Zemmour il razzista si veste da De Gaulle, ma Macron se la ride

Eric Zemmour è ufficialmente candidato all’Eliseo. L’ex editorialista di Le Figaro, che occupa la scena mediatica da mesi, ha messo fine ieri a una suspense che non era suspense. Zemmour ha postato un video di dieci minuti su YouTube a metà giornata, ieri sera è stato poi ospite nel tg delle 20 più seguito di Francia, quello di TF1. Un timing ben studiato: ha così fatto ombra all’ultimo, decisivo, dibattito dei cinque pretendenti candidati all’Eliseo della destra conservatrice, Les Républicains, che cominciava poco dopo su France 2. Nel video il polemista è seduto a una scrivania e legge il suo discorso al microfono, in posa come il generale De Gaulle durante l’appello del 18 giugno 1940. Sullo sfondo, la Settima sinfonia di Beethoven: “Camminate per le strade delle vostre città e non le riconoscete. Sugli schermi sentite lingue strane, o per meglio dire straniere. Avete la sensazione di non essere più a casa vostra”. Zemmour descrive una Francia in preda alla violenza e alla decadenza. Ricorda il passato glorioso. Cita Giovanna d’Arco e Bonaparte, Voltaire e Rousseau, e pure Delon e Bardot.

“A lungo mi sono accontentato del ruolo di giornalista, di scrittore e di Cassandra – continua –. Ma come voi ho deciso di prendere il nostro destino in mano”. Attacca politici di destra e di sinistra, e in particolare Macron, che “si era presentato come un uomo nuovo”, ma che “è la sintesi dei suoi predecessori, in peggio”. “Non è più tempo di riformare la Francia, ma di salvarla. Perché i nostri figli e nipoti non conoscano la barbarie. Perché le nostre figlie non siano velate e i nostri figli non siano sottomessi. Perché i francesi si sentano di nuovo a casa loro”.

Ufficializzare la candidatura cominciava a diventare urgente per Zemmour, per rilanciare la sua immagine. Dopo la scalata nei sondaggi, che gli aprivano le porte del ballottaggio contro Macron, la sua popolarità è in calo. Nell’inchiesta Harris Interactive di ieri, il polemista non raccoglierebbe ormai più del 13% al primo turno delle elezioni, scendendo al terzo posto dietro Marine Le Pen. La leader del Rassemblement national, con il 19-20% delle intenzioni di voto, può tornare a prospettare un testa a testa finale, come nel 2017, contro Macron. Il fenomeno Zemmour si è formato nello studio di Cnews, una delle tv del patron del colosso dei media Vivendi, Vincent Bolloré, che ha garantito al polemista una vetrina quotidiana per distillare giorno dopo giorno le sue idee razziste. La tv ha raddoppiato la sua audience e Bolloré si può permettere di giocare un ruolo nel dibattito presidenziale. Alcuni giorni fa, Le Monde ha scritto che Bolloré sta “tentando una opa” sull’Eliseo. Ma la sfida tra Zemmour e Le Pen, dividendo gli elettori di estrema destra, può alla fine favorire Macron che, anche nell’ultimo sondaggio, resta in testa, da solo, con il 23-24%. Molti osservatori ritengono che troppa suspense lasciata planare da Zemmour sulla sua candidatura abbia stufato. Il polemista sta anche commettendo gaffe. A fine ottobre, durante il Salone sulla sicurezza Milipol, ha puntato un fucile (scarico) contro i giornalisti. Giorni fa, a Marsiglia, ha alzato il dito medio in risposta al gesto provocatorio di una manifestante. Non proprio un atteggiamento da aspirante capo di Stato e ha dovuto riconoscere che era stato “poco elegante”.

