Covid, vaccini in Africa? Magari si chiede pure permesso all’Isis

“Oggi l’Africa Nera non è più pericolosa per l’Occidente di quanto lo sia un cimitero in putrefazione, che comunque una sua pericolosità la conserva perché c’è sempre il rischio che ci attacchi la cancrena”. Così scrivevo ne Il vizio oscuro dell’Occidente. Nel 2002, anno di pubblicazione del libro, pensavo soprattutto alle emigrazioni che erano ancora un pallido fantasma di quello che è venuto dopo quando si sono trasformate in vere e proprie migrazioni bibliche. Pensavo anche alla crescita in Africa Nera di quell’Islam radicale che, insieme al colonialismo occidentale, quello classico e in seguito quello, ben più insidioso, economico, aveva contribuito a devastare quel mondo derubandolo, oltre a tutto il resto, della sua anima. L’Africa centrale non è riuscita a resistere né alla penetrazione, soprattutto economica, dell’Occidente, che ha stravolto, anzi azzerato, l’economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quei popoli avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, né a quella più ideologica dell’Islam. Perché i neri avevano culture belle e affascinanti ma leggere, religioni altrettanto belle e affascinanti, panteiste, e quindi estremamente tolleranti, ma proprio per questo fragili e inermi e l’Africa si è perciò lasciata affondare senza un gemito dal modello industriale occidentale e dall’ideologia islamista.

Per restare a noi occidentali abbiamo considerato, e continuiamo a considerare, l’Africa, riducendola alla fame, un enorme territorio da sfruttare, ma non abbiamo mai pensato che potesse costituire un pericolo. E invece un pericolo è arrivato, un pericolo immateriale e del tutto impensabile: si chiama Covid. Accanto alla globalizzazione economica, che ha fatto tanto comodo sia al pensiero e alla pratica capitalista che a quella, solo apparentemente, antagonista, esiste anche una globalizzazione della Natura che non guarda in faccia a nessuno. Oggi quindi l’Africa, suo malgrado, è diventata un pericolo, il cimitero rischia di contaminarci.

Poiché il terrore corre sul filo si è detto da molte organizzazioni, anche ufficiali, che è indispensabile immunizzare l’Africa entro il 2022 perché non ci contamini. È un autoinganno nei riguardi delle popolazioni europee, per tranquillizzarle, e anche per salvarci la coscienza nei confronti dei Paesi più poveri, e un inganno nei confronti di quelle africane.

L’Africa conta un miliardo e 250 milioni di abitanti. Solo il Sudafrica (60 milioni circa di abitanti) e in parte i Paesi del Maghreb, Algeria, Marocco, Tunisia (100 milioni di abitanti circa) sono attrezzati per una vaccinazione di massa. L’Africa Nera propriamente detta è percorsa da conflitti di ogni tipo, interetnici, interreligiosi, politici, in Congo, in Mozambico, in Somalia, in Sudan e nel Sud del Sudan, in Nigeria, in Egitto, in Mali, in Burkina Faso, in Libia. Ve la immaginate voi un’organizzazione europea o mondiale, animata dalle migliori intenzioni, che vada in Libia o nel Sinai o in Somalia e dica a un Isis: “Per favore ci porga il braccio che stiamo facendo una campagna di vaccinazione”? Non basteranno due anni e nemmeno dieci e nemmeno trenta. L’Africa Nera, distrutta da noi e dagli islamici, si vendica, involontariamente, per interposto Covid. Quello che mi piace del Covid è che è in buona misura egalitario. Ricchi o poveri che si sia, come individui o come popoli, non risparmia nessuno. “A livella” come diceva Totò.

 

Caffè, water e medicine: storie di micro mazzette

Risme di carta, cialde per il caffè, pastiglie per la pressione, due water, varie bombole di gas. Antonino Porcino, già direttore del carcere di Bergamo, ha sul groppone 21 capi d’imputazione e il primato assoluto di reati a basso costo. È già stato in cella, questa volta da ospite, e deve difendersi da una gragnuola di contestazioni. Truffa, peculato, corruzione, concussione, turbativa d’asta, tra le altre.

