“Dosi agli under 12: c’è sottovalutazione dei rischi pur se rari”

L’Aifa ha dato il via libera alla vaccinazione con Pfizer dei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Il direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma, Enrico Girardi al Fatto contestualizza tale scelta, evidenziando però anche alcune criticità.

Direttore, innanzitutto qual è il rischio dovuto a Sars-CoV2 per i bambini?

Il Covid-19 nei bambini senza patologie preesistenti è nella quasi totalità una malattia lieve e con manifestazioni cliniche praticamente assenti: i dati disponibili sono chiari. Il rischio di complicanze è davvero molto raro.

Aifa però ha preso la decisione. Ora che succede?

L’Agenzia può darne la possibilità, dicendo che si può fare. Poi, però, le politiche vaccinali sono una partita diversa, dove Aifa non entra.

Cosa si aspetta dal 23 dicembre?

Dico che vaccino è consigliato per bambini che hanno patologie croniche come diabete, malattie cardiovascolari, neoplasie, patologie a livello immunitario. Per i sani andrà valutato all’interno di una strategia generale, complessiva. Allo stato attuale la priorità è per gli adulti.

La Slovenia ha bloccato J&J dopo il decesso di un 22enne. Anche nel sistema americano Vaers sono stati segnalati decessi in giovanissimi, anche con vaccini a mRna. Che significa, è preoccupante?

Ogni caso merita una valutazione ad hoc. Non possiamo sottovalutare questo aspetto, è necessario capire se ci sono eccessi di eventi avversi sopra la media. Gli eventi collaterali rari si vedono su grandi numeri, è difficile che un trial per quanto grande faccia vedere effetti collaterali rari.

Stando ai dati riportati dai Cdc (centri di controllo e prevenzione delle malattie Usa) oltre il 40% dei bambini avrebbe già avuto il Covid. In Italia?

Non abbiamo questi dati. I possibili vantaggi di una vaccinazione nei bambini “guariti” potrebbero essere estremamente limitati. La scelta vaccinale va valutata accuratamente, soppesandoli in relazione al rischio di eventi collaterali, anche rari.

In Gran Bretagna il richiamo vaccinale è stato ridotto a 3 mesi. È questa la strada che percorreremo anche noi?

Non sappiamo ancora l’effetto del booster su grandi numeri. Un’osservazione di questo tipo va fatta su larga scala. Mi sembra prematura qualsiasi considerazione. L’ipotesi di vaccinare con richiami continui è prematura.

Alcuni suoi colleghi hanno sostenuto che la terza dose sarebbe stata l’ultima, mentre altri, come Alberto Mantovani, hanno parlato esplicitamente di quarta dose. Cosa succederà dopo il terzo richiamo?

Esiste ancora un dubbio, bisogna capire se il booster abbia effetti diversi dal ciclo di base. Mi spiego: abbiamo visto che in molti casi il richiamo non si limita a ripristinare il livello anticorpale, ma dà qualcosa in più, questo potrebbe tradursi in una persistenza temporale maggiore, ma non lo possiamo sapere. Se stiamo andando verso un sistema di vaccinazioni periodiche, non è dato sapersi. Ora non possiamo saperlo.

Dopo le incertezze sulla Dad, cosa ne pensa della strategia definita per la scuola?

Mettendo tutta la classe subito in quarantena si hanno effetti a cascata su insegnanti, classe, genitori che vanno pesati. Ora, se c’è un solo caso positivo, la classe non va in quarantena, mi sembra una scelta che tiene in considerazione vari elementi in modo corretto.

Tante vittime come 6 mesi fa. Da Aifa ok a Pfizer per i bimbi

Numeri da brivido. In Italia ieri sono stati rilevati 15.085 nuovi casi di Covid-19 (12.744 martedì) 103 morti (89 martedì). La quarta ondata, nel Paese vaccinato quasi all’80% con Green pass e in attesa (lunedì) di super Green pass, supera altre soglie psicologiche. I contagi sono ai livelli di aprile, quando i vaccinati erano meno del 50% e i morti quasi tre volte di più. Cento decessi in un giorno, però, non li vedevamo da giugno: sono destinati ad aumentare ancora perché dipendono dalle infezioni cresciute nelle scorse settimane.

