Nigeria, chi indaga sull’Eni viene cacciato e perseguitato

Un articolo di Project Syndacate spiega al mondo che chi tocca l’Eni prende la scossa. Cita un poliziotto e un attivista nigeriani, ma anche i magistrati italiani della Procura di Milano e il programma Report della Rai. Project Syndacate (Ps) è un autorevole sito con base negli Stati Uniti, attivo in 156 Paesi del mondo, che ha articoli tradotti in 64 lingue. In un lungo commento firmato Eva Joly, dal titolo “La guerra della corruzione alla legge”, racconta la storia di due nigeriani, un superpoliziotto e un attivista anticorruzione, che dopo essersi occupati delle indagini in Nigeria sull’Eni e sulla sua alleata Shell sono stati perseguitati dalle autorità e intimiditi dalla criminalità.

Ibrahim Magu, presidente della principale agenzia anticorruzione della Nigeria, la Economic and Financial Crimes Commission (Efcc), nel 2017 ha subìto un attacco alla sua abitazione da parte di uomini armati che hanno ucciso uno dei poliziotti di guardia. “Ma le pallottole non sono state ciò che alla fine ha neutralizzato Magu”, scrive Joly. È stata la legge: “La sua rimozione dalla carica è stata architettata attraverso il lawfare”, ossia “l’uso (o abuso) della legge per fini politici”.

L’anno scorso, infatti, proprio mentre l’Efcc stava indagando per corruzione il procuratore generale e ministro della Giustizia Abubakar Malami, Magu è stato arrestato, con le accuse di corruzione e insubordinazione. “Anche se le stesse accuse erano state indagate e respinte tre anni prima”, spiega Joly. Magu è stato sospeso dall’incarico, in attesa dell’esito di una commissione d’inchiesta istituita dal presidente nigeriano Muhammadu Buhari. A Magu, “che ha supervisionato con successo le indagini per corruzione di numerosi politici nigeriani di alto livello e ha ottenuto il sequestro di beni illeciti per milioni di dollari”, è stato impedito di continuare a fare il suo lavoro e gli sono state inflitte “intimidazioni senza fine”.

Olanrewaju Suraju è invece uno dei più importanti attivisti nigeriani contro la corruzione, animatore di Heda, una ong che lavora con gli inglesi di Global Witness e gli italiani di Recommon. All’inizio di quest’anno, un ex procuratore generale nigeriano, Mohammed Adoke – già indagato e arrestato per il suo coinvolgimento nell’affare della vendita a Eni e Shell della licenza d’esplorazione petrolifera Opl 245 – ha accusato Suraju di aver falsificato le prove usate nel processo per corruzione celebrato a Milano con imputate Eni e Shell (poi finito con un’assoluzione generale).

In seguito alle accuse di Adoke, Suraju è stato fermato e trattenuto per essere interrogato da un’unità di polizia incaricata di indagare sulle cattive condotte della polizia e supervisionata direttamente dal capo della polizia nigeriana. Ha provato che i documenti ritenuti falsificati erano invece quelli ottenuti dalla Procura di Milano con una rogatoria internazionale nel Regno Unito. Infatti le carte in questione, assolutamente autentiche, erano state esibite in una causa davanti all’Alta corte di Londra intentata dallo Stato della Nigeria contro JpMorgan, la banca che aveva gestito i pagamenti di Eni per l’acquisizione del campo petrolifero Opl 245. Con ciò, le accuse contro Suraju sono cadute. “Ma i suoi problemi sono tutt’altro che finiti”, racconta Joly, allineando le molestie che l’attivista continua a subire da parte della polizia.

L’articolo di Project Syndacate ricorda che oggi Adoke sta affrontando un processo penale in Nigeria, accusato di illeciti nell’affare Opl 245. “Ma anche questo ha fatto poco bene a Suraju, che ora deve affrontare nuove accuse da parte di Adoke: cyberstalking e diffamazione”: per aver fatto circolare una email, ritenuta falsificata, e una conversazione telefonica, asseritamente manipolata, registrata dal programma Report di Rai3 che coinvolgeva Adoke nell’affare Opl 245. In realtà, Suraju non ha fatto altro che rendere pubblici in Nigeria i documenti del processo Eni di Milano e ripetere le dichiarazioni fatte dal governo della Nigeria in tribunale.