Di singolare, nella vicenda che lo vede imputato, è questa costante propensione a fregare il minimo, in un Paese che invece tende sempre a cogliere l’attimo e sistemarsi per sempre. Anche le tangenti sono micro: alcune, sette per la precisione, da 2.500 euro, altre da tremila. In tutto non superano i 20 mila euro, e l’arraffa arraffa sarebbe – anche in questa veste – nella cornice di una inusuale modica quantità, configurandosi così come estorsore a prezzi da discount. Colpisce nel Paese degli impuniti questa storia giudiziaria a bassa intensità, giustamente inflessibile nei confronti di un tangentista, seppur dai minimi costi di esercizio. Persino la truffa ai danni dell’assicurazione, di cui adesso è chiamato a risponderne, consiste in un procurato vantaggio di 950 euro, il risultato di un’ammaccatura fasulla.

Porcino è dunque il primatista dei reati minimi, delle estorsioni tranquillamente illegali, di una pratica di vita in cui la violenza delle parole, e le allusioni, a volte le mani allungate (il tizio ha anche da rispondere di abusi sessuali) illumina questo mondo di sotto, in cui il malaffare minuto è essenza quotidiana, rappresentazione perfetta delle cose che può permettersi chi comanda, e degli obblighi a cui deve cedere il comandato: in questo caso l’agente penitenziario o il detenuto o l’appaltatore.

È come una vetrina delle cattive maniere, il responso certificato dell’illegalità sotto soglia, e i giudici bergamaschi sapranno dimostrare che la legge è legge, ed è uguale per tutti.

Uguale per tutti? Ecco, questa è la domanda più dolorosa e triste. Perché i 21 capi d’imputazione per il Porcino sembrano purtroppo un buffetto rispetto a quelle dei grandi ladri, a coloro che possono giungere fino alla prescrizione, a quel grumo di potenti e affluenti le cui reti di relazione producono la meraviglia di far scomparire dentro una nebbia fitta prove cospicue e reati certi. Decine di essi, del valore di milioni di euro, finiscono per essere dimenticati e gli sforzi della giustizia di dare giustizia anche quando si è in presenza di una truffa da 950 euro, perché il codice non fa differenza, restituisce alla realtà un valore estraneo alla democrazia, e cioè che la legge non è uguale per tutti.

L’impunità è la condizione più destabilizzante per una società che vive secondo i riti propri della democrazia, e l’idea che i “pesci grossi”, così nel vocabolario comune è definita la truppa dei potenti, la faccia troppo spesso franca sembra una verità assoluta, una realtà ineludibile e crudele.

Perciò la storia di Bergamo da un lato racconta della consuetudine a delinquere, e offre in questo caso all’attività predatoria nei confronti del bene pubblico un anomalo lato domestico, quasi da ridere: trasportare dal magazzino della casa circondariale il water per installarlo in casa propria, arraffare dalla medicheria il farmaco per la pressione arteriosa, imporre al distributore delle macchine da caffè la consegna, fuori sacco, di un tot di cialde, rappresenta la cialtronaggine che si converte in abuso e dunque in reato.

Dall’altra, l’amarezza di sapere che i fatti narrati ci restituiscono alla domanda di sempre: ma perché la legge non è uguale per tutti?

 

La posta della settimana: dal come ubriacarsi ai terroristi in aereo

E ora, per la serie “Chi trova un tesoro trova un amico”, la posta della settimana.

Caro Daniele, come ti guadagnavi la paghetta, da ragazzo? (Serena Fedriga, Roma)

 

Consegnavo depliant a domicilio. Dovevo fare duemila case. O due cassonetti.

Hai visto le nuove pubblicità Amazon? Tutti quei giovani sono così contenti di lavorarci! (Bianca Scalzone, Livorno)

 

Io ne ho vista una in cui una ragazza mesta dice: “Perché lavoro da Amazon? Mi restano tre mesi di vita e non me ne frega più un cazzo di niente”. Ma credo che questa pubblicità l’abbiano scartata.

L’arte rende felici? (Rachele, Vasto)

 

Non necessariamente. Prendi Herbert von Karajan. Era uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, eppure era profondamente infelice. Perché? Non sopportava la musica.

Mi piace la cucina macrobiotica ma adoro le patatine fritte. Posso mangiare entrambe le cose? (Francesca Caputo, Napoli)

 

No, non puoi. È come mangiare sushi e Lsd.

Ti piacerebbe avere un gemello? (Vittorio Orlando, Foggia)

 

No. Metti che a 95 anni lui muore di vecchiaia, mi sentirei un po’ troppo il fiato sul collo. Ma cosa dico? A 95 anni sarei rimbambito. Non saprei con certezza neppure se è morto lui o sono morto io.

Vorrei ubriacarmi. Qualche consiglio? (Lorenzo Marcucci, Gorizia)

 

Fallo vicino a un’auto della polizia. Risparmierai tempo.

