Dalla Francia alla Germania i dubbi sui vaccini agli under 12

In relazione alla decisione di Aifa riguardo alla vaccinazione per i bambini di 5-11 anni è opportuno fare il punto della situazione. La Società francese di pediatria – congiuntamente alla Società di patologia infettiva, al Consiglio nazionale di Pediatria, al Gruppo di patologia infettiva pediatrica e all’Associazione di pediatria ambulatoriale – ha emesso, il 15 novembre, un comunicato stampa dal titolo “La vaccinazione contro il Covid-19 dei bambini sotto i 12 anni non è attualmente urgente in Francia”.

Dopo una disamina degli studi sui vaccini Pfizer e Moderna e della situazione epidemica in Francia e negli Stati Uniti, il documento parla di un beneficio individuale molto modesto per i bambini francesi, un beneficio “sociale” molto inferiore per gli scolari francesi rispetto a quelli americani e un beneficio collettivo meno marcato per i bambini rispetto agli adolescenti. Lo studio ipotizza che si debbano valutare i possibili maggiori benefici di una immunità naturale acquisita dopo il contagio, rispetto a una immunità indotta dal vaccino e consiglia di attendere maggiori dati. Nel caso che venisse comunque presa la decisione di vaccinare i bambini, la ricerca consiglia di eseguire test sierologici prima della vaccinazione per escludere i soggetti già immuni. I pediatri francesi concludono così: “Come è stato fatto fin dall’inizio di questa crisi sanitaria, crediamo sia importante non rivolgersi al bersaglio sbagliato: i bambini piccoli sono meno infetti e meno contagiosi del resto della popolazione. Gli adulti devono essere incoraggiati a proteggersi dalle forme gravi di Covid-19 facendosi vaccinare, in modo da proteggere anche gli under 12”.

La Società tedesca di pediatria, congiuntamente alla Società di infettivologia pediatrica e all’Associazione dei Pediatri, ha emesso un comunicato con cui si rallegra dell’autorizzazione di Ema per i bambini di 5-11 anni, ma allo stesso tempo ricorda che il tasso di malattia grave è minimo in questa fascia di età e che il tasso di trasmissione del virus è molto più basso rispetto agli adulti. E auspica pertanto che la raccomandazione a vaccinarsi debba riguardare, per il momento, soltanto i bambini con malattie croniche o rischi speciali; infine ribadisce che la via di uscita dalla pandemia è rappresentata dalla vaccinazione degli adulti.

Il Gruppo tecnico-scientifico Covid-19 dello Spallanzani, diretto dal prof. Vaia, il 18 novembre ha pubblicato una nota in cui afferma: “L’incidenza di ricoveri nei casi pediatrici rimane estremamente bassa, mentre non sono disponibili dati sul long-Covid in questa popolazione. La valutazione di programmi generalizzati di vaccinazione nella popolazione pediatrica sana al di sotto dei 12 anni deve tener conto di molteplici fattori. È chiara la necessità di avere maggiori dati soprattutto sulle eventuali conseguenze a lungo termine della infezione da Sars-CoV-2”.

Anche l’Has (Haute autorité de santé), equivalente francese di Aifa, ha autorizzato l’uso del vaccino Pfizer, ma l’ha raccomandato per i bambini di 5-11 anni che presentano patologie preesistenti. Per l’esattezza, bambini con queste comorbidità: malattia epatica cronica, malattia cardiaca e respiratoria cronica (compresa l’asma grave, malattia neurologica, immunodeficienza primaria o indotta da farmaci, obesità, diabete, tumori maligni ematologici, anemia falciforme, sindrome di Down, malattia renale cronica, handicap neurologico. Aspettiamo adesso, dopo il via libera di Ema, come si esprimeranno le Società nazionali di pediatria degli altri Paesi europei. Concludiamo che il nostro definirci #SmartProVax è in linea con le società scientifiche e invita ad affrontare la pandemia mantenendo la complessità ed evitando schieramenti, banalizzazioni e messaggi uguali per tutti.

*Pediatra ed epidemiologa/biostatistica

 

Il Natale “esclusivo”. A furia di offenderci siamo tutti nemici

Premessa d’obbligo: a noi l’inclusività è sempre piaciuta assai più dell’esclusività, parola che, va ricordato, ha sempre avuto un’elitaria accezione positiva (party esclusivo, località esclusiva) e proprio per questo non ci è mai andata giù. Il motivo della nostra preferenza, meglio precisare, non dipende dall’egoistica convinzione che prima o poi può succedere di trovarsi dalla parte sbagliata del cerchio che delimita chi è dentro e chi è fuori, bensì dal fatto che “insieme è più bello”. Però ora sta accadendo un fatto paradossale: l’eccesso di inclusività diventa un’arma di esclusione di massa. La vicenda del “Natale europeo”, di cui ieri ha scritto Antonio Padellaro, è emblematica: per non offendere qualcuno, si “sconsigliava” di usare una parola che fa parte della nostra società e della nostra cultura, indipendentemente dal credo religioso. Le Linee guida della Commissione europea per la comunicazione inclusiva, specifichiamo per dovere di cronaca, erano a uso interno e non proibivano di usare la parola Natale. Ma per esempio invitavano a evitare espressioni come “Christmas time can be stressful” (Il Natale può essere stressante) in favore di “Holiday time can be stressful”. (Le vacanze possono essere stressanti). Dopo le polemiche, il documento è stato ritirato dalla Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli in quanto “non maturo” visto che “non soddisfa tutti gli standard di qualità della Commissione”. La lingua vive nella comunità dei parlanti e non si cambia con le circolari, dunque è immaginabile che la gente avrebbe continuato a dirsi “Buon Natale”, anche con le direttive “immature” vigenti. Le imposizioni hanno di solito l’effetto contrario a quello desiderato – regola che vale anche per gli asterischi inclusivi ed è nota a tutti i pedagogisti.

