“Vergogna l’ipotesi di Silvio”. “Spero non si compri tutti”

A due giorni dal lancio su change.org, la petizione del Fatto Quotidiano contro Berlusconi al Quirinale ha già raccolto più di 85mila firme. L’iniziativa firmata da Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, si rivolge ai parlamentari che dovranno votare il prossimo presidente della Repubblica: una figura che dev’essere garante di quella Costituzione che però B. ha violato, prima e dopo il suo ingresso in politica. Quelli che seguono sono alcuni dei commenti giunti in redazione riguardo la nostra petizione.
Finalmenteè arrivato il momento di dire NO a B. al Quirinale, spiegandone e raccontandone le gravi ragioni. Avevamo chiesto in molti questa possibilità ed è arrivata, grazie.
Anna Natalia

Non credete che la prima pagina del Fatto sul “NO al garante della prostituzione” dovrebbe essere la prima pagina di tutti i giornali? Ma in particolare, non dovrebbe essere la prima pagina di Repubblica vista la sua storia?
Michele Lenti

Mi sono appassionata di politica da pochi anni, qualche fatto lo conoscevo già, ma voi state riepilogando tutto quello che NON possiamo dimenticare. Naturalmente firmerò la petizione, perché l’altra opzione sarebbe quella di rinunciare alla cittadinanza, in caso di sue nefaste elezioni. Che dio ce ne scampi e liberi!
Donatella Rossetto

in una conversazione telefonica, intercettata il 13 luglio 2011, Berlusconi, da premier in carica, parlando dell’Italia disse a Valter Lavitola: “Vado via da questo Paese di merda di cui sono nauseato”. Mica male come frase per chi aspira alla massima carica in Italia. Orbene, da un personaggetto del calibro di B. ci si può aspettare di tutto: fece votare da 314 deputati che Ruby fosse davvero la nipote di Mubarak, ma l’idea che riesca a convincere, in questa votazione, la maggioranza assoluta delle Camere in seduta comune e sceglierlo come presidente della Repubblica, è un’evenienza che fin da ora pregiudica il mio sonno.
Dino Bombana

Mi complimento per il vostro costante impegno civile contro le ingiustizie, le ruberie e l’indecenza dei comportamenti di molti parlamentari e gruppi politici. Ho quasi 80 anni e mai avrei pensato di assistere, ancora oggi, a tanti comportamenti immorali da parte di molti parlamentari, specie in questo contesto di sofferenza.
Maurizio Perata

Mi è venuta in mente la canzone di Toto Cutugno L’italiano, dove per descrivere l’essenza dell’italianità il cantante diceva: “Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente e un partigiano presidente”. Vista la situazione odierna, ho il timore che presto potremo cantare “un puttaniere come presidente”. La rima non cambia, ma riassume bene la deriva in cui stiamo scivolando. Corro a firmare la vostra petizione, e vi ringrazio per il vostro lavoro.
Silvia Fissore

Leggo con attenzione le pagine dedicate alle malefatte di B., ne sottolineo le parti più orribili. Ho il timore che possa farcela, può comprare tutti e mi sembra che soprattutto in Parlamento si tratta di una questione di prezzo. Non emigrerò come dicono in molti perché non posso permettermelo per tanti motivi, ma sicuramente vivrei con grande dolore una cosa del genere.
Anna Beltrame

un no grande come una casa. Già doverci difendere da questa vergogna nazionale, da questa ipotesi da incubo, ha dell’incredibile. Il Fatto si prende anche questo merito. Vorrei aggiungere una proposta: un giorno prima dell’elezione del presidente della repubblica si potrebbe organizzare una manifestazione di popolo, pacifica e silenziosa, con tante persone davanti al parlamento con in braccio i cartelli, a caratteri cubitali: NO condannati! NO prescritti! NO imputati! NO indagati! NO corruttori! NO bunga-bunga! NO Ruby nipote di Mubarak! NO cene eleganti! NO Merkel inchiavabile! Al termine ci potrebbe essere una delegazione di alcuni manifestanti che, silenziosamente davanti al portone di ingresso dei parlamentari, lanciano le monetine di craxiana memoria. Anche se c’è il rischio di una rissa tra qualche deputato e senatore, che si accapiglieranno per raccoglierle.
Giancarlo Faraglia

La destra ha fifa della petizione: i camerieri di B. contro il “Fatto”