“In Italia, nel frattempo”, conclude l’articolo, “Fabio De Pasquale, il procuratore nel processo milanese a Shell e a Eni, e il suo collega, Sergio Spadaro, sono perseguiti con l’accusa di aver nascosto prove utili alla difesa, tra cui un video, la cui trascrizione dimostra che era nelle mani dell’Eni già da anni”. Il riferimento è all’inchiesta della Procura di Brescia che vede indagati De Pasquale e Spadaro per rifiuto d’atti d’ufficio. A causa “delle accuse che deve affrontare, De Pasquale, che in precedenza è riuscito a far condannare due primi ministri italiani accusati di reati economici, è probabile che venga rimosso” come pm del processo d’appello “contro Eni e Shell chiesto sia dalla Procura di Milano, sia dalla Repubblica Federale della Nigeria”.

Ci risiamo: riapre l’Astronave di Bertolaso

Mentre il presidente Attilio Fontana dichiarava che i numeri della Lombardia sono in discesa e l’assessore Letizia Moratti assicurava che la “Regione Lombardia non avrà mai più quelle criticità drammatiche che ha avuto l’anno scorso”, perché “abbiamo potenziato le terapie intensive”, ecco che invece torna operativo l’ospedale in Fiera. La struttura “congelata” dal 2 giugno scorso, da ieri ha riaperto i battenti. Due i padiglioni allertati, per ora sono senza pazienti, ma la prospettiva è di riempirli velocemente.

Per ridare vita all’Astronave di Guido Bertolaso servono medici e infermieri. E l’unico modo per reperirli è “risucchiarli” dagli altri ospedali. Non sorprende così l’ordine di servizio recapitato dal dg Welfare, Giovanni Pavesi, il 1° dicembre, a 4 strutture ospedaliere cittadine. La direttiva prevede che per il primo modulo (16 letti) il Policlinico – gestore della struttura – metta a disposizione 14 anestesisti-rianimatori e 42 infermieri di area critica. Per il secondo modulo, sempre da 16 letti, 7 medici e 20 infermieri arriveranno dalla Asst Ovest Milano; 4 medici e 12 infermieri dalla Asst Rhodense; 3 medici e 10 infermieri dal Gaetano Pini.

“In base alle esigenze di posti di terapia intensiva”, continua la nota, “che vi saranno nei prossimi giorni, con un preavviso di 48 ore (…) queste Direzioni dovranno garantire la copertura della turnistica dei due moduli”. Tradotto: il personale dovrà mollare tutto e presentarsi in Fiera. Un drenaggio di risorse che, come già avvenuto nelle precedenti ondate, complicherà la vita degli ospedali “veri”, anche loro alle prese con la riconversione dei reparti ordinari in reparti Covid. È un serpente che si morde la coda: la Fiera toglie personale agli ospedali, che a loro volta, sottraggono personale ai reparti normali, i quali devono interrompere le attività. E così le liste d’attesa per i “non Covid” si allungano. Un circolo vizioso che arricchisce le strutture private.

Come dimostra la scelta del Pirellone del 23 novembre di destinare ulteriori 8 milioni di euro ai privati entro fine dicembre 2021 per smaltire le liste d’attesa degli interventi chirurgici programmati per il 2019. Nell’agosto scorso, la giunta Fontana aveva stanziato 100 milioni per azzerare le code: 50 milioni destinati alle strutture pubbliche, 50 ai privati. A fine novembre è stato appurato che il pubblico non era riuscito a smaltire il carico (“risultano criticità in relazione ai tempi d’attesa”, scrivono le Ats) e che mancavano interventi per 8 milioni. Così il Pirellone ha “girato” i fondi inutilizzati dal pubblico ai privati, dato che “le economie rilevate non possono essere ulteriormente riallocate sulle strutture pubbliche in quanto le medesime sono ad oggi nuovamente impegnate nella campagna vaccinale e nel contrasto all’epidemia”. A prima vista l’operazione potrebbe apparire una virtuosa cooperazione, l’attuazione della “uguaglianza perfetta pubblico/privato” che è alla base della Riforma sanitaria appena varata dalla Moratti.

In realtà è la dimostrazione che se si tolgono al pubblico le risorse, questo non può rispondere alle esigenze e quindi deve intervenire il privato, guadagnandoci.

I pm: “Fontana e suo cognato a processo, frode sui camici”

La Procura di Milano ha chiesto di processare il presidente Attilio Fontana per il caso dei camici del cognato Andrea Dini venduti alla Regione Lombardia. Il leghista Fontana così passa da semplice indagato a imputato e ora la palla della decisione è in mano al giudice per l’udienza preliminare. Pochi minuti dopo la notizia, è arrivata la difesa del capo del Carroccio: “Quella della Procura è una richiesta vergognosa – ha commentato Matteo Salvini –. Chi ha aiutato la propria comunità dovrebbe essere ringraziato non processato”.

La richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata ieri sera dai pm Paolo Filippini e Carlo Scalas (l’ex pm Luigi Furno è passato al Tar del Lazio), coordinati dall’aggiunto Maurizio Romanelli. E riguarda, oltreché Fontana e Dini, anche l’ex direttore generale della centrale acquisti della Regione (Aria) Filippo Bongiovanni, la dirigente del settore acquisti, sempre di Aria, Carmen Schwegel, e Attilio Superti, vicario del segretario generale della Regione. L’accusa, per tutti, è quella di frode in pubbliche forniture. Il governatore Fontana resta poi indagato in un altro fascicolo per autoriciclaggio e falso in voluntary rispetto ad alcuni conti esteri, scudati nel 2016 come eredità della madre, e sui quali pesa, secondo i pm milanesi, una firma falsa della madre del governatore. Al momento il fascicolo, dopo una richiesta di rogatoria, è in attesa di una risposta dei magistrati elvetici rispetto alla firma e all’ipotesi di falso che in Svizzera ha rilevanza penale.

Il caso dei camici invece esplode nel giugno del 2020, quando diventa noto il conflitto d’interessi di Dama spa, società del cognato e della moglie di Fontana, con la Regione. Pochi mesi prima, il 14 aprile, Aria affida a Dama la fornitura di 75 mila camici per 513 mila euro. E già allora Dama ha una intesa con la Regione per altri 200 mila camici al prezzo di 1,2 milioni. Fin da subito ai piani alti del Pirellone in molti, anche un assessore, sanno del conflitto d’interessi. La vicenda si trascina fino a maggio, quando, dopo un vertice riservato, si rende necessaria una soluzione. E da subito, secondo l’accusa, emerge “il diffuso coinvolgimento di Fontana”, testimoniato da un messaggio che Dini, dopo aver incassato la commessa del 14 aprile, invia alla sorella: “Ordine camici arrivato, ho preferito non scriverlo ad Atti”. Risponde Roberta Dini: “Giusto, bene così”.

La decisione finale rispetto alla donazione viene presa, secondo i pm, il 19 maggio, quando dopo una riunione riservata negli uffici regionali della Presidenza, presenti dirigenti vicini a Fontana e manager di Dama, si decide di trasformare i camici già consegnati in donazione e così si blocca, con l’ok di Bongiovanni, la consegna del lotto rimanente. Scrivono i pm: “Fontana per la parte dei camici ancora da consegnare” interveniva su Bongiovanni “affinché rinunciasse alle residue prestazioni contrattuali al fine di contenere il danno economico per Dama”.

In questo modo si “creavano le premesse (…) per non adempiere agli ulteriori obblighi (…) facendo mancare beni destinati a far fronte (…) allo stato di emergenza sanitaria”. Secondo i pm sul tavolo vi è “un accordo collusivo tra Fontana” e il cognato “con il quale si anteponeva (…) l’interesse e la convenienza personale del presidente della Regione”. L’indagine nasce da una segnalazione per operazione sospetta di Banca d’Italia legata al tentativo di Fontana, dopo la scelta della donazione, di risarcire il cognato con un bonifico di 250 mila euro e cioè la cifra equivalente ai camici già consegnati. Scrive l’accusa: “Fontana decideva, previo accordo con Andrea Dini, di pagare a titolo personale il prezzo dei camici sino allora fatturati (circa 250 mila euro, ndr) mediante una disposizione di bonifico da un conto svizzero personale di Fontana”. Operazione “non andata a buon fine per mancanza di una idonea fattura giustificativa”. Il tutto, secondo l’accusa, con “lo scopo di tutelare l’immagine pubblica di Fontana”.

Per i tamponi pubblici in Usl, il Veneto chiude ai non vaccinati

Ln questo momento il Veneto è la regione con più nuovi casi di Covid in valore assoluto rispetto alla popolazione, la macchina sanitaria è stressata per garantire assistenza e vaccini, quindi i no-vax vadano a farsi i tamponi a pagamento nelle strutture private. Le risorse pubbliche saranno infatti impiegate per favorire il maggior numero di immunizzazioni. Le Ulss hanno cominciato da ieri ad adottare la linea dura: chi usa il tampone come alternativa al Green pass ogni due o tre giorni per andare a lavorare, si deve affidare alle farmacie e ai centri privati.

