“L’amico geniale: Faber”

Maestro Nicola Piovani, due album decisivi con Fabrizio De André. Non al denaro non all’amore né al cielo, giusto 50 anni fa. E Storia di un impiegato, datato ’73. Il clima in studio?

La seconda volta la diffidenza era minore. Difendevo la concezione orchestrale, a tratti sinfonica di quegli album. De André all’inizio era in parte perplesso, ma anche molto attratto. Durante le registrazioni di Non al denaro ebbi uno scontro con i discografici: l’album si presentava con un colore a tratti classico, diverso dalle mode. Abbandonai il progetto per questi disaccordi e Fabrizio prese le mie parti: fu lui a richiamarmi e a darmi totale fiducia, anche con un po’ di spericolatezza, ripensandoci. Per l’Impiegato invece tutto filò più liscio: Non al denaro aveva fatto un ottimo incasso, l’unica regola sacra dei discografici, che cominciarono a darmi credito.

Chi è tra voi due Il suonatore Jones?

Fabrizio – e per certi versi anch’io – ci riconoscevamo in quella proiezione poetica. Ma nessuno dei due è finito “con i campi alle ortiche”. Comunque la passione per l’alcol riguardava più De André: io non bevo superalcolici…

Il primo incontro?

A Genova, a casa sua: mi aveva telefonato proponendomi gli arrangiamenti del progetto Spoon River. Restai da lui qualche giorno, chiacchierammo molto, le sue idee anarchiche facevano scintille col mio sessantottismo. Si svegliava piuttosto tardi. Io, più mattiniero, a tempo perso musicai la poesia Un medico. Gli piacque, mi propose di lavorare anche al disco.

Il numero dei personaggi di Non al denaro. I discografici ne indicavano dieci, ne conosciamo otto.

Può darsi si parlasse di musicarne dieci, e che nei comunicati siano rimaste le note provvisorie: succede spesso.

In studio, i padri di Marina Rei e di Rita Marcotulli.

Vincenzo Restuccia: uno dei migliori batteristi su piazza. E con il mago Sergio Marcotulli passammo una domenica a montare un nastro al contrario per costruirci sopra Un ottico, fra suoni lisergici e mazurke campagnole.

Un ottico: profezia del virtuale?

Del brano mi interessava molto il finale: la chiusura in un mondo sonoro che non guardava alla psichedelia bensì al liscio romagnolo, alle radici nostrane. Non rida: io, giovanissimo, ci vedevo un connotato antimperialista!

Fernanda Pivano. Vi frequentava, ai tempi di Non al denaro?

Veniva e ascoltava i brani non finiti. Quando sentì Un giudice, eravamo preoccupati che non gradisse “Il cuore troppo vicino al buco del culo”. Stava per passare quel verso: De André, il produttore Roberto Dané e io prendemmo delicatamente a tossire per coprire la parola birichina. Ma la Pivano fu spiritosissima e apprezzò molto quella soluzione.

Come concepiste gli album?

Lavorammo a stretto braccio, quotidianamente. Fabrizio era una guida sicura, infallibile, nelle divergenze aveva quasi sempre ragione, ma era prontissimo a cambiare idea. Gli album furono realizzati con i criteri di sceneggiature musicali.

All’epoca la critica militante bocciò l’Impiegato. La sinistra voleva delegittimare il De André post-68?

Con gli anni ho imparato a capire i critici: le stroncature di Fellini 8½, de La vita è bella, o de La Bohème ormai fanno curriculum per quelle opere. Certo, ci sono anche critici fondamentali. Però pochi. Molti invece gli stroncatori che danno pagelle, lodano e bacchettano, da una cattedra che si sono assegnati da soli.

Parlaste della polemica innescata da Gaber per l’Impiegato?

Mai. Neanche la conosco.

“Voi non avete fermato il vento/ gli avete fatto perdere tempo”. Faber fu buon profeta?

Faber era un poeta, non un profeta. Pensavamo allora fosse un cammino con mille difficoltà, invece sono milioni. Ma, lentamente, la civiltà progredisce, anche grazie a sognatori e utopisti.

Dialogaste sulla scomodità del Bombarolo?