A spingere la corsa di Silvio Berlusconi al Quirinale ci pensano anche i giornali di casa sua. Libero e Il Giornale non hanno preso per niente bene la campagna lanciata dal Fatto Quotidiano per chiedere ai parlamentari di non eleggerlo al Colle che sta già raccogliendo migliaia di adesioni (siamo a 85 mila firme): “Berlusconi al Quirinale? No, grazie”, la petizione a cui si può aderire su change.org. Libero ha subito risposto con una contro-petizione. “Diciamo No a chi vuole rubarci il Quirinale”, titolava ieri il quotidiano di Alessandro Sallusti, con tanto di editoriale del direttore a spiegare la faccenda. “La sola idea che Berlusconi, sostenuto da tutto il centrodestra e non solo, possa giocarsi seriamente la partita del Colle deve davvero far paura…”, inizia Sallusti. Che sulla petizione del Fatto, scrive: “La cosa è legittima, ma dà l’idea che il centrodestra non sia libero di proporre un suo candidato se non gradito alla banda di Travaglio, Conte, Davigo e compagnia cantante: il Quirinale è roba loro…”.

Insomma, il ragionamento di Libero è che nessuno può mettere veti su alcun nome, tanto più su Berlusconi. Per questo motivo, sottolinea Sallusti, “se in queste settimane per difendere un diritto e combattere editti presuntuosi ci sarà da menare le mani – dialetticamente e giornalisticamente – certo non ci tireremo indietro”. Le firme, però, finora sono pochine: poco più di 2.500. Inoltre ieri l’ex direttore ed editorialista di Libero Vittorio Feltri non sembrava molto d’accordo con il suo successore: “Sarei contento per Berlusconi ma ha 85 anni e non è un’età adatta per iniziare un settennato intenso e impegnativo”.

Augusto Minzolini, invece, non chiama i lettori alla pugna, ma in un passaggio del suo editoriale, scrive: “Non è che Berlusconi sia presentabile per il governo Draghi e impresentabile per il Quirinale. A meno che non si voglia strizzare l’occhio a quel giornale, Il Fiele Quotidiano, che ha aperto una campagna contro la candidatura del Cav”. Oltre l’attacco, il ragionamento che l’ex direttore del Tg1 porta avanti già da alcuni giorni è prosaicamente politico: “chi l’ha detto che un presidente non si possa eleggere a maggioranza? Ciampi permettendo, è andata sempre così”. Un modo per togliere argomenti a chi, in maniera un po’ pilatesca, dice di non poter votare Berlusconi perché “sarebbe un candidato di bandiera imposto da una parte e senza un presidente a larga maggioranza cade il governo”, come ha sottolineato Enrico Letta (e per questo il leader dem si prende gli schiaffi pure da Minzo). A centro pagina, poi, intervista al dem Luciano Violante secondo cui le parole di Travaglio “sono inutilmente aggressive, offensive e volgari”. Lo stesso Violante che fu parte di quella sinistra che garantì a B. il suo conflitto d’interessi: ad ammetterlo fu proprio Violante in aula alla Camera nel 2002. Dalla Verità, invece, con Maurizio Belpietro impegnato nella guerra santa contro il Green pass, per ora tutto tace. Ma può darsi che qualcosa arriverà anche da lì.

Nel frattempo la battaglia è cominciata. E tra blandizie a deputati e senatori, militarizzazione di Mediaset (dove sono state concesse lunghe vacanze natalizie ai disturbatori Giordano e Del Debbio, ieri però accorciate) e possibili videomessaggi, sembra di essere tornati indietro di dieci o vent’anni. “Lui ci crede, è convinto che gli manchino meno di 50 voti e ha chiamato tutti alle armi pancia a terra, tv e giornali. L’idea è quella di una campagna in grande stile, tipo 1994, per arrivare al Colle quasi a furor di popolo”, racconta una fonte forzista. Oggi intanto l’ex premier si farà sentire con una telefonata a un’iniziativa dell’Udc di Lorenzo Cesa e Antonio De Poli. Si combatte voto per voto e pure quelli degli ex Dc potrebbero risultare decisivi.