Se dei terroristi islamici dirottassero il tuo aereo, tu faresti di tutto per impedirglielo? (Gianni Pace, Napoli)

 

Dipende da che film stanno proiettando.

La tua ragazza è brava in cucina? (Annamaria Barosi, Catanzaro)

 

Non dico di no, ma fa un pollo arrosto che rivela molte più verità sul blitz alla scuola Diaz di tanti puntate di Porta a Porta.

Come la vedi la situazione italiana? (Gianni Squillante, Piacenza)

 

Sono tempi entusiasmanti. La benzina è alle stelle ed è ok essere una testa di cazzo.

Hai mai subito umiliazioni cocenti? (Sandro Serpieri, Rimini)

 

Umiliazioni? Mia madre mi comprava i vestiti in un negozio di roba militare. Alle elementari ero l’unico a essere vestito da generale giapponese.

La Borsa è inaffidabile. Qualche consiglio? (Andrea Palmieri, Milano)

 

Dieci anni fa ho investito i miei risparmi nel bestiame: ho infilato 400 euro in una mucca. Oggi sono ricco.

 

Il governo: basta duelli sulla rete

La battaglia sul futuro di Tim non si è conclusa con l’uscita di scena dell’ad Luigi Gubitosi. Il governo, però, sembra avere chiaro cosa dovrà comunque comportare: la fine delle ostilità tra l’ex monopolista e l’altra società che opera nella messa a terra della rete in fibra ottica, la Open Fiber controllata a maggioranza proprio dallo Stato attraverso la Cassa depositi e prestiti. È in sostanza il significato dell’informativa fornita ieri alla Camera dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.

Breve riepilogo. Lo scontro tra il primo azionista di Tim, la francese Vivendi, e il fondo Usa Kkr è solo all’inizio. Già oggi il comitato creato in seno al cda per valutare la manifestazione di interesse del fondo americano per rilevare Tim a 11 mld (contro i 7 del valore precedente) potrebbe nominare gli advisor. L’offerta sottende l’ipotesi di uno “spezzatino” dell’azienda che parta dallo scorporo della rete che, caricata di esuberi e debiti, verrebbe offerta al governo per il tramite di Cdp, oggi secondo azionista di Tim.

Ammesso stia in piedi, un piano del genere coinvolge asset strategici su cui il governo può esercitare i poteri speciali (golden power). Ieri Giorgetti ha ricordato che al momento quella del fondo Usa è un’offerta “non vincolante” e il governo si muoverà solo se diventasse concreta. In ogni caso, però, “occorre considerare due obiettivi strategici: la necessità di realizzare una infrastruttura in fibra ottica nel Paese e tutelare gli asset strategici”.

E qui entra in scena Open Fiber. Nata nel 2015 per la bizzarra idea di Matteo Renzi di obbligare Enel e Cdp a fare la guerra a Tim negli investimenti sulla rete, oggi OF è in difficoltà. Ha vinto tutti i bandi Infratel per cablare le “aree bianche”, dove i privati non vogliono investire, ma è in forte ritardo e i ricavi non garantiscono margini adeguati visto il pesante indebitamento. Fuori dalle aree bianche c’è poi la concorrenza di Tim. Ai tempi del Conte 2 l’idea era soccorrere le due società fondendo le due reti in un nuovo soggetto, a maggioranza Tim, ma gestito da Cdp. Il governo Draghi ha archiviato quel progetto, inviso anche all’Ue che non vuole società delle reti controllate da operatori di mercato. Il problema, ora, è chi farà gli investimenti per cablare il Paese.

Il Pnrr destina 6 miliardi e le gare per le aree grigie e nere partiranno a gennaio (insieme al 5G). “Oggi ci sono due player principali che stanno realizzando le reti in concorrenza tra loro. E nel contesto si possono valutare sinergie per accelerare l’infrastrutturazione del Paese”, ha detto Giorgetti. È la linea già esposta dal presidente di Open Fiber Franco Bassanini. Le strade sono due: o si fa la rete unica targata Cdp o le due società (di cui la Cassa è azionista) collaborano per evitare una guerra sui bandi e duplicazioni nelle stesse aree. Non è un caso che il ddl Concorrenza contenga misure per un maggior coordinamento tra gli operatori che posano i cavi.

