I finanzieri hanno richiesto a Cherubini, Gabasio, Agnelli, Nedved, e all’ad Arrivabene di “esibire la scrittura privata (…) concernente il rapporto contrattuale e le retribuzione arretrate” di Ronaldo ma hanno ottenuto un “riscontro negativo”. In sostanza: nessuno gliel’ha consegnata. Non solo. Interrogato dai pm, Arrivabene ha sostenuto di “non essere a conoscenza né dell’esistenza, né dell’ubicazione di tale documento”. E così giovedì i finanzieri si sono ripresentati, indagando e perquisendo anche Gabasio, oltre che gli uffici della sede bianconera.

A renderlo noto è stata la stessa società torinese con un comunicato in cui ha ribadito la sua collaborazione “con gli inquirenti e con la Consob” e ha dichiarato che “confida di chiarire ogni aspetto di interesse degli stessi, ritenendo di aver operato nel rispetto delle leggi e delle norme che disciplinano la redazione delle relazioni finanziarie, in conformità ai principi contabili e in linea con la prassi internazionale della football industry e le condizioni di mercato”. La Juve ha anche depositato in Consob il supplemento al prospetto informativo sull’aumento di capitale da 400 milioni nel quale ha precisato che l’inchiesta – incentrata, com’è noto, sulle presunte plusvalenze a specchio per centinaia di milioni in tre anni – “non configura un mutamento negativo rilevante da consentire alle banche di recedere dagli impegni di garanzia in relazione all’aumento di capitale”. Però poi aggiunge che “se, per quanto l’ipotesi sia remota, l’aumento di capitale fosse eseguito solo parzialmente, affluirebbero al Gruppo risorse finanziarie in misura limitata” e, “in assenza di ulteriori tempestive misure” la “capacità del Gruppo di mantenere il presupposto della continuità aziendale nell’arco di Piano verrebbe meno”. Lo scenario sarà “remoto” ma è pesante.

Dicembre a rischio in quattro Regioni. Ma ora l’Rt scende

Nelle tabelle presentate ieri dal professor Silvio Brusaferro si vede che quattro Regioni – Liguria, Veneto e in misura minore Emilia-Romagna e Marche – rischiano, da qui a un mese e cioè il 1° gennaio, di ritrovarsi in zona arancione, cioè con restrizioni significative che l’ultimo decreto sul Green pass rafforzato ha limitato ai soli non vaccinati. Sono le “proiezioni del fabbisogno di posti letto” elaborate dall’Istituto superiore di sanità con i dati dell’Agenas, l’agenzia per i servizi sanitari regionali, presentate nella conferenza stampa di ieri sul monitoraggio settimanale del Covid-19. Le 4 Regioni in questione potrebbero infatti superare le soglie del 20% di pazienti Covid nelle terapie intensive (che come ormai sappiamo non sono neppure tutte esistenti, una su tre è solo attivabile) e del 30% nei reparti ordinari di area medica, che sono appunto i parametri per la zona arancione, piuttosto penalizzanti per l’attività ordinaria degli ospedali come hanno spiegato con preoccupazione, nelle scorse settimane, i medici anestetisti della Siaarti e dell’Aaroi-Emac.

Per il momento rimane in zona gialla – quindi mascherine all’aperto e poco altro – il Friuli-Venezia Giulia, che ha le terapie intensive al 14,9% (la soglia per l’area gialla è il 10%) e l’area medica al 23% (il limite è il 15%) e da domani tocca anche alla provincia di Bolzano (17,5% e 19,8%), ma per queste Regioni le proiezioni a un mese sono meno fosche, insomma ci si attende che la pressione sugli ospedali non aumenti troppo, o comunque meno che altrove.

L’indice di riproduzione del virus Rt per la prima settimana diminuisce da 1,23 a 1,20 dopo 5 settimane di crescita, con la prospettiva di scendere a 1,1. Cala l’Rt ospedaliero che è già 1,09. Sono dati confortanti, almeno in prospettiva, perché ci si avvicina a valori inferiori alla soglia epidemica di 1. Naturalmente l’incidenza, cioè i nuovi contagi, nel frattempo continua ancora a salire: da 125 a 155 ogni centomila abitanti, concentrati “in particolare sotto i 20 anni ma anche nella fascia di età 30-49 anni”, con punte di 645,7 a Bolzano (in aumento), 336,3 in Friuli-V.G. (ma in diminuzione), 317,1 in Veneto e 309,1 in Val d’Aosta. Per questo l’aumento dei ricoveri e dei decessi è destinato a proseguire, almeno in alcune Regioni. I ricoveri aumentano a livello nazionale in modo costante, circa l’1% a settimana come ha mostrato ieri Brusaferro, cosicché oggi siamo al 9,1% nelle terapie intensive e al 7,3% nei reparti ordinari. Come per l’incidenza si rilevano significative disparità territoriali, accentuate anche dalle diverse politiche di testing and tracing e da quelle sui posti letto dichiarati su cui si calcola il 100% della disponibilità.