 

I Pareri

Incivile Il tessuto morale distrutto di un paese che non prova più sdegno
L’iniziativa presa dal Fatto è terribile. Sacrosanta e improcrastinabile ma terribile. In qualsiasi Paese mediamente civile e democraticamente decente, la candidatura di un pregiudicato alla presidenza della Repubblica (condanna definitiva a 4 anni, nell’agosto 2013, per frode fiscale, uno dei delitti più infamanti per un politico) non sarebbe neppure pensabile. Se ventilata, sarebbe stata sepolta da sdegno unanime e unanime obbrobrio. E il capo dello Stato, custode della Costituzione, avrebbe trovato il cenno per seppellire tanta oscenità tra le ipotesi del terzo tipo. E invece, della nauseabonda sconcezza si discute come di un non olet. Trent’anni di regime prima e di tradimento delle promesse elettorali da parte del M5S poi hanno distrutto il tessuto morale e civile del Paese. Se poi ci fosse il bis di Mattarella, con dimissioni due anni dopo, Berlusconi sarebbe eletto davvero, dal Parlamento a egemonia Salvini-Meloni che ci aspetta tra un anno e mezzo.

Paolo Flores d’Arcais

 

Scandaloso Impossibile dimenticare il passato. E dal Pd mi aspetto di più
Dire di no all’incredibile autocandidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale è più che necessario: è un dovere. Per i motivi che sono noti a tutti, ma che molti hanno dimenticato. Silvio Berlusconi è semplicemente improponibile. Mi irrita la mancanza di risolutezza del Partito democratico su questo tema. È vero, il segretario del Pd ha fatto capire che il governo cadrebbe se fosse eletto l’ex Cavaliere. Ma bisogna usare le parole giuste: Berlusconi non è un candidato “divisivo”, come dice Enrico Letta, è un candidato scandaloso. Il Pd è stato il mio partito, ma contro questa ipotesi assurda mi aspettavo più chiarezza. C’è un’altra domanda che mi faccio e mi rattrista molto: come è possibile che tante persone della mia generazione non si ricordino di cosa abbiano significato vent’anni di berlusconismo? Abbiamo fatto tante battaglie, sono tutte dimenticate? A costo di ripetermi, c’è una sola parola per Berlusconi al Quirinale: scandaloso.

Ottavia Piccolo

 

Ridicolo È Surreale pensare a lui come garante della costituzione
La candidatura di Berlusconi rappresenta uno scenario surreale, l’idea che anche solo qualcuno possa considerarla seriamente ci dice che questo è un Paese finito, è la misura del vuoto della politica italiana e della totale mancanza di un senso del pudore. Parliamo di un personaggio condannato per reati che per un amministratore pubblico sono doppiamente infamanti, per non dire di tutti i guai a cui è scampato grazie alle numerose prescrizioni. Il capo dello Stato è il custode dell’ordine costituzionale e dell’immagine del Paese, cosa che evidentemente Berlusconi non può fare. Ritengo impossibile che alla fine Berlusconi venga davvero eletto, ma questo non cambia nulla. Chiunque in un contesto civile, di fronte a un’ipotesi del genere, si sarebbe dovuto semplicemente limitare a una risata.

Marco Revelli

Destra tentata da lady Moratti: piace a liberal FI, Salvini e Meloni

Il suo nome era stato lanciato sul Tempo a inizio ottobre da Luigi Bisignani, faccendiere ben informato su quello che succede nei Palazzi romani. Ma adesso quella di Letizia Moratti, vicepresidente della Regione Lombardia e assessore alla Sanità, è una delle carte principali del centrodestra per il Quirinale. Anche se Silvio Berlusconi continua a sperarci, il nome dell’ex sindaco di Milano piace molto a Matteo Salvini e sarebbe sostenuto anche da Giorgia Meloni, che potrebbero provare a lanciarla nel caso in cui non ci fossero le condizioni (e i voti) per il leader di Forza Italia al Colle. Moratti raccoglie consensi nella coalizione di centrodestra per tre motivi: potrebbe essere la prima donna presidente della Repubblica e alla quarta votazione potrebbe piacere anche a Matteo Renzi che da premier la ringraziò pubblicamente per l’organizzazione dell’Expo 2015 (“Mi sono commossa” fu la sua reazione). Voti, i 43 tra deputati e senatori di Italia Viva, che fanno molto gola al centrodestra che può contare già su 450 grandi elettori. Il quorum al quarto scrutinio è di 505 preferenze. Inoltre Moratti viene vista come un’ottima candidata nel centrodestra anche perché si ritiene che sia stata lei l’artefice della ripartenza della Lombardia nella campagna vaccinale e nella gestione della pandemia dopo i disastri del governatore leghista Attilio Fontana.

