Maradona, è stata la mano di Napoli

Dalla visione di È stata la mano di Dio sul grande schermo (sì, nella buia intimità della sala: è un consiglio, anzi, una raccomandazione) si esce con pensieri suggestivi e mutevoli come certi cieli. Il pensiero più ricorrente è quasi una certezza: Diego Armando Maradona poteva arrivare solo a Napoli, e solo a Napoli fondare il suo mito. I luoghi fanno gli uomini non meno di quanto accada il contrario. Il piccolo semidio arrivava dal Sudamerica, ah Sudamerica! (“l’uomo che è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino”), e dove al confine tra immaginazione e magia non c’è un muro, non c’è nemmeno un posto di frontiera. Si va e si viene liberamente, senza nessun Green pass. Proprio come a Napoli, autentica protagonista di È stata la mano di Dio.

“La realtà è scadente”, fa dire Paolo Sorrentino a Fellini, eppure il cinema può risultare meno scadente della realtà (la tv di più, la differenza con il cinema è tutta qui); questo, grazie anche a una certa consuetudine con il pensiero magico – come dire che il vero cinema ha nella sua squadra Maradona. Da Napoli a Macondo è un attimo, il pensiero magico è già realismo. Prima pensiamo che a fare gol all’Inghilterra sia stata la mano di Diego; poi, che sia stata la mano di Dio; infine, che tra le due cose, in fondo, non c’è differenza.

Storia della vocazione di un ragazzo del Vomero rimasto all’improvviso orfano dei genitori, È stata la mano di Dio è anche un film sulla sopravvivenza. Che non è esattamente una rinascita, piuttosto una prosecuzione della realtà con altri incubi, altri sogni, altre magie. Gli ultimi interrogativi sottintesi da Sorrentino, come spesso accade quando c’è di mezzo il confine tra la vita e la morte, sono di ordine oftalmico. La fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo, dieci decimi, questo lo sapevamo. Ma il Caso ci vede o no? Ci è o ci fa? Cosa gli ha detto l’oculista? Proviamo a immaginare anche noi: “Forse Dio non esiste; ma la mano di Dio forse sì”.

La mite lezione dell’oste: se si chiude un occhio si è già ciechi

Mi riferiscono, e riporto aggiungendo di mio solo qualche dato ambientale, un fatterello occorso solo pochi giorni orsono. Teatro dell’accaduto è un caffè di recente rinnovato che ha riaperto in vista delle prossime festività di cui già si avverte la febbrile attesa (sperando che ciò si limiti alla detta attesa e non a un aumento della temperatura corporea). Entra una coppia che annusa con piacere il profumo di vernice fresca e poi, dato uno sguardo in giro, va a sedere a un tavolino presso una vetrata da cui si può godere la vista del lago. Non è granché però, la giornata è brumosa, ma i due a giudicare dalla mimica soddisfatta pare che traggano comunque piacere da un paesaggio che altri definirebbero deprimente. A distrarli (pare che stia arrivando anche un battello che sobbalza sulle onde del lago mosso), provvede la cameriera per prendere nota dell’ordine: due belle cioccolate calde. Dopodiché i due tornano a volgere lo sguardo fuori (parrebbe che nel frattempo il battello abbia effettuato un attracco tutt’altro che semplice). Ma lo spettacolo viene di nuovo interrotto dall’arrivo del proprietario del locale che chiede di esibire il Green pass, visto che si sono seduti. Ed ecco la sorpresa, lui ce l’ha, lei no. Che sia no-vax, no-Green pass, no vattelapesca al padrone non interessa. Stando così le cose non possono stare seduti. Lui allora, forse perché siamo in un piccolo paese, chiede se il padrone non può chiudere un occhio. La risposta del proprietario è geniale. In un certo senso l’ho già chiuso, dice, e da vent’anni, visto che sono guercio, indicandosi l’occhio destro. Capisce quindi, prosegue, che se facessi come lei mi ha chiesto non vedrei più un accidente. Poi, dopo una pausa, si informa se è stato abbastanza chiaro oppure deve spiegare che ci sono regole precise riguardo al sedere dentro locali chiusi. I due si alzano senza parlare, fuori si è messo a piovere, la cameriera si ferma a metà strada con un vassoio su cui fumano due cioccolate belle calde.