La settimana scorsa, il suo spostamento a Londra, in cerca di finanziamenti, è stato un flop. Ginevra lo ha dichiarato persona non grata. Un migliaio di persone hanno manifestato contro il suo arrivo. Il 5 dicembre terrà il suo primo meeting di campagna a Parigi. Ma sindacati e collettivi “anti-fascisti” hanno promesso di manifestare per “farlo tacere”. Per Zemmour si tratta ora di riunire i fondi necessari per portare avanti la campagna e di costituire un programma credibile, e che è ancora incompleto, soprattutto in tema di economia. Nel suo video ha fornito alcuni vaghi punti: ha parlato di “reindustrializzare la Francia”, “ridurre il debito pubblico”, “rilocalizzare le aziende francesi partite all’estero”, “ripristinare l’eccellenza della scuola repubblicana”, “riconquistare la sovranità”. Nessuna parola invece sul potere d’acquisto, principale preoccupazione dei francesi in questo momento. Finora Zemmour ha fatto campagna solo contro l’immigrazione e l’islam con le sue idee razziste che già gli hanno valso due condanne. Ancora ieri ha difeso la teoria complottista della “sostituzione etnica”: “Da mille anni siamo una delle potenze che hanno scritto la storia del mondo. Non ci lasceremo colonizzare, non ci lasceremo sostituire”. Fabien Roussel, il candidato del Partito comunista, si prepara a presentare in Assemblea una risoluzione perché non possa più essere eletto chi, come Zemmour, è stato condannato per incitamento all’odio razziale. Marine Le Pen che ha in passato corteggiato Zemmour, ora non vuole più che raggiunga il suo partito: “Su donne, economia e immigrazione il suo progetto è all’esatto opposto del mio”.

Scholz fa il duro: Berlino verso l’obbligo vaccinale

Olaf Scholz, futuro cancelliere tedesco, vuole introdurre l’obbligo vaccinale. La proposta è arrivata ieri in una riunione con Angela Merkel e i governatori dei Länder. La quarta ondata non è ancora al suo picco, ma ieri sono stati registrati 390 morti. I Land con le terapie intensive piene si preparano a trasferire i pazienti all’estero. La Lombardia ha messo a disposizione le proprie strutture ospedaliere. Le misure per contenere i contagi scadono il 15 dicembre e Scholz non può imporre nessuna nuova restrizione, sia perché il suo governo non è ancora in carica, sia perché è terminato lo stato di emergenza. Tutte le decisioni passano dal Parlamento.

Questo sarà il primo banco di prova della nuova maggioranza. Nelle settimane scorse i liberali di Fdp si sono espressi contro l’obbligatorietà della vaccinazione. Per il partito guidato da Christian Lindner le libertà individuali sono inviolabili. Poi dopo una lunga serie di negoziazioni, alla vigilia dell’annuncio della coalizione Semaforo, è stato lo stesso Lindner ad aprire all’immunizzazione obbligatoria. “Dovremmo essere tutti vaccinati entro inizio marzo” ha detto ieri Olaf Scholz ai giornalisti che lo hanno sentito dopo la riunione con Merkel. Lo scorso inverno il movimento Querdenken ‘pensatori laterali’, i no-vax tedeschi, hanno organizzato manifestazioni molto partecipate in tutto il Paese. In alcune occasioni la polizia è intervenuta con forza. L’opinione pubblica si è spaccata. Imporre la vaccinazione al 31,6% della popolazione non ancora immunizzata sarà difficile. Nella vicina Austria, che ha introdotto l’obbligo vaccinale da inizio febbraio, si procederà con una convocazione per i non immunizzati. Chi non si presenta verrà sanzionato: 3.600 euro per la prima dose, 1.750 per la seconda. Per chi non paga è previsto il carcere: quattro settimane. In Germania le multe potrebbero essere leggermente inferiori, ma simile il metodo. Il nuovo esecutivo si pone come obiettivo la somministrazione di 30 milioni di dosi entro Natale. Uno sforzo importante nel quale Scholz vuole includere le farmacie. Dal ministero della Sanità, al momento ancora guidato dal conservatore Jens Spahn, assicurano che ci sono già disponibili sul territorio nazionale 50 milioni di dosi pronte per essere somministrate.

Ma per togliere pressione sugli ospedali si pensa a un confinamento pre-natalizio per i non vaccinati. Il leader dei Verdi, Robert Habeck, lo ritiene “inevitabile”. Per questo nella è stata avanzata la proposta che la regola del 2G (vaccinato, curato) sia applicata a tutti i negozi: esclusi supermercati e farmacie. Intanto in Francia e Russia avanza la sperimentazione del vaccino spray che permetterebbe un abbattimento dei costi e una maggiore facilità di somministrazione. Quello francese verrà messo in commercio nel 2023 dalla BioMap, lo Sputnik russo dovrebbe arrivare già nei prossimi mesi.