A cominciare dal sito dell’Ulss Euganea 6 di Padova, è apparso un avviso inequivocabile con l’elenco di chi ha diritto ai tamponi pubblici gratuiti: i soggetti positivi o individuati come contatti positivi, in isolamento secondo il programma di contact tracing e che debbano verificare la propria negatività. Ma ci sono anche le “scuole sentinella”, gli operatori sanitari, gli ospiti delle Rsa e coloro che sono esclusi dalla campagna di vaccinazione o siano esenti in base a certificazione medica. Tutti gli altri si devono rivolgere alle strutture private.

Alcuni giorni fa, Luca Zaia aveva dichiarato che, nonostante i 61 mila operatori, la macchina sanitaria del Veneto non è in grado di assicurare tutte le prestazioni. Un anno fa vennero ritardati circa 500 mila accertamenti diagnostici a causa della seconda ondata del Covid.

Draghi scivola sui banchi. Gelo con i suoi ministri

“Fino a che ci sono io, non ci dovrà essere più Dad di quanta ce n’è adesso”. Non l’ha forse detto esattamente con queste parole Mario Draghi al ministro della Salute, Roberto Speranza e a quello della Scuola, Patrizio Bianchi. Ma il concetto è stato fatto passare forte e chiaro, dopo il “pasticcio” della circolare sulla didattica a distanza. Con una delibera che ha visto stabilire la quarantena con un solo contagiato e il dietrofront per tornare a tre il giorno dopo. Con relativa irritazione del premier, che su questo punto non intende mollare e ha redarguito i due ministri per non averlo neanche consultato su una cosa del genere. Anche se poi la realtà non va proprio nella direzione apparentemente stabilita: in molti casi comunque scatta la Dad con un solo positivo. Le scuole non riescono a gestire la situazione e in generale il Ministero è in difficoltà. Così mentre Bianchi e Speranza prendevano atto della crudele realtà, Draghi resisteva.

Bisogna partire da qui per capire cosa è successo tra lunedì e martedì sera, con delibera emanata e poi ritirata. Ad andare in pressing per introdurre più Dad è stato il ministero della Scuola. Speranza è da sempre per l’idea del maggior rigore possibile e quindi non si è opposto, anche se la decisione non è stata sua in prima persona. Poi è arrivato Draghi e ha rimesso tutti in riga.

Non esattamente un episodio incoraggiante con la quarta ondata in corso: i “Migliori” rischiano di presentarsi a questo ennesimo appuntamento con il virus sfilacciati, sfibrati e divisi. D’altra parte che la maggioranza di governo sia sempre più in difficoltà è evidente. Ma Scuola e Salute sono centrali nella gestione della crisi.

Draghi procede fermamente per gradi e con pragmatismo esibito e teorizzato, anche se comunicativamente ha fermi alcuni capisaldi. Uno è sull’importanza dei vaccini, un altro è proprio sul funzionamento della scuola.

Già al suo arrivo a Palazzo Chigi, Draghi ridimensionò Speranza, schierandosi su una linea di minor rigore di quanto avrebbe voluto il Ministro. Erano i primi tempi del suo governo, il centrodestra addirittura voleva sfiduciare Speranza, Matteo Salvini insisteva per le riaperture. Draghi scommise sull’allentamento delle misure, ma al contempo blindò il titolare della Salute.

Poi i due hanno ricominciato a lavorare in piena sintonia, anche se la Salute spinge puntualmente per misure più restrittive e Palazzo Chigi tende a frenare. Tranne poi cedere all’evidenza. E anche stavolta non è detto che il “diktat” del premier sarà rispettato. Nei corridoi della Salute si osserva che se i contagi aumentano, se le scuole annaspano, le misure si imporranno.

Dosi ai bimbi: si parte il 16.12. In Germania lockdown per no-vax

“Mi sentirei meglio se fossimo in una situazione come quella dell’Italia”. Le parole pronunciate ieri da Angela Merkel hanno scatenato qualche giubilo provinciale nostrano, nella convinzione che l’ormai ex cancelliera tedesca avesse lodato il governo italiano. Merkel si è limitata a osservare che “se avessimo come in Italia un’incidenza media di contagi di 130, o di 150, mi sentirei meglio”, avendo la Germania un’incidenza tripla (ieri 439 casi ogni 100 mila abitanti) ma tanto basta. Non è tuttavia da escludere che la miglior situazione del nostro Paese sia merito anche di misure restrittive prese con maggiore anticipo. E infatti la Germania (74 mila nuovi contagi e 388 morti in 24 ore) corre ai ripari varando, di fatto, un lockdown per non vaccinati: il modello 2G (ingresso consentito solo a vaccinati e guariti) dovrebbe essere essere esteso a tutto il commercio al dettaglio a livello federale (fatta eccezione per farmacie, alimentari e tabacchi), agli eventi culturali e ai luoghi del tempo libero come cinema, ristoranti e teatri. Saranno previste anche limitazioni nei contatti personali: in futuro chi non è vaccinato potrà incontrare soltanto i membri del proprio nucleo familiare più un massimo di 2 persone appartenenti a una sola famiglia. E si torna a discutere di stadi chiusi.