Mail box

 

Solo gli elettori devono finanziare la politica

Vi scrivo in risposta dell’editoriale di Travaglio, in cui benedice la proposta di Conte di superare un tabù e di permettere al M5S di finanziarsi con le donazioni del 2xmille. Per quanto motivate dissento dalle sue considerazioni positive a tale scelta. Parlo da attivista della prima ora, che da oltre dieci anni ha dato tutto al Movimento. Ma, se ricordate bene, uno degli obiettivi del M5S era quello di cambiare il modo di fare politica. Quella marcia e corrotta della casta. E uno di questi era di eliminare i finanziamenti pubblici ai partiti. Perché ogni partito è giusto che venga finanziato dai propri sostenitori. C’è chi in politica ci campa da una vita con i nostri soldi. Travaglio si vanta così tanto, e giustamente, che Il Fatto non riceve finanziamenti pubblici. Perché io, da contribuente, devo pagare un giornale tipo Libero, ad esempio, se non lo leggo? Perché devo pagare la Lega, il Pd? Perché tanto si parte dal 2xmille, per arrivare dove sono arrivati gli altri. Il M5S ha perso la strada maestra anche in questo. Doveva essere l’esempio da seguire e invece si sta omologando giorno dopo giorno alla vecchia politica.

Bruno Maniga

 

Caro Bruno, “Il Fatto” si mantiene con la libera scelta dei lettori di acquistarlo e di abbonarsi. Un partito così vasto, che deve organizzarsi sui territori, deve mantenersi con il contributo volontario degli elettori: anche il 2xmille, per quanto perfettibile, va in quella direzione.

M. Trav.

 

Ma non doveva pensarci Bob Aggiustatutto?

Non per essere banali, ma guardando la foto sopra mi chiedo: la Raggi è ancora sindaco di Roma?

Paolo Covello

 

I valori del Movimento sono stati stravolti

Mi sembra di capire che Travaglio, constatato che tutti i “principi” o i “tabù” dell’originario Movimento sono caduti o stanno gradualmente cadendo nel nulla, giustifichi questo stravolgimento di “valori” con la formula della “crescita” (quando parla di crescita di certo non si riferisce a quella elettorale) che sarebbe in atto nel M5S. Se ho capito male mi scuso e consideri chiusa qui la mia lettera. Ma se ho capito bene non sono per nulla d’accordo con la sua analisi.

Tutti i valori originari del M5S sono caduti o stanno cadendo a uno a uno semplicemente perché, pur potendo apparire ai più sprovveduti un’interessante novità nel mondo politico italiano, erano e sono illogici, irrazionali e contrari alla natura umana. Da parte di Grillo e di Casaleggio sono stati individuati dei falsi “valori” che alla prova dei fatti hanno resistito solo per il tempo di un sospiro. Quello che sorprende è il fatto che buona parte dei media del nostro Paese abbia dato corda alle idee di Grillo ignorando del tutto l’irrazionalità e l’irragionevolezza dei loro “valori”, a partire dal famoso “uno vale uno”. Penso convenga anche lei che non ci sia possibilità di dialogo o di confronto razionale con chi sostiene seriamente che “uno vale uno”. Il fatto che il 33% degli italiani abbia creduto a “uno vale uno”, dimostra chiaramente che il vero problema dell’Italia sono gli italiani.

Pietro Volpi

 

Caro Volpi, i “valori” sono l’onestà, la sobrietà, l’ambientalismo, la lotta ai privilegi, i beni comuni, la politica come servizio e non come professione eterna. E dovrebbero essere comuni a tutti i partiti. Le regole interne con cui perseguirli possono e devono cambiare a seconda dei tempi, che cambiano molto più rapidamente degli statuti.