Il sistema attuale dei colori dipende infatti dai soli dati ospedalieri, come hanno voluto le Regioni la scorsa primavera e come va benissimo al governo che intende in ogni modo evitare chiusure, specie prima di Natale, nella speranza che poi vada meglio. La risposta al virus al momento consiste quasi esclusivamente nelle vaccinazioni, che sono tornate ad aumentare. La prossima tappa, dal 16 dicembre, saranno i bambini dai 5 agli 11, per i quali non ci sarà alcun green pass. Sui vaccini agli under 12 c’è ancora un aperto confronto nella comunità scientifica e si attende la circolare ministeriale con le relative raccomandazioni. Brusaferro e il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero, hanno insistito molto su “mascherine e distanziamento”. E speriamo che bastino.

Per la nuova sanità mancano gli infermieri

La partita della missione Salute del Piano nazionale di Ripresa e resilienza è iniziata. Il ministro Roberto Speranza ha inviato alle Regioni il decreto che stanzia in totale oltre 8 miliardi, dei quali 6,5 del Pnrr e 1,5 del fondo complementare. La prima tranche delle risorse previste fino al completamento del piano (nel 2026), che superano i 20 miliardi. E il primo step del programma per rafforzare il servizio sanitario dopo lo choc pandemico. Fase che scommette, prima di tutto, su una nuova medicina territoriale. E poi su digitalizzazione dei Pronto soccorso, nuove apparecchiature e tecnologie, innovazione. Le Regioni avranno tre mesi di tempo, fino al 28 febbraio, per presentare i loro piani operativi, che dovranno riguardare in primo luogo case di comunità e ospedali di comunità. Delle prime dovranno esserne realizzate 1.280, dei secondi 381.

Una novità? Non proprio. Le case di comunità sono un’evoluzione delle case della salute, istituite 14 anni fa, una grande occasione mancata per molte Regioni. L’ha messo impietosamente nero su bianco, alla fine del 2020, un dossier del Servizio studi di Montecitorio. Oggi se ne contano 493. Il 50% è concentrato in Emilia-Romagna e in Toscana, altre 71 sono in Piemonte, 77 in Veneto, 55 in Sicilia, 22 nel Lazio. In otto Regioni sono completamente assenti. Mancano in Lombardia, in Valle d’Aosta, in Abruzzo, nelle province autonome di Trento e Bolzano. Mancano anche in Friuli-Venezia Giulia, Puglia e Campania. Stessa storia per gli ospedali di comunità, previsti dal Patto per la salute 2014-2016. Ora ce ne sono 163, per un totale di 3.163 posti letto. Ma non sono mai stati realizzati in ben undici Regioni. Il Veneto è avanti (ne ha 69), 46 sono ancora una volta tra Emilia-Romagna e Toscana, 20 in Lombardia, 14 nelle Marche, 5 in Abruzzo e 5 in Piemonte. Per il resto, in pratica, è il deserto.

Le case di comunità sono concepite come strutture polivalenti in grado di erogare prestazioni sociosanitarie. All’interno devono esserci gli studi dei medici di medicina generale e gli ambulatori specialistici. E devono essere aperte sette giorni su sette, h24. Gli ospedali di comunità sono pensati come filtro tra ospedale e territorio. Brevi ricoveri e cure a bassa intensità. Rivolti, tanto per fare un esempio, ai pazienti cronici che dopo essere stati dimessi non possono ancora essere seguiti a domicilio. Le prime dovrebbero farsi carico – questo l’obiettivo – di 13 milioni di cronici. Entrambe le strutture, case di comunità e ospedali di comunità, sono a gestione prevalentemente infermieristica e dei medici di famiglia. Ed ecco il primo grande problema.

In Italia, secondo la Fnopi, la federazione degli Ordini infermieristici, mancano oggi qualcosa come 63 mila infermieri, tra ospedali e territorio. Una stima basata sui parametri internazionali: in pratica per stare al passo con Paesi come la Germania o la Francia dovremmo avere dagli undici ai tredici infermieri per mille abitanti, invece ne abbiamo 6,2. Agenas ha calcolato che ogni casa di comunità hub (una ogni 40-50 mila abitanti) dovrà avere in servizio almeno 8-12 infermieri. Siccome ne sono previste 1.350 – sulle oltre 1700 totali – ne serviranno 16.200. Per ogni ospedale di comunità hub (uno ogni 50 mila abitanti), invece, occorrono 9 infermieri e un coordinatore infermieristico. Tirando le somme, sono altri seimila. E in tutto siamo a 22.200. Che non ci sono e si aggiungono ai 63 mila. Perché, semplicemente, sul mercato non si trovano. Poi c’è la questione medici di famiglia. “Dovrebbero essere 46 mila almeno, sono 42 mila”, dice Claudio Cricelli, presidente della Società di medicina generale e delle cure primarie. All’appello ne mancano dunque 4 mila. “Tanti vanno in pensione e non vengono sostituiti dalle Regioni – prosegue Cricelli –, che preferiscono aumentare il numero di pazienti a carico dei medici attivi. Problema di lunga data. Purtroppo l’organizzazione sanitaria non riesce a programmare e rincorriamo sempre l’emergenza. Ma recuperare nell’immediato è impossibile: ci vogliono almeno tre anni di formazione post-laurea”.