Il Parlamento di Berlino, inoltre, ha iniziato la discussione sulla necessità di introdurre l’obbligo vaccinale, scelta sponsorizzata dal prossimo cancelliere Olaf Scholz e dalla stessa Merkel: “Io voterei a favore – ha detto – Abbiamo tutti sperato che i vaccinati fossero di più. La strada per uscire dalla pandemia è il vaccino”. L’ipotesi dell’obbligo vaccinale ha incassato anche l’apertura, che potrebbe essere decisiva, da parte del leader dei Cristiano liberali, Christian Lindner. I numeri della curva epidemiologica continuano comunque a crescere anche in Italia, dove ieri si sono registrati 16.806 nuovi casi e 72 morti. Tasso di positività su 679.462 tamponi in salita al 2,5%. I posti letto occupati nei reparti Covid ordinari aumentano di 50 (ieri +21), per un totale di 5.298 ricoverati. Dodici in più, invece, quelli che risultano dal saldo tra ingressi (55) e uscite dai reparti di terapia intensiva. Nelle ultime 24 ore, il totale dei malati più gravi sale a 698 ricoverati.

Numeri in linea con i tassi di aumento settimanale rilevati dal report indipendente della Fondazione Gimbe che precede di 24 ore, come di consueto, il monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità: “Tra il 24 e il 30 novembre – si legge nel report – sono cresciuti del 25,1% i nuovi casi di Covid-19 e, di pari passo anche la pressione sugli ospedali ha visto un aumento, segnando +13,7% di ricoveri in reparto e +22% di ricoveri in terapia intensiva”. “Da sei settimane consecutive – dichiara Nino Cartabellotta, presidente Gimbe – continuano ad aumentare i nuovi casi settimanali con una media giornaliera più che quintuplicata: da 2.456 il 15 ottobre a 12.345 il 30 novembre”.

Crescita continua sì, ma abbastanza costante, intorno al 25% ogni sette giorni. Dato che secondo alcuni esperti potrebbe essere indice di un Natale senza eccessive fughe in avanti del virus.

La campagna vaccinale, intanto, sembra essere in ripresa: ieri 443 mila dosi, di cui oltre 390 richiami (+52,5% nella settimana 24-30 novembre) ma anche oltre 30 mila prime. Sempre pochine (rimangono scoperti quasi 7 milioni di italiani, di cui 2,7 milioni sopra i 50 anni) ma comunque il 34,7% di più in media negli ultimi sette giorni.

Sul fronte della vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni, il Commissario all’emergenza generale Figliuolo ha annunciato il via già dal 16 dicembre grazie al previsto arrivo di 16 milioni di dosi. Tuttavia, sullo stesso fronte, vanno registrate le parole del presidente della Commissione tedesca Stiko specializzata su vaccini del Robert Koch Institute, Thomas Mertens: “Sulla base dei dati attualmente disponibili – ha detto – non vaccinerei i miei figli”.

Scuola, dopo il pasticcio circolari il bluff “unità mobili” di Figliuolo

Prima il dietrofront: la Dad scatti con un solo positivo. Poi la giravolta con la quale si è tornati al punto di partenza: classi in quarantena con tre contagiati. Con l’ausilio della Difesa, però. Con undici laboratori di biologia molecolare, presenti in otto regioni, e due unità mobili capaci di processare i tamponi effettuati a domicilio. Vale a dire il piano del Commissario all’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo. Pensato per evitare quanto più possibile che nelle scuole scatti la didattica a distanza, di fronte alle difficoltà delle aziende sanitarie di assicurare rapidamente l’attività di testing, e a quelle delle scuole di garantire, altrettanto rapidamente, il tracciamento dei contatti. E magari per mettere fine anche al rimpallo di responsabilità tra Asl e istituti scolastici. Peccato, come fa notare un alto dirigente di una Asl del Lazio, che in Italia ci siano oltre 53 mila scuole. “Solo quelle di pertinenza della mia azienda sono 450 – dice –. Circa il 20% della popolazione italiana è costituita da alunni e studenti e da personale scolastico. Mentre il 50% dei nuovi casi di Covid-19 si concentra proprio nel mondo della scuola. Il problema c’è, ma la soluzione non è certo quella di Figliuolo. Senza contare che provvedimenti sono stati varati in un quadro epidemiologico cambiato radicalmente a grande velocità”.