M. Trav.

Emergenza clima Aurelio Peccei è il “nonno” di Greta Thumberg

Potrebbe sembrare qualcosa di simile alle profezie dei millenaristi, ma da almeno 52 anni — da quando cioè è nato il Club di Roma — sappiamo che le risorse della Terra sono limitate e che la società attuale ha perduto anni preziosi per potere limitare e rendere sostenibile lo sviluppo. Doveva trasformarsi in una società di conservazione e rigenerazione del patrimonio naturale (alberi, ossigeno, meno CO2) ma così non è stato. Adriano Peccei è stato alto dirigente industriale (Fiat, Italconsult e Olivetti), ideatore e fondatore del Club di Roma nel 1968, autore di libri tradotti nelle più diverse lingue (Verso l’abisso, Quale futuro? , La qualità umana). Nel corso della sua storia, l’uomo ha raccolto molte opportunità ma oggi la sfida ha un carattere globale, di fronte alla minaccia per tutta l’umanità. Tutto ciò dipende dai suoi stessi trionfi, dalla sua ascesa, dalle sue capacità: abbiamo un potere molto al di là della nostra capacità di usarlo. Siamo in un mondo in cui l’umanità è prossima al disastro dell’unico pianeta che noi abitiamo. La popolazione attuale del mondo ha superato i sette miliardi di individui. Il Club di Roma, nel suo primo rapporto, dei primi anni 70, ha cercato di dimostrare che quel tipo di crescita non era sostenibile. Il rapporto redatto da un gruppo di ambientalisti, fisici, demografi e informatici del Mit Massachusetts Institute of Technology ha evidenziato il limiti di uno sviluppo basato sulla crescita continua e sulle energie derivate dai fossili. Le grandi potenze e i movimenti giovanili occidentali allora non capirono la portata del rapporto tradotto in tante lingue e diffuso presso tutte le cancellerie degli stati del pianeta. Secondo Peccei si doveva passare dalla coscienza di classe alla coscienza di specie. D’altra parte gli imprenditori continuavano e continuano a professare il culto della concorrenza dove i bassi costi e lo sfruttamento delle risorse naturali hanno portato al una situazione senza controllo. Inoltre il mondo è stato devastato privando il pianeta dell’ossigeno creato dalle grandi foreste pluviali. Secondo Peccei occorrevano “capacità nel trovare soluzioni nuove: riciclaggio, miniaturizzazione, durabilità dei prodotti, sostituzione di materiali, parsimonia nei consumi”. Di austerità parlavano allora Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer, ma anche loro non vennero ascoltati. I popoli in via di sviluppo, compresa la Cina, hanno fatto gli stessi errori dell’Occidente. Ognuno vuole basarsi su una propria proiezione autonoma. Il sistema di mercato cui eravamo abituati fino a pochi anni fa e col quale ritenevamo di stabilire equilibri soddisfacenti nell’economia non funziona, anzi il mercato allo stato puro non esiste più. Senza un grande disegno, il mondo sarà un caos, profetizzava Peccei. Il fallimento del vertice Cop26 di Glasgow dimostra la mancanza di un disegno unitario. Immaginiamo un Paese virtuoso che non inquini senza emissione di CO2. Anche se questo ipotetico luogo fosse a 5 mila chilometri dal Paese dove l’inquinamento è massimo, basterebbe un alito di vento per spostare la massa inquinante a distanze impensabili anche nel Paese virtuoso. Aurelio Peccei, 50 anni fa, diceva le stesse cose di Greta. Sarebbe ora di svegliarsi e agire prima che sia troppo tardi.