Eccoci di fronte al principale scoglio: gli errori nella pianificazione dei fabbisogni formativi. Riguarda i medici. Riguarda gli infermieri. E per questi ultimi siamo davvero all’emergenza. Oggi in Italia se ne contano, dipendenti della sanità pubblica o privata, 391 mila, ai quali vanno aggiunti 45 mila liberi professionisti. “Mancano anche gli infermieri di famiglia, che dovrebbero essere 23 mila e sono poco più di tremila – spiegano dalla Fnopi –. Per la formazione, insieme al ministero della Salute e alle Regioni, abbiamo chiesto per l’anno accademico 2021-2022 23.498 posti e ne sono stati messi a bando solo 17.394: il Miur ci ha detto che non ci sono sufficienti strutture. Poi dobbiamo tenere conto dei ventimila infermieri all’estero. Se ne vanno perché vengono pagati il doppio o il triplo. In Italia lo stipendio lordo medio è di 33 mila euro all’anno”. Così la domanda è: come funzioneranno case e ospedali di comunità? Per formare un infermiere ci vogliono almeno tre anni, cinque con la laurea magistrale. E per tre anni almeno bisognerà attendere che gli oltre 17 mila studenti di oggi abbiano completato il ciclo. Situazione ben nota al ministero della Salute, che rileva come quest’anno i posti assegnati negli atenei siano mille in più dell’anno prossimo. Poi, l’anno prossimo, si punta a crescere almeno a 19 mila. Si tratta sui numeri con il Miur: per i corsi di laurea infermieristiche, infatti, mancano perfino i docenti.

Le prime case di comunità saranno operative a partire dal 2023. Prima saranno attivate le Cot, centrali operative territoriali, per lo smistamento della domanda tra territorio e ospedali. E sarà rafforzato il sistema di assistenza domiciliare. I conti comunque non tornano. Soprattutto se si prende per buona la previsione del Cergas, il centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’università Bocconi: per raggiungere gli obiettivi fissati dal Pnrr di infermieri ne serviranno almeno 100 mila.

“Tra Pd e M5S nessun subalterno Ma l’Ulivo è una formula vecchia”

Il presidente della Camera giura che la situazione sotto al cielo a 5Stelle è quasi ottima: “Tutti parlano di un M5S in crisi, ma io dico che abbiamo la grande opportunità per portare avanti una nostra agenda radicale su temi come ambiente, sostegno ai più deboli, beni comuni e acqua pubblica”. Così la pensa Roberto Fico.

Oggi lei parteciperà a un evento della fondazione del Fatto Quotidiano a Secondigliano, quartiere di Napoli dove negli ultimi mesi sono stati uccisi diversi ragazzi. Che senso ha la parola Stato in una zona con tali problemi?

Intanto io mi impegno con la mia città, per esserci sempre. Le istituzioni devono stare sul campo per confrontarsi e raccogliere tutte le istanze. Per questo sarò al centro giovanile Pertini assieme al procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo e al sindaco Gaetano Manfredi, per dimostrare che lo Stato c’è. Ora però bisogna rimettere in sesto Napoli con investimenti mirati a Napoli, anche nelle strutture sociali.

Lei parla di investimenti, ma la giunta ricorda ogni giorno la situazione disperata dei conti comunali.

Il problema del Comune di Napoli è quello di tanti Comuni, che sono il motore del Paese perché erogano i servizi essenziali. Sul bilancio di Napoli c’è un’interlocuzione costante tra giunta e governo, e delle soluzioni possono arrivare.

Il M5S è una polveriera. Nelle ultime ore hanno chiesto a tutti i parlamentari di mettersi in pari con le restituzioni, e ora tira aria di rivolta.

Se analizzo la storia del M5S le discussioni interne sono sempre avvenute. Le restituzioni e le rendicontazioni sono giuste e vanno effettuate. Dopodiché io dico che il M5S deve concentrarsi sui temi che può portare avanti. E ritengo che Giuseppe Conte sia la persona giusta al posto giusto.

Prendere i soldi del 2 per mille non è un tradimento?

Questa vicenda non si può raccontare partendo dal voto sul 2 per mille. Come M5S siamo stati fondamentali per cancellare lo scempio dei rimborsi elettorali, grazie a cui spendevi uno e avevi cinque. Il 2 per mille invece è una libera donazione, e non cambia certo la nostra storia.