Il punto fondamentale di questa piccola storia del Natale Ue – e di milioni di altre che intasano il dibattito pubblico – è il concetto di “noi” e quello di “io”. Noi non vuol dire che siamo tutti perfettamente identici, dentro al noi stanno anche le differenze e il rispetto che si deve a chi non è o pensa come la maggioranza. Ogni io invece pretende di diventare noi, ma in questo modo è impossibile creare una comunità. Nel tentativo di affermare la propria sensibilità come regola c’è una controindicazione fondamentale: chi è destinatario dell’imposizione si sente a sua volta escluso. È il paradosso dell’inclusività forzata: pensiamo che il Natale offenda un musulmano o un ebreo, perché non pensiamo che un cristiano possa essere offeso dalla negazione del Natale? La parola “offesa”, se ci fate caso, è sempre più frequente (insieme a “disagio”): tutti si offendono o sono a disagio per tutto e alla fine non si può più dire nulla senza incappare in un reato di lesa sensibilità. Questo non significa assolutamente non essere attenti alle discriminazioni e alle difficoltà del prossimo, solo non essere ossessionati da una neutralità impossibile: il Natale esiste, anche come festa religiosa; maschile e femminile sono i due generi sessuali prevalenti. Due fatti che non sono contro qualcuno. È un discorso difficile da fare in un momento in cui il dibattito per nutrirsi ha bisogno di posizioni nette e continui scontri all’ultimo sangue. Attenzione però: la semplificazione serve a creare fratture, non a comporle. Le vicende sociali – la religione, la sessualità per esempio – sono più complesse dello schierarsi da una parte o dall’altra dell’asterisco. A furia di intolleranze reciproche, siamo diventati una società di nemici giurati, in cui il fanatismo è il motore di ogni discorso pubblico. La colpa è anche un po’ di chi il discorso pubblico lo gestisce, i media – che non mediano più nulla – e della politica che non vede più i cittadini, ma solo i propri elettori. È, fondamentalmente, una questione di rispetto e di capacità di accettare gli altri. O forse, più banalmente, di volersi tutti un po’ più bene: a Natale e non solo.

 

B. al Colle è il più “unfit”: bestemmia o solo burla?

Lungi da me infilarmi nel rebus-tormentone sulla partita del Quirinale. Ciascun partito, ciascuna corrente di partito, ciascun opinionista sciorina la propria ricetta. A volte con sincerità, a volte coltivando retropensieri, spesso dissimulando preferenze e auspici. Ma un po’ tutti facendo a gara nell’ostentare la cura per l’interesse generale del Paese. Chi invocando il bis di Sergio Mattarella associato alla permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi, chi tifando per l’ascesa di questi al Colle con un suo fiduciario alla guida del governo, chi auspicando che, eletto Draghi, si possa andare al voto.

Soluzioni diverse, come si nota, mosse da un mix di calcolo di convenienza e di sollecitudine per le sorti del Paese. Tutte soluzioni dotate di un qualche grado di plausibilità. Ma c’è un’altra ipotesi che, incredibilmente, è accreditata per davvero e che taluni hanno l’ardire di sostenere pubblicamente. Magari, lo si spera, mentendo: quella di Silvio Berlusconi al Quirinale.

Sulle prime ne abbiamo sorriso giudicandola una ipotesi surreale e, personalmente, mi ostino a considerarla così. Ma la sola circostanza che vi sia chi la prospetti e addirittura la sostenga, anche solo tatticamente, ha appunto dell’incredibile. Questa è la notizia che merita un commento. Sulle infinite ragioni che manifestamente configurano la cosa come una via di mezzo tra la barzelletta e la bestemmia – ragioni morali, politiche, giudiziarie – ne domina una che tutte le riassume: nessuno più dell’ex Cavaliere è stato ed è uomo di divisione. Con che ardire i leader politici possono anche solo prospettarlo senza arrossire, considerando da un lato la oggettiva, insuperata situazione emergenziale (sanitaria ed economica) e, dall’altro, la figura del presidente quale rappresentante dell’unità della nazione, nonché supremo garante della Costituzione? Quella da lui bollata come sovietica, quella che lo designerebbe presidente del Csm e dunque custode dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura.