Il nome di Moratti viene fatto anche nell’ala liberal di Forza Italia –­gli esponenti più lontani dal cerchio magico di Berlusconi ­– e, se la sua corsa si facesse concreta, nemmeno Berlusconi potrebbe dire di “no” alla sua creatura. Quella di Moratti è una candidatura che piacerebbe anche a Salvini perché in questo modo potrebbe fare il kingmaker del Colle e allo stesso tempo liberare un posto in Regione Lombardia per candidare il suo nemico interno, Giancarlo Giorgetti. Lei ieri a L’Aria che Tira su La7 si è schermita: “No, no, il nome di Forza Italia è Berlusconi – ha sorriso Moratti – io sono impegnata sulla sanità lombarda”. Ma nelle ultime ore, nel centrodestra, sta girando un sondaggio di Swg per La7 di metà settembre in cui la vicepresidente della Lombardia era data all’11%.

Draghi ci crede e fa sondare i “suoi” ministri

Non l’ha mai smentita in pubblico, non l’ha mai davvero direttamente avanzata in privato la sua candidatura al Quirinale Mario Draghi. Troppo accorto, troppo abituato a farsi scegliere piuttosto che a imporsi, come ha raccontato ai ragazzi di Torre Maura a Roma, la settimana scorsa. Ma che questa sia la sua volontà non è più un segreto per nessuno. L’incognita sono quanti voti rischia di non avere nel segreto dell’urna. Anche perché chi gli è vicino ricorda l’unico precedente a cui potrebbe far riferimento un’operazione del genere: l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi, ex premier, che diventò presidente alla prima votazione con 707 voti, 33 in più rispetto ai 674 del quorum, circa 180 in meno rispetto a quelli che, sulla carta, sarebbero dovuti arrivare dalla maggioranza e dal Polo. Draghi, che assistette allo spoglio con Ciampi (era allora direttore generale del ministero del Tesoro), dovrebbe essere eletto nello stesso modo: ne va della credibilità dell’Italia. Ma soprattutto, quell’esempio dimostra come il rischio di franchi tiratori è altissimo anche in un Parlamento più controllabile di questo.

Non a caso, allora, consiglieri del premier a vario titolo hanno in queste settimane avviato dei contatti il più informali possibili per sondare le effettive possibilità del premier. Sono stati avvicinati i ministri di Forza Italia, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini. E anche il Pd di governo sarebbe stato coinvolto. Mentre l’unico al quale Draghi avrebbe telefonato di persona è Giancarlo Giorgetti, amico di vecchia data, nonché il primo ad averlo lanciato ufficialmente. Tant’è che il vicesegretario della Lega continua a ripetere in pubblico e in privato che “l’unico modo per risolvere la situazione” è mandare Draghi al Quirinale con un accordo tra i leader di partito e far “guidare il timone da lì”.

La reazione di Matteo Salvini alla notizia della conversazione tra Draghi e Giorgetti la dice lunga sullo stato dei partiti e sul clima nel quale ci si avvia alla partita del Quirinale: si è arrabbiato e irritato anche per non essere stato coinvolto nella legge di Bilancio. E per la prima volta ha detto che il premier deve restare al suo posto. Un ritornello che si è sentito da parte di tutti i leader negli scorsi giorni, esclusa Giorgia Meloni che ieri ha spiegato che serve un presidente “che rispetti il voto degli italiani”. Non c’è da stupirsi, dunque, che a Palazzo Chigi sondino il terreno. Anche se l’impressione vista da lì è che si torni sempre alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca. Nel senso che non si trova una quadra finale. Anche per questo il Pd in blocco veicola un altro scenario: il Mattarella bis. Che poi non è una novità: i dem sono per questa opzione dall’inizio. Ma a cambiare è la cornice che si dà all’operazione: se i contagi aumentano, se l’emergenza resta alta, il presidente dovrebbe rimanere dov’è. Esattamente come Draghi, per gli stessi motivi. Mattarella fin qui ha ribadito più volte la sua indisponibilità. Ma i sostenitori del bis sono pronti a fare appello al suo senso del dovere costituzionale.