Salgono più lentamente anche i numeri degli ospedali: ieri 62 nuovi ingressi nelle terapie intensive, compensati da 59 uscite anche per esito infausto, hanno portato il totale dei pazienti in rianimazione a 686, sempre più vicino a quei 1.000/1.200 che, secondo le organizzazioni degli anestesisti, cominciano a mettere in difficoltà gli ospedali. Oltre al Friuli-Venezia Giulia, già in zona gialla per quanto poco significhi l’obbligo di mascherine all’aperto, cambierà colore la Provincia autonoma di Bolzano mentre dovrebbero evitarlo il Lazio e l’Umbria, dove i pazienti Covid hanno superato il 10% delle terapie intensive (calcolato peraltro su posti per un terzo teorici, come già documentato dal Fatto il 23 novembre) ma non il 15% dei reparti ordinari. Alla zona arancione, che comporta restrizioni vere almeno per chi non è vaccinato o guarito, si arriva solo con un disastro sanitario. Sono 5.248 i pazienti nei reparti ordinari, aumentati ieri di 21 unità.

È la variante Omicron, presente in Europa almeno da metà ottobre, a far salire i contagi? Non lo sappiamo. Gli scienziati hanno bisogno ancora di qualche giorno per quantificare la sua maggiore diffusività e quindi la sua capacità di soppiantare la Delta, tuttora dominante. Per il momento dicono che non provoca quadri clinici gravi ma potrebbe ridurre, più della Delta, la capacità dei vaccini di evitare l’infezione.

L’Agenzia italiana del farmaco Aifa ha dato ieri il via libera, secondo le indicazioni dell’europea Ema, alla vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Si comincerà il 23 dicembre, due dosi pari a un terzo di quella ordinaria del vaccino Pfizer, l’unico approvato per i bambini. Nella comunità scientifica molti hanno espresso perplessità. Sul fronte della sicurezza, confortano gli esperti i dati degli Stati Uniti dove sono stati vaccinati circa tre milioni di bambini tra i 5 e gli 11 anni e le segnalazioni di effetti avversi, in particolare di tipo infiammatorio, sono inferiori a quelle riportate per la fascia d’età superiore. Per gli under 12 non ci sarà Green pass. “Sebbene l’infezione da SarS-CoV-2 sia sicuramente più benigna nei bambini – ricorda Aifa –, in alcuni casi essa può essere associata a conseguenze gravi, come il rischio di sviluppare la sindrome infiammatoria multisistemica (MIS-c), che può richiedere anche il ricovero in terapia intensiva”. Lo scopo delle vaccinazioni, chiarisce l’agenzia, è garantire “la possibilità di frequentare la scuola e condurre una vita sociale connotata da elementi ricreativi ”.

Migliaia di classi sono finite in Dad (didattica a distanza) anche per i ritardi delle Asl nell’eseguire tracciamento e tamponi quando ci sono casi di positività. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, martedì, ha costretto i ministri dell’Istruzione e della Salute a ripristinare, per gli over 12, la regola della Dad solo con tre contagi. Un aiuto alla Asl verrà dalla Sanità militare mobilitata dal generale Francesco Paolo Figliuolo. Undici laboratori in otto Regioni, più due strutture mobili, processeranno i tamponi delle scuole: il governo avrebbe potuto pensarci prima. Il commissario promette anche “team mobili” per il tracciamento e nella somministrazione anche “a domicilio” dei tamponi. Purtroppo però anche gli organici della Sanità militare sono limitati.

Le parole per dirlo

La valanga di firme che ha subito accolto la nostra petizione contro l’incubo di B. capo dello Stato è indice di una repulsione tanto ampia quanto trasversale: abbiamo la presunzione (speriamo non l’illusione) che la stragrande maggioranza degli italiani, a parte gli irriducibili elettori di Forza Italia, presi a tu per tu ritengano vergognosa, o almeno ridicola, la sola ipotesi che uno così possa ascendere al Quirinale. Eppure nessun leader dei maggiori partiti ha il coraggio di dirlo fuori dai denti. Che non lo dicano Salvini e Meloni, anche se probabilmente lo pensano, è ovvio: sono suoi alleati, hanno imbarcato e riciclato pezzi della sua classe dirigente (anzi digerente), sperano di ereditarne i pochi voti rimasti, beneficiano dei favori dei suoi giornali e delle sue tv, e sanno che basta un lieve dissenso, una pallida critica, per finire massacrati e sputtanati come Fini, Boffo e tutti gli altri “amici” che hanno osato allontanarsi da Arcore. Che non lo dica l’Innominabile, è scontato: a parte l’ammirazione dell’allievo ripetente per il maestro, se al prossimo giro quello non gli regala un seggio sicuro, è politicamente morto, più di quanto già non sia. Che non lo dicano Conte, Letta & C. è invece stupefacente. Finora si limitano a precisare che B. non è il loro candidato: e ci mancherebbe pure. Ma, quando spiegano il perché, balbettano frasi politichesi che lasciano basiti milioni di loro elettori, abituati da 27 anni a considerare il Caimano la peggior sciagura che si sia abbattuta sulla nostra povera Repubblica.