Manovre sul “Cloud” di Stato: i pm indagano sull’appalto

La Procura di Roma indaga su presunte manovre o pressioni intorno alla realizzazione del Polo strategico nazionale (Psn) per il cloud destinato, secondo i piani del governo Draghi, a ospitare i dati della Pubblica amministrazione oggi sparsi in centinaia di data center poco sicuri. In Procura è stato depositato un esposto del deputato ex M5S e membro della commissione Bilancio, Raphael Raduzzi. La denuncia cita un articolo del Fatto del 16 settembre in cui si dava conto di pressioni informali arrivate dal Tesoro in direzione del Poligrafico di Stato, controllato dal ministero, che inizialmente doveva partecipare al bando per il Psn in cordata con Fastweb. Nell’esposto Raduzzi menziona anche uno scambio di messaggi telefonici tra un vertice della Zecca di Stato e un altro interlocutore in cui si dava “evidenza – è scritto nell’esposto – della telefonata ricevuta” dal “gabinetto del Mef, con chiara finalità di bloccare la partecipazione al bando della società pubblica”.

Ma procediamo con ordine. Nel Pnrr il governo ha stanziato circa 2 miliardi per creare un’infrastruttura cloud dove far migrare i dati più sensibili delle amministrazioni centrali, cioè ministeri e agenzie (entro il 2025), e poi quelli della P.A. locale. Il 7 settembre il ministro per la Transizione digitale, Vittorio Colao, ha annunciato la scelta di non fare una gara, ma di usare la procedura del Partenariato pubblico-privato per selezionare chi dovrà realizzarlo. Cosa vuol dire? Che i progetti devono prevedere una partnership con una società controllata al 100% dallo Stato per garantire la sicurezza sui dati. Il governo sceglierà il progetto migliore, che verrà messo a bando a inizio 2022. Così invece di scegliere il partner pubblico e mettere a gara la partecipazione dei privati, il governo ha scelto una procedura complessa in cui però rischia di essere arbitro e giocatore insieme. Alla procedura partecipa infatti anche la mega-cordata formata dalla pubblica Cassa Depositi e Prestiti insieme a Tim, Sogei (la società digitale del Tesoro) e Leonardo (l’ex Finmeccanica, sempre controllata dal Tesoro). Inizialmente aveva intenzione di partecipare anche il Poligrafico dello Stato insieme a Fastweb. Proprio alla Zecca però a inizio settembre sarebbe arrivata una chiamata dal gabinetto del ministero per spingerli al passo indietro.

Dopo l’articolo del 16 settembre, il Poligrafico aveva scritto al Fatto per spiegare come la scelta di ritirarsi dalla partecipazione con Fastweb sia stata autonoma: “A seguito degli approfondimenti svolti all’interno di un apposito gruppo di lavoro, il Poligrafico, nel quadro della sua autonomia gestionale, ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per sottoporre una proposta congiunta, essenzialmente sulla base della diversa visione circa le eventuali collaborazioni con partner internazionali”.

Al ministero di Colao sono quindi arrivate tre proposte: quella di Aruba-Almaviva; quella di Fastweb, che alla fine si è presentata con il gruppo Engineering e quella del consorzio targato Cdp-Tim.

Quest’ultimo prevede una società con il 45% del capitale in mano a Tim e il resto ai soci a controllo pubblico (20% Cdp, 10% Sogei, 25% Leonardo) e una concessione in esclusiva di 13 anni. Già in un’interrogazione parlamentare del 22 settembre Raduzzi aveva chiesto chiarimenti al Tesoro sulle presunte manovre. Gli ha risposto il sottosegretario Federico Freni, che ha ribadito la versione già fornita dal Poligrafico sulla decisione presa in autonomia di ritirarsi e ha aggiunto che “tutte le strutture del ministero sono rimaste sempre totalmente estranee rispetto alle scelte assunte dal Poligrafico”. Nel frattempo il governo, nel decreto Recovery di fine ottobre, ha scelto di affidare la gestione del bando a Difesa Servizi Spa, controllata dal ministero della Difesa e non a Consip, per evitare conflitti d’interessi visto che è controllata dal Tesoro.

La risposta del ministero, in ogni modo, non ha convinto Raduzzi, che ha presentato l’esposto in Procura. Qui il deputato spiega anche che dopo la presentazione dell’interpellanza, “venivo in possesso di documentazione, recapitatami da soggetti informati sui fatti, che confermava, a una prima lettura, le preoccupazioni che mi avevano determinato a richiedere l’interpellanza, ovvero il fatto che il ministero si fosse attivato direttamente per favorire la presentazione di una candidatura gradita piuttosto che consentire un libero accesso alla gara alle aziende partecipate dallo Stato, bloccando la partecipazione di altre società pubbliche”. Il deputato allega anche gli screenshot di una conversazione telefonica “verosimilmente” tra un vertice dell’Istituto poligrafico “e un altro interlocutore, e in cui si dava piena evidenza della telefonata ricevuta” dal Gabinetto del Mef “con chiara finalità di bloccare la partecipazione al bando alla società pubblica”.