Sì, ma non ce ne preoccupammo minimamente. Ci coinvolse di più la polemica sulla canzone del giudice nano, che ai tempi tutti identificavano ironicamente con Fanfani.

La magia di Verranno a chiederti del nostro amore.

Ero al piano, lui cantava su pista separata. Questo dava spontaneità all’esecuzione. Ci passammo un pomeriggio. Poi Faber registrò di nuovo buona parte della voce e su quella base io scrissi l’arrangiamento, archi, flauto e qualcos’altro.

Perché la collaborazione non proseguì?

Ci parlammo con estrema franchezza e amicizia. Lui stava imboccando la direzione di un suono essenziale, voci chitarre e poco più. Io cominciavo a lavorare nel cinema, con la possibilità di sperimentare orchestrazioni e partiture complesse. Credo di aver avuto in comune con Fabrizio il libero pensiero musicale: seguire la vocazione più che il mercato. Ci siamo sempre sentiti, negli anni, con molta affettuosità.

A cosa sta lavorando ora?

A un’opera, Amorosa presenza. In scena a Trieste in gennaio, virus permettendo. E mi preparo per cinque concerti all’Auditorium di Roma, fra Natale e Capodanno.

Nuovo medioriente: né Usa né petrolio?

La combinazione tra la pandemia, la crisi ecologica per il riscaldamento globale e il conseguente crollo del prezzo degli idrocarburi (fino a -50%) ha portato alcuni Paesi arabi – in particolare, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco –, tra l’estate e il dicembre 2020, a sottoscrivere i cosiddetti “Accordi di Abramo” con Israele.

Questi accordi, nonostante l’evidente riferimento biblico, in realtà hanno poco di religioso; però chiudono una frattura storica che si era venuta ad aprire in Medio Oriente nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele e che ha tanto pesato – provocando conflitti, scontri sanguinosi e attentati terroristici – sulla politica mediorientale di questi ultimi 70 anni. Tali accordi, che sono stati realizzati con la regia degli Stati Uniti di Donald Trump e successivamente “benedetti” anche dal suo successore alla Casa Bianca, hanno subìto un’imprevista accelerazione quando i leader degli Stati produttori – in particolare, degli Emirati e dell’Arabia Saudita – hanno preso coscienza dell’obsolescenza della rendita petrolifera. […]

Il 6 marzo 2020, quando la crisi pandemica era ancora agli inizi, l’Opec Plus (l’Organizzazione di Paesi esportatori di petrolio), con la partecipazione straordinaria della Russia, si è riunita a Vienna per trattare la questione della crisi petrolifera, che aveva fortemente inciso sull’esportazione degli idrocarburi fossili a livello globale. In quella sede, Ryad e Mosca – rispettivamente secondo e terzo produttore mondiale di petrolio – si sono accordati per combattere insieme l’egemonia statunitense nel settore estrattivo (15% del totale dei barili prodotti ogni giorno nel mondo, contro il 12-13% degli altri due Paesi concorrenti) e per limitare la sua influenza politica su diversi teatri bellici mondiali (in particolare, quelli mediorientali nei quali la Russia è presente) […] In quella sede il rappresentante della Russia ha annunciato la decisione del Cremlino “di aumentare la produzione russa per far scendere il prezzo del barile di petrolio al di sotto dei tassi di redditività dello scisto, danneggiando in tal modo le compagnie estrattive statunitensi del Texas e dell’Alaska” e spingendole fuori del mercato. L’Arabia Saudita si è vista costretta a seguire questa strategia imposta da Mosca, per compensare il calo del prezzo con un aumento della produzione di petrolio. Il prezzo è così crollato del 50% a marzo, toccando i 32 dollari a barile. Nel 2021 poi è risalito, raggiungendo nel mese di ottobre gli 80-82 dollari al barile. […] Il mancato guadagno per tali Paesi è stato stimato a luglio dal Fondo mondiale internazionale in 270 miliardi di dollari.