I dem Luigi Zanda e Dario Parrini hanno fatto un passo avanti, depositando un disegno di legge costituzionale che modifica gli articoli 85 e 88 della Costituzione e vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. Nell’articolo 1 del ddl si chiede di aggiungere al primo comma dell’articolo 85 della Costituzione che il presidente della Repubblica “non è rieleggibile”. L’articolo 2 del ddl chiede di abrogare il secondo comma dell’articolo 88, ovvero il semestre bianco quando il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere o una di esse negli ultimi sei mesi del suo mandato. Due modifiche entrambe per spingere il bis: la prima perché impedirebbe una prassi, la seconda perché consentirebbe lo scioglimento. E se al Nazareno precisano che si tratta di un’iniziativa personale dei senatori, è pronto a presentare lo stesso ddl alla Camera Stefano Ceccanti che, mentre dice che non c’entra con la rielezione, chiarisce che non vede alternative all’equilibrio attuale. La battuta che gira nei Palazzi non a caso è “eleggiamo Mattarella a sua insaputa”. Al netto di questo, se Mattarella proprio non cambia idea, la convinzione – soprattutto nel Pd – è che comunque tocchi a Draghi: tertium non datur. Se il gioco dell’oca va avanti, c’è da scommettere che i sondaggi e gli incontri diventeranno di più nelle prossime settimane.

Colle: una lotteria impazzita 10 volte su 12

Ci sono alcuni princìpi da conoscere, prima di addentrarsi nella lunga partita per la presidenza della Repubblica. E un po’ di numeri che aiutano a orientarsi e immaginare cosa potrà succedere (li ha raccolti Openpolis).

Le regole del gioco sono note, le ha fissate la Costituzione (articolo 83) e influenzano fortemente lo svolgimento del rituale: il Capo dello Stato si elegge con voto segreto, a maggioranza di due terzi delle Camere in seduta comune, più 3 delegati per ogni Regione italiana (tranne la Valle d’Aosta che ne ha solo uno). Dopo le prime tre votazioni, se nessun candidato raggiunge la maggioranza qualificata, diventa sufficiente quella assoluta (la metà più uno dei votanti).

Le elezioni lampo. Questa norma spacca in due la corsa al Quirinale. Ci sono alcuni Presidenti (pochissimi) che arrivano alla prima votazione con una candidatura già saldata da un patto forte, trasversale, tra i partiti in Parlamento. Dall’inizio della storia della Repubblica si sono avvicendati 12 uomini al Colle (compresi Enrico De Nicola, scelto in seno all’Assemblea costituente e Giorgio Napolitano, unico finora a ottenere il doppio mandato). Di questi 12, soltanto due sono stati eletti con maggioranza qualificata entro la terza chiama: sono Francesco Cossiga (1985) e Carlo Azeglio Ciampi (1999). Entrambi sono passati alla prima votazione, con un accordo che ha coinvolto quasi tutti i gruppi politici.

Erano, peraltro, Parlamenti più divisi di questo. Nel 1985 l’Italia era in una stagione di piena conflittualità tra pentapartito e comunisti, dopo il taglio della scala mobile deciso dal premier socialista Bettino Craxi. Invece il segretario democristiano Ciriaco De Mita trovò in Cossiga un nome accettabile – forse, ex post , improvvidamente – sia dall’omologo comunista Alessandro Natta che dai rivali craxiani (per convincere i liberali invece promise la nomina di un senatore a vita del Pli, Giovanni Malagodi: promessa non mantenuta). Nel 1999, invece, a Palazzo Chigi c’era il primo post comunista della storia: Massimo D’Alema. Il segretario dei Ds, Valter Veltroni, trovò forse l’unico nome che poteva mettere d’accordo tutti, prima Gianfranco Fini, poi anche Silvio Berlusconi (con l’intercessione di Gianni Letta): Ciampi, ex presidente della Banca centrale ed ex premier, l’uomo dell’ingresso nell’euro.

Per certi versi una figura simile a quella di Mario Draghi, che in effetti si candida a essere eletto con lo stesso metodo: primo scrutinio, accordo di ferro tra i gruppi parlamentari, un margine sufficiente per sentirsi al riparo da imboscate o franchi tiratori. L’attuale premier può arrivare al Quirinale solo così, con un chiaro mandato già prima dell’inizio del “conclave” e un’elezione rapida. Non è immaginabile che si avvicini o addirittura superi la boa della quarta votazione.