Che lui ci creda non sorprende, al punto da spacciarsi per ambientalista e fan del Reddito di cittadinanza, più che concavo e convesso. Del resto, qualche giornale si è applicato a fare di conto su come (e a che prezzo) si possano convincere 50 e più “grandi elettori” sul mercato, adottando il metodo De Gregorio.

Ciò che sorprende, ripeto, è che, tra chi sarà chiamato a eleggere il futuro capo dello Stato, vi sia chi non avverta l’enormità della cosa. Basterebbe questo per trarne quattro conclusioni.

Primo: la sconcertante smemoratezza (e il deficit di reattività di senso etico-civile) di un Paese che, stando ai sondaggi, potrebbe dare la maggioranza a uno schieramento, quello capeggiato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che, anche solo tatticamente, si dichiara disponibile a proporre l’improponibile ai vertici dello Stato.

Secondo: l’ipocrisia e l’irresponsabilità di chi così clamorosamente si contraddice a fronte della ostentata consapevolezza dell’unità richiesta da un tornante critico della nostra storia.

Terzo: l’affronto allo spirito e alla lettera della Costituzione, della quale la terzietà e l’equilibrio del presidente della Repubblica sono un caposaldo.

Quarto: se qualcuno nutrisse dubbi al riguardo, basterebbe questa circostanza, ossia che lui ci creda e ci punti, a smentire la rappresentazione di Berlusconi come statista affidabile, moderato, liberale, garantista. L’opposto del Caimano che fu. Se così fosse, lui per primo dovrebbe comprendere di essere, di tutti, il più controindicato. Il più unfit per il Quirinale.

 

Addio a Pierre Cointreau, 94 anni: fu l’inventore degli stecchini da datteri

L’uomo che inventò le stecchino da datteri. Con le festività natalizie, nei supermercati ritornano golosità tradizionali come i datteri della Tunisia, le cui confezioni incellofanate comprendono spesso uno stecchino di plastica giallina a punta biforcuta, l’asta sagomata a rametto: un esempio di kitsch pregevole. Chi lo ideò?

L’inventore dello stecchino da datteri, l’attrezzo che rivoluzionò il modo di degustarli, fu Pierre Cointreau, un designer, nel 1952, per conto del protettorato francese in Tunisia: è morto a Parigi la settimana scorsa a 94 anni. I primi studi sull’uso di utensili per inforcare datteri risalgono alla fine dell’800, ma solo negli anni 30 del 900 arrivarono i primi brevetti. I maggiori risultati in questo senso furono raggiunti in Germania, dove già nel 1935 la Aeg presentò lo Speer, un ingombrante ma efficace stecchino delle dimensioni di un giavellotto: il suo utilizzo, però, richiedeva la perizia di un campione olimpionico, cosa che non lo rendeva adatto all’uso privato. Questo si diffuse solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale grazie appunto a Pierre Cointreau, all’epoca un ufficiale dell’esercito francese, cui fu chiesto di carpire quante più informazioni possibili sullo stecchino/giavellotto usato dai nazisti, che era forgiato in una leggerissima lega segreta (titanio?) e dotato di una tv a circuito chiuso messa a punto dal team di von Braun a Peenemünde, stecchino/giavellotto che si diceva fosse in grado, se lanciato da Berlino, di infilzare datteri a Londra. Grazie allo spionaggio industriale di Cointreau, che alla bisogna si travestiva da palma, rischiando spesso la vita, la tecnologia per la fabbricazione di uno stecchino da datteri pratico, leggero e resistente fece notevoli e rapidi progressi, passando dal suo laboratorio alle tavole dell’ambasciata francese a Tunisi e infine nelle case di tutti. Nel 1952 Cointreau presentò la prima versione dello stecchino a rametto con punta biforcuta. Era ancora troppo lungo (circa mezzo metro), ma, intuendo che ci potessero essere grandi margini di miglioramento, all’inizio degli anni Sessanta il Primo ministro Habib Bourguiba chiese al team di Cointreau di progettare qualcosa di più piccolo e più maneggevole. Il team era formato da 40 giovani ingegneri francesi e belgi con ottime competenze negli utensili domestici. Per cominciare, Cointreau tagliò con un coltellino svizzero un pezzetto di legno per far vedere quanto voleva fosse grande lo strumento. Da lì fu sviluppato il prototipo in ghisa. La parte più difficile fu quindi lavorare sulla foggia, che doveva avere tre requisiti principali: praticità, buona fiocinatura, gradevolezza retinica. Per riuscire nell’intento, Cointreau scese a una serie di compromessi sul materiale, passando dall’oro all’argento, all’acciaio, all’alluminio, alla liquirizia e infine al polipropilene (moplen). Lo stecchino di liquirizia non era affatto male, ma nei test i soggetti tendevano a ciucciare quello, ignorando i datteri. Lo stecchino definitivo fu presentato il 30 agosto 1963 in un evento di settore organizzato a Parigi, ottenendo qualche apprezzamento, ma senza che la stampa ne parlasse come di qualcosa che avrebbe potuto cambiare il modo in cui i datteri venivano delibati. Grazie al viaggio che Cointreau fece l’anno dopo in Giappone, dal quale tornò con un accordo che prevedeva che la Sony potesse usare liberamente il suo brevetto, lo stecchino di Cointreau si impose però come lo standard principale nel mondo. Della sua invenzione straordinaria, Cointreau parlò sempre con grande umiltà: “Eravamo dei ragazzi che si divertivano, non c’era la sensazione che stessimo facendo qualcosa di grande. Poteva arrivarci chiunque”.