 

Imposta sui redditi, s’insulta la povertà e pure l’intelligenza

Il commento più centrato e lapidario è stato quello di Tommaso Faccio, che forse perché docente di Diritto tributario non in Italia, ma in università inglese dal nome evocativo, quella di Nottingham, ha immediatamente capito come la nuova riforma dell’imposta sui redditi si muova seguendo i dettami non di Robin Hood, ma del suo avversario: lo sceriffo di Nottigham appunto, celebre per depredare di continuo i poveri a tutto vantaggio dei più ricchi. Così, dopo aver letto le tabelle che dimostrano come a riforma approvata chi ha un reddito di 50mila euro pagherà circa mille euro all’anno in meno, mentre chi ne guadagna 17.500 (e quindi sopravvive a stento) ne risparmierà 50, Faccio, fondatore di Tax Justice Italia, ha scritto su twitter: “A parlamentari e governo è riuscita l’ardua impresa di ottenere un taglio sulle tasse dei loro stipendi superiore a quello destinato a milioni di lavoratori part time, stagionali, operai e dipendenti a basso reddito. Pensavo che fosse politicamente ingiustificabile. Touché”. E toccati siamo pure noi. Perché l’accordo politico raggiunto dai partiti il 25 novembre per decidere come impiegare i 7 miliardi destinati da Mario Draghi alla diminuzione delle imposte, è un insulto non solo alla povertà, ma pure all’intelligenza. All’unisono tutti, dal Pd al Movimento 5 Stelle, per arrivare a Forza Italia e Lega, hanno dipinto il patto come “una vittoria del ceto medio”. Dimenticando però che, stando alle ultime analisi del dipartimento delle Finanze, nel nostro Paese i lavoratori dipendenti guadagnano in media 21mila euro l’anno (24mila per i contratti a tempo indeterminato e 9.600 per i contratti a termine) e che quindi chi ne percepisce 40 o 50mila, non è medio, ma almeno medio alto. Intendiamoci, qui nessuno vuole negare il diritto dei più fortunati a pagare meno tasse. Ma se lo scopo della riforma è quello di dare un po’ di sollievo ai cittadini incentivando i consumi, sarebbe bene che i nostri onorevoli sceriffi di Nottingham ricordassero che 500 euro in più all’anno per chi guadagna netti 1.000 o 1.200 euro al mese si traducono automaticamente in acquisti di merci e generi alimentari. Mentre mille euro destinati a chi ne prende già 2.500 diventano in molti casi risparmi accumulati in banca. Vedremo cosa accadrà in Parlamento quando la riforma delle aliquote diventerà un emendamento alla legge di Bilancio. È vero che gli sceriffi promettono anche una revisione delle detrazioni che andrà in parallelo con la nascita dell’assegno unico per i figli e l’assorbimento del bonus Renzi aumentato a 100 euro lo scorso anno. Ma resta il fatto che la riforma è tutt’altro che progressiva: tanto che chi guadagna 75mila euro l’anno risparmierà 270 euro, mentre chi ne percipisce 20mila, a detrazioni invariate, si ritroverà in tasca solo 100 euro in più. Nessuno insomma si deve meravigliare se nell’unico Paese d’Europa in cui gli stipendi medi sono più bassi rispetto al 1990, vince sempre più spesso l’astensione. Francamente, se non abita in zone a traffico limitato, non si vede perché un cittadino dovrebbe far fatica per andare al seggio. Anche perché i poveri sono tanti, mentre i ricchi, o per meglio dire i medio alti, sono pochi. E qui si vede l’insipienza dei nostri parlamentari che, salvo in rari casi, aspirano tutti a militare in grandi partiti popolari. Ma che come delle novelle Maria Antonietta, destinate alla decapitazione (ovviamente virtuale nelle urne), al popolo che chiede pane, rispondono “Non hanno pane? Mangino brioche”. La stupidità è al potere. Buona fortuna a tutti.