La crisi dei Paesi arabi ha offerto alla Turchia la possibilità di diventare protagonista, insieme alla Russia, nello scacchiere politico mediterraneo e mediorientale. Da un lato, avanzando pretese su alcuni territori sul confine turco-siriano, in chiave securitaria (cioè anti-curda), ma in realtà per aumentare la propria presenza in quella regione molto importante sul piano strategico e far pesare il proprio ruolo in un eventuale negoziato di pace. Dall’altro lato, insediandosi in Libia, sia pure su richiesta delle autorità del governo di Tripoli al fine di combattere il generale Haftar, signore della Cirenaica, sostenuto dalla Russia, dall’Egitto e, in modo più velato, dalla Francia. Così la Turchia esercita la sua egemonia sull’intera regione della Tripolitania e vi controlla importanti giacimenti petroliferi. Oggi, di fatto, la Libia è divisa tra la Russia, presente per mezzo di soldati mercenari in Cirenaica e nel Fezzan, e la Turchia, che si è impadronita della parte settentrionale del Paese. […]

La Turchia, che è povera di idrocarburi, approfitta della sua presenza in Libia – Paese ricco di petrolio – per cercare nel Mare nostrum giacimenti di gas sottomarini. Dal governo della Tripolitania – a quel tempo retto da al-Serraj –, come compenso dell’intervento armato, Erdogan ha avuto, nel novembre 2019, la concessione di una “Zona economica esclusiva”, molto favorevole alla Turchia, che però insidia le zone marittime di sovranità greca e cipriota. Questo ha dato avvio a dispute diplomatiche senza fine, che in futuro potrebbero anche sfociare in un conflitto armato, dato che nell’intricata questione sono comprese “acque” rivendicate anche dall’Egitto e da Israele. La Turchia controlla anche le due vie principali dell’immigrazione clandestina proveniente dall’Asia e dall’Africa e diretta verso l’Europa: attraverso il mare Egeo e i Balcani, da una parte, e attraverso la costa libica, dall’altra. Ciò fornisce ad Ankara l’occasione per accampare pretese neoimperialiste – o neo-ottomane, secondo alcuni – sull’area del Mediterraneo e per tenere in scacco l’Ue, con la minaccia di “aprire i rubinetti dell’immigrazione clandestina”. […]

I fatti di cui abbiamo parlato si intrecciano con un’altra questione cruciale: il disimpegno degli Stati Uniti in Medio Oriente, timidamente iniziato ai tempi di Obama e proseguito con più determinazione sotto Trump e Biden. L’ultimo significativo atto di tale processo è stato il recente abbandono, da parte degli Usa, dell’Afghanistan. Esso andrebbe giudicato nel medio-lungo termine, anche se i suoi effetti sono sin d’ora evidenti: infatti, esso consente agli strateghi Usa di “ricollocare” uomini e mezzi su fronti più strategici e vitali per gli interessi americani, cioè sul nuovo fronte di resistenza, quello indo-pacifico. […]

Di fatto, molti Stati arabi, normalizzando i loro rapporti con Israele, hanno in qualche modo lanciato la palla nel campo della controparte, cioè Israele, e per questo il risultato attualmente è tutt’altro che chiaro, sebbene finora, considerando la realtà dei fatti, le possibilità di scelta siano limitate: “O acconsentono a uno Stato bi-nazionale o dovranno espellere i palestinesi dalla Cisgiordania e Gerusalemme o prepararsi a sopprimerle per sempre. Qualunque opzione venga scelta, andranno in frantumi i presenti fondamenti virtuosi dello Stato ebraico”. […]

D’ora in poi, probabilmente, dovremo abituarci a vedere o a immaginare un Medio Oriente senza l’imbarazzante presenza americana e senza il vecchio – ma ideologicamente fecondo – conflitto israelo-palestinese, e infine, anche se in un tempo più lontano, un Medio Oriente senza petrolio. Non sembra vero, ma sarebbe auspicabile.