 

Supermario salva la scuola, ma da chi?

A Palazzo Chigi è Natale ogni giorno. Il Santa Claus della politica italiana è sempre l’idolo della stampa quotidiana. Babbo Draghi salva la scuola! E giù applausi per l’intervento del premier che smentisce il suo stesso governo. Il Sole 24 Ore: “Caos scuola, interviene Draghi. Niente Dad con un positivo”. La Stampa: “Draghi ordina la retromarcia: ‘Niente Dad con un contagio’”. Repubblica: “Si torna in Dad, anzi no. La scuola in presenza salvata da Draghi”. Il Foglio: “Draghi e Figliuolo mettono in sicurezza la scuola in presenza”. Evviva evviva. Un po’ ovunque si magnifica la lucida imposizione del premier che salva i destini dei nostri adolescenti, molto meno frequenti invece – specie nei titoli dei giornali – i nomi e i cognomi dei responsabili della prima circolare, quella per cui in ogni classe sarebbe scattata la didattica a distanza dopo un solo tampone positivo. Insomma, ci dicono chi ha risolto il “pasticcio” – Draghi, of course – ma ci dicono molto meno chi l’ha combinato. Il ministro Bianchi ha nulla da dichiarare? E quanto erano belli i tempi in cui si facevano polemiche sui banchi a rotelle?

Fuoco amico sul “no tutto” signor Borghi

In certi antichi film sulla guerra del Vietnam emozionava la scena dei marines dispersi nella giungla che scrutavano il cielo nell’attesa, spesso vana, di un elicottero che venisse a salvarli. Un po’ quello che sta capitando al simpatico Claudio Borghi Aquilini, indomito deputato leghista no-vax, no-green pass, no-euro, no-Ue (e magari anche no-var e no-bar), definito “la nostra sciagura” dagli irritati leghisti sì-vax.

Bersagliato dal fuoco amico il poveretto ha balbettato che le sue posizioni “sono quelle di Salvini”, mentre scrutava il cielo orribilmente vuoto. Perché triste è la sorte delle truppe, disperse e smarrite, del negazionismo, dei crociati dio, patria, famiglia mollati sul più bello dall’ex capitano (insieme al rosario da sbaciucchiare). Sì, da quel Matteo imboscatosi nei governi delle élite manovrate dall’alta finanza cosmopolita.

Un leader perfino in odore di collaborazionismo dopo avere disertato, all’ultimo momento, il vertice di Varsavia che doveva unire i sovranisti europei. Del contrordine compagni nessuno deve avere avvertito il trentenne Lorenzo Gasperini, consigliere livornese del Carroccio, che invano continua a sbracciarsi sostenendo che “i vaccinati dovrebbero essere esclusi dalla vita sessuale perché non appetibili agli occhi dell’altro sesso”.

Affermazione piuttosto contorta, ma che alla luce di una precedente affermazione (“se non sei omosex e vaccinato non sei nessuno, vieni discriminato”) sembrerebbe rivelare frequentazioni su Tinder non del tutto soddisfacenti. Comunque, un qualche rinnegato lo ha sospeso. Non v’è chi non veda che a furia di tenere il piede in due staffe il Salvini di lotta e di governo sta conducendo la Lega in una progressiva crisi di identità, nella confusione delle idee, in una visione smemorata della propria storia.

Martedì sera, a Otto e mezzo, Gad Lerner ha chiesto alla collega Giorgia Pacione Di Bello: “Leggo che sei di Radio Padana Libera, ma libera da che cosa? Siete nazionalisti o secessionisti?”. Boh.

La falce al “Sole”: taglio di un quinto al costo del lavoro

Le avvisaglie c’erano già da quest’estate, ma ora è arrivato per Il Sole 24 Ore il redde rationem sull’ennesimo, duro taglio dei costi. Domani l’assemblea dei giornalisti del quotidiano di Confindustria dovrà ratificare (o meno) il piano di ristrutturazione presentato dall’azienda. Il progetto prevede esuberi per almeno 50 giornalisti, di cui 26-28 al quotidiano e gli altri tra l’agenzia di stampa Radiocor, Radio24 e altre aree del gruppo. Un piano che punta a un taglio strutturale di almeno il 20% dei costi del personale, 79 milioni l’anno, pari cioè a 16 milioni di risparmi. Realizzato con lo strumento dei prepensionamenti per i nati prima del 1960 e con l’uso della cassa integrazione (uno-due giorni al mese) per l’intera redazione. Non basta: c’è anche la chiusura della stamperia di Carsoli (L’Aquila) e ci saranno 73 trasferimenti di grafici e poligrafici da Roma a Milano. Gli oneri di ristrutturazione verranno in buona parte già spesati nel bilancio di fine anno, anticipando così i costi nel primo anno del nuovo piano industriale 2021-24.