 

Monti e l’informazione. C’è già il “suo” dosaggio (molto meno) democratico

Chiedo scusa se parlo di Mario Monti – un Mario Draghi di dieci anni fa – ma, occupandosi questa rubrichina di leggende, narrazioni e media, direi che la recente uscita del senatore Monti sull’informazione che va “dosata” merita qualche appunto in margine (ne ha parlato benissimo, unendo molti puntini, Tommaso Rodano, ieri, su questo giornale). Dunque troppa democrazia, troppa libertà di stampa, abbiamo subìto tante restrizioni, perché non subirne un’altra? Che male c’è? “Trovare modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” è una frase che dovrebbe mettere qualche brivido nelle brave persone. C’è anche quell’altro verbo, “dosare”, che ribadisce bene il concetto, cioè dovrebbe esserci un rubinetto, quello dell’informazione, e il governo (secondo il senatore Monti) dovrebbe aprire e chiudere a piacere, “come nell’informazione di guerra”. Seguono precisazioni e correzioni di tiro, ma si sa, le parole dal sen fuggite sono le più sincere.

Si lanci dunque il giusto allarme: l’informazione che si “somministra” a dosaggio merita un no fermo, sicuro, come si dice senza flessioni. Un soave “non diciamo cazzate”. Ma a parte questo, esistono già abbondanti sentori di un’informazione di guerra. Il nemico è brutto, sporco, cattivo, si macchia di orrendi delitti, si copre di ridicolo, è un cretino, è stupido, eccetera eccetera. Il nome, “no-vax” già lo descrive spregevole, e siccome l’informazione di guerra non deve guardare troppo per il sottile, diventa “no-vax” chiunque abbia una posizione anche vaghissimamente critica sulla gestione della pandemia, anche plurivaccinati convinti. Insomma, l’informazione di guerra evocata da Monti radicalizza il confronto e divide, individua il nemico e lo ridicolizza. Così abbiamo, praticamente a reti unificate, una specie di reductio a imbecillum di una parte della popolazione. Si intervista il cretino, quello che dice che il Covid è un raffreddore, quello del 5g, del complotto planetario, dell’“io mangio molta verdura”, il millenarista, lo squilibrato generico. Insomma, il catalogo è questo: sono tutti matti, e bon, ecco una perfetta – a volte un po’ ridicola – informazione di guerra, dove il filosofo critico vale il guru che si cura con il muschio, tutti nemici uguali.

Si dirà che la pandemia ha cambiato certi parametri, eccetera eccetera. Certo, come no. Ma il meccanismo dell’informazione di guerra si applica anche in altri ambiti, basti pensare alla reductio a delinquentem che si è fatta, per esempio, dei percettori di Reddito di Cittadinanza. Per loro, tutti i giorni un titolo su casi specifici di malviventi (quello con la Ferrari, quello con tre case, quello che vive ai Caraibi) e la riprovazione etica costante, il pubblico ludibrio. Le modalità si somigliano molto, in effetti, e viene da pensare che quel “dosaggio” nell’informazione evocato dal senatore Monti sia già abbondantemente in atto, non “dall’alto”, come dice e vorrebbe lui, più probabilmente da molte direzioni convergenti.

Si sa poi che un “dosaggio” tira l’altro, come le ciliegie, e quel che si applica per la pandemia (niente centro storico alle manifestazioni, per dirne una) poi si applica a tutti. La Cgil regionale dell’Emilia Romagna, per citare un caso, non potrà manifestare in piazza Maggiore a Bologna per un no della Prefettura. Non si capisce se per leso shopping o per paura di contagi, le cose si confondono, la notizia merita un trafiletto minuscolo, poche righe. Insomma, come direbbe il senatore Monti, un dosaggio minimo.