Come giudica il diktat di Conte sulla Rai? Il M5S che voleva cacciare i partiti da Viale Mazzini si lamenta per non aver avuto la sua fetta di torta.

Non era questo il senso di ciò che ha detto Conte. Non entro nel merito delle singole scelte, ma serve una riforma della governance per emancipare il servizio pubblico dalla politica.

In questi anni di governo non ne avete più parlato.

È stato un errore, ora si deve agire.

È normale che Silvio Berlusconi pretenda di poter essere eletto al Colle?

Non posso rispondere: in virtù della mia carica, dovrò convocare le Camere e gestire il Parlamento in seduta comune.

Può dire quanto il M5S rischi di spaccarsi nel voto segreto.

Sull’elezione del presidente della Repubblica deve esserci un’ampia condivisione nel Movimento, gestita da Conte. Il presidente ascolterà tutti i livelli, dai direttivi alla delegazione di governo, e dialogherà con altri partiti. Poi tutti dovranno convergere su un nome.

Dovrà piacere anche a Grillo, che non ha mai ricucito con Conte. Anzi.

Certo. È interesse di tutti nel M5S andare avanti assieme. Quello tra Conte e Grillo è un rapporto proficuo tra due persone che si rispettano.

Il rapporto col Pd non pare decollare. Sul salario minimo i dem sono freddi.

Il salario minimo va sicuramente fatto. Non andrebbe a inficiare la contrattazione collettiva dei sindacati, piuttosto ci aiuterebbe in un Paese in cui il Pil è cresciuto e i salari sono diminuiti. Ne possiamo parlare tranquillamente con i dem. Non sono d’accordo quando si parla di subalternità tra Pd e M5S: tra i due partiti ci deve essere un rapporto tra partiti autonomi.

Ma il Pd continua a parlare di nuovo Ulivo…

Non mi convincono vecchie formule, dobbiamo guardare avanti e trovare nuove strade.

Il voto anticipato è possibile?

Sono convinto che la legislatura debba andare avanti fino al 2023 per il bene del Paese. Questo concetto va svincolato da qualsiasi lettura riguardante l’elezione al Quirinale.

Lei è uno dei tre membri del comitato di garanzia dei 5Stelle. Conte discuterà la rogna del terzo mandato con voi.

Non è una discussione che ora mi appassiona, proprio perché dico che la legislatura deve continuare, innanzitutto per mettere a frutto il Pnrr.

I vostri parlamentari fremono. E questo può incidere sul voto per il Colle.

Nel M5S ci sono parlamentari, consiglieri e sindaci che hanno lavorato bene in questi anni, e questa esperienza va valorizzata partendo da chi ha portato avanti i nostri temi.

La guerra sporca dei giornali e il pizzo ai clan per la Standa

1986. Il 28 novembre scoppia un’altra bomba contro la cancellata del palazzo Fininvest di via Rovani. Berlusconi, interrogato dai carabinieri, dice di sospettare del solito Mangano (pensando, a torto, che sia uscito di prigione). Poi chiama Marcello Dell’Utri (intercettato dalla Procura di Milano in un’inchiesta per mafia): “È stato Mangano… Un chilo di polvere nera, una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto… Un altro manderebbe una lettera raccomandata, lui invece ha messo la bomba”. Dell’Utri: “Per forza, non sa scrivere!”.

Berlusconi aggiunge che è solo “un segnale acustico” e gli dispiacerebbe “se i carabinieri, da questa roba qui (un attentato dinamitardo, ndr)… gli tolgono la libertà personale”. Anche i carabinieri sono convinti che Mangano sia libero, ma il caso lo risolve Dell’Utri: convoca l’amico mafioso Gaetano Cinà e apprende che l’ex “stalliere” è ancora in carcere, dunque non può essere l’attentatore.

Secondo il pentito Antonino Galliano, vicino a Cinà, “l’attentato fu opera dei catanesi d’accordo con Riina”. I picciotti di Nitto Santapaola vogliono agganciare il premier Craxi tramite Berlusconi e Dell’Utri, in vista delle elezioni del 1987: Cosa Nostra è intenzionata a votare Psi e Radicali per punire la Dc che non ha voluto o potuto bloccare il maxiprocesso di Falcone e Borsellino. Un mese dopo, Cinà spedisce a Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri tre cassate per Natale: quella del Cavaliere pesa 12 chili e per contenerla è necessario fabbricare una cassa di legno su misura, con lo stemma di Canale 5. Cinà, insieme a Pierino Di Napoli, è il nuovo referente di Riina per i rapporti con Berlusconi, al posto dei fratelli Pullarà.