Le lotterie. La storia della Repubblica dice che se non si viene eletti al primo tentativo, può diventare decisivo il quarto: nessuno è mai stato eletto al secondo o al terzo. Un fatto abbastanza ovvio: se manca una maggioranza qualificata prima dell’inizio dei giochi, non si può fare altro che lavorare per costruirne una assoluta. In altre parole: se non può essere un presidente scelto da tutti, bisogna aspettare il quarto giro perché emerga la coalizione che si prende la golden share ed elegge un presidente “di parte”.

Nella storia italiana, la quarta votazione ha deciso la partita più spesso di tutte le altre. È successo un terzo delle volte, quattro presidenti su dodici: Luigi Einaudi nel 1948, Giovanni Gronchi nel 1955, Giorgio Napolitano (bis) nel 2013 e Sergio Mattarella nel 2015.

Dal quarto scrutinio in poi saltano le regole e può succedere di tutto: la corsa diventa una lotteria. E i “papi” immaginati all’inizio del conclave hanno enormi possibilità di tornare a casa da cardinali semplici.

L’esempio Mattarella. Lo mostra la più recente elezione di Mattarella: la carta dell’attuale presidente della Repubblica rimase ben nascosta nel mazzo dei candidati fino alla quarta chiama, quando il segretario del Pd Matteo Renzi la tirò fuori rompendo il patto con Berlusconi. Nelle prime tre votazioni Mattarella prese rispettivamente 5, 4 e ancora 4 voti (mentre si alternavano, con poche speranze, le candidature di Ferdinando Imposimato, Vittorio Feltri, Luciana Castellina ed Emma Bonino). Alla quarta Mattarella ne raccolse all’improvviso 655 e fu eletto subito.

Le maratone. Non sempre però l’abbassamento del quorum al 50%+1 dei votanti è sufficiente per rompere lo stallo. Come calcola Openpolis, nella storia della Repubblica sono serviti in media 9 scrutini per decidere il presidente. Un numero “falsato” al rialzo da alcune elezioni che si sono trasformate in vere e proprie maratone. Il record è di Giovanni Leone: nel 1971 il democristiano ha conquistato il Colle solo al 23esimo scrutinio e grazie anche ai voti dei post fascisti del Movimento Sociale Italiano. Leone è anche il presidente eletto con la percentuale più bassa della storia, solo il 52%: 518 voti contro i 408 del socialista Pietro Nenni. Un’altra maratona furono i 21 scrutini serviti per l’elezione del socialdemocratico Giuseppe Saragat nel 1964, quando raccolse l’eredità di Antonio Segni, primo e unico presidente a lasciare la carica per malattia – una trombosi cerebrale – a due anni e mezzo dall’inizio del mandato. Di lunghissima gestazione anche le elezioni di Oscar Luigi Scalfaro (1991) e di Sandro Pertini (1978): per entrambi sono serviti 16 tentativi.

Le maggioranze. Nei numeri delle votazioni per il Colle c’è un’apparente contraddizione: solo due volte, come abbiamo visto, i presidenti sono stati eletti prima della quarta chiama, quando c’era bisogno della maggioranza di due terzi. Allo stesso tempo, però, solo quattro volte il Capo dello Stato è stato eletto con una percentuale inferiore al 60% dei voti del Parlamento. Oltre a Leone (52%), è successo a Segni (52,6%), il primo Napolitano (54,3%) e Luigi Einaudi (59,4%).

Il presidente eletto con il consenso più ampio, nonostante ci siano volute 16 votazioni, è Pertini (83,6%, e finirà probabilmente per essere anche il più amato). Poi Giovanni Gronchi (79%), Francesco Cossiga (76,8%) e Giorgio Napolitano (II) (74%), Quest’ultimo (ri)eletto tra gli applausi scroscianti di un Parlamento per il quale lui stesso esprimeva sdegnato imbarazzo, dopo i famigerati “101” che affossarono Romano Prodi. I franchi tiratori, per quanto anonimi, più famosi della storia della Repubblica.

“Calunnia i carabinieri”. Arrestato ex militare

Ancora guai per Antonio Savino, l’ex carabiniere barese indagato per calunnia, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Il presidente dell’Unac, Unione nazionale Arma Carabinieri, “associazione autodefinitasi sindacato, ma non riconosciuta come tale”, sottolineano gli inquirenti, è stato raggiunto di una nuova ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. Savino è accusato di aver diffamato militari e magistrati, accusandoli di intascare tangenti, intervenendo a una manifestazione dell’Unac il 31 maggio scorso alla sede del Palazzo di Giustizia di Bari. Il 20 settembre, secondo le nuove accuse, avrebbe “con atteggiamento intimidatorio”, avrebbe intimato a un poliziotto che era lì di arrestare uno di loro.