 

Dinastia Cuomo, Chris lascia Cnn per l’onore della famiglia

Più fedele alla famiglia che alle news? Per questo dubbio, la Cnn ha sospeso a tempo indeterminato Chris Cuomo, il suo anchor più popolare, fratello dell’ex governatore dello Stato di New York Andrew, dimessosi dopo essere stato accusato di molestie da 11 donne, collaboratrici o dipendenti. Chris avrebbe usato la sua posizione per aiutare il fratello: il condizionale è d’obbligo, perché l’inchiesta su Andrew, che è stato formalmente accusato, fa acqua. Un errore procedurale dello sceriffo di Albany, Craig Apple, rischia di comprometterne la validità. E non rafforza la credibilità dell’indagine il fatto che il magistrato che l’ha condotta, Letitia James, intende candidarsi a governatore. Nel dare la notizia della sospensione, la Cnn stessa riconosce che i documenti finora pubblicati – migliaia di pagine – “lasciano seri dubbi”. Ma resta il sospetto che Chris abbia avuto nella vicenda un ruolo maggiore di quanto finora ammesso. I due fratelli hanno uno stretto rapporto, “sono – dice un teste – l’uno il migliore amico dell’altro”. Il giornalista dice di non avere mai manipolato o manovrato altri colleghi a beneficio di Andrew e di aver agito solo come un fratello, ascoltandolo e dandogli pareri, consigliandogli di dire la verità, quale che fosse, ed eventualmente di dimettersi. Ma in realtà Chris avrebbe avuto un ruolo più attivo. Ad esempio, a marzo, quando venne fuori che il governatore avrebbe fatto un’avance indesiderata a una giovane a un matrimonio, l’anchor mandò un sms alla segretaria del fratello, Melissa DeRosa, per dire che aveva un indizio su quella donna, che avrebbe agito in cattiva fede. A gioire della sospensione è stato Donald Trump, che ha conti in sospeso con i Cuomo. Ha scritto: “Grande notizia per i telespettatori, hanno sospeso Chris Cuomo! La vera domanda è se lo hanno fatto per l’audience bassa o perché suo fratello non è più governatore. Probabilmente per entrambi i motivi. In ogni caso Fredo è fuori!”, Come ‘Fredo’ Corleone del Padrino, un riferimento alle connessioni mafiose sempre attribuite agli italo-americani.

Amazon, un “pacco” per i sindacati

Come accade quasi sempre nella vita reale, Golia, cioè Amazon, aveva battuto Davide, i lavoratori del magazzino di Bessemer in Alabama: un voto apparentemente senza appello, 1.798 contro la ‘sindacalizzazione’ della manodopera del deposito e 738 a favore. Ma c’è un giudice persino laggiù in Alabama: un funzionario federale, una donna, Lisa Handerson, ha stabilito che l’azienda ha condizionato l’esito del referendum e ne ha ordinato la ripetizione. E ora il sindacato dei lavoratori del commercio ci riprova: sfida il secondo datore di lavoro privato di tutta l’Unione, con oltre un milione di dipendenti, e prova a conquistare il diritto a rappresentare la manodopera nelle trattative su salario, orari, ritmi. Il magazzino di Bessemer, aperto da 20 mesi, potrebbe diventare una testa di ponte per gli altri depositi in tutti gli Usa. Il sindacato può farcela perché Amazon non potrà intimidire i lavoratori come fece in primavera. La decisione di fare ripetere il voto è stata presa dalla direttrice dell’ufficio regionale del Consiglio per le relazioni sindacali. Per la Henderson, che ha indagato per sei mesi, convocando le parti, Amazon aveva organizzato la consultazione in modo ambiguo mettendo pressione sui dipendenti: “Il datore di lavoro ha tenuto una condotta discutibile che motiva l’annullamento del referendum… ha interferito con i diritti dei lavoratori e li ha violati”.

Sotto accusa, in particolare, l’iniziativa di Amazon di installare una cassetta delle lettere proprio davanti al centro logistico, perché i lavoratori vi deponessero la loro scheda. La ripetizione del referendum è considerata una grossa vittoria dalle organizzazioni sindacali, mentre Amazon ne contesta il fondamento. La campagna per il nuovo voto avrà una larga eco nazionale: in primavera, i Democratici s’erano mobilitati con il sindacato del commercio; e leader della sinistra come il senatore Bernie Sanders e l’attivista nera Stacey Abrams avevano tenuto comizi a Bessemer. Per dare un’idea dell’impatto della vicenda, la Cnn, dopo il primo voto, aveva titolato: “Jeff Bezos batte Joe Biden 1 a 0”. Il miliardario Bezos, proprietario di Amazon, e pure del Washington Post, è un grande finanziatore del Partito democratico e dei suoi candidati. Il risultato di primavera era anche frutto del successo di Amazon durante la pandemia, coi volumi delle consegne e i posti di lavoro in crescita: il salario minimo era stato portato a 15 dollari l’ora, quanto Biden non riesce a far approvare dal Congresso a livello federale e il doppio di quel che prevede la legge in Alabama. Ma le condizioni di lavoro imposte ai dipendenti e, soprattutto, all’indotto, sono draconiane, come testimonia il film di Ken Loach Sorry, we missed you.