L’esposto è al vaglio dei pm che ora dovranno capire (il fascicolo per ora è senza reati nè indagati) se intorno al cloud di Stato ci siano state pressioni.

Il governo in Ue dice sì al nucleare (poi tocca al gas)

La transizione ecologica, che poi è nei fatti una mera transizione energetica, è un grande campo di battaglia. Dando per scontato che gli ambientalisti, anche quelli famosi, non contano granché nel processo decisionale, è interessante vedere come si muove chi qualche potere lo detiene. Il governo italiano ad esempio, per bocca del ministro Roberto Cingolani, ieri ha dato il suo parere favorevole all’inserimento del nucleare nella cosiddetta “tassonomia europea” delle tecnologie adatte a garantire la neutralità climatica facendo, peraltro, felice anche l’ormai super-alleata Francia. Non è ancora chiaro invece quale posizione l’Italia vorrà prendere sul gas (anch’esso citato come fonte “verde” ieri da Macron): di fatto, come dicono da Fridays for Future, Roma sarà l’ago della bilancia, ma vista la passionaccia del ministro per gasdotti e affini e le mosse del governo nella guerra fredda tra Eni ed Enel la strada pare tracciata.

Tornando al nucleare, “la tassonomia, che sarà aggiornata ogni anno, deve veramente guardare avanti – ha detto il titolare della Transizione ecologica –. Io non sono d’accordo quando sento dire che si debbano escludere il nuovo nucleare o altre forme di tecnologia. Gli small modular reactors e soprattutto la fusione non possono essere fuori da un piano di visione”. Al di là del merito, che pure è zoppicante, in quale sede questo sia stato discusso e quale il mandato affidato a Cingolani e da chi è oscuro. Europa Verde chiede le dimissioni di “un ministro che, in modo autoritario e senza confronto democratico, ha deciso che il nucleare debba essere inserito come energia verde finanziabile dalla Ue” (entusiasti invece renziani e leghisti, silenti i grillini, nonostante il ministro sia stato nominato proprio in quota 5 Stelle).

Il nucleare, però, è solo un pezzo della partita che si sta giocando. Ieri, in un’intervista sul CorSera, l’ad di Enel Francesco Starace – che aveva già bocciato il ritorno all’atomo qualche settimana fa – s’è candidato a eroe dell’anno degli ambientalisti: basta idrocarburi, le rinnovabili bastano e avanzano a coprire di qui al 2050 il fabbisogno energetico mantenendo gli impegni sulla neutralità climatica. È una tecnologia che esiste, spiega Starace, facilmente migliorabile nei suoi punti deboli (le batterie) e i soldi dovrebbero andare lì, senza rincorrere la “neutralità tecnologica” (all’ingrosso: basta che faccia quel che deve, cioè ridurre le emissioni, e una tecnologia vale l’altra). Quella di Starace è di fatto la posizione degli ambientalisti e, soprattutto, dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), ma di certo non quella di altre grandi partecipate statali, a partire dall’Eni, che ieri ha ribadito la sua per bocca dell’ad Claudio Descalzi: biocarburanti, idrogeno anche non verde, chimica, cattura della CO2 (il cosiddetto Ccs, che per Starace “non funziona”). Il problema è che Eni pare avere l’appoggio dell’Esecutivo: lo stesso Draghi, secondo cui “le rinnovabili hanno dei limiti”, ha lodato la tecnologia Ccs e stanziato fondi in manovra; l’ossessione di Cingolani per il gas è talmente nota da aver stupito negativamente persino John Kerry, inviato Usa per il clima; tutto il Pnrr è innervato da piani per l’idrogeno (che va prodotto anche da fonti fossili, come ha spiegato martedì un manager Eni incontrando il plauso del ministro). Se dovesse servire a farsi un’idea, ieri accanto a Descalzi c’era pure Luigi Di Maio.