 

Il “politically correct” che distrugge l’italiano

Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai in spiaggia ho fatto il pagliaccio per mettermi in mostra agli occhi di lei che scherzava con tutti i ragazzi all’infuori di me. Perché, perché, perché, perché, io le piacevo. Lei mi amava, mi odiava, mi amava, mi odiava, era contro di me, io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me e per farmi ingelosire quella notte lungo il mare è venuta con te. Ora tu vieni a chiedere a me tua moglie dov’è. Dovevi immaginarti che un giorno o l’altro sarebbe andata via da te. L’hai sposata sapendo che lei, sapendo che lei moriva per me coi tuoi soldi hai comprato il suo corpo non certo il suo cuor. Lei mi amava, mi odiava, mi amava, mi odiava, era contro di me, io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me e per farmi ingelosire quella notte lungo il mare è venuta con te. Un giorno io vidi lei entrar nella mia stanza mi guardava, silenziosa, aspettava un sì da me. Dal letto io mi alzai e tutta la guardai sembrava un angelo. Mi stringeva sul suo corpo, mi donava la sua bocca, mi diceva sono tua ma di pietra io restai. Io la amavo, la odiavo, la amavo, la odiavo, ero contro di lei, se non ero stato il suo ragazzo era colpa di lei. E uno schiaffo all’improvviso le mollai sul suo bel viso (Storia d’amore, 1969, Adriano Celentano).

Da parecchio tempo durante la notte soffro di incubi. Sono incubi linguistici legati alla mia attività di giornalista connessa al sempre più stringente politically correct tutto proteso a difendere la figura femminile dalle discriminazioni maschili. Già introducendo questo articolo (articolo? Perché non “articola”?) ho delle difficoltà. Perché “la notte”, che è il tempo del buio e della paura, è femminile, mentre il giorno, che è solare, va al maschile? Mi sembra uno sgarbo a tutto il genere femminile e anche, in un certo senso, agli (altro maschile) Lgbtq che ne sono esclusi. Ma il vero problema, quello che ha dato origine agli incubi, è la parola “angelo”. Angelo, almeno terminologicamente, ma non solo, è maschile, si parla di “angelo custode”, non ho mai sentito dire “angela custode”. In più l’Angelo complica le cose perché notoriamente non ha sesso. Si potrebbe risolvere la cosa troncando la parola in Angel, come Angel Di Maria, il formidabile trequartista, el fideo, del Paris Saint-Germain e della Nazionale argentina. Ma qui subentrano altri problemi perché l’Argentina, l’Italia, la Francia sono al femminile e il Portogallo al maschile? Non sarà per caso un’altra discriminazione, questa volta in senso inverso?

Ma torniamo all’“angelo” che è all’inizio delle mie turbe. In verità tutto l’empireo giudaico-cristiano è coniugato al maschile. Ci sono i cherubini e i serafini, non le cherubine e le serafine. Se poi passiamo ai piani alti è ancor peggio. Dio, in quanto padre, è maschio. Suo figlio pure. Anche se su Cristo grava l’ombra di omosessualità (peraltro accettata, anzi difesa, farebbe parte degli Lgbtq) o quantomeno di misoginia (il misogino è il più aborrito dalle donne, sempre che si possa usare ancora questo termine) perché a 36 anni, questa è l’età in cui viene collocata la sua morte e non 33 come si è creduto fino a qualche tempo fa, non aveva ancora preso moglie e non gli si conoscevano rapporti sentimentali. C’è poi il terzo personaggio della Triade, lo Spirito Santo che Borges definisce “uno spettro”. Maschio sicuramente, perché feconda, sia pur con modalità misteriose di cui nessuno ha mai capito nulla, una donna, anche se poi ha la perfidia di attribuire il “fattaccio” all’incolpevole Giuseppe (“subito Santo”, naturalmente). Un’edizione arcaica de Gli uomini, che mascalzoni di Mario Camerini del 1932.

Anche i protagonisti subalterni del mito giudaico-cristiano sono in genere uomini. Cristo resuscita Lazzaro e rende la vista a un cieco. La sola volta in cui si occupa di donne è quando lava i piedi alla Maddalena. Cosa senz’altro lodevole, ma che potrebbe far pensare che quello era un mondo popolato in prevalenza da prostitute.

Insomma tutto il lessico italiano dovrebbe essere riformato. Nella lingua inglese ci sono molti più neutri.