1987. Filippo Alberto Rapisarda, rientrato in Italia dopo sette anni di latitanza, accusa Dell’Utri di aver portato i boss Bontate e Teresi a investire 10 miliardi di lire nelle tv del Biscione. Dell’Utri non lo denuncia per calunnia. Anzi, nel 1988 ristabilisce con lui un rapporto di amicizia. E, fra il 1990 e il ’94, si farà prestare da lui 2,5 miliardi e costituirà con lui due società immobiliari. Alle elezioni politiche, Riina ordina a tutta Cosa Nostra di abbandonare la Dc e di votare per il Psi o per i Radicali di Marco Pannella.

1988. Il 17 febbraio Berlusconi chiama l’amico immobiliarista Renato Della Valle (intercettato) e gli confida: “Ho un casino abbastanza grosso, per cui devo mandar via i miei figli, che stan partendo adesso per l’estero, perché mi hanno fatto estorsioni… in maniera brutta… Una cosa che mi è capitata altre volte, dieci anni fa, e… sono ritornati fuori… Sai, siccome mi hanno detto che, se entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me ed espongono il corpo in piazza del Duomo […], sono cose poco carine da sentirsi dire e allora ho deciso: li mando in America e buonanotte […]. Ma se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo”. Della Valle: “Senti, quando è quella scadenza?”. Berlusconi: “Fra sei giorni”. Cosa doveva fare Berlusconi per la mafia entro sei giorni per salvare il figlio? Poi la fece? E perché non denunciò l’accaduto? Impossibile saperlo: al processo Dell’Utri rifiuterà di rispondere ai giudici. Secondo i pm la mafia è insoddisfatta del rapporto con la Fininvest e il Psi, e si rifà sotto.

Berlusconi acquista la Standa dal gruppo Ferruzzi-Montedison. E rileva le azioni di Leonardo Mondadori nel gruppo editoriale omonimo, diventandone il terzo socio dopo De Benedetti e gli eredi di Mario Formenton (scomparso da un anno). L’Ingegnere si mette al sicuro siglando con i Formenton un pre-contratto che li impegna a cedergli le loro azioni, cioè il controllo dell’azienda, entro il 30 gennaio 1991.

1989. Berlusconi non si dà per vinto e scatena la guerra di Segrate per espugnare il primo gruppo editoriale italiano, spina nel fianco dell’amico Craxi e dei suoi alleati del pentapartito. Infatti la Mondadori, oltre al ramo libri, controlla i settimanali L’Espresso, Panorama ed Epoca, il quotidiano la Repubblica e la catena di testate locali Finegil. A novembre il Cavaliere convince i Formenton a rimangiarsi l’accordo con De Benedetti e a cedere a lui le proprie quote del gruppo.

1990. Tra gennaio e febbraio una serie di attentati mafiosi colpisce negozi magazzini della Standa (Fininvest) e della Rinascente (Fiat) a Catania. Entrambi i gruppi, per farli cessare, pagano il pizzo a Cosa Nostra. Ma poi la Fiat sporge denuncia, collabora con la giustizia e si costituisce parte civile nei processi ai mafiosi. La Fininvest invece nega di aver pagato e addirittura di aver ricevuto richieste estorsive. In realtà – confermano alcuni dipendenti – la Standa ha ricevuto richieste per 2 miliardi e pagato centinaia di milioni. Ma la Fininvest non si costituirà parte civile contro gli attentatori, pur avendo subìto danni per 4 miliardi. Secondo i pm, “gli attentati alla Standa puntavano ad avvicinare sempre più Berlusconi per arrivare a Craxi”. Vari pentiti e un testimone riferiscono che Dell’Utri incontrò in Sicilia i mafiosi Salvatore Tuccio e Nitto Santapaola per tentare una pacificazione. Proprio in quel periodo, risultano decine di suoi viaggi a Catania.

In due agende della cosca mafiosa di San Lorenzo, compilate dal boss Salvatore Biondo e ritrovate anni dopo in un covo grazie alle rivelazioni del pentito Giovan Battista Ferrante, gli inquirenti rinverranno l’elenco delle ditte che pagano il clan, con tanto di cifre. Fra queste, “Can. 5” per “Regalo 990/5 mila”. Traduzione di Ferrante: Fininvest pagò 5 milioni nel 1990, come faceva ogni sei mesi, anche con altri clan. La dicitura “regalo” compare solo per il gruppo Fininvest. Le sedi palermitane di Canale 5, Rete 4 e Italia 1 sono tutte collocate nel mandamento mafioso di San Lorenzo.