Batosta Lotito: il Senato gli nega l’approdo a Palazzo Madama. Lui: “Non finisce qui”

Doccia fredda per Claudio Lotito. E questa volta il calcio non c’entra. Il presidente della Lazio era già pronto per essere nominato senatore, ma alla fine Palazzo Madama gli ha negato il laticlavio per cui dà battaglia da quasi quattro anni praticando una marcatura a uomo senza precedenti su chi può assicurargli un futuro da parlamentare. Nonostante il pressing, l’aula però l’ha lasciato a bocca asciutta. Sconfessando il lavoro fatto sin qui dalla Giunta per le elezioni dove la maggioranza ce l’ha il centrodestra che era riuscito a dare l’avviso di sfratto al senatore Vincenzo Carbone (ex azzurro oggi transitato tra i renziani), che dal 2018 si gode il seggio scattato nel collegio in Campania dove si era candidato anche il patron della Lazio. Mancava solo il voto finale sulla sua decadenza, ma ieri renziani, Pd, M5S e LeU sono riusciti a togliere una palla praticamente già in gol, rinviando la pratica in Giunta per una nuova istruttoria che non sarà rapida: quel che è certo è che il seggio, nel frattempo, resterà assegnato a Carbone.

“Non è stato votato il ‘no’ al mio ingresso in Senato. Non è finita”, ha commentato Lotito che voleva a tutti i costi chiudere la partita per cui si sono prodigati senza successo Forza Italia, Lega e meloniani e pure sette senatori del Pd (Zanda, Astorre, Boldrini, Laus, Margiotta, Rojc e Vattuone) finiti immediatamente sotto gli strali di Matteo Renzi. Ma anche nel centrodestra c’è chi ha votato in dissenso dal gruppo: una piccola pattuglia di forzisti hanno “tradito” la causa del presidente biancoceleste nella speranza (invana) che i renziani, nello scrutinio successivo, anch’esso segreto, avrebbero ricambiato il favore contribuendo a salvare il seggio di Carmela Minuto che invece non ce l’ha fatta: le subentra Michele Boccardi che ne aveva contestato l’elezione in Puglia dopo che l’aula ha votato la sua decadenza, tra pianti, accuse incrociate al vetriolo e pure un piccolo parapiglia: Minuto se l’è presa con il suo partito, Forza Italia, che non l’ha tutelata e con la senatrice Maria Rizzotti, incrociata in sala Garibaldi sono volate parole grosse e pure spintoni: le ha divise Matteo Salvini che dopo il voto per lei nefasto stava scortando la Minuto alla buvette. Rivelando un segreto di Pulcinella: la ormai ex senatrice è da tempo sospettata di esser passata con la Lega. “Vedrai. Da marzo, dopo il Quirinale, ci divertiremo”, l’ha consolata Salvini lasciandole intendere che si tornerà presto alle urne e che l’addio al Senato è solo temporaneo.

Mascherine, a Forlì. I pm indagano su Gianluca Pini

L’ex deputato della Lega, Gianluca Pini, è indagato dalla Procura di Forlì, in un fascicolo più ampio in cui si ipotizzano i reati di corruzione, frode, falso ideologico e turbativa d’asta. L’indagine, secondo quanto riporta il quotidiano Domani, riguarda la fornitura, a inizio 2020, di mascherine all’Ausl Romagna per 4 milioni di euro. Pini negli anni passati è stato socio e persona molto vicina all’attuale ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (totalmente estraneo all’inchiesta). Sotto la lente della procura e dell’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia ci sarebbe la società di Pini, la Codice srl, che l’ex parlamentare utilizza per gestire i locali e i bar aperti nell’ambito della sua professione principale di ristoratore. Secondo il Domani, la Procura forlivese avrebbe ascoltato anche alcuni ex dipendenti dell’Agenzia Dogane e Monopoli, per capire se Pini avesse fatto pesare i suoi trascorsi politici. “Sono tranquillo, ho svolto i miei affari rispettando tutte le leggi”, ha replicato l’ex deputato”.