E poi c’è il repertorio delle canzoni, quasi tutte intollerabili a un sensibile orecchio moderno. Come quella che presentiamo all’inizio. Come si permette lui di darle un ceffone, anche se lei ha fatto del suo meglio per tirarlo scemo? “In galera subito e buttare via le chiavi” (copyright Madama Santanchè).

 

Dazn, i selfie della leotta, il calcio e l’ingrediente segreto: sistema Quatsch

Perché DAZN funziona così bene. Tra le ragioni più citate per spiegare il successo di DAZN e la soddisfazione dei suoi abbonati c’è il vantaggio competitivo di avere l’esclusiva del campionato di Serie A, i cui benefici sono ovvi. C’è però un aspetto tecnologico di DAZN che viene sempre trascurato, o quantomeno dato per scontato dal giornalismo lumacone, e che invece è stato determinante per il suo trionfo, tanto che, finora, DAZN non ha mai avuto problemi rilevanti che ne impedissero l’uso al suo numero considerevole di abbonati. Dove c’è una connessione, DAZN risulta sempre accessibile e non si interrompe mai. Non è una cosa scontata: hanno avuto problemi aziende enormi come Facebook e Disney+. DAZN invece no. Nonostante la pandemia e milioni di persone a casa a guardare il calcio in tv, spesso tutte insieme, DAZN non va a scatti e non va in blocco. “La ragione precisa” mi racconta la bravissima Diletta Leotta durante una serie di selfie a bordo piscina per i quali mi sono scapicollato dalla redazione, selfie che se li guardi ti fanno sentire un lebbroso, “ha a che fare con la sua avveniristica infrastruttura tecnologica, un sistema multipiattaforma costosissimo che trasmette i suoi contenuti audiovisivi, sia in diretta che on demand, dai suoi server fino a un’ampia gamma di device, tra cui Smart tv, pc, smartphone, tablet e console di gioco.” Il sistema, che si chiama Quatsch, è definito “l’ingrediente segreto” dagli addetti ai lavori. Le altre piattaforme, per essere efficienti, sono costrette ad appoggiarsi a reti locali, fisicamente più vicine agli utenti, dette CDN (“Rete per la consegna di contenuti”). Le CDN sparse per il mondo sono gestite quasi tutte da tre aziende (Akamai, Cloudflare e Fastly): i servizi di streaming si affidano a loro per portare i propri contenuti a casa nostra. DAZN invece no. Perché ha Quatsch, il suo CDN privato, costituito da migliaia di server in tutto il mondo alimentati da schiere di lucertole in cattività che non stanno ferme un momento, le zampette collegate a un convertitore di energia. Quatsch, come un maggiordomo solerte che ogni tanto si fa un goccetto di nascosto, ha un solo e unico scopo: consegnare i contenuti di DAZN a ogni utente che decide di guardare DAZN. Spiega Rex Lear, vicepresidente di Quatsch, la testa calva resa color nocciola dai soli di Sankt Moritz e Tenerife: “I nostri server diffusi sono già pronti all’uso ovunque, e non vengono rallentati dal traffico di contenuti altrui. Con Quatsch portiamo ogni partita dentro la rete dell’ISP, in modo che la rete ISP non debba venire a prenderla da noi con un pony per poi trasferirla a tanti altri server: sarebbe più economico, ma renderebbe più facili rallentamenti e blocchi. Questo e altro per i nostri abbonati. I soldi non crescono sugli alberi.” Perché allora tutti i disservizi durante Inter-Genoa, Lazio-Juve, Verona-Empoli, Napoli-Milan ecc. ecc.? Gli spettatori si sono dovuti sorbire immagini a scatti, e schermo in stallo con l’icona di caricamento in buffering. “Ah ah ah! Tutti si lamentano quando si trovano di fronte all’insolito” ride Lear, ventripotente, fescennino, priapico, mentre, esercitando il gomito, esplora le sottigliezze del whisky. “I nostri addetti venivano distratti dai selfie di Diletta Leotta, pigiavano il pulsante sbagliato, e l’elettricità tornava indietro alle lucertole, che morivano stecchite. Tutto qui. Le abbiamo detto di coprirsi e le cose sono migliorate. Per nove euro al mese vorrei sapere cosa pretendono” conclude, dopo una breve fellatio al suo Montecristo. “I soldi non sono tutto nella vita.”