La Commissione Regeni: “Il regime poteva salvarlo”

Il nome dell’assassino di Giulio Regeni è questo: Egitto. Lo Stato di Al Sisi, insieme agli agenti della Nsa, (Agenzia Sicurezza egiziana), nel 2016 ha ammazzato il ricercatore italiano, dice la relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta. “Sequestro, tortura, uccisione” del dottorando di Cambridge – si legge nella relazione lunga più di mille pagine –, “gravano direttamente sugli apparati di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto, come minuziosamente ricostruito dalle indagini condotte dalla Procura di Roma”.

La vita del ragazzo di Fiumicello termina con occultamento “non casuale”. Il 25 gennaio Giulio viene rapito, il 3 febbraio il suo cadavere ritrovato nei pressi di una delle sedi degli apparati di sicurezza, “circostanza pregnante come che la si voglia interpretare”, scrive il gruppo guidato da Erasmo Palazzotto che ha iniziato a lavorare insieme nel 2019 e vuole ora che il governo italiano apra “una riflessione in sede europea sull’interruzione di forniture di armi leggere” che possono essere usate “a fini repressivi in un Paese che viola palesemente i diritti umani”. Il Cairo, che ancora tace, ha fornito in questi anni una lista di bugie, messe in scena, depistaggi e nessun dettaglio concreto. Manca soprattutto quello più fondamentale adesso per procedere con la battaglia legale. Oltre ai video della metropolitana della Capitale egiziana, (che avrebbero potuto produrre prove definitive), manca la comunicazione del domicilio degli ufficiali indagati. È un’omertà che “suona come un’ammissione della loro colpevolezza”, scrive la Commissione, un vuoto che però mette a rischio l’udienza del processo fissata per il prossimo 10 gennaio. I dubbi che aleggiavano intorno alla docente di Cambridge Maha Abdelrahman sono stati dissipati: il suo arroccamento e poca disponibilità al confronto dall’inizio della tragedia sono stati dettati dal peso della stessa, che ha impattato sulla sua vita emotiva in maniera grave.

L’uccisione di Regeni non è una questione privata, ma questione di interesse nazionale. Sono stati mesi di lavoro “capillare, fatto di audizioni, per ricostruire a poco a poco ogni aspetto” di una vicenda sulla quale serve collaborazione degli altri Paesi Ue, riferiscono i deputati 5S che hanno fatto parte del team con cui le autorità egiziane non hanno mai collaborato, se non “mostrandosi ostili ai più basilari diritti umani”.

Se della morte di Giulio è responsabile l’Egitto, della normalizzazione dei rapporti con l’entità che lo ha ucciso è responsabile Roma: “È giunto il momento per il governo italiano di compiere un passo decisivo”. Una potente leva può essere usata per spezzare l’omertà dei vertici nordafricani: quella diplomatica. Il richiamo dell’ambasciatore italiano dalla sede cairota ha prodotto cambiamenti nel 2016, al momento è necessaria “una strategia definita che dia una postura più determinata, non far venir meno la nostra richiesta di ottenere verità e giustizia”, ha concluso il presidente Palazzotto.

Se il Cairo continua a tacere e perseverare nella sua eterna “fuga dal processo”, contraddicendo in maniera spudorata le sue perentorie dichiarazioni di collaborazione, non lo fanno i membri della Commissione che premono affinché non si ripristino i rapporti con le istituzioni egiziane finché i responsabili non finiranno dietro le sbarre, quelle dove l’Egitto tiene tuttora rinchiusi i suoi figli più ribelli. Uno di loro è Patrik Zaki, lo studente arrestato per alcuni post sui social network.