Sentite Letta (Enrico): “Non credo che la candidatura di Berlusconi sia in grado di essere votata dal Pd e nemmeno da una larga maggioranza. Se il capo dello Stato non viene eletto a larga maggioranza, cade il governo. È assurdo pensare al candidato di bandiera di uno schieramento”. Par di sognare: il Pd non vota B. perché gli altri non lo votano (quindi, se gli altri lo votassero, il Pd lo voterebbe); perché, se B. passasse per pochi voti, cadrebbe il governo Draghi (una buona notizia su due); e perché è di centrodestra (ma, se il problema fosse questo, non verrebbe eletto nessuno, perché i candidati o sono di centrodestra, o di centrosinistra, o del M5S, salvo eleggere un paracarro, un termosifone o un morto). Il ministro Orlando invece dice no a B. perché “è molto auspicabile una donna al Quirinale”: quindi il problema è che B. non è donna (ma Nicole Minetti lo è). Conte si spinge più in là, tracciando un identikit del futuro presidente – “persona di grande profilo morale e autorevolezza che possa guidarci per sette anni” – che esclude in radice B. Ma che ci vuole a dire che un vecchio puttaniere pregiudicato e finanziatore della mafia non può fare il capo dello Stato neppure in Italia?

Dal romanzo al film: Clint, il ruvido yankee, dirige una storia di frontiera e paternità

“Perché non possiamo restare? Perché? Che problema hai? Perché non puoi rimanere ed essere mio amico?”. “Perché ti sto portando da tuo padre!”. “Perché non puoi essere tu mio padre?”.

Mike Milo e Rafo, un anziano ex campione di rodeo in declino e un ragazzino messicano palleggiato fra genitori egocentrici e incuranti. Il primo deve “recuperare” dal Messico il secondo per ordine del padre texano. Sono due universi lontanissimi eppure tanto bisognosi di famiglia e di affetto da immaginarsi padre e figlio, anche contro la stessa volontà del più grande. L’estratto dal libro Cry Macho di N. Richard Nash (edito da Libreria Pienogiorno) è fra i più suggestivi ed emozionanti di un romanzo divenuto cult già dalla sua prima pubblicazione americana nel 1975. Un testo che per anni Hollywood ha inseguito per tradurlo in cinema finché Clint Eastwood ha deciso che quel personaggio crepuscolare non poteva che incarnarlo lui, persino alla venerabile età di 91 anni; Nash, peraltro, si è prestato alla stesura della sceneggiatura, adattata insieme a Nick Schenk, già script writer di Gran Torino e di The Mule.

Questa è una storia di “culto istantaneo” per quegli Usa che a metà anni 70 si trovavano a valicare la linea di demarcazione tra la Vecchia e la Nuova America, un passaggio epocale e denso di contraddizioni che mutava pelle, velocità e interessi. Ma anche una transizione tracciata sul sangue di una generazione alle prese con una guerra assurda come quella in Vietnam. Nasceva la New Hollywood, tutto era contestazione, perdita di certezze ma anche voglia di perdersi come easy rider, con il Sogno Americano a smarrirsi sulle highway. Se quella linea di passaggio la chiamassimo Frontiera, ecco che Cry Macho ne diviene un’apologia a doppio livello: da una parte in quanto rappresentazione dei contrasti insiti e sopraddetti degli Usa, dall’altra per l’ordine e la legge nordamericana versus il territorio Messico, perfetto mix tra vacanze e anarchia.

Il vecchio e il bambino sono i protagonisti dei due lati della Frontiera, e tuttavia sono l’emblema sentimentale di quel piccolo mondo antico fatto di impavidi cowboy, di rodei selvaggi, di un Texas ancora “accettabile” e soprattutto di esseri umani consapevoli di esserlo. E nessuno meglio dell’inossidabile maschera di Clint può interpretare tutto questo perché lui resta, ancora oggi, il volto umano del ruvido yankee.

“Sono 4 giorni che non passo dal gabinetto: datemi le erbe”

Anticipiamo stralci di “Un lampo a due dita” di Louis Armstrong, in libreria da oggi con Quodlibet.

Beh Gente, eccomi qua – finalmente a Casa. Sono appena uscito dal Beth Israel Hospital dopo esservi stato ricoverato due volte per Affaticamento – Fisico Spossato, Sfinimento – e una Patologia Renale che ha avuto conseguenze anche sul Cuore e sul Fegato.

