Poche dosi disponibili, gravi carenze infrastrutturali, contrarietà al vaccino. Sono questi i principali motivi che rendono l’Africa il continente con il più basso tasso di vaccinazione al mondo, quello dove è più probabile che si sviluppino nuove varianti del virus, come sembra essere successo con la Omicron, individuata per la prima volta in Botswana l’11 novembre scorso.
Secondo i numeri pubblicati da Our World In Data, delle otto miliardi di dosi di vaccino usate finora, solo il 3% è andato all’Africa, anche se nel continente vive il 17% della popolazione mondiale. Si fa presto a dire Africa, però. Analizzando i dati delle singole nazioni, si notano infatti differenze molto rilevanti. Qualche esempio aiuta a chiarire la situazione. Nella Repubblica democratica del Congo ha ricevuto almeno una dose di vaccino lo 0,1% della popolazione, in Sudafrica il 28%, in Botswana il 37%, in Tunisia il 51%, in Marocco il 66%. Si va dunque da livelli prossimi allo zero, ad altri in cui la percentuale è persino maggiore rispetto a quella di alcune nazioni dell’Unione Europea. Tanto per dire: in Polonia ha ricevuto almeno la prima dose il 55% della popolazione, in Romania il 40%, in Bulgaria il 26%. E anche negli Stati Uniti la quota di vaccinati con prima dose è di poco superiore a quella del Marocco (69% contro 66%). Tutti questi numeri indicano che, per spiegare come mai in Africa il tasso medio di vaccinati sia così basso, oltre alla disponibilità delle dosi contano anche altri fattori.
Partiamo proprio dalla disponibilità di materia prima. “Un elemento chiave è stata la fornitura di dosi, con i Paesi dell’Africa che si trovano in fondo alla coda delle consegne di vaccini”, ha scritto sul suo blog Axel van Trotsenburg, direttore generale della Banca mondiale, convinto come molti altri esperti che “nessuno è al sicuro finché non tutti siamo al sicuro”. Per conoscere le dosi a disposizione di ogni nazione c’è il database di Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tiene conto dei vari strumenti usati per ottenere vaccini: contratti diretti con le case farmaceutiche, donazioni fra Stati, accordi multilaterali stretti attraverso strutture come Covax, Avat e altre. I dati mostrano enormi diseguaglianze a livello globale. L’Italia, ad esempio, si è assicurata finora abbastanza dosi da poter vaccinare quasi quattro volte la propria popolazione (377%). La proporzione è simile per tutti gli altri Paesi Ue, anche se – come detto – in alcuni il tasso di vaccinati resta basso nonostante l’enorme disponibilità di materia prima: la Romania, tanto per citare un caso emblematico, si è assicurata dosi per coprire il 319% della propria popolazione, ma solo il 40% dei romeni si è fatto iniettare almeno una dose.
Da questo quadro l’Africa esce malissimo. La maggioranza delle nazioni del continente non si è infatti assicurata nemmeno una quantità di dosi tali da poter vaccinare una volta tutti i suoi cittadini. L’Algeria è ad esempio al 35% della propria popolazione, il Mali al 30%, l’Etiopia al 33%. Questi dati non tengono ancora conto dell’annuncio fatto due giorni fa dal governo cinese, che ha detto di voler regalare un miliardo di dosi al Continente. Ma la fotografia scattata da Fmi e Oms, al di là di alcune eccezioni, dimostra che i Paesi con tante dosi a disposizione sono anche quelli in cui il tasso di vaccinati è più alto. Esempio: il Marocco, che come detto è in cima alla classifica continentale per iniezioni somministrate, è anche una delle nazioni africane che si è assicurata più dosi (pari al 121% della sua popolazione). Per questo motivo sono in molti a credere che l’unico modo per provare ad allargare la copertura vaccinale sia quello di sospendere i brevetti, così da aumentare la produzione di dosi su scala globale. Su questo finora non è ancora stato trovato un accordo, perché la riforma necessità dell’unanimità all’Organizzazione mondiale del commercio e una manciata di componenti, tra cui l’Ue, continua a opporsi.
La strada finora intrapresa per aiutare i Paesi più poveri è stata quella delle donazioni, della beneficenza, ma a quasi due anni dall’inizio della pandemia i risultati sono deludenti. “Solo il 14% delle dosi contrattate da Covax e l’8% delle dosi contrattate da Avat sono state consegnate finora dai produttori”, hanno calcolato infatti Fmi e Oms. Non solo. Molte delle dosi donate sono arrivate a destinazione quando erano ormai prossime alla scadenza. Conseguenza: milioni di vaccini buttati nel cestino perché inutilizzabili. È successo ad esempio in Malawi, Sud Sudan e Congo, ha raccontato la Bbc. “A oggi – si legge in un comunicato pubblicato due giorni fa sul sito dell’Oms – oltre 90 milioni di dosi donate sono state consegnate al continente (africano, ndr) tramite Covax e Avat, e altri milioni di dosi tramite accordi bilaterali. Tuttavia, la maggior parte delle donazioni fino a oggi sono state fornite con scarso preavviso e breve durata. Ciò ha reso estremamente difficile per i Paesi pianificare campagne di vaccinazione e aumentare la capacità di assorbimento”. A questo problema si aggiunge la scarsa capacità di alcune nazioni di gestire la campagna vaccinale, anche a causa della mancanza di infrastrutture (strade, porti, aeroporti) necessarie per portare le dosi nelle aree più remote. Il caso più clamoroso è quello della repubblica democratica del Congo, nazione grande come due terzi dell’Europa occidentale, ma con poco più di duemila chilometri di strade asfaltate.
A pesare sul basso tasso di protezione dell’Africa c’è poi lo scetticismo sui vaccini. Secondo uno studio pubblicato nel febbraio scorso dall’Africa Cdc (istituto dell’Unione Africana), “una significativa quota” della popolazione africana “esprime preoccupazione sulla sicurezza dei vaccini”. In media, quasi un intervistato su cinque (18%) ha detto di non volersi proteggere anche se fosse dimostrata la sicurezza e l’efficacia della puntura. Le proporzioni cambiano molto da Paese a Paese. Si va dal minimo della Tunisia (solo 2 su 100 dicono no al vaccino) al massimo del Congo (38 su 100). Insomma, con più dosi a disposizione per tutto il mondo il rischio che si sviluppino nuove varianti diminuirebbe, ma per azzerarlo non è detto che questo sia sufficiente.