Crimini in Yemen, Ryad blocca l’Onu

Il ruolo dirimente giocato dall’Arabia Saudita nel fallimento del voto, tenutosi lo scorso 7 ottobre, presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC), allo scopo di prolungare l’indagine indipendente sui crimini di guerra commessi nello Yemen, sta emergendo sempre più chiaramente. Pur non essendo un Paese membro dell’Hrc, Ryad è riuscita nell’intento di bloccare l’estensione dell’inchiesta determinando la prima sconfitta di una risoluzione nei 15 anni di storia dell’organo Onu con sede a Ginevra.

Il regno saudita per scongiurare altri 2 anni di indagini ha infatti utilizzato minacce e incentivi nei confronti di Paesi attualmente membri come l’Indonesia, il Senegal e il Togo e si è avvalsa indirettamente del carattere dittatoriale di alcune nazioni di grande peso come Cina e Russia, anch’esse parte a rotazione dell’Hrc. John Fisher, dell’Ong Human Rights Watch, ha affermato che il mancato rinnovo del mandato è “una macchia sul Consiglio per i diritti umani. Votando contro questo mandato estremamente necessario, molti Stati hanno voltato le spalle alle vittime, si sono piegati alle pressioni della coalizione guidata dai sauditi e hanno messo la politica al di sopra dei principi”. Parlando con il quotidiano britannico Guardian, funzionari, politici, fonti diplomatiche e attivisti con una conoscenza diretta dello sforzo di lobbying del principe ereditario Mohammed bin Salman (il mandante dell’omicidio Khashoggi, ndr) hanno rivelato i ricatti e le promesse, finalizzate anche alla creazione di meccanismi di cooperazione favorevoli alla stessa Ryad, messi in atto per “convincere” questi Paesi a votare contro la risoluzione.

Il Paese più ricco del Golfo, attore principale del sostegno armato al governo yemenita contro i ribelli houthi sciiti finanziati e armati dall’Iran, avrebbe avvertito l’Indonesia, ovvero il Paese musulmano più popoloso del mondo, che avrebbe creato ostacoli ai fedeli intenzionati a recarsi alla Mecca se le sue autorità avessero votato a favore della risoluzione. Si tratta di milioni di musulmani che molto probabilmente sarebbero scesi nelle piazze per protestare se non avessero ottenuto i visti per intraprendere il pellegrinaggio più importante della religione islamica che mette d’accordo, una volta all’anno, almeno apparentemente, sunniti e sciiti. La nazione africana del Togo non si è neanche sforzata di tenere nascosto il proprio interesse nell’assecondare l’Arabia Saudita annunciando nel giorno del voto che avrebbe aperto una nuova ambasciata a Ryad e ricevuto un sostegno finanziario dal regno per ampliare le attività per la lotta al terrorismo.

In seguito all’aumento degli attacchi da parte di gruppi estremisti islamici alle nazioni dell’Africa subsahariana, le autorità del Togo, un piccolo Stato prevalentemente animista e cristiano, forse pensano di potersi avvalere della protezione di Ryad, che è risaputo essere la culla della confessione più oscurantista dell’islam nonché sponsor del jihad (guerra santa). Una settimana dopo il voto, gli Emirati Arabi Uniti, alleati dell’Arabia Saudita nel conflitto nello Yemen, hanno invitato il Senegal a firmare un memorandum d’intesa per istituire un consiglio d’affari congiunto Emirati-Senegalesi. L’obiettivo del consiglio era che la camera di commercio degli Emirati Arabi Uniti “incrementasse la cooperazione tra i due Paesi amici”. L’anno scorso sia l’Indonesia che il Togo si erano astenuti dal votare la risoluzione che avrebbe esteso l’indagine a tutto il 2021. Se a ottobre la risoluzione è stata bocciata con una maggioranza semplice di 21 voti contro 18, con l’astensione di sette Paesi, nel 2020 la delibera era stata approvata grazie a 22 voti a favore contro 12, con l’astensione di 12 Paesi membri. “Questo tipo di oscillazione così ampia – da 12 no a 21 – non accade per caso”, ha detto un funzionario che ha richiesto l’anonimato.