Il mio Medico, Gary Zucker (un grand’uomo e un mio Jazz Fan) ha lavorato duro su di me, e mi ha tirato fuori dalla Crisi. Mi ha fatto uscire due volte dal reparto di terapia intensiva. Io e lui parlavamo con grande franchezza. Siccome sapevo che era anche un mio Grande Fan, mi sentivo a mio agio a discutere con lui. La prima cosa che dissi al dottor Zucker fu – “Doc, Dio ti Benedica, ti voglio bene. Ora però c’è un’altra cosa e sarei felice se fosse ok per te. Ed è lo Swiss Kriss. E questo perché, Doc, i Lassativi che mi hanno dato con me non hanno affatto funzionato. Oggi′ sono Quattro Giorni che non passo dal ‘Cesso’ (il gabinetto). E mia madre Mary Ann (più brevemente – May Ann) ha sempre detto a me + a mia sorella (Mama Lucy) Beatrice (il suo vero nome) – mentre ci dava una Medicina (un lassativo) delle Erbe… ″che aveva raccolto vicino ai Binari della Ferrovia di New Orleans, le portava a casa – le macinava + triturava fino a ridurle quasi a una polvere – E me ne metteva un grosso cucchiaio da cucina sulla Lingua – E ne dava una cucchiaiata a Mama Lucy′ e ne prendeva un bel cucchiaione anche lei. Poi riempiva tre Grossi Bicchieri d’Acqua dal Rubinetto o dall’idrante – e ce ne dava un bicchiere – e ne prendeva uno per lei – e Cin Cin ce ne andavamo, a Letto. La mattina dopo quando ci svegliavamo ‘Ooh’ Facevamo un vero can-can per arrivare per primi in bagno – tirare quella leva, e avere quella bella rivelazione. Dicevo, fin da Piccoli io + Mama Lucy abbiamo sentito la mamma dirci – ‘Magari non diventerete mai Ricchi, ma non prenderete nessuna Grave ″Malattia che vi mandi al creatore – Proprio così – non vi accadrà’”.

Dopo aver spiegato tutto questo al dottor Zucker, gli chiesi di darmi l’ok per delle Erbe, un Lassativo Erboristico – ecc. ecc. –, insomma lo Swiss Kriss. Tanto lo prendo da molti molti anni. Lui prese subito il telefono e chiamò mia moglie Lucille e le disse – che poteva portare ′nella camera di Louis Armstrong tutto lo Swiss Kriss necessario, visto che lui preferisce questo ai Lassativi che si prescrivono in Ospedale. E Lucille – Che aveva scoperto lo Swiss Kriss leggendo l’Health Book del dottor Gayelord Hauser – Tutto Sui Lassativi d’Erbe ed ecc. – beh per Lucille fu un piacere portarmi il nostro Lassativo che mi ha aiutato a Riprendermi – Magnificamente.

Qualche giorno dopo, prendendo lo Swiss Kriss e “Suonando” con regolarità e precisione′ in un Bellissimo bagno privato tutti cominciarono a vedere in me un Rapido Miglioramento – la mia pelle – il mio peso che aumentava – l’appetito – tutto molto meglio. Tanto i pazienti quanto le Infermiere si incuriosirono di Swiss Kriss. Poiché Lucille me ne aveva portato parecchio, ne avevo abbastanza da darne a chiunque lo volesse. E la Capo Infermiera del Beth Israel Hospital, che si atteneva scrupolosamente alla Cartella clinica che si portava appresso, mi consultò in merito allo Swiss Kriss′ e stava per prendere il telefono per chiamare il dottor Zucker quando le dissi mentre riattaccava: “Tesoro, il dottor Zuck mi ha dato il permesso′ per lo Swiss Kriss e in Ospedale lo stanno prendendo tutti con grandi risultati – Col Lassativo hanno Superato i loro Problemi – E sono Tutti felici – Si ″sentono Bene. Ora Infermiera se tu fossi furba – domani, quando hai il giorno libero” – e qui le porsi una scatoletta di Swiss Kriss′ – “ne prenderesti una bella cucchiaiata′ prima di saltare nel letto. Mettilo sulla lingua – mandalo giù con un bicchierone d’acqua – meglio due bicchieri. Più Liquidi′ ci sono meglio è. Fatti pure un goccetto se vuoi. Qualunque cosa umida va bene”. Ok. La Caposala fece come le avevo detto, che doveva provare lo Swiss Kriss per ritrovare la sua personale forma… E proprio come immaginavo – ne trasse le sue conclusioni. La notte successiva quando le toccava il Turno – la sua prima tappa fu la mia stanza privata. Entrò guardandomi Dritto negli occhi – e insieme puntandomi il dito contro – dicendo – “Satchmo′ Sei un Ragazzaccio”. E fece un gran′ sorriso, bella e fresca come non era mai stata. Quello Swiss Kriss è semplicemente fantastico. Mi sento pulita e a posto”. Detto da lei′ ne fui davvero davvero felice. Lei è stata credo uno dei miei più Fedeli Clienti.