Fini a processo dal 2018, ma è tutto fermo

“Gianfranco (Fini) vuole tornare a occuparsi di politica, a far sentire la sua voce”. Nei giorni in cui il profilo di Silvio Berlusconi si fa largo tra i papabili per il prossimo settennato al Quirinale, il nome del primo dei suoi alleati che osò ribellarsi puntandogli il dito contro, pronunciando l’ormai storico “che fai, mi cacci?”, torna a riecheggiare nelle aule di tribunale. Era sparito dai radar dal 2017, l’ex leader e fondatore di An, più o meno nello stesso momento in cui la Procura di Roma lo iscrisse nel registro degli indagati insieme alla compagna Elisabetta Tulliani e al fratello di lei, Giancarlo, per il reato di riciclaggio. La storia è nota e prende le mosse dalla vicenda della casa di Montecarlo lasciata in eredità dalla contessa Annamaria Colleoni ad Alleanza Nazionale e acquistata – secondo i pm – da Giancarlo Tulliani attraverso società off-shore coi soldi dell’imprenditore Francesco Corallo.

Un’operazioneeffettuata nel 2008, per poco più di 300 mila euro e che con la vendita dell’immobile nel 2015 fruttò 1,3 milioni di dollari. Non solo. Secondo l’accusa, Giancarlo e Elisabetta Tulliani, “titolari delle società off-shore Primtemps Ltd, Timara Ltd e Jayden Holding Ltd, mettevano a disposizione i conti correnti delle citate società per ricevere ingenti somme di denaro dal conto corrente (…) acceso presso First Carribean International Bank) e intestato alla società off-shore Dawn Properties riconducibile a Corallo, con cui Gianfranco Fini aveva stretto intesa (…) con la consapevolezza della provenienza delittuosa (associazione, peculato), consentendo la realizzazione del segmento finale del flusso di denaro tra Italia, Olando, Antille Olandesi, Principato di Monaco, Santa Lucia”. Il rinvio a giudizio è arrivato nel 2018, ma da tre anni il processo è praticamente fermo: fra rinvii tecnici, scioperi e astensioni di giudici e avvocati, non c’è ancora stata un’udienza di merito. Così adesso la difesa di Fini vuole accelerare. Anche perché il reato di cui è accusato “ha tempi lunghissimi per la prescrizione”, spiegano i suoi legali, al contrario delle posizioni di altri imputati (alla sbarra ci sono in totale nove persone). Così, ieri l’avvocato Michele Sarno ha chiesto lo stralcio per la posizione dell’ex presidente della Camera e l’acquisizione degli atti del pm (con contestuale rinuncia all’esame dei testi), per arrivare alla discussione e quindi a una sentenza in tempi ristretti. “Potremmo dire che Fini è ansioso di farsi processare. Questo è uno dei pochi casi in cui la difesa vuole accorciare i tempi, senza beneficiare dello sconto di pena per l’abbreviato – ha detto Sarno a margine dell’udienza – Questa storia è durata sin troppo”. Il giudice deciderà il 6 novembre.

Nei giorni scorsi, Fini si è fatto fotografare con un suo vecchio compagno di partito, Francesco Storace, oggi vicedirettore de Il Tempo. L’impressione è che l’ex presidente della Camera scalpiti per tornare a parlare in prima persona, farsi ospitare in tv, fare “l’opinionista”. Fonti vicine all’ex leader di An spiegano al Fatto che Fini, che compirà 70 anni a gennaio, “sta solo aspettando di archiviare questa vicenda giudiziaria per tornare a parlare di politica in pubblico”. Un ritorno nell’agone politico in piena regola? “No – assicurano -, nessuna discesa in campo, ma un padre nobile come lui servirebbe molto a questa destra”.

Dalla rovesciata alla Gdf: le ombre sull’affare CR7

Era una fredda notte di primavera del 2018, e Andrea Agnelli aveva appena visto Cristiano Ronaldo sbattere fuori la Juventus dai quarti di Champions con una rovesciata epocale in Juve-Real Madrid 0-3 del 4 aprile 2018 (inutile la rimonta al ritorno). Fu in quel momento che si convinse che portandolo a Torino avrebbe conquistato la coppa e tutti lo avrebbero acclamato come il grande presidente che sentiva di essere. Non poteva immaginare che quella folgorazione sarebbe stata la sua rovina.

“L’operazione Ronaldo è stata importante per la Juventus. Credo non ci sia altro da aggiungere. Conosciamo il contesto in cui il calcio e la Juventus hanno vissuto”, ha detto ieri il presidente di Exor, John Elkann, ai giornalisti durante l’Investor day. In effetti non può essere solo una coincidenza se le tre stagioni su cui si concentrano le indagini siano proprio i tre campionati dell’era CR7. Le plusvalenze, esistevano pure prima. Ma è l’acquisto del portoghese e lo squilibrio finanziario che determina, a spingere la dirigenza verso una zona d’ombra sempre più scura. A passare la linea oltre cui il “player trading” rischia di sconfinare nell’illecito.