Il 25 gennaio Berlusconi s’insedia alla presidenza della Mondadori. De Benedetti, forte del pre-contratto, sostiene che il voltafaccia dei Formenton è illegittimo. Ne nasce una controversia che il Cavaliere e l’Ingegnere decidono consensualmente di affidare a un collegio arbitrale, formato da un presidente nominato dalla Cassazione e da due arbitri di parte. Il 20 giugno i tre emettono il lodo arbitrale: ha ragione De Benedetti, l’accordo con i Formenton è tuttora valido, le azioni Mondadori devono tornare a lui. Berlusconi lascia la presidenza, sostituito da Carlo Caracciolo e dagli altri manager dell’Ingegnere. Ma il Cavaliere e i Formenton rovesciano il tavolo: siccome il lodo ha dato loro torto, lo disconoscono e lo impugnano dinanzi alla magistratura ordinaria. Cioè alla Corte d’appello di Roma. Dove Previti vanta ottime entrature.

(4-Continua)

Caso Esposito. A processo Feltri, Porro e Sallusti

Direttori di giornale, cronisti, presentatori, politici di centrodestra. Qualcuno li ha definiti i “trombettieri” di Silvio Berlusconi. Sono 14 e per loro la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che nell’agosto 2013 condannò in via definitiva l’ex premier a 4 anno per frode fiscale nel processo Mediaset. L’udienza preliminare è iniziata ieri ed è stata aggiornata al 25 marzo 2022. Davanti al gup di Roma si ritroveranno così, fra gli altri, il direttore del Riformista, Pietro Sansonetti, l’ex del Giornale, Alessandro Sallusti (oggi a Libero), gli ex di Libero, Pietro Senaldi e Vittorio Feltri, l’editorialista Renato Farina, l’attuale capogruppo di Forza Italia al Senato, Anna Maria Bernini, l’attuale sottosegretario Giorgio Mulè e l’ex deputato Fabrizio Cicchitto.

Tutto inizia a fine giugno 2020, quando Nicola Porro (anche lui imputato), nel suo programma tv Quarta Repubblica manda in onda la voce di un giudice, Amedeo Franco – toga a latere del processo in Cassazione a Berlusconi – che dopo aver firmato ogni pagina della sentenza di condanna era andato ad Arcore e – registrato a sua insaputa – gli aveva detto che non era d’accordo e che si era trattato di una sentenza “guidata dall’alto” e di “una grave ingiustizia”. Dopo la serata tv di Porro si scatena la campagna, con gli interventi sui rispettivi giornali (Riformista, Il Giornale, Libero) di firme e cronisti e il coro dei politici di centrodestra. Secondo Sallusti, ad esempio, “la sentenza è stata taroccata (…) sentenza pilotata (…) qualcuno ci ha preso per il culo (…) porcheria la cloaca della magistratura”. Così il giudice Esposito decide di portare tutti in tribunale, trovando le sue tesi accolte dal pm Roberto Felici, secondo cui si è trattato di “una ricostruzione artificiosa degli eventi” che “offendeva la reputazione del giudice Esposito”, “sulla base di prove non verificabili”.

Il Pregiudicato pagò mafiosi e prostitute

I toni con cui il Fatto sta raccontando la biografia di Silvio Berlusconi vengono scambiati per un eccesso di acrimonia. Tutt’altro: sono le sentenze della Cassazione – al termine di processi ai danni di B. o dei suoi fedelissimi – a riportare fatti ritenuti gravissimi dagli oltre 100 mila firmatari della nostra petizione. Su tutte, ricordiamo perciò due vicende. La prima è sui pagamenti alla mafia fino al 1992, di cui si occupa la Cassazione nella sentenza che nel 2014 ha condannato Marcello Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La Suprema Corte stabilisce che “i pagamenti di Berlusconi in favore di Cosa Nostra palermitana – quale corrispettivo per la complessiva protezione a lui accordata e in attuazione dell’accordo raggiunto nel 1974 con la mediazione di Dell’Utri – erano proseguiti senza soluzione di continuità e, dopo la scomparsa di Stefano Bontate e di Girolamo Teresi (avvenute entrambe nel 1981), erano stati effettuati ai fratelli Giovan Battista e Ignazio Pullarà”. Poi c’è la sentenza sul caso Ruby, che pur assolvendo Silvio dal reato di prostituzione minorile (perché B., dicono i giudici, al momento dei rapporti sessuali con Ruby, non sapeva fosse minorenne), dà però come “acquisita” la “prova certa” che “presso la residenza in Arcore vi fu esercizio di attività prostituiva che coinvolse anche Karima El Mahroug” (Ruby). E ancora: “Le performance delle ragazze venivano retribuite in misura progressivamente maggiore a seconda del grado d’interazione col padrone di casa”.

Salvini e Meloni senza pietà: Silvio è divisivo e non ha i voti

Doveva essere il candidato che avrebbe unito il centrodestra. Il padre nobile issato al Quirinale dai suoi successori – i suoi “figliocci”, come li chiama lui. E invece, a poco più di un mese dall’inizio del grande ballo per il Colle, Matteo Salvini ieri ha fatto capire di non credere poi tanto nell’elezione di Silvio Berlusconi come successore di Sergio Mattarella. E anche Giorgia Meloni non si mostra troppo convinta mettendo le mani avanti: “È molto complicato”.