Eastwood è sempre “Macho” Ottimo ritorno al western

Nato il 31 maggio 1930 a San Francisco, Clint Eastwood ha novantuno anni, e Cry Macho è il suo nuovo film. Domani nelle nostre sale con Warner Bros. dopo l’anteprima al 39° Torino Film Festival, il quarantesimo lungometraggio del regista non sposta di una virgola il giudizio complessivo: ne converrebbero persino i tanti fan dell’ex uomo senza nome.

Per lui, per Clint è però un film necessario, palesemente. Sia summa o il definitivo congedo dal set, Cry Macho – Zeitgeist fatto titolo, sebbene il romanzo adattato sia del 1975 – illumina quel che il quattro volte premio Oscar (film e regia sia per Unforgiven, 1993, che per Million Dollar Baby, 2004) è stato dietro e davanti la macchina da presa, a cavallo tra immagini e immaginario. Lo fa con una modalità non dissimile da The Mule – Il corriere di tre anni fa, peraltro l’unica altra opera diretta e interpretata da Gran Torino del 2008, di cui può essere considerato il fratello minore: là orticoltore veterano di guerra, qui ex stella del rodeo con la schiena spezzata e allevatore di cavalli bistrattato, il Nostro fa professione di reducismo, ossia occupa il presente – e ipoteca il futuro? – in virtù dell’ingombrante passato.

Che non sia mera anagrafe ma filmografia acclarata lo dichiara il genere d’appartenenza di Cry Macho, che è il western, dunque il territorio d’elezione di Clint: prima l’apprendistato leoniano (la Trilogia del Dollaro), poi la promiscuità (L’uomo dalla cravatta di cuoio, Impiccalo più in alto), quindi l’autorialità in prima persona, da Lo straniero senza nome (1973) a Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), da Il cavaliere pallido (1985) a Gli spietati (1992). Solo così, metacinematograficamente, si può dare legittimità al sottotitolo italiano, Ritorno a casa, poiché l’approdo finale di Mike Milo non sarà il natio Texas, bensì lo straniero Messico: è dunque l’alterità il segno (di pace) di Eastwood, è dunque l’ambiguità la sua Eroica, in quanto il travalicamento di confini che fa l’eroe – l’incarico del suo ex boss di riportare a casa il figlio – conoscerà andata, ma non ritorno.

Tranquilli, non è un cavaliere dimezzato, Mike Milo, piuttosto un cowboy che sposta l’attenzione, e la cura, da sé alla creatura che cavalca e al mondo animale tutto: dopo i fiori di The Mule, ecco l’addestratore di destrieri, il veterinario strapaesano, il gentiluomo di frontiera, che calmiera il testosterone (“Questa cosa del macho è sopravvalutata”) in conto terzi e tiene la mano alla bella vedova messicana (Fernanda Urrejola). Il passaggio è di consegne, la paternità della partita: non biologica, ma culturale, non il sangue, ma l’affetto, e in inglese viene meglio, norture anziché nature. Il ragazzo da prelevare alla madre e restituire al padre – c’entrano i soldi, ovviamente – si chiama Rafo (l’esordiente Eduardo Minett), e detto che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio e le novanta primavere di Clint non fanno eccezione, c’è la magia del cinema a sporcare la predica: il nonuagenario con nonchalance si arroga il ruolo del padre anziché del nonno o perfino bisnonno, e noi zitti e buoni. Il vecchio e il bambino, con un gallo, di nome Macho, per testimone: tre per un riscatto. Non ci saranno i rudimenti del cowboy, l’alfabetizzazione marziale, l’educazione anaffettiva, o addirittura tossica, del maschio, il piccolo Rafo verrà messo a parte di dignità, rispetto ed empatia, ossia l’abc del cinema di Eastwood degli ultimi – almeno – vent’anni.