Cingolani piazza al comando del Pnrr un tecnico McKinsey

Il Piano di ripresa e resilienza, si sa, è una brutta bestia con tutti quei target e milestone da raggiungere per avere i soldi dalla Commissione Ue. Per questo, giustamente, il ministro Roberto Cingolani – che ha la responsabilità diretta di oltre il 31% dei fondi totali (70 miliardi) e indiretta di molte altre linee d’intervento – ha fatto inserire in un decreto di giugno la creazione di una considerevole “struttura di coordinamento”: un dipartimento ad hoc per il Pnrr con due direzioni generali e “un massimo di sei uffici di livello dirigenziale non generale” che esisterà fino al 31 dicembre 2026 e dovrà interfacciarsi con la “testa” del Piano a Palazzo Chigi, gli altri enti coinvolti e le stazioni appaltanti del ministero (Enea, Sipra, Gse, eccetera).

A distanza di quasi sei mesi, va detto, dell’urgente struttura di coordinamento non c’è ancora traccia nel palazzone dell’Eur, ma almeno è stato scelto il capo dipartimento che il ministro sottoporrà al Consiglio dei ministri per la nomina: si tratta di Paolo D’Aprile, partner italiano di McKinsey che si è spesso occupato di decarbonizzazione e che Cingolani conosce bene per la buona ragione che è stato D’Aprile a scrivere col ministro il suo pezzo del Pnrr e pure il decreto che ha riorganizzato il neonato ministero della Transizione ecologica (Mite), sorto dalle ceneri di quello dell’Ambiente.

Questa poltrona ha peraltro l’indubbio vantaggio di non necessitare di un bando pubblico: quell’incarico è fiduciario e, nell’attesa del passaggio formale in Cdm e l’ancor più formale Dpr di nomina, D’Aprile in questi giorni è già tornato a frequentare il ministero per capire dove lavorerà e con chi, atteso che invece il Piano lo conosce già nei dettagli essendone l’autore.

Come si ricorderà, il colosso della consulenza strategica McKinsey – attivo in Italia dal 1969 e che ha avuto tra le sue file anche il ministro Vittorio Colao – all’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi era stato contrattualizzato dal ministero dell’Economia, insieme ad altri big del settore, col compito di “fornire un supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano” al costo di 25mila euro, cifra per cui in genere quelli di McKinsey non rispondono neanche al telefono e invece hanno curato, di fatto, la finalizzazione del Piano di ripresa targato Draghi.

Ovviamente né il premier, che fu il primo a portare i consulenti privati al Tesoro negli anni Novanta, né Cingolani vedono il problema, che però esiste: “Bisogna essere consapevoli – disse al Fatto a marzo l’economista Luigi Zingales, professore a Chicago – che tutte le società di consulenza hanno potenziali conflitti d’interessi. Se lavorano sostanzialmente gratis (come è il caso di McKinsey che ha chiesto solo 25mila euro), c’è il rischio che vogliano approfittare di questi conflitti”. I big della consulenza, ovviamente, lavorano per gli Stati, ma anche e soprattutto per grandi aziende private: anche al netto di eventuali conflitti di interessi, il loro sguardo sul mondo è disegnato da questo fatto ineliminabile e dal relativo quadro di relazioni.

La parte di Pnrr appannaggio del ministero della Transizione ecologica ne è la più netta conferma: alcuni dei progetti a cui è stata concessa la fast track (autorizzazione veloce) in quanto strategici per gli obiettivi climatici e altri che saranno destinatari di fondi pubblici sono in sostanza “brandizzati” Eni, Enel, eccetera, tutti peraltro in guerra tra loro per una parte più grossa della torta (al momento, come potete leggere qui accanto, l’Esecutivo pare essersi schierato col Cane a sei zampe).

D’altra parte che la stella polare di Cingolani sia una sorta di “ecologia a misura d’impresa” è un fatto noto ed esibito dal nostro: se qualche tempo fa ha avuto parole assai dure contro gli ambientalisti, dannosi almeno quanto il cambiamento climatico, un paio di giorni fa s’è invece entusiasmato per il documento sulla “transizione sostenibile” di Confindustria Energia , le cui proposte lo hanno “confortato” e “fatto sentire meno solo”, tanto da volerle sottoporre ieri ai suoi omologhi a Bruxelles. Ora nel difficile compito di oliare con soldi pubblici una ristrutturazione dei processi industriali tentando di vendere il tutto come una politica ambientale avrà il supporto di un consulente esperto: il capo dipartimento D’Aprile, già McKinsey.