Nel 2020, a tre anni dalla sua costituzione, il gruppo di esperti (Gee) del Consiglio per i Diritti umani per il monitoraggio del conflitto nello Yemen – iniziato nel 2015 – ha raccomandato per la prima volta alla Comunità internazionale di concentrare la propria attenzione sulle responsabilità per potenziali crimini di guerra. Nelle cinque raccomandazioni vi era quella di rinviare la questione al procuratore della Corte penale internazionale. Una fonte ha detto: “Penso che sia stato il momento scatenante in cui la coalizione saudita si è resa conto che stava davvero andando troppo oltre”. Le nazioni che hanno sostenuto la risoluzione, guidate dai Paesi Bassi, sono state colte alla sprovvista dalle tattiche aggressive dei sauditi. Durante i negoziati, infatti, nessuno dei Paesi che avrebbero poi cambiato voto passando dall’astensione al “no” ha sollevato obiezioni nel merito della risoluzione, che differiva dalla versione del 2020 solo per gli anni di estensione del mandato: due anni invece di uno. Dopo sette anni di guerra e almeno 100 mila morti, lo Yemen è sprofondato nella peggior crisi umanitaria del pianeta. E la fine non è in vista. Anzi.

Il Tesoro della Lega: giornali, soldi esteri e fatture da “ricchi”

L’attenzione finora si è sempre concentrata su Matteo Salvini, ma per capire che fine hanno fatto i famosi 49 milioni di euro bisogna analizzare soprattutto le scelte prese dal suo predecessore. Roberto Maroni – oggi presidente della Consulta contro il caporalato, organismo che fa capo al ministero dell’Interno – è stato infatti il segretario della Lega Nord dal luglio del 2012 al dicembre del 2013: un anno e mezzo in cui il partito ha fatto fuori buona parte della sua ricchezza. Come? Girando soldi a società formalmente estranee al partito, pagando profumatamente alcuni fornitori. E, suggeriscono i bilanci del Carroccio, spostando una parte del denaro all’estero. È questa una delle notizie contenute ne Il Tesoro della Lega, edito da Paper First, libro che cerca di fare luce sui principali misteri finanziari del più antico partito d’Italia, primo fra tutti quello della sparizione dei 49 milioni: denaro pubblico, che dovrebbe tornare ai cittadini italiani, ma che sui conti del Carroccio non c’era praticamente più, quando a metà del 2017 – su mandato del Tribunale di Genova – la Guardia di finanza è andata a sequestrarli. I militari si sono infatti dovuti accontentare di recuperare 3,1 milioni di euro: poco meno di un sedicesimo del totale. Dov’è finito il resto del tesoro? È stato davvero speso solo per iniziative politiche, come assicurano da anni i massimi dirigenti leghisti? Oppure è stato in parte nascosto, come suggerito da Michele Scillieri, uno dei commercialisti che ha lavorato per il partito negli ultimi anni? Ma soprattutto: come ha fatto in tutti questi anni la Lega, con i conti correnti a secco, a finanziare la propria attività politica? Sono le domande principali a cui prova a rispondere il libro, in un viaggio che parte da Umberto Bossi e arriva fino all’Hotel Metropol di Mosca, teatro di una clamorosa trattativa per finanziare la Lega con denaro russo.