La cinesi di Clint si è ridotta agli occhi, che sono fessure luccicanti di trascendenza, il fisico è ormai silhouette a scomparsa, la fatica di ogni gesto così evidente da farsi supplice, eppure, il nostro eroe non ha ancora scelto, e sciolto, il mito che s’è dato: invoca la pietas per sé e per gli altri, ma tra rimanere Enea o confessarsi Anchise non s’è deciso. Non si uccidono così anche i cavalieri? Forse, ma quel tempo non è arrivato. Clint Eastwood è vivo, vivissimo, e della vita che ha voluto che fosse: confuta l’errabondo collega della Mancia, il Don Chisciotte che pretendeva “la virtù sia più perseguitata dai cattivi che amata dai buoni”, e continua ad amare.

 

Lacrime e news dosate dai Migliori: riciccia il Monti “110 e loden”

Nascere incendiario e finire pompiere è parabola persino banale. Ma nascere Super Mario, Professore con 110 e loden e a 78 anni finire dietro la lavagna della Costituzione auspicando un sistema “che dosi dall’alto l’informazione” per il bene dell’opinione pubblica citrulla, è il notevole corto circuito di sua eccellenza Mario Monti, senatore a vita per volontà della nazione e di re Giorgio Napolitano, primatista di ogni rigore, di ogni incarico di massimo prestigio, affabile quanto basta a mitigare la spietatezza d’alta burocrazia che lo pervade, anche lui candidato silente al prossimo rogo del Quirinale, dove bruciano i meriti propri, le cordate altrui, ma anche le vanità di tutti i convocati.

Molto dobbiamo al Professore, specialmente in quel fatidico novembre 2011. Raccattò l’Italia dal baratro in cui l’aveva sprofondata Silvio B. lo spread schizzato a 570 punti, il debito pronto a franarci addosso, l’economia ingolfata dall’incompetenza, il tessuto sociale sfibrato dagli scandali, i giornali di tutto il mondo che declinavano la tetra sceneggiata del Papi di Arcore che festeggiava i diciotto anni di una tale Noemi di Casoria, e i diciassette di Ruby Rubacuori, pensando seriamente di passarla liscia. Berlusconi fu buttato fuori a luci spente dal retro del Quirinale. E Monti entrò dall’ampio portone con tutte le fanfare del caso, presidente del Consiglio di un esecutivo d’emergenza, con l’incarico di sgomberare i camerini dall’avanspettacolo in corso, restituire un briciolo di onorabilità e disciplina al governo del Paese.

Il settimanale americano Time incorniciò quel cambio di stagione in due copertine che oggi andrebbero viste insieme a dirne l’arco narrativo. Nella prima compare un Berlusconi che indossa un sorriso sghembo alla Cerutti Gino, detto il Drago, e il titolo che recita: “Ecco l’uomo che sta dietro l’economia più pericolosa del mondo”. Nella seconda, appena tre mesi dopo, il primo piano in copertina è quello di Monti, serio, serioso, austero: “Ecco il primo ministro per i tempi disperati”.

Incoronato da così tante aspettative, il Professore si issò sulla cattedra della nazione. Era finalmente la sua grande occasione. Quella per cui aveva lavorato tutta la vita. Il fine ultimo della sua creazione, cominciata nelle aule del liceo classico Leone XIII, dove i gesuiti allevano al comando i rampolli dell’alta borghesia milanese. Poi quelle della Bocconi, laurea con tesi appassionata sul “bilancio revisionale della Cee”, stage a Bruxelles, un anno di specializzazione all’Università di Yale con il Nobel James Tobin, quello della Tobin Tax. Cattedra a 33 anni prima a Trento, poi a Torino, poi di nuovo a Milano, con obbligo della cravatta e del “lei” per gli studenti, in nome della buona pedagogia gerarchica, rettore a 46 anni della sua amata Bocconi. E dopo la morte di Giovanni Spadolini, presidente in perpetuo.

Consigliere sempre a contratto, entrò nei quartieri generali di Fiat e Banca Commerciale. Vantò rapporti professionali con Giovanni Agnelli e una discreta schiera di capitani d’industria. Dispensò scienza economica nelle commissioni governative dai tempi di De Mita e Amato. Collaborò con Banca d’Italia. Fu chiamato, con Emma Bonino, alla Commissione europea, anno 1994, primo governo Berlusconi, poi da D’Alema, 1999, con l’incarico di Commissario alla Concorrenza, dove obbligò persino la Microsoft di Bill Gates e la General Electric a dargli del lei, indossare la cravatta, e pagare multe per centinaia di milioni di dollari. Suo personale monumento alla regolamentazione antitrust dei mercati, contro le prepotenze delle multinazionali. Dunque sacerdote del rigore. Ma anche custode dei loro profitti che benedice, con altrettanta solerzia, da presidente della Trilateral, da membro del gruppo Bilderberg, da consigliere di Coca Cola, Goldman Sachs, Moody’s. Cioè presso tutti “i divoratori del pianeta”, secondo i segugi del complotto mondialista. Altra sua benemerenza agli occhi delle élite transnazionali.

