Caso Morisi, i pm chiederanno l’archiviazione

Aveva della coca in casa, ma la bottiglietta contenente la “droga dello stupro” non era sua e non è stato lui a cederla a uno dei due 20enni romeni con cui aveva organizzato un festino. Per questo Luca Morisi, ex guru social della Lega, non finirà probabilmente a processo. La Procura di Verona, che l’ha indagato per cessione di stupefacenti, depositerà a giorni dal Gip la richiesta di archiviazione. Lo stesso farà per uno dei due escort, che la notte del 14 agosto avevano combinato con lui una notte di sesso e droga, nel suo appartamento di Belfiore (Verona).

Morisi ha ammesso di aver acquistato la coca ma, ha spiegato il suo legale Fabio Pinelli, non c’è stato “un accordo preventivo di scambio” con gli altri due. E questo, da codice, fa cadere l’accusa di spaccio. In secondo luogo si trattava di una dose compatibile con l’uso personale. L’analisi delle chat ha poi escluso che il flacone di Ghb in possesso di uno dei ragazzi fosse di Morisi. Per i pm si tratta di “cessione reciproca di stupefacente, non punibile per la particolare tenuità”.

Veneto, 39 arresti “Rifondavano la Mala del Brenta”

Sono invecchiati, ma ancora capaci di “azioni efferate”, caratterizzate da modalità di esecuzione “tipiche dell’agire mafioso”. Dal 2015 alcuni esponenti della “Frangia dei mestrini” erano tornati in libertà e, secondo la Dda della Procura di Venezia, avevano tentato di rimettere in piedi la Mala del Brenta. All’alba di ieri 39 persone sono state arrestate nell’operazione “Papillon” tra Treviso, Padova, Venezia e Rovigo. I magistrati ipotizzano estorsioni contro operatori del trasporto acqueo con attracchi nell’Isola del Tronchetto, smercio di stupefacenti, rapine con armi da fuoco a privati e attività commerciali, alcune delle quali hanno portato nelle casse dell’organizzazione considerevoli introiti. “Gravi e concordanti elementi”, per gli investigatori, che confermano il tentativo di ridare vita all’organizzazione già smantellata negli anni 90, dopo la cattura del suo boss storico, Felice Maniero. Che oggi si chiama fuori: “Non solo prende le distanze dalla ricostituita Mala del Brenta ma la disconosce, essendosi lui stesso pentito”, ha spiegato ieri il suo legale, Rolando Iorio.

Scuola, Draghi ordina la giravolta sulla giravolta

Ci penserà il generale Figliuolo, con i laboratori militari, a fare i tamponi necessari per le scuole ed evitare all’intera classe la Didattica a distanza (Dad) quando c’è un solo positivo. Così Mario Draghi, che aveva promesso scuole in presenza anche senza i necessari interventi strutturali, ha imposto ai ministri della Salute e dell’Istruzione una seconda giravolta. La prima era stata lunedì sera: una circolare congiunta, sollecitata dall’Istruzione alla Salute, sospendeva la “sorveglianza con testing” introdotta appena tre settimane fa, il 3 novembre, quella che al primo positivo prevede tamponi per tutta la classe, il primo e il quinto giorno; tutti in Dad, dai 12 anni in su, solo con almeno altri due positivi al primo test.

Questo in teoria. Nella pratica molti dipartimenti di Prevenzione delle Asl, non adeguatamente rafforzati in quasi due anni di pandemia, non riescono a fare i test e le classi vanno in Dad al primo positivo nonostante l’ampia letteratura sui danni psicologici delle scuole chiuse. Succede a Roma come in altre aree del Paese. I presidi si sono lamentati. E così, di fronte all’aumento dei contagi che colpisce la popolazione in età scolare, lunedì sera è arrivata la circolare: “Si ritiene opportuno sospendere – provvisoriamente – il programma di ‘sorveglianza con testing’ e di considerare la quarantena per tutti i soggetti contatto stretto di una classe/gruppo dove si è verificato anche un singolo caso tra gli studenti e/o personale scolastico”. A firma di Giovanni Rezza, capo della Prevenzione alla Salute e Jacopo Greco, capo delle Risorse umane, finanziarie e strumentali all’Istruzione, che nella premessa ricordavano “l’incidenza (casi/popolazione) settimanale ancora in crescita e pari a 125 per 100.000 abitanti (al 25 novembre, ieri era già a 145, ndr): valore ben lontano da quello ottimale di 50 per 100.000, utile per un corretto tracciamento”.