 

L’idiozia, virus che colpisce il Natale Ue

Il mai dire Natale partorito in quel di Bruxelles rappresenta l’ultima variante di un virus assai difficile da contenere che si manifesta con modalità diverse, ma con analoghi impulsi autolesionistici cui segue tardivo ravvedimento, non di rado condito di lacrime. Caratteristiche soprattutto riconducibili alla sindrome no vax, quando per esempio il protagonista di furibonde proteste di piazza contro la dittatura sanitaria riscontra su stesso i sintomi della malattia negata un attimo prima. Con il doloroso seguito di terapie intensive ed esiti anche letali (nel mentre s’implora una purtroppo tardiva vaccinazione). Nella forma più idiota il morbo può manifestarsi con lo spasmo del molestatore, ovvero uno schiaffo sui glutei di una giornalista impegnata nel suo lavoro all’esterno di uno stadio. Subito identificato, vedremo il soggetto contrito profondersi in mille scuse e nella richiesta di perdono, non bastevole tuttavia a impedirgli di subire una severa indagine penale. Di natura del tutto diversa, ovviamente, il caso delle raccomandazioni diffuse a uso interno dalla Commissione europea sulla lingua inclusiva e non discriminatoria.

Qui, una buona causa, l’uso corretto delle parole, accompagnata da una malaccorta comunicazione produce una reazione a catena che finisce per stravolgere le finalità dell’iniziativa. Colpa del virus autodistruttivo contratto da chi nel trattare, tra gli altri, un tema ad alta sensibilità come la religione e le festività cristiane, ne perde il controllo e va a sbattere. Cosicché la sostituzione della parola “Natale” (forse quella in assoluto più impregnata di sacralità) con il più anonimo riferimento alle “festività”, ha prodotto conseguenze esattamente opposte a quelle auspicate. Neppure una cellula sovranista abilmente infiltrata tra gli estensori del documento Union of Equality avrebbe potuto causare un danno così vistoso all’istituzione europea come quello deflagrato con il decalogo troppo politicamente corretto. Che, infatti, è stato prontamente ritirato, con tante scuse. In attesa che il virus colpisca ancora.

La vendetta di Castro: subì il golpe, ora è lei la presidente

“Solo il popolosalva il popolo”. Sono state le prime parole pronunciate da Xiomara Castro, possibile prossima presidente dell’Honduras, alla notizia della sua quasi certa vittoria elettorale. La candidata di sinistra del Libre, (Partito Libertà e rifondazione), secondo i voti conteggiati, ha battuto l’avversario Nasry Asfura, attuale sindaco di Tegucigalpa e membro di quel partito conservatore che rimaneva al potere da oltre un decennio. Più di tre milioni di honduregni hanno espresso la loro preferenza alle urne, garantendo la vittoria alla passionaria che ha ottenuto oltre il 50% dei consensi degli elettori. Ha promesso di fare giustizia in nome del popolo, per “costruire una nuova era“ senza “squadroni della morte, corruzione, narcotraffico”. La Castro è l’ex moglie di Manuel Zelaya, ex presidente destituito da un golpe delle forze armate quando, nel 2009, da liberale, ha aderito alle politiche di Chavez. Il predecessore di Xiomara, Juan Orlando Hernandez (nel mirino dalla Dia statunitense per narcotraffico e con un fratello che sconta già l’ergastolo in una cella Usa per commercio di sostanze illegali), le lascia in eredità un Paese in macerie, tra i più poveri dell’America latina, predato dai cartelli messicani che, in questi anni, lo hanno trasformato in un narco-Stato.