Quella di Forlì è solo l’ennesima inchiesta sul commercio delle mascherine, business nel quale lo scorso anno si sono fiondati in tanti. Fra questi l’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, o l’ex giornalista Rai, Mario Benotti, che ha fatto da tramite per l’acquisto di oltre 1 miliardo di pezzi dalla Cina. Il primo fascicolo fu aperto a Roma in relazione alla presunta truffa subita dalla Regione Lazio, che attende ancora il risarcimento di quasi 10 milioni di euro sui 14 milioni spesi per mascherine ordinate e mai arrivate a destinazione.

A 13 anni dal blitz in Rai, chieste pene per ex CasaPound

Dopo 13 anni, e una lunga vicenda giudiziaria, la Procura di Roma ha chiesto la condanna a 2 anni e 8 mesi per dodici persone che nella notte tra il 3 e 4 novembre 2008, fecero irruzione nella sede Rai, coperti da passamontagna, sciarpe e caschi, per interrompere la messa in onda di “Chi l’ha visto?”. Il programma di Federica Sciarelli aveva trasmesso le immagini degli scontri di piazza Navona, mostrando le aggressioni di alcuni giovani della destra contro altri studenti. Imputati per resistenza, violenza e minaccia a incaricati di pubblico servizio, ci sono Francesco Polacchi, l’editore che pubblicò il libro-intervista all’ex ministro sovranista Matteo Salvini; e alcuni vertici di CasaPound Italia: Gianluca Iannone, Simone Di Stefano e Andrea Antonini. Sulla sentenza, attesa il prossimo 10 febbraio, pende però la ghigliottina della prescrizione, che potrebbe esserci nel caso in cui il giudice decidesse di riqualificare il reato, facendo cadere l’aggravante dell’aggressione.

L’Italia è nel mirino dell’Ocse

Èal lavoro il Working Group on Bribery (Wgb), ossia il “gruppo di lavoro sulle tangenti” dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. In questo momento, sotto esame sono l’Italia e la Francia: saranno sottoposte alla verifica periodica che il Wgb svolge su tutti gli Stati membri, con il modello delle “valutazioni reciproche” o “tra pari”. La prossima sessione dei lavori inizierà lunedì 6 dicembre e si concluderà venerdì 10: parteciperanno i rappresentanti dei 44 Stati membri più gli osservatori. Questa sessione riguarderà la Francia. Poi sarà la volta dell’Italia, che a gennaio 2022 riceverà la visita dei valutatori, una decina di persone, che verranno (Covid permettendo) a Milano e a Roma e incontreranno magistrati, avvocati, parlamentari, rappresentanti di ong, giornalisti. A giugno dovrebbe arrivare la pagella finale. Questa volta tocca ai rappresentanti di Stati Uniti e Germania fare gli esaminatori. Oggetto della valutazione è l’attuazione della Convenzione Ocse del 1997, che impegna gli Stati membri a perseguire la corruzione attiva internazionale e a condannare i propri cittadini e le persone fisiche e giuridiche che pagano tangenti all’estero: in modo tale che nessun Paese possa avere negli scambi internazionali un indebito “vantaggio competitivo” criminale.

La valutazione dell’Italia cade in un momento “caldo”: non soltanto per l’introduzione di nuove leggi (come la riforma Cartabia) che potrebbero rendere più difficile perseguire la corruzione internazionale; ma soprattutto per le recenti sentenze che hanno assolto Eni e i suoi manager; e per le inchieste aperte sui magistrati della Procura di Milano che in quei processi hanno sostenuto l’accusa (Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che mercoledì hanno ribadito le loro ragioni ai pm di Brescia). Questo tema è posto anche da una lettera mandata al presidente del Wgb, Drago Kos, dalle ong Global Witness e The Corner House (Gran Bretagna), Heda (Nigeria) e Recommon (Italia). Nella missiva, si esprime preoccupazione per “sentenze di assoluzione sulla corruzione internazionale pronunciate da giudici italiani che sono, a nostro giudizio, in contrasto con la ratio della Convenzione Ocse, così come interpretata nei commenti ufficiali e da altre autorità riconosciute. Le argomentazioni giuridiche poste a sostegno di queste sentenze rischiano di trasformare l’Italia in un firmatario della Convenzione senza mordente. Le aziende italiane potrebbero ora corrompere all’estero, sapendo che una condanna è altamente improbabile”. Inoltre, secondo le ong, “i magistrati che hanno perseguito casi di corruzione di alto profilo sono diventati bersaglio di intimidazioni, sorveglianza e indagini”.