Un piano ambizioso, quello voluto a febbraio dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che già quest’estate aveva messo le mani avanti, prospettando un taglio importante dei costi e liberandosi del prestito garantito dalla Sace per emettere un più oneroso bond quotato da 45 milioni pur di poter procedere con la ristrutturazione dei costi. Dopo un decennio tragico con perdite cumulate per oltre 300 milioni, dal 2018 il gruppo editoriale ha ritrovato un equilibrio tra ricavi e costi, con il margine industriale che è tornato in positivo. Ma ammortamenti e svalutazioni pesano ancora sui conti del Sole, tanto che il gruppo chiude tuttora in perdita netta. Bonomi si deve essere stancato di vedere l’unico asset industriale di Confindustria perennemente in rosso nell’ultima riga di bilancio. Così il presidente degli industriali rilancia. Il piano 2021-24 del Sole 24 Ore infatti prevede un vero e proprio balzo del fatturato che dovrebbe passare da ricavi per circa 200 milioni attesi per quest’anno a ben 245 fra tre anni, in crescita di oltre il 20%, mentre il margine industriale dovrebbe salirebbe da poco più di 13 milioni segnati nella trimestrale di settembre a 54, in crescita esplosiva di ben quattro volte e con una redditività lorda sul fatturato di oltre il 20%, cosa che per ora neanche il gruppo editoriale più in salute, Rcs, sa ottenere. Ma mentre i ricavi futuri sono per loro natura imponderabili e dunque quasi un atto di speranza, i costi invece sono direttamente gestibili dalle aziende. Ecco che il padrone del Sole si porta avanti con un taglio forte. Così che, se i ricavi non mantenessero le promesse, il margine (e gli utili) sarebbero comunque al sicuro.

Già il 2021, che speserà buona parte degli oneri di ristrutturazione, vedrà in calo sia il margine operativo lordo che il risultato operativo e quindi si segnerà ancora un anno di perdita netta, ma l’azienda scrive in un comunicato che non sarà tale da inficiare il target finale. Intanto il Sole punta sempre più sul digitale, a frenare l’emorragia (come per altri giornali) delle copie cartacee. A settembre, secondo gli ultimi dati Ads, con una tiratura media di 77mila copie il quotidiano economico vende in edicola 30mila copie, cui si sommano 14mila abbonamenti cartacei. Il digitale vale 56mila copie. Le vendite reali pagate valgono in totale 100mila copie cui se ne aggiungono 13mila cosiddette “multiple”. La corsa del digitale c’è tutta, ma con un prezzo unitario che vale un terzo della copia cartacea ce ne vuole di copie aggiuntive per compensare il drastico calo delle vendite in edicola. Oggi il Sole vende in tutto meno della metà delle copie del Corriere della Sera, due terzi di Repubblica e in edicola meno della metà delle copie della Stampa. Sfida quindi tutta da vincere. Che però parte ancora una volta dall’obiettivo più facile, quello della scure sui dipendenti. Basti pensare che il Sole tra cessioni e uscite è passato negli anni da quasi 2mila dipendenti a poco più di 800 con ricavi più che dimezzati dal 2008.

Doppia casta in azione per salvarsi la pensione

Nell’audizione sul bilancio di previsione dello Stato per il 2022, la Corte dei Conti a sezioni unite ha “bocciato” l’articolo 29 sul salvataggio delle “pensioni d’oro” della Cassa previdenziale privatizzata Inpgi 1, la parte – più pagata e più influente – degli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Pensioni che verranno trasferite integralmente a carico del sistema pubblico, cioè dell’Inps, senza nemmeno un ricalcolo in base ai contributi effettivamente pagati. “La norma presenta profili di problematicità, potenzialmente idonei a provocare, tra l’altro, effetti emulativi di portata sistemica”, hanno dichiarato i magistrati contabili. In pratica, il precedente dell’Inpgi 1 potrebbe invogliare anche altre Casse autonome (oltre un milione e mezzo i professionisti iscritti) ad attribuirsi “pensioni d’oro”, gonfiate da parametri iper-favorevoli e altri privilegi non sostenibili, contando sul successivo aiuto dello Stato. La Corte dei Conti ricorda di aver ripetutamente e inutilmente richiamato l’“esigenza di adottare severe misure di risanamento in assenza delle quali non sarebbe (stato) possibile garantire il necessario equilibrio dei conti” dell’Inpgi, colpiti dalla crisi dell’editoria, ma anche da esborsi eccessivi: perché “gli squilibri in essere scontano l’erogazione di trattamenti pensionistici decisamente privilegiati nel confronto con altre gestioni del comparto privato e pubblico e segnati da aliquote di rendimento riconosciute sulla parte retributiva dell’assegno sensibilmente superiori a quelle prevalenti in altri comparti”.