Dunque eccoci al punto. Da così alta, proficua e multipla esperienza, altrettanto alte, proficue e multiple erano le aspettative per il suo governo. Che invece durò 17 mesi, nonostante il record di maggioranza trasversale. E in 17 mesi le sbagliò tutte. O quasi. Cominciando dalla madre di tutte le riforme, quella sulle pensioni, che tante lacrime costò a Elsa Fornero, signora che pure aveva studiato pensioni da tutta la vita, ma che quella volta, per la fretta o l’emozione, sbagliò i conti non di una spanna, ma di 360 mila disgraziati, finiti sotto la pioggia senza lavoro e senza pensione, e che i giornali battezzarono “esodati”, per non dire sfollati, come in tempi di guerra.

Invece della corte marziale, Monti offrì comprensione, mentre i grandi giornali provarono a rimpatriarli dimenticandosene, appassionati com’erano al “sobrio loden” del Professore che divenne emblema del nuovo corso economico e poi gogna politica. Visto che in quell’anno e mezzo di decreti legge e voti di fiducia, il debito pubblico crebbe di 9 punti, aumentarono le tasse, peggiorò la disoccupazione, si allargò la povertà. In quanto all’euro, fu Mario Draghi a salvargli la pelle con l’acquisto del debito pubblico grazie al celebre “Whatever it takes” lanciato contro la speculazione dalle cannoniere della Bce, la Banca centrale.

Anziché alzare le mani e darsela a gambe dopo il naufragio del suo governo, Monti perfezionò il danno precipitandosi in politica – “Non mi candido, non farò mai un partito”, aveva giurato fino al giorno prima – insieme con una compagnia di giro che ipnotizzò i migliori politologi su piazza, anche se sembrava uno scherzo, annoverando sotto al tendone il magnifico Luca Cordero di Montezemolo, l’eterno Pier Ferdinando Casini, un Carlo Calenda neofita e un Gianfranco Fini reduce. Oltre a una fantasmagorica Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua coniugata Buitoni. Il portento si chiamava “Scelta civica”, durò una manciata d’anni, trasformandosi in “Sciolta civica”, (Dagospia dixit) e amen.

La vanità, direbbero gli psichiatri, elaborò la trappola e l’abisso per il senatore a vita. Più prosaico diagnosticò Rino Formica: “Monti è un professore che conosce solo i libri che ha studiato e quelli che ha scritto”. Ma a sentirlo parlare oggi dei diritti e dei doveri della libertà d’informazione, nemmeno quelli.

Nuovo voto nello stabilimento dell’Alabama per l’ok ai sindacati

I lavoratori dello stabilimento Amazon di Bessemer, in Alabama, avranno un’altra chance per votare se aderire o meno al sindacato Retail. L’associazione dei lavoratori ha chiesto la nuova consultazione, motivandola con le pressioni che la società di Jeff Bezos avrebbe fatto sui dipendenti affinché si esprimessero contro la sindacalizzazione.

 

Come scimmie ammaestrate per far pubblicità ad Amazon

Siamo ridotti a un livello tale che la spietata degradazione cui sono sottoposti i lavoratori viene presentata come l’essenza del progresso: il neoliberalismo, non pago del suo dominio sulla vita, propina quotidianamente le sue mitologie attraverso il web, la tv, la pubblicità, perché la sua egemonia sia totale e psichica.

Avrete visto i più recenti spot di Amazon, in cui dipendenti della multinazionale ne tessono gli elogi: “Avevo un compagno stupendo che è venuto a mancare”, dice una donna sulla cinquantina mentre guida muletti, “non volevo fare la vita che facevo prima, che portava solo dolore. Mi sono reinventata: Amazon mi ha aperto un mondo, ho pensato: non ti devi spezzare, devi andare avanti”.

Andare avanti, non spezzarsi, reinventarsi: una declinazione da manuale della esiziale “resilienza”, questa rucola concettuale che si trova ormai in ogni piatto servito dalla società attuale, finita persino nel piano di finanziamenti europeo post-crisi pandemica.

La pubblicità motivazionale è uno strascico della Covid, come i problemi neurologici di chi è stato malato: solo che questi guasti sono estesi alla società tutta.