A margine dell’assemblea dell’Udc all’Hotel Marriott di Roma, Salvini non ha mai nominato Berlusconi ma ha tracciato un identikit di un candidato che si allontana molto lontano dal profilo dell’ex premier. “Ci vuole un presidente che unisca gli italiani, equilibrato ed equidistante – ha detto Salvini – Serve un voto unanime, o quasi. Spero già nelle prime tre votazioni”. Un profilo che certo non si confà con quello di Berlusconi che sarebbe un candidato molto divisivo e soprattutto non avrebbe possibilità di essere eletto nelle prime tre votazioni quando il quorum sarà dei due terzi, pari a 672 voti. Un modo, quello del leghista, anche per confermare il suo sostegno a Draghi e rispondere alla strategia del Pd delle ultime ore di spingere Sergio Mattarella verso un secondo mandato: “Il presidente ha già detto cosa vuole fare – ha spiegato l’ex ministro dell’Interno – Va rispettata la sua volontà ed è giusto il cambio”. Nel pomeriggio, poi, Salvini ha corretto un po’ il tiro sulla candidatura di Berlusconi aderendo alla petizione di Libero lanciata contro quella del Fatto dal titolo emblematico: “Non rubateci il Quirinale”.

Peccato che nella sua adesione, il leghista non faccia mai riferimento a Berlusconi. Salvini si limita a specificare che stavolta il kingmaker del Colle non sarà il Pd: “Per la scelta del prossimo presidente non sono tollerabili pregiudizi o esclusioni, la sinistra non metta veti. Decida la politica, no a interferenze giudiziarie”. Anche Meloni si è mostrata scettica sulla candidatura dell’ex premier: ha ammesso che i numeri per eleggerlo sono “complicati” e l’importante è che il centrodestra sia “pronto” e “compatto” in caso di ipotesi “B e C”. Un modo per mettere le mani avanti. Meloni sostiene apertamente Draghi per andare al voto.

Il bis: Mattarella “stupito” e irritato con Pd e stampa

Non ci sta Sergio Mattarella a entrare nel grande gioco del Quirinale, fatto di scenari, messaggi incrociati, segnali politici, tentativi di incoronare e bruciare candidati. E così si è piuttosto irritato ieri mattina, quando ha letto le ricostruzioni dei giornali, secondo i quali il ddl presentato dai dem Luigi Zanda e Dario Parrini in Senato per introdurre in Costituzione la non rieleggibilità del Capo dello Stato e la possibilità di sciogliere le Camere anche durante il semestre bianco, sarebbe in realtà un modo per favorire la sua rielezione. La cosa non gli è piaciuta al punto da far trapelare “stupore”: secondo alcuni commentatori (in primis Stefano Folli su Repubblica, ndr), infatti, tra le intenzioni di coloro sostengono il provvedimento vi sarebbe la volontà di convincerlo ad accettare il bis a tempo, fino all’approvazione della riforma (da lui più volte auspicata). Secondo un ragionamento arzigogolato per cui con la garanzia che non diventi prassi sarebbe più facile dire di sì.

Il Quirinale sottolinea l’aporia: la circostanza che in Parlamento ci si proponga di inserire nella Costituzione questo divieto “non fa altro che confermare” quanto più volte ribadito dal capo dello Stato circa l’ipotesi di una sua conferma al Quirinale. Posizione espressa più volte nell’ultimo anno, anche citando i messaggi al Parlamento dei suoi predecessori, Antonio Segni e Giovanni Leone, nei quali si manifestava l’opportunità di inserire il divieto di rieleggibilità del presidente con la contestuale abolizione del semestre bianco.

La posizione del Colle è anche un modo per chiarire al Pd che non è proprio il caso di insistere sul bis. Fuori questione, ribadiscono. Anche se poi davanti a una situazione di emergenza pandemica e di evidente mancanza di voti per Draghi con conseguente stallo nelle votazioni, Mattarella potrebbe trovarsi costretto a rendersi disponibile, per evitare il tracollo italiano. Il bis di Giorgio Napolitano resta il caso di scuola.