Il salvatore dell’Inpgi 1 è il premier Mario Draghi con il suo “Governo dei Migliori” e l’appoggio trasversale praticamente di tanti politici. Draghi, che ha fama di “Robin Hood al rovescio”, che toglie ai poveri per dare ai ricchi, ha deciso di fare questo maxi-regalo alla minoranza privilegiata dei giornalisti dipendenti, che non include i giovani con stipendi bassi né la massa dei precari, sfruttata dagli editori e ghettizzata nel penalizzante Inpgi 2. L’Inpgi 1, oltre a giornalisti, accoglie portaborse, asserviti, lottizzati, faccendieri, direttori affossatori di giornali, residenti in paradisi fiscali, soggetti risultati a libro paga di imprese, banche, enti, perfino servizi segreti. E, soprattutto, una folla di politici di mestiere.

Un esempio è la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che tuona contro il Reddito di cittadinanza e inclusione sociale anti-povertà, ma sembra appoggiare il salvataggio – a spese dello Stato e dei contribuenti – delle “pensioni d’oro” dell’élite degli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Meloni conosce bene il problema perché è tra i cosiddetti “politici di mestiere & giornalisti Inpgi 1” che – per un antico “inciucio” – hanno acquisito la tessera dell’Ordine di categoria, in genere con un periodo in giornali di partito (finanziati dallo Stato). Poi, da parlamentari, possono incamerare contributi figurativi gratis dell’Inpgi 1 per decenni, maturando una seconda “pensione d’oro” aggiuntiva al “vitalizio d’oro”. Meloni sa che è imbarazzante: non a caso quando le è stato contestato ha subito precisato di aver rinunciato al raddoppio. Ma perché, da leader dell’opposizione, non tuona contro il governo Draghi? Per solidarietà con i tanti colleghi con la seconda “pensione d’oro”? O appoggia l’alleato della Lega, Matteo Salvini, che ha sostenuto l’Inpgi 1 delegandone il salvataggio al sottosegretario Claudio Durigon, che esordì dicendo “l’Inpgi va salvato a prescindere” ma che poi è saltato per uno scandalo fascio-leghista? Salvini, che fu per un periodo a Radio Padania, sta maturando la “pensione d’oro” aggiuntiva al vitalizio?

Aiuterebbe l’Inpgi 1, da Bruxelles, anche il Commissario Ue per gli Affari economici ed ex premier del Pd, Paolo Gentiloni, detto “er moviola”, tramite due sodali: Antonio Funiciello, potente capo di gabinetto del premier Draghi e consigliere d’amministrazione dell’Inpgi, che guidava lo staff di Gentiloni a Palazzo Chigi, e il portavoce e deputato Pd, Filippo Sensi, promotore di un emendamento pro-Inpgi 1. “Er moviola” passò un periodo in una testatina di ambientalisti. Il Fatto gli ha chiesto se è nell’Inpgi 1. Ha risposto “no comment”. La domanda gli è stata riproposta e lui resta in silenzio. Forse perché, da Commissario Ue, dovrebbe richiamare Draghi a contenere la spesa pensionistica? Dovrebbe far verificare all’Antitrust Ue se sono regolari gli aiuti di Stato erogati ai privilegiati di un fondo privato? Avrebbe dovuto dichiarare l’Inpgi 1 tra i suoi molti interessi finanziari? O tutela “l’inciucio”? In Europa un altro sostenitore del salvataggio è l’ex presidente dell’Europarlamento e “braccio destro” di Silvio Berlusconi, Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia ed ex del Giornale. Anche l’attuale numero uno dell’Assemblea comunitaria di Strasburgo e Bruxelles, David Sassoli del Pd, è un “politico & giornalista”, ex della Rai. Tajani e Sassoli come sono messi con la seconda “pensione d’oro” dell’Inpgi 1?

I giornalisti dovrebbero controllare i politici. Quindi, un ruolo escluderebbe l’altro. In Italia c’è l’Ordine obbligatorio, che non esiste nei principali Paesi democratici e che la pensa al contrario. Quanti sono i politici due volte privilegiati con la rendita gonfiata dell’Inpgi 1? “Tantissimi in 51 anni e mezzo” sostiene Pierluigi Franz, uno dei sindaci (cioè dei controllori interni della gestione e dei conti) della Cassa, perché – oltre a parlamentari nazionali ed europei – ne sono gratificati “governatori di Regioni, consiglieri regionali e sindaci di grandi città”. Così “l’inciucio” tra il Palazzo e l’Ordine (con l’avallo del sindacato Fnsi), può beneficiare anche politici di mestiere locali con un periodo in testatine e house organ periferici. “Per di più costoro, fino al 1999 – ha spiegato Franz –, si sono visti assurdamente pagare dall’Inpgi 1 addirittura la quota che doveva essere trattenuta per legge come lavoratori se fossero rimasti in servizio. Questa norma cambiò solo dopo una meritoria campagna di stampa condotta da Vittorio Feltri sul Giornale”. Ora almeno si devono versare la parte minore per avere i contributi figurativi gratis.