Del fatto che i laboratori della Difesa possano essere solo null’altro che una toppa ne è convinto anche Roberto Testi, direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Asl Città di Torino. “Ormai un tampone molecolare si processa in sei-otto ore – dice Testi –, e l’ostacolo non è certo costituito dal testing. È utopistico pensare che altri laboratori siano la soluzione. Le difficoltà stanno invece nel sistema di tracciamento: spesso le scuole fanno avere l’elenco dei compagni di classe dello studente risultato positivo anche dopo tre giorni. Senza contare che quando hai centinaia di istituti da gestire la situazione diventa complicatissima”. Ed ecco il muro contro muro. Il tracciamento dovrebbe essere in capo ai referenti Covid all’interno delle scuole. “E ci sono quelli efficienti e quelli che ti mandano le segnalazioni dopo 72 ore”, spiega Testi. Se poi a essere contagiato è un insegnante, tutto si complica ancora di più: devono essere ricostruiti i contatti che ha avuto nelle ultime 48 ore in tutte le classi dove ha fatto lezione. Ovvio che i vertici scolastici non ci stanno e rispediscono al mittente. “Le aziende sanitarie non riescono a fare i tamponi e non mi risulta che ci siano ritardi nell’invio dei nominativi dei contatti”, replica Antonello Giannelli, presidente dell’associazione nazionale dei presidi. I laboratori di Figliuolo? “Mi auguro che possano servire a qualcosa”, dice Giannelli. “Di fatto, comunque, le scuole affrontano la gestione dei contagi da mesi con le difficoltà che provengono dai ritardi delle strutture sanitarie – spiega invece Graziamaria Pistorino, segretaria nazionale della Flc Cgil –. Fino a oggi, nella pratica, il tracciamento interno e le comunicazioni al sistema informatico sono stati realizzati nelle scuole dal personale amministrativo e dai dirigenti scolastici, così come la predisposizione delle attività di sospensione e tutte le disposizioni successive. E non ci sono all’orizzonte grandi novità. Molte le promesse, quasi nessuna mantenuta”. E il supporto del Commissario Figliuolo? “Al momento ci appare come l’ennesima rassicurazione: va verificata. Ad agosto, con il protocollo di sicurezza, ci avevano assicurato efficienza nel tracciamento, monitoraggio e comunicazione dei dati, ma è evidente che tutto ciò non è avvenuto. Impossibile garantire la tempestività delle risposte”. Le sigle sostengono da settimane la necessità sia di potenziare i protocolli Covid sia di confermare il personale aggiuntivo, non solo quello docente, ma anche quello ausiliario e amministrativo in scadenza al 31 dicembre. Si tratta in gran parte proprio di quello a supporto delle operazioni anti-Covid e che già nell’attuale situazione è in affanno. “È uno dei motivi per cui abbiamo proclamato lo stato di agitazione” conclude Pistorino. Non serve, insomma, potenziare le Asl se al tempo stesso si tolgono 22mila persone sulla scuola dove, a oggi, è in Dad il 2,6% delle classi del primo ciclo e l’1,4% del secondo ciclo, più o meno le stessa percentuale dello scorso anno.

Aumma aumma

Magari è tutto falso, ma allora ci vorrebbe una netta smentita dei due interessati, Draghi e Di Maio. Che invece, per tutta la giornata di ieri, non è arrivata. La notizia, data da Repubblica citando “fonti diplomatiche”, è questa: “nel corso di un vertice internazionale, Di Maio si sarebbe lasciato andare a una confidenza… Mario Draghi starebbe lavorando a una staffetta con Daniele Franco. L’attuale premier andrebbe al Quirinale, il ministro dell’Economia traslocherebbe a Palazzo Chigi”. Ora, noi siamo uomini di mondo e ne abbiamo viste di tutti i colori. Ma una democrazia parlamentare ridotta a impresa traslochi, anzi autotraslochi, che per giunta opera aumma aumma fregandosene della Costituzione e anche del comune senso del pudore, è una novità assoluta. Ed è la naturale conseguenza della scelta sciagurata compiuta a febbraio dal Quirinale e da quasi tutti i partiti di risolvere la crisi del Conte-2 con un’invereconda ammucchiata, riverniciata da Governo dei Migliori, anziché con le elezioni (che, chissà perché, si possono tenere in tutto il mondo anche in piena pandemia, fuorché nella povera Italia).