Al Nazareno ci tengono a chiarire che il ddl è stato un’iniziativa individuale, ma i promotori non si scompongono più di tanto. Per citare Stefano Ceccanti, pronto a presentare il testo anche alla Camera, “il bis e la norma sono due cose diverse”. Vero fino a un certo punto se lo stesso deputato continua a dire che l’unico che ha i voti è Mattarella. Nel frattempo, il gioco di Letta resta coperto. “Preservare Draghi in tutti i modi” è la posizione, volutamente criptica. Tradotto vuol dire che – salvo candidati a sorpresa graditi a centrodestra e centrosinistra – al Quirinale o ci va il premier o ci resta il Presidente. E se il fronte per Mattarella resta trasversale (Luigi Di Maio in testa), raccontano nei Palazzi che il segretario del Pd starebbe riflettendo sull’opzione Draghi per dar vita a una maggioranza Ursula, senza la Lega. I giochi si incrociano e si moltiplicano. “L’obiettivo è che ci sia un presidente equilibrato e quanto meno equidistante e senza tessera del Pd in tasca”, ha detto ieri Matteo Salvini, affondando la candidatura di Silvio Berlusconi. Tra i dem c’è chi fa notare che il suo è l’identikit di Pier Ferdinando Casini. Un nome che torna e ritorna. Maria Elena Boschi sarebbe andata negli scorsi giorni dal capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, per proporgli una convergenza su di lui, mentre perorava la causa della costruzione del centro tra Iv e Coraggio Italia, chiedendo alla Lega di non bombardare troppo figure di spicco come Toti. Manovre per esistere. Ma tutti sanno che un terzo nome, oltre Draghi e Mattarella, è estremamente improbabile.

Petizione anti-Caimano: i giornaloni in difesa di B.

Lanciare l’allarme per l’elezione di Silvio Berlusconi non si può. Non se ne deve proprio parlare. Guai anche a dire che sarebbe inopportuno visto lo standing processuale – oltreché politico – del personaggio. Ci vuole il silenzio. Tantomeno bisogna lanciare petizioni per evitare l’infausta elezione. A farsi portatori della singolare tesi non sono i giornali berlusconiani. Sono le grandi testate, Corriere della Sera e Repubblica su tutti, che ieri hanno normalizzato l’idea di Berlusconi, pregiudicato per frode fiscale, come successore di Sergio Mattarella.

Sul quotidiano di via Solferino ci pensa Antonio Polito a firmare un pensoso editoriale dal titolo “Il ruolo (senza tempo) svolto dalle fazioni” per attaccare chi – come il Fatto e Libero –­ha lanciato petizioni contrapposte pro o contro l’elezione dell’ex premier al Colle. In primis, l’editorialista del Corriere, pur parlandone per tutto l’articolo, non cita mai le due petizioni di Fatto e Libero usando una formula così generica – “Le raccolte firme sui giornali pro e anti Berlusconi” – da ingenerare nel lettore un senso di straniamento. La tesi di tutto l’articolo di Polito infatti è questa: l’espressione diretta del popolo – o di una parte di esso –­ su questioni che riguardano il sistema democratico è pericolosa e ha bisogno di un contropotere che tuteli lo Stato liberale. Polito infatti si fa interprete del sentimento popolare e scrive che “petizioni e manifestazioni sono una parte del processo democratico ma non sono la volontà generale, e forse neanche un suo indizio”. Poi certo, le fazioni nella storia hanno sempre “tentato di usare la mobilitazione di minoranze vocianti” ma questo, sostiene, ha prodotto risultati nefasti dai tempi del quesito “volete Gesù o Barabba” e del terrore giacobino in cui i giornalisti “svolsero un ruolo decisivo nell’accendere le masse parigine, indirizzandole anche verso gogne e ghigliottine”. Se ne deduce, dunque, che non si possa nemmeno ricordare agli italiani chi è stato e chi è ancora Berlusconi.

E quindi Polito conclude mettendo in guardia i lettori del Corriere dalle iniziative del Fatto e Libero: “Il problema resta serio e la vigilanza rimane necessaria da parte di chi ha a cuore il sistema liberale. Le fazioni sono il sale della democrazia. Ma troppo sale – si sa – è pericoloso per la pressione”. Anche Repubblica, che ormai ritiene Forza Italia un’interlocutrice naturale, ieri ci ha messo del suo con Francesco Merlo che, rispondendo a una lettrice, prima ha spiegato che Berlusconi è eleggibile al Colle e che peggio di lui ci sono solo “Grillo e il generale Pappalardo”. Ma poi ha scritto che le petizioni di oggi – anche lui senza citarle –­ sono una “parodia” delle battaglie “antiberlusconiane” dei primi anni Duemila, ergendosi a paladino di quei tempi, addirittura “rafforzando il ruolo politico di Berlusconi”.

Non ricordandosi però che il primo ad attaccare ferocemente gli antiberlusconiani, come lo scrittore Antonio Tabucchi, fu lui. Sempre Merlo negli ultimi mesi ha più volte elogiato Forza Italia con dichiarazioni come quelle del 2020 a Tpi: “Non voglio il ritorno di Berlusconi ma meglio Forza Italia del M5S: lì ci sono persone competenti”. Ieri tra gli esponenti del presunto centrosinistra che si sono aggiunti al coro di coloro che strizzano l’occhio alla candidatura di Berlusconi al Colle si è aggiunto anche Andrea Marcucci, ex capogruppo al Senato del Pd: “Faccio fatica a immaginare Berlusconi candidato sopra le parti – ha detto al Giornale – ma è legittimato a candidarsi”.