“Buono psicologo”: proposta alle Camere

La salute mentale è sotto pressione per la pandemia soprattutto tra i giovani, ma il 27,5% degli italiani non ha soldi per potersi curare. Ecco perché ieri i parlamentari Elisa Pirro (M5S), Paola Boldrini (Pd), Maria Teresa Bellucci (FdI), Ammamaria Parente (Iv) e Loredana De Petris (Leu) hanno presentato un emendamento alla manovra che chiede di finanziare con 50 milioni un fondo per pagare i servizi psicologici. Il “buono-psicologo” dovrebbe essere suddiviso tra un contributo di 150 euro per tutti i maggiorenni, cui non è stato diagnosticato un disturbo e che non hanno avuto altre agevolazioni, e una erogazione per la psicoterapia da 1.600 euro a 400 euro annui calanti al crescere dell’Isee da 15 a 90mila euro.

I primi decreti “ad personam”: Craxi&Amato salvano le tv di B.

1984. Il 16 ottobre i pretori di Torino, di Pescara e di Roma sequestrano gli impianti che consentono alle tre reti Fininvest le trasmissioni illegali in “interconnessione” e dispongono che rientrino nella legalità, irradiando programmi in orari sfasati anche di pochi minuti da una regione all’altra. Berlusconi “auto-oscura” le sue tre reti, fingendo che i giudici gliele abbiano “spente” per impedirgli di trasmettere e aizzando il popolo dei Puffi, di Dallas e di Uccelli di rovo contro la magistratura. La campagna “Vietato vietare” è orchestrata da Maurizio Costanzo, anche lui iscritto alla P2 con il grado di “maestro”. Il 20 ottobre il premier Craxi interrompe una visita di Stato a Londra, presso Margaret Thatcher, per rientrare precipitosamente in Italia, anticipare di tre giorni la convocazione del Consiglio dei ministri (che si riunisce di sabato) in seduta straordinaria e varare un decreto urgente ad personam (il primo “decreto Berlusconi”) che legalizza ex post l’illegalità dell’amico Silvio e neutralizza le ordinanze dei pretori. Mai vista tanta urgenza, nemmeno per l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore della prima legge vergogna pro Berlusconi è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato. Il provvedimento – assicura Palazzo Chigi – è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica disciplina del Far West televisivo. Balle. Persino la Dc e con lei la maggioranza del Parlamento si ribellano allo sconcio, votando per l’incostituzionalità del decreto. Che decade. Così i pretori tornano a imporre la legge e il Cavaliere a “oscurare” i suoi network, con annessa campagna vittimistica di spot e programmi-piagnisteo. Ma il 6 dicembre Craxi vara il secondo “decreto Berlusconi”, minacciando i partiti alleati con la crisi di governo e le elezioni anticipate in caso di nuova bocciatura.

1985. L’anno si apre senza che il decreto salva-B. sia stato ancora approvato. Il tempo stringe e la sinistra annuncia l’ostruzionismo parlamentare. Ma il duo Craxi&Amato strappa al presidente del Senato Francesco Cossiga il contingentamento dei tempi per i singoli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli emendamenti, il governo pone la questione di fiducia. Così il 4 febbraio il decreto diventa legge dello Stato e consacra il monopolio berlusconiano sull’emittenza privata. La versione ufficiale di Palazzo Chigi è che gli effetti del decreto scadono il 6 maggio: da allora in poi Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust: “Sino all’approvazione della legge generale sul sistema radiotelevisivo – si legge nel decreto – e comunque non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, è consentita la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti televisive private…”. Ma poi la nuova legge non arriva e l’ultimatum di sei mesi è pura finzione: i soliti Craxi e Amato concedono al Biscione un’altra proroga fino al 31 dicembre. Data peraltro fittizia pure quella: il governo stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, bensì “transitorio”. In pratica, eterno. Il 3 gennaio 1986, scaduta la proroga, basterà una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la normativa non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo. Nel 2009 Report intervisterà Amato sul trucchetto del decreto “transitorio” divenuto perpetuo. E Amato, anziché arrossire e nascondersi sotto il tavolo, s’illuminerà d’immenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista… Quando discuto attorno a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Infatti Amato diventerà giudice della Corte costituzionale e nel 2015 sarà il candidato di Berlusconi alla presidenza della Repubblica.