Da quella jattura discende la presa del potere di un circoletto di “tecnici” mai eletti né indicati da alcun partito che si riuniscono nelle segrete stanze per fare e disfare leggi di Bilancio, modifiche peggiorative al Pnrr, controriforme della giustizia, Green pass per lavorare, aperture al nucleare, nomine pubbliche, spartizioni della Rai e patti segreti con la Francia, smantellando quasi tutto ciò che di buono avevano fatto i due governi espressi dal voto del 2018, aggirando non solo il Parlamento (ricattato dalla perenne urgenza con fiducie a raffica e decreti che neppure vengono convertiti in legge perché cambiano alla velocità della luce o durano poche settimane), ma pure il Consiglio dei ministri (chiamati a timbrare testi mai letti prima). Ora è l’apoteosi dell’aumma aumma: il premier aspira a salire al Colle (sarebbe la prima volta nella storia repubblicana) e fa sapere all’inner circle dei draghetti (fra cui Di Maio) che una volta eletto passerà il testimone a tal Franco, noto frequentatore di se stesso. Certo: il premier lo nomina il capo dello Stato, dunque se Draghi lo diventa è tutto normale. Ma prima il capo dello Stato consulta le forze parlamentari per sapere quale premier e quale governo appoggerebbero. E soprattutto: Draghi non è stato ancora eletto presidente, né può sapere se mai lo sarà, dunque a che titolo si sceglie il successore senz’averne alcun titolo? Il cortocircuito è talmente grave e grottesco che non abbiamo dubbi: ieri Draghi e Di Maio erano molto impegnati o molto distratti, ma oggi smentiranno tutto. O no?

Conticidio, Sfascisti e vergogna: Paper First a Più libri più liberi

Dopo lo stop a causa del Covid lo scorso anno, torna “Più Libri Più Liberi”, la fiera nazionale della piccola e media editoria in programma dal 4 all’8 dicembre alla Nuvola dell’Eur a Roma. Il tema del 2021 è “La Libertà”. Come per le passate edizioni, anche quest’anno Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, sarà presente alla kermesse – che festeggia i suoi primi vent’anni – con uno stand (C29) e diversi incontri.

Il primo appuntamento è la presentazione del libro Sette cose di cui vergognarsi. Ora e allora del fondatore del quotidiano Antonio Padellaro, fissata per sabato alle 12.30 nella sala Luna. Con l’autore dialogherà Mario Natangelo, che ha illustrato il volume e realizzato la copertina. Modera il direttore editoriale della casa editrice e vicedirettore del Fatto, Marco Lillo.

Lo stesso giorno, alle 14, toccherà ad Andrea Scanzi presentare sul palco il suo ultimo lavoro Sfascistoni – Manuale di resistenza a tutte le destre, già best-seller e in vetta alle classifiche di vendita. Il monologo si terrà all’Auditorium (800 posti a sedere). Sempre lì, domenica alle 14, il direttore Marco Travaglio racconterà il suo ultimo saggio: I segreti del conticidio. “Il golpe buono” e “il governo dei migliori”. Il libro, un vero e proprio giallo politico, è uscito nel maggio scorso ed è rimasto per diverse settimane nella top ten dei più venduti.

Chiuderà la fiera, mercoledì 8 dicembre alle 11.45 in Sala Vega, la presentazione de I soldi della P2 – Sequestri, casinò, mafie e neofascismo: la lunga scia che porta a Licio Gelli di Antonella Beccaria, Fabio Repici e Mario Vaudano. L’inchiesta, ricca di documenti inediti, è stata pubblicata in concomitanza dei 40 anni della scoperta degli elenchi della più famosa loggia massonica. Con gli autori ci sarà la giornalista e scrittrice Stefania Limiti. Modera Marco Lillo.

Inoltre, martedì 7 dicembre alle 17 allo stand di Paper First, è previsto il firmacopie di Alessandro Di Battista del suo ultimo lavoro Contro! Perché opporsi al governo dell’assembramento, anche quest’ultimo a lungo in vetta alle classifiche di vendita.

Importante: il firmacopie è previsto anche al termine degli altri eventi in programma. Per quanto concerne gli ingressi, invece, il costo del biglietto intero è di 10 euro, mentre il ridotto per i bambini dai 6 agli 8 anni è di 6 euro. Per tutte le altre informazioni è possibile visitare il sito della fiera a questo link: plpl.it. Vi aspettiamo.