Maroni, dicevamo. Il 2013 è il primo anno targato interamente da lui come capo del Carroccio. Dodici mesi in cui la liquidità del partito passa da 23,2 milioni a soli 6 milioni. In pratica, l’ex ministro dell’Interno è riuscito a spendere quasi un milione e mezzo di euro al mese. “C’era stata una tripla campagna elettorale”, è stata la stringata spiegazione fornita nel 2019 a L’Espresso. Maroni, però, non è mai voluto scendere nel dettaglio, tanto da non aver risposto alle domande inviategli per il libro. Stesso atteggiamento da parte di Stefano Stefani, allora tesoriere del Carroccio, e dai due membri del comitato amministrativo del partito, Silvana Comaroli e Roberto Simonetti: nessuno di loro ha voluto spiegare come sono stati spesi tutti quei soldi in un solo anno. Qualche informazione emerge però dai bilanci del partito e da alcuni documenti inediti. Come la fattura numero 10104, che racconta uno strano pagamento avvenuto quell’anno: 773mila euro usciti dai conti ufficiali della Lega per finire su quelli di Editoriale Nord, cooperativa formalmente estranea al Carroccio (che editava ai tempi il quotidiano la Padania), i cui conti non furono infatti sequestrati dalla Finanza. La stranezza sta nel fatto che – c’è scritto sulla fattura – nel maggio del 2013 la Lega Nord, con Maroni segretario federale, ha acquistato 20.613 abbonamenti online de la Padania. Abbonamenti per soli quattro mesi, da maggio ad agosto del 2013, per un costo totale di 773mila euro. Perché comprare oltre 20mila abbonamenti (un numero infinitamente superiore alla somma di dipendenti e politici eletti dal Carroccio) al quotidiano la Padania, mentre l’inchiesta giudiziaria per truffa procedeva e la possibilità del sequestro si avvicinava? Chi usufruì di quegli abbonamenti? Come detto, né Maroni né gli allora responsabili amministrativi del partito hanno voluto chiarire. E lo stesso hanno fatto su un altro argomento: il possibile trasferimento di soldi all’estero. Scorrendo il bilancio della Lega relativo al 2013 e confrontandolo con quello dell’anno precedente, infatti, balza all’occhio una differenza. Mentre nel 2012 la Lega dichiarava che “tutte le disponibilità liquide sono depositate presso istituti di credito, enti creditizi o finanziari in Italia”, l’anno seguente la frase cambia. E si trasforma in: “Le disponibilità liquide sono depositate in massima parte presso istituti di credito in Italia”. Massima parte significa in teoria che una fetta della liquidità è stata frattanto trasferita all’estero. Un fatto inedito, su cui nessun dirigente del partito ha finora mai fornito un chiarimento.

Ecco i primi big: Morandi, Elisa, Emma. E Vasco super ospite

L’ufficialità dei cantanti in gara ci sarà il 15 dicembre, ma il totonomi per l’edizione 2022 impazza. Chi si è lanciato in una lista di 16 (sui 24 totali: 22 big saranno scelti dalla commissione artistica del festival durante la finale Giovani che promuoverà due cantanti in gara): Gianni Morandi, Emma, Elisa, Boomdabash, Rettore con Ditonellapiaga, Tecla con Alfa, Rkomi, Aka 7Even, Ariete, Orchestraccia, Giovanni Caccamo, Le Vibrazioni, Giusy Ferreri, Moro, Il Tre, Eugenio in Via di Gioia con Elio. Grandi nomi, insomma. E tra i rumors registriamo Vasco super ospite della prima puntata.

Strage funivia, Eitan domani atteso in Italia

Il piccolo Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto all’incidente della funivia del Mottarone, tornerà in Italia domani con un volo da Israele. Il 29 novembre la Corte Suprema di Tel Aviv, confermando le due decisioni prese dal Tribunale dei minori in primo e in secondo grado, ha riconosciuto la zia paterna Aya Biran, residente in Italia, come tutrice legale del bambino. Lo scorso 11 settembre Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan, aveva prelevato il piccolo che risiedeva a Pavia con gli zii, portandolo con sé in Israele. Sull’uomo pende adesso un mandato d’arresto internazionale per sequestro di persona, sottrazione e trattenimento di minore all’estero e appropriazione indebita del passaporto del bambino.

Il delitto di Canosa: “Omicidio volontario”

Torna in carcere il 36enne di Canosa di Puglia, Domenico Bellafede, accusato dell’uccisione di Cosimo Damiano Bologna, 50 anni, aggredito brutalmente per aver difeso un’amica dallo stesso 36enne che la stava importunando come faceva ormai da tempo. L’aggressione risale alla notte tra il 13 e il 14 novembre ed è avvenuta davanti a un bar nel centro di Canosa. Bologna è morto in ospedale dopo due settimane di agonia. L’aggressore era stato inizialmente arrestato per lesioni personali gravi, minacce e stalking e dopo alcuni giorni in carcere aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Dopo la morte del 50enne, il gip ha disposto l’aggravamento della misura cautelare per il più grave reato di omicidio volontario.