In primavera Silvio si sdebita con Bettino organizzando, su sua richiesta, una finta cordata per bloccare la privatizzazione della Sme, l’indebitatissima finanziaria alimentare dell’Iri che il presidente Romano Prodi sta per cedere per 500 miliardi di lire all’unico offerente: la Buitoni di Carlo De Benedetti, odiato da Craxi perché vicino alla sinistra. Berlusconi presenta un’offerta anonima lievemente più alta (550 miliardi), nascosto dietro un prestanome amico di Previti, l’avvocato Italo Scalera; poi convince Barilla e Ferrero a offrire insieme a lui 600 miliardi in “chiaro”. La privatizzazione va in fumo. De Benedetti chiede al Tribunale di Roma di rendere esecutivo l’accordo già stipulato con l’Iri. Ma nel 1986 sempre il Tribunale di Roma, presidente Filippo Verde, risponde picche. Verde verrà processato per corruzione insieme a Berlusconi e Previti ma sarà assolto. Sarà invece provato che un altro giudice, il solito Squillante, fu pagato nel 1988 da Barilla e poi da Previti, dopo la conclusione della causa Sme in Cassazione.

Il 30 luglio Veronica Lario partorisce in una clinica svizzera, nel segreto più assoluto, la piccola Barbara, prima figlia di secondo letto di Silvio. Lui la riconosce (il padrino di battesimo è Bettino Craxi) e divorzia da Carla, liquidata e spedita a Londra con un pacco di miliardi e una catena di negozi. Viene ufficializzato il legame con la nuova compagna Veronica, che gli darà altri due figli: Eleonora (1986) e Luigi (1988). La Lario e i suoi tre figli si trasferiscono nella settecentesca villa dei Visconti a Macherio, acquistata nell’estate del 1989 con il solito strascico di fondi neri. Nella villa di Arcore, invece, rimangono i due figli nati dal primo matrimonio: Marina e Pier Silvio.

1986. Berlusconi acquista il Milan da Giuseppe Farina (nel 1988 vincerà il suo primo scudetto con Arrigo Sacchi). Ed espande i suoi investimenti televisivi in Europa. In Francia crea La Cinq, grazie all’appoggio dei socialisti di François Mitterrand. Ma finirà in un mare di debiti per la gioia dei gollisti di Jacques Chirac (che annuncerà la ritirata di “Monsieur Berlusconì” dalla campagna di Francia chiamandolo, pubblicamente “vendeur de soupes”, venditore di minestre). E chiuderà definitivamente i battenti nel 1990. In Germania diventa socio del magnate Leo Kirch, ma senza grandi successi. Miglior fortuna avrà l’operazione Telecinco in Spagna, a parte un processo (poi archiviato) per violazione della legge antitrust: la Spagna infatti ne ha una.

(3-Continua)

Paita fa “Jump” tra Renzi, suo marito e Msc Crociere

Nell’intreccio soldi, politica, affari che ha caratterizzato il mondo renziano, ci sono i rapporti con il mondo dei porti. Tra i contributi (leciti) ricevuti dalla Fondazione Eyu nel 2017 ce n’è uno da 100mila euro pagato dalla società svizzera Msc Cruises. È la compagnia di crociere dell’omonimo gruppo armatoriale guidato da Gianluigi Aponte, uno dei maggiori al mondo, primario attore nei porti e nella logistica italiani. Proprio all’inizio del 2017 Msc Cruises ingaggiò come direttore delle relazioni esterne Luigi Merlo, fino a un anno prima presidente del porto di Genova e poi consigliere del ministro dei Trasporti Graziano Delrio. Un bagaglio di relazioni e competenze interessante per Msc, cui aggiungere il matrimonio con Raffaella Paita. Dal 2010 consigliere regionale Pd della Liguria, Paita fu candidata nel 2015 alla presidenza della Regione dalla corrente renziana dell’allora presidente Claudio Burlando (di cui Merlo fu assessore) e, sconfitta da Giovanni Toti, nel 2018 ottenne da Matteo Renzi la candidatura alla Camera. Nel settembre 2019, quindi, il passaggio a Italia Viva e, nel luglio 2020, la presidenza della Commissione Trasporti, dove si occupa anche di portualità. Da ultimo con un emendamento al Dl Infrastrutture che velocizza la valutazione d’impatto ambientale della nuova diga foranea di Genova, opera monstre (1 miliardo di euro di fondi pubblici) destinata a valorizzare soprattutto un terminal portuale genovese (Bettolo) dal 2018 in concessione per 33 anni a Msc. La Paita nell’ultimo periodo è stata vista spesso in tv. In “amicizia”, c’è la mano di Marco Agnoletti, storico portavoce di Renzi, oggi anche direttore della società di comunicazione Jump, da lui fondata. Tra i clienti da settembre c’è la Msc Crociere. A proposito di intrecci.