Nell’indagine di Torino (in parallelo alla Consob, in attesa della Procura Figc) ieri i pm hanno sentito Paolo Morganti, Head of Football Operations del club. Alla Juve vengono contestati circa 300 milioni di plusvalenze “fittizie” tra il 2018 e il 2020. Pure nelle due stagioni precedenti in bilancio erano iscritte cifre simili, ma con una profonda differenza: nei 93,8 milioni del 2017/2018 era compresa la cessione di Bonucci, pagato a peso d’oro dal Milan; nei 139,4 milioni del 2016/2017 c’era Pogba, comprato a zero e rivenduto a 100, autentico capolavoro di mercato. Erano soldi veri, insomma, perché esistono anche le plusvalenze “buone”, su cui le società virtuose fondano il loro business: scovare talenti, valorizzarli e rivenderli, per rinforzarsi con i guadagni. È anche così che la Juve aveva costruito il suo dominio in Serie A. Il discorso cambia se i trasferimenti vengono fatti pensando solo ai conti, per generare ricavi virtuali: scambi “a specchio” con club compiacenti, di cui entrambi beneficiano in bilancio senza che si muova un cent.

Ed è con Ronaldo che il giocattolo si rompe: perché il portoghese, attaccante indiscutibile, è soprattutto un fardello da 100 milioni a stagione tra stipendio e ammortamento, col suo ingaggio monstre di circa 30 milioni netti l’anno e un prezzo d’acquisto di 115 milioni. Del resto, nel decreto di perquisizione si parla pure di una “carta famosa che non deve esistere” a proposito del suo contratto. Altro indizio su cui lavora la Procura, che racconta quanto difficile da sostenere fosse quel rapporto. Ma Agnelli era stato avvisato da Beppe Marotta, il dirigente artefice dei successi bianconeri, contrario all’acquisto e messo alla porta. Senza di lui, i pieni poteri di Agnelli, condivisi col vice Pavel Nedved e il dg Fabio Paratici (pure loro indagati), hanno portato la Juve al dissesto.

Per il presidente, Ronaldo era un sogno e una scommessa: far fare il salto di qualità alla sua Juve, sfondare il mezzo miliardo di fatturato per avvicinarsi alle big d’Europa. Una versione appena più sofisticata della sciocchezza ripetuta dai tifosi, secondo cui “Ronaldo si sarebbe ripagato con le magliette”. Se sul piano sportivo il bilancio è in chiaroscuro (la Juve non ha vinto la Champions, ma CR7 ha segnato 100 gol), su quello finanziario il fallimento è conclamato. L’effetto Ronaldo si può quantificare in una sessantina di milioni in più a stagione, tra sponsor e merchandising (passati rispettivamente da 86 a 129 milioni e da 27 a 44 milioni). Ma mentre i ricavi crescevano poco, o non abbastanza, i costi schizzavano alle stelle, accumulando perdite e debiti. Il resto l’ha fatto il Covid, la mazzata finale sui conti già in bilico.

Negli ultimi anni la proprietà è stata costretta a un doppio aumento di capitale: 400 milioni negli scorsi giorni, dopo i 300 del 2019. Per provare a frenare l’emorragia non rimaneva che ricorrere alle plusvalenze. Dal 2018 al 2020 è una escalation: 126 milioni nel 2018/2019, con valutazioni ancora accettabili per giocatori discreti come Audero, Mandragora, Cerri; 166 milioni nel 2019/2020, operazioni fantasiose, gli scambi di Pjanic e Cancelo con Barcellona e Manchester City, i carneadi Matheus e Muratore; 30 milioni persino nel 2020/2021 e nel mercato bloccato dal Covid, senza quasi più pudore, Portanova, Petrelli, Tongya Heubang. Sempre più in là. Forse troppo, secondo gli inquirenti.

Di Fazio, ’ndranghetista intimidì una vittima

Nell’ordinanza di arresto notificata in carcere ad Antonio Di Fazio, l’imprenditore arrestato per violenza sessuale, si legge che una delle vittime, convocata per deporre alla Procura di Milano pochi giorni dopo l’arresto dell’uomo, è stata seguita da un amico di Di Fazio. Questo amico, “pluripregiudicato” e “contiguo” alla “’ndrangheta”, avrebbe seguito la vittima “con lo sguardo con fare minaccioso, incutendo timore”. Di Fazio è accusato di aver stordito una studentessa di 21 anni e di altri casi commessi con modalità simili, compreso il tentato omicidio della ex moglie, con cui era sposato dal 2008. Ed è da quell’anno, scrive il Gip, che Di Fazio è diventato “progressivamente sempre più spregiudicato”.