Negli anni 90 il Giornale di Feltri si dissociò, insieme al manifesto, dallo sciopero generale dei media, indetto dal sindacato Fnsi (appoggiato dall’Ordine) per ottenere la privatizzazione dell’Inpgi. La protesta servì a evitare i tagli imposti dallo Stato al sistema previdenziale pubblico dei comuni cittadini. Così rimasero le “pensioni d’oro” e altri privilegi (contributi più bassi e rivalutazione più alta rispetto all’Inps, rendite anticipate per cinquantenni, mutui agevolati, generosi sussidi di disoccupazione, eccetera). Il Corriere della Sera, che rivelò lo scandalo dei “vitalizi d’oro”, sollevò dubbi di correttezza e di sostenibilità nel tempo sulla privatizzazione. In caso di insolvenza, lo Stato avrebbe dovuto garantire solo la pensione sociale minima. Ma prevalse la convinzione che i potenti “politici & giornalisti Inpgi 1” avrebbero comunque salvato la Cassa privata con denaro pubblico per non perdere la seconda “pensione d’oro”. Feltri è neo “politico & giornalista” al Comune di Milano per Fratelli d’Italia. Ha ammesso la pensione Inpgi 1 maturata “a 54 anni” da “circa 180mila euro” (lontana dalle più ricche della Cassa). Ora non denuncia più. Tace anche il M5S anti-privilegi.

Nel 2011 il Giornale indicò come “politici & giornalisti Inpgi 1” Massimo D’Alema e Walter Veltroni del Pd, Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri della destra, il centrista Clemente Mastella. A D’Alema chiese provocatoriamente di rinunciare alla seconda “pensione d’oro”. In uno scontro in tv, Fini accusò Veltroni di essere un baby percettore del vitalizio parlamentare: secondo varie fonti 9.850 euro mensili quando aveva solo 49 anni (poi ridotti per i ricalcoli promossi dal M5S). Ma i due politici di mestiere sorvolarono sulle seconde rendite Inpgi 1, relative a periodi negli organi di partito Secolo d’Italia e Unità. In Parlamento ce ne sarebbero varie decine di ogni colore, che pressano per aiutare Draghi nel salvataggio. Meloni, Salvini, Gentiloni, Tajani, Sassoli e i loro colleghi, però, dovrebbero capire che la seconda “pensione d’oro” ai “politici & giornalisti” finora la pagava la Cassa privata. Se Draghi scarica sullo Stato questo maxi-regalo ai privilegiati, gli elettori che pagano le tasse lo apprezzerebbero?

Prese in giro, favori alla Chiesa, rinvii: nell’Aula del Senato arriva il “dl Fisco”

Qualche concessione qua e là perlopiù a costo zero, un regalo alla Chiesa (che paga il Comune di Roma) e una serie di toppe e mini-rinvii che poco serviranno ai contribuenti, soprattutto a quelli che hanno subito gli effetti economici della pandemia. Eccolo il decreto fiscale, collegato alla legge di Bilancio, approvato martedì notte nelle commissioni Finanze e Lavoro al Senato. Svariati gli emendamenti bocciati negli scorsi giorni per i quali non sono state trovate le coperture e diverse misure inserite in extremis per accontentare pochi a scapito dei più. Sul testo il governo porrà la fiducia. Una breve carrellata delle misure più importanti.

 

Cartelle. Sono solo 9 i giorni in più (dal 30 novembre al 9 dicembre) concessi per il pagamento della rottamazione-ter e del saldo e stralcio, la cui scadenza era prevista il 30 novembre. Si tratta delle cartelle rimaste bloccate per un anno e mezzo a causa del Covid e che l’Agenzia delle Entrate ha iniziato a notificare da settembre. Anche se per effetto dei 5 giorni di tolleranza previsti la scadenza slitta al 14 dicembre, sembra una concessione misera visto che entro metà mese andrebbero pagate 8 rate di rottamazione ter e 4 del saldo e stralcio. Trenta giorni in più sono stati, invece, concessi per il pagamento delle normali cartelle esattoriali.

 

No Tari sulle basiliche. L’emendamento firmato dal presidente della commissione Finanze del Senato Luciano D’Alfonso (Pd) esenta il Vaticano dal pagamento della tassa sui rifiuti (Tari) per numerosi immobili di Roma, tra cui le basiliche di San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo o il palazzo pontificio di Castel Gandolfo. Una decisione che va contro la sentenza della Cassazione dello scorso maggio che ha dato ragione all’Ama (la municipalizzata del Comune di Roma) obbligando il Vaticano a pagare gli arretrati. La Chiesa si era appellata ai Patti Lateranensi che esentano dal pagamento dei tributi il patrimonio immobiliare. Ora per il futuro nulla sarà più dovuto.