Babbi bastardi, latini e 90enni. Spielberg rifà “West side story”

Giovani, rivali e innamorati: i bianchi Jets contro i portoricani Sharks, Tony e Maria come Romeo e Giulietta. L’indimenticabile musical di Broadway del 1957, già trasposto da Jerome Robbins e Robert Wise nel ’61 per dieci Oscar, torna nella versione riveduta e (politicamente) corretta di Steven Spielberg, che sin da bambino avrebbe voluto dirigerlo: West Side Story arriverà in sala il 23 dicembre, con vista sugli Academy Awards.

In memoria di Sondheim. “Stephen Sondheim ha reinventato il musical e il teatro, ha creato un corpus che è immortale come potrebbe esserlo qualcosa fatto da un mortale”. Aprendo la proiezione a New York, Spielberg omaggia il compositore e paroliere scomparso a novantuno anni lo scorso 26 novembre, che fu giovanissimo autore dei testi di West Side Story: “Come Ben Johnson disse di Shakespeare, Sondheim non era di un’epoca, ma per sempre”. E di questo film, anche: “Non s’è perso una sessione di registrazione. Ascoltava con gli occhi chiusi, ondeggiava, si quietava, o faceva una smorfia e sussultava. Mi sono sorpreso a guardare le sue espressioni, a volte più degli attori stessi: riflettevano perfettamente quel che stavamo facendo”. E si commuove: “Siamo diventati buoni amici. Lui era SS1 e io ero SS2, e ho insistito su questa classifica”.

Il mio (trep)piede sinistro. “Durante le prove, quattro mesi e mezzo, saltavo dalla sedia per unirmi al cast, stonando e ballando come se avessi tre piedi sinistri. C’era così tanta vita nell’aria, impossibile resistere”. Ma al primo ciak Spielberg s’è dato una calmata: “Non battevo più nemmeno il piede, ero troppo concentrato sul monitor”.

E.T. telefono West Side Story. “Il più delizioso affare di famiglia che ho avuto dai tempi di E.T., l’extraterrestre. Allora mi ero sentito come un padre per tutti quei bambini, sebbene il mio primo figlio sarebbe nato solo tre anni dopo. West Side Story è stata l’unica altra volta che ho avuto consapevolezza di far parte di una famiglia, molto diversa”.

Spagnolo senza sottotitoli. La scelta ha già sortito polemiche: West Side Story non provvede sottotitoli in inglese allorché i personaggi portoricani si esprimono in spagnolo. “Per una questione di rispetto”, spiega Spielberg: “La storia inizia quando il Tenente Schrank, che è chiaramente un razzista, intima di non usare lo spagnolo. Ma quella lingua deve esistere accanto all’inglese in egual misura”.

“Mio padre è un bastardo”. Steven aveva dieci anni quando i genitori portarono a casa il disco del musical di Bernstein. “Lo ascoltai in camera e a cena mi misi a cantarne un pezzo, Gee Officer Krupke: ‘Mio padre è un bastardo, mia madre una figlia di buona donna, mio nonno è sempre ubriaco…’. I miei rimasero sbigottiti, ma – ride – non mi portarono via il disco!”.

New York, New York. “Quartieri quali Brooklyn, Queens e Bronx non sono cambiati molto dagli anni Cinquanta. L’unica cosa che abbiamo fatto al computer, oltre a levare il sudore ai ballerini ripresi nel bel mezzo di un’ondata di caldo, è stato rimuovere le sbarre delle finestre, i condizionatori e le parabole dagli edifici. Il resto è autentico”.

Visi pallidi. “Voleva dei giovani che apparissero pallidi e affamati. Steven – dice lo sceneggiatore premio Pulitzer Tony Kushner – mostra con eleganza la povertà di quei quartieri, West Side Story è la tragedia di un ambiente che sta svanendo”. Conferma il regista: “Questi giovani si battono non solo per difendere la comunità, ma il proprio territorio, all’ombra di una palla da demolizione”.

Rita Moreno. Per incarnare Anita nel 1961 dovette aggiustarsi il trucco, perché gli altri personaggi portoricani erano appannaggio dei bianchi. Vinse un Oscar, unica statuetta attoriale fin qui andata ai latinos, e sessant’anni più tardi Rita Moreno prenota il bis – a novant’anni sarebbe la più anziana di sempre – con un ruolo creato su misura: “È stato sinistro interpretare Valentina al fianco di Anita (Ariana DeBose), e nella scena in cui impedisco ai Jets di violentarla ho fatto fatica persino a parlare”.

Que Viva Puerto Rico. Al posto di Natalie Wood, che all’epoca rimpiazzò l’incinta Audrey Hepburn, c’è l’esordiente Rachel Zegler: “Nessuna competizione, avevo già abbastanza pressione a essere la prima latina a recitare Maria sul grande schermo”.