Piero Amara patteggia 6 mesi per bancarotta

Il Gup di Romaha dato il via libera alla richiesta di patteggiamento, chiesta da Piero Amara a sei mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta. L’ex avvocato esterno dell’Eni, protagonista del caso dei verbali in cui parla di una presunta loggia chiamata “Ungheria”, in questo caso era accusato del fallimento della P&G Corporate Srl nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura della Capitale, ed è già detenuto nel carcere di Terni per cumulo di pene. Il gup ha dato l’ok anche al patteggiamento a 1 anno e 4 mesi per Diego Calafiore, fratello dell’avvocato Giuseppe la cui posizione è stata stralciata. Infine il giudice ha rinviato a giudizio l’imprenditore Fabrizio Centofanti e altri due fissando il processo al 7 giugno.

“Buon Natale” è salvo, l’Ue ritira le linee guida

La commissaria Ue alla Parità, Helena Dalli, ha ritirato le linee guida sulla comunicazione inclusiva che avevano innescato la polemica sull’uso del parola Natale. “La mia iniziativa, a uso interno da parte del personale della Commissione nell’espletamento del loro lavoro – ha detto la Dalli – serve per illustrare la diversità della cultura europea e dimostrare la natura inclusiva della Commissione. Tuttavia – ha spiegato – la versione pubblicata delle linee guida non serve adeguatamente allo scopo. Non è un documento maturo e non soddisfa tutti gli standard qualitativi della Commissione. Le linee guida hanno chiaramente bisogno di più lavoro. Pertanto, ritiro le linee guida e lavorerò ulteriormente su questo documento”, conclude.

I precari della ricerca vincono la battaglia: il Cnr stabilizzerà anche i 328 rimasti fuori

Due settimane di occupazione nella sede centrale, una raffica di manifestazioni e alla fine i ricercatori precari del Cnr hanno ottenuto una vittoria quasi piena: i 328 che finora erano rimasti fuori dalle stabilizzazioni saranno assunti a febbraio 2022. Lo ha deciso il consiglio di amministrazione di ieri, cambiando rotta rispetto all’intenzione, dichiarata pochi giorni prima dai vertici dell’ente, di far entrare al massimo una cinquantina di precari storici. Una scelta che aveva fatto partire le mobilitazioni dei sindacati Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Scuola Rua, oltre che del collettivo Precari Uniti Cnr.

Con questa immissione, si può dire quasi del tutto completato il processo di stabilizzazione iniziato nel 2018. Mancherebbero all’appello poche decine di lavoratori penalizzati da cavilli normativi. Come ha ricordato lo stesso Consiglio nazionale delle ricerche, in quattro anni sono stati assunti 1.868 precari tra ricercatori e tecnologi. A maggio 2017 è stata approvata la legge Madia, con l’obiettivo di superare il fenomeno del precariato storico negli enti di ricerca italiani permettendo l’assunzione permanente automatica o attraverso concorsi riservati. La pratica però è stata molto più complessa, perché per garantire il posto fisso a chi ne avevano diritto servivano risorse che poi sono arrivate a singhiozzo (in un settore storicamente sotto-finanziato). Sempre nel 2018 si è tenuta la prova di selezione destinata ai ricercatori e ai tecnologi che avevano maturato l’anzianità di tre anni – il minimo per essere definiti “storici” – con contratti da atipici, per esempio i co.co.co. Creata la graduatoria, è stata scorsa un po’ alla volta, e in questi ultimi giorni restavano 328 idonei non ancora assunti. Un grosso problema perché la scadenza di quella graduatoria è prevista per il 14 dicembre, quindi senza la stabilizzazione avrebbero perso il posto. Ecco perché in queste settimane è partito uno scontro sui fondi: secondo i vertici del Cnr, dei soldi stanziati dai diversi provvedimenti governativi, solo 3,3 milioni erano a favore delle stabilizzazioni; per i sindacati, invece, erano utilizzabili anche i 22,8 milioni arrivati con il decreto Rilancio. L’altro ieri, i precari hanno manifestato sotto il ministero dell’Università e della Ricerca, ottenendo qualche rassicurazione dai tecnici di Viale Trastevere, i quali però non potevano intervenire sulle scelte del Cnr. Che però sono comunque arrivate ieri durante il cda, che si è convinto a dare il via libera alle ultime assunzioni.