“Sono Gianluca, ho smesso di studiare, è il mio grande rimpianto”, dice un ragazzo. Ma ecco che arriva Amazon a tamponare le falle di studi non regolari: “L’importante è rialzarsi”, dice, perché chi resta a terra, cioè chi non lavora per Amazon e magari prende il Reddito di cittadinanza, è indegno; Gianluca invece “impara cose nuove”, perché “siamo fatti per fare cose grandi”, e “l’importante è crederci”.

Che stoccare scatoloni, spillare codici a barre, accatastare bancali siano lavori degni non v’è dubbio; che siano l’epitome della grandezza umana, opere leonardesche e sostituti dell’apprendimento e della coltivazione interiore, è inaccettabile. Il messaggio scaturito dai serbatoi del pensiero dei pubblicitari di Amazon è che lo scatto della dignità umana offesa sia possibile grazie a un datore di lavoro generoso, il quale, più che mirare ai profitti, si occupa di risollevare (dalla miseria, dall’afflizione) i suoi lavoratori, ciò che spetterebbe allo Stato.

Il terzo spot è ancora più mortificante. La voce fuori campo di un ragazzo dice: “Mi chiamo Mohamed, la mia frase preferita è (segue frase in arabo, ndr), che vuol dire ‘non smettere di lottare’”. Fate attenzione a quel “lottare”: Mohamed non parla di lotte sindacali, non si batte per i suoi diritti: lotta con Amazon (non contro di essa) per mantenere inalterate le sue condizioni. È grato all’azienda, e lo storytelling ci spiega perché: “Mia sorella è nata con disabilità”; foto di famiglia si alternano a immagini di Mohamed che infila pacchi dentro una bacheca e passa allo scanner alcuni prodotti. “Miei genitori sono molto contenti perché riesco a aiutarli economicamente”. Amazon si è accollata il lavoratore migrante e la sua famiglia, che Mohamed sfama con agio. Sembra non faticare, anzi: l’ambiente di lavoro è talmente rilassato che ha anche modo di fare break dance nello stabilimento: “La mia squadra mette qualche musica per farmi fare qualche balletto: mi fa sentire siamo tutti famiglia” (sic).

Il claim è: “Amazon, ogni giorno meglio”. Le denunce di ex lavoratori costretti a urinare nelle bottiglie perché non hanno tempo di andare in bagno si infrangono contro il pathos a buon mercato delle biografie di questi poveri e lavoratori.

A impersonare i grati prigionieri di questa gabbia sociale micidiale non sono attori: sono presumibilmente dipendenti veri, con nome e cognome. È etico farli lavorare alla pubblicità dell’azienda? I dirigenti fanno casting in reparto? Sono pagati a parte, o raccontare docilmente le proprie disgrazie – apice dell’alienazione – è compreso nello stipendio? E cos’altro possono dire, se non che sono contenti? Ma a che serve questo finto cinema verità? Naturalmente a lucidare l’immagine di un’azienda che si trova in una situazione di quasi monopolio, il cui padrone Jeff Bezos (patrimonio stimato: 205 miliardi di dollari), quello che ha fatto un giro di 4 minuti nello spazio nella sua navicella Blue Origin, paga zero dollari di tasse negli Usa, e in Europa ne paga pochissime perché le imposte sono sui profitti e non sui ricavi (basta investire molto).

Ma perché deve importarci se i lavoratori di Amazon si esibiscono per il padrone? Perché societas vuol dire insieme di soci, non di competitor. Quel che si deve rifiutare radicalmente non è lo spot, è il modo in cui è organizzata la società, che “accresce le ricchezze di una parte e conserva l’abietta povertà” (Marcuse, negli anni 60).

Infine: Gianluca, Mohamed, la signora che si reinventa, li tutela qualcuno in Italia? Se stanno a casa sono parassiti divanisti; se lavorano devono fare le scimmie ammaestrate per i loro padroni. Servono altre prove per la sparizione della sinistra? Per forza poi ci troviamo la destra reazionaria anti-capitalista a fare gli interessi “del popolo”.

“Mirafiori senza più un futuro” La video-inchiesta su Fq Extra

Il nostro sito premium pubblica la video-inchiesta di Pietro Barabino (con Ettore Boffano) su Stellantis. Si parla dello stabilimento Fiat di Torino Mirafiori, dove si producevano i gioiellini della carrozzeria italiana, finito nel gruppo a trazione Peugeot. Tre milioni di metri quadri in parte inutilizzati, dove nel 1980 lavoravano 50mila persone, oggi 13mila. “Chi può scappa – racconta Giorgio Airaudo, segretario della Fiom Piemonte – con dimissioni più o meno incentivate. Manca un piano per gli operai che producono parti che nell’auto elettrica non serviranno più”.