 

Imu prima casa. Stretta sull’imposta per le prime case per i coniugi che risiedono in due immobili in Comuni differenti e che non pagano così l’Imu. D’ora in poi, invece, l’esenzione varrà solo per un’abitazione a famiglia, mentre sull’altra va pagata l’Imu.

 

Genitori separati. Un emendamento leghista prevede un aiuto fino a 800 euro al mese per pagare l’assegno di mantenimento a figli o ex coniugi, in caso di difficoltà economiche. Per ora c’è poco da esultare: il come e il quando verranno erogati i 10 milioni previsti, va ancora deciso.

 

Assegno di invalidità. Per placare le polemiche delle scorse settimane, alla fine è stato approvato un emendamento che ripristina l’assegno di invalidità per gli invalidi parziali che prestano attività lavorativa con reddito fino a 4.931,29 euro, importo su cui non si pagano le tasse. Due sentenze della Corte di Cassazione a metà ottobre hanno portato l’Inps a sospendere l’erogazione dell’assegno d’invalidità, limitandolo solamente a chi è in uno stato di inoccupazione. Tutti i partiti avevano chiesto il dietrofront.

 

Patent box. Altro fronte su cui, senza successo, si sono unite le forze politiche, è la richiesta al governo di rivedere le novità sul regime opzionale di tassazione agevolata sui redditi derivanti dall’utilizzo di software protetti da copyright e brevetti industriali, contestata da più parti, in particolar modo da Confindustria. Mise e Mef si sono solo impegnati a riformulare la norma nelle prossime settimane in manovra.

 

Interinali. Fa discutere un emendamento M5S che, a partire dal 30 settembre 2022, resuscita il limite di 24 mesi (tolto nel 2020) all’impiego dei lavoratori con contratto di somministrazione. Per Nidil-Cgil, così si spinge la precarietà: le agenzie interinali non assumeranno più a tempo indeterminato.

 

Tetto contante. Resta il limite che dal 2022 scende a mille euro, ma si alza quello per le operazioni di cambiavalute che viene riportata a 3.000 euro, come era fino a luglio 2020.

Delega fiscale, l’Upb: “È troppo generica, a rischio le coperture”

Troppo generica, contraddittoria nelle coperture finanziarie e, soprattutto, non risolve le questioni più rilevanti. Il disegno di legge delega di riforma fiscale, che ha ottenuto il via libera dalle commissioni del Senato, non è uscito dal ponderoso lavoro di una commissione di esperti, come aveva annunciato al Parlamento il premier Mario Draghi, ma dalla mediazione politica tra i partiti. E, per l’Upb, si vede.

Il presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Giuseppe Pisauro, ha trasmesso alla Commissione Finanze della Camera, su richiesta, una memoria sui singoli articoli che fornisce una valutazione complessiva del provvedimento. Le conclusioni sono impietose: “In generale – si legge nel documento – i principi e i criteri individuati sono condivisibili ma talvolta troppo indeterminati”. Inoltre “mancano alcuni elementi di indirizzo fondamentali per un ridisegno complessivo e organico del sistema tributario”. Una carenza che riflette “da un lato, l’eterogeneità dell’indirizzo politico e, dall’altro, il fatto che la formulazione del dl Delega non sia stata preceduta dai lavori di una commissione di esperti”.

Questo rischia di richiedere, avverte ancora l’Upb “nell’immediato un ampio sforzo parlamentare per integrare alcuni di questi elementi e, dall’altro, di allungare i tempi di attuazione della delega stessa”. Ma non è tutto. Nella memoria trasmessa da Pisauro si rileva che non si affrontano questioni rilevanti “come le principali cause dell’erosione dell’imposta e delle basi imponibili” e una razionalizzazione e riduzione delle tax expenditure, la famosa giungla di detrazioni e deduzioni di ispirazione clientelare che manomettono alle radici l’equità e la progressività delle principali imposte, a partire dall’Irpef.

Gli economisti dell’Upb chiedono un esplicito riferimento all’equità generale del sistema tributario “in senso non solo verticale (progressività) ma anche orizzontale (eguale prelievo a fronte di eguale capacità contributiva) e invocano “adeguati principi direttivi per la revisione delle imposte patrimoniali”. In un assetto duale delle imposte (redditi personali e da capitale) non trovano poi giustificazione “regimi agevolati su redditi di capitale” quali quelli applicati sulla locazione degli immobili (cedolare secca), sui rendimenti dei titoli di Stato e sui dividendi da Piani di risparmio a lungo termine (Pir), nonché l’eventuale “esenzione dei redditi figurativi sull’abitazione principale”. Per quanto riguarda la preannunciata abolizione dell’Irap, la delega risulta “troppo indeterminata, sia per quanto attiene alle modalità di abolizione graduale dell’imposta, sia rispetto alla necessità di garantire il finanziamento del fabbisogno sanitario”.

Per quanto riguarda gli effetti finanziari, “il finanziamento della riforma deve avvenire prioritariamente attraverso una ricomposizione del prelievo” senza oneri per lo Stato. Insomma se qualcuno paga meno, qualcun altro dovrebbe versare di più.