Piero Grasso (LeU): “Lotta alla mafia, nessun cedimento”

Attorno alle modifiche, volute dalla Corte costituzionale, dell’ergastolo finora ostativo alla libertà condizionata per i boss non pentiti, ieri c’è stata un’altra prova di dialogo per un possibile centro-sinistra Pd, M5S e LeU. “Combattere le mafie difendendo la Costituzione” era il titolo di un dibattito voluto da Piero Grasso, ex magistrato e senatore di LeU, ma ospite di una delle “Agorà” volute dal segretario del Pd Enrico Letta, che ha lanciato una frecciatina a Renzi: “È l’ascolto il modo per costruire un nuovo centrosinistra e un programma, che non si fa con consulenti e slide”. Quanto al merito del tema, le conclusioni sono state di Grasso. Le fa con il pathos di chi è stato al fianco di Giovanni Falcone, era giudice a latere del maxi processo, ma con la consapevolezza di quanto ancora la mafia sia potente: “La mafia stragista ha lasciato un segno indelebile. Quella di oggi, invisibile e transnazionale, è ancora più pericolosa: basta pensare alle enormi risorse del Pnrr e alla fragilità del tessuto economico e sociale conseguente alla pandemia”, non ci possono essere “cedimenti”. Sulle modifiche all’ostativo in discussione in Commissione Giustizia della Camera, presidente e relatore Mario Perantoni, M5S, presente ieri, Grasso aggiunge: “Per me la Cedu ha sottovalutato la peculiarità delle organizzazioni mafiose e la Corte, dovendosi muovere in quel solco, ha lasciato al Parlamento il tempo per intervenire. Dobbiamo prenderne atto e costruire una normativa rigorosa e costituzionalmente orientata”.

Caso Grillo Jr. il giallo dei video cancellati: “Mancano 25 foto e filmati di quella notte”

Mancano “almeno 25” fra “video e immagini” di quella notte. Documenti potenzialmente molto importanti ai fini delle indagini, “cancellati” dai cellulari degli indagati nell’arco del mese successivo e ormai “irrecuperabili”. È quanto emerge dall’inchiesta sul presunto stupro di gruppo per cui sono indagati Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e i tre amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. A denunciarlo è Alessandro Borra, esperto di informatica forense fra i più conosciuti del foro di Milano, che affianca l’avvocato Giulia Bongiorno nella difesa di Silvia (nome di fantasia), la parte offesa: “Ci sono segni di recenti interventi – scriveva a due mesi dai fatti, il 17 settembre 2019 – sul cellulare in uso a Edoardo Capitta”. Alla sparizione di quei documenti non si è mai riusciti a dare una data certa.

Quell’anomalia è stata poi riconosciuta anche dalla Procura di Tempio Pausania, a cui non è restato che prendere atto dell’esistenza di “file mancanti”: “Non tutto ciò che stato perduto dalla memoria del telefono è recuperabile, alcune parti sono state sovrascritte – replica Mauro Sanna, consulente dei pm – una nuova estrazione potrebbe far recuperare altri dati, ma non è detto che siano pertinenti per le indagini”. La difesa della studentessa la pensa in un altro modo: a mancare all’appello sono foto e filmati girati esattamente negli istanti della presunta violenza. Borra se ne è accorto perché la sequenza numerica dei file è interrotta. Non è un particolare di poco conto: come è noto, i filmati ritrovati per le difese dimostrerebbero che si è trattato di un rapporto consenziente. Ne esistevano dunque altri? Per i legali degli indagati non ci sono misteri: “Video della serata sono stati ritrovati”. Come dire: se la rimozione fosse stata dolosa sarebbero stati eliminati anche quelli. Ma il giallo della sparizione dei file incrocia anche il fascicolo parallelo per revenge porn: risultano cancellati anche alcuni file scambiati via chat. La legge che punisce la diffusione di video “a contenuto sessualmente esplicito” è entrata in vigore due settimane dopo la notte del 17 luglio 2019. Il reato potrebbe essere contestato però se la diffusione fosse stata successiva. Nelle chat intercettate nell’agosto del 2019 i ragazzi manifestano più volte l’intenzione di scambiarsi quei video. A oggi nessuno ha mai provato che lo abbiano fatto per davvero.