Ieri la seconda giravolta: “Non ci sarà alcun ritorno in Dad in caso di presenza di un solo alunno contagiato”, fa sapere il governo. Poco dopo la nuova circolare, con le stesse firme di lunedì: “Anche in considerazione della sopravvenuta disponibilità manifestata dalla struttura commissariale – scrivono i due dirigenti – potrà essere mantenuto il programma di testing di cui alla circolare del 3 novembre per la verifica della positività dei soggetti individuati come contatti di una classe/gruppo, da effettuarsi in tempi estremamente rapidi, tali da garantire il controllo dell’infezione. (…) Dovrà essere comunque garantita la didattica in presenza per coloro che non rientrano nei provvedimenti di quarantena (…). Si intendono conseguentemente superate le indicazioni della precedente circolare”, quella di lunedì 29 appunto. Si torna ai test del primo e del quinto giorno. Sopra i 12 anni, Dad solo con tre positivi, ne bastano due dai 6 ai 12 anni, uno sotto i sei anni.

Raccontano che Draghi non era stato informato della circolare di lunedì, l’ha vista ieri e si è consultato con il professor Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico. Poi Palazzo Chigi ha sondato il generale Figliuolo che ha offerto i laboratori militari per processare i tamponi. Se è così semplice bisogna chiedersi perché non ci abbiano pensato prima. Se funzionerà, per di più “in tempi estremamente rapidi”, lo vedremo nelle prossime settimane. Anche perché oltre al problema dei laboratori c’è quello del tracciamento dei contatti. Probabilmente molte classi continueranno ad andare in Dad anche con un positivo.

Non risulta che Patrizio Bianchi e Roberto Speranza, ministri dell’Istruzione e della Salute, si siano opposti alla volontà di Palazzo Chigi. I tecnici della Salute sono preoccupati, c’è chi teme che le famiglie terranno i ragazzi a casa anche senza Dad quando c’è un caso in classe. Ora però la sorveglianza sanitaria in ambito scolastico dipenderà dalla struttura commissariale, che fa capo alla Presidenza del Consiglio.

Regioni contro Figliuolo: “Piano inapplicabile, poco personale”

L’annuncio, come da tradizione, è ambizioso: “A dicembre dobbiamo arrivare a 400 mila dosi di vaccino al giorno”. L’obiettivo del commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo (nella foto) si scontra però con la realtà, per ammissione stessa delle Regioni. Sono infatti i governatori a smontare l’entusiasmo del generale, lamentando una carenza di personale: “Se i numeri quotidiani delle vaccinazioni, come richiesto dal governo, dovranno tornare alla media nazionale di 400 mila al giorno, serve un supporto con più personale per potenziare la nuova campagna vaccinale”.

Un problema da risolvere in fretta, visto che i ricoverati continuano ad aumentare (ieri +92 nei reparti ordinari e +14 in terapia intensiva). Ma ieri è stato anche il giorno del via libera definitivo alla riforma della sanità lombarda, approvata in aula dalla maggioranza di centrodestra dopo settimane di proteste di Pd e M5S, che lamentano il mantenimento di un sistema sbilanciato in favore dei privati. Due giorni fa i 5 Stelle avevano anche occupato i banchi della giunta, costringendo la Digos a intervenire per espellerli dall’Aula su richiesta del presidente del Consiglio regionale, il leghista Alessandro Fermi.

Intanto in Francia e Russia avanzano le sperimentazioni di vaccini-spray nasale che permetterebbero un abbattimento dei costi e una maggiore facilità di somministrazione. Quello francese verrà messo in commercio nel 2023 dalla BioMap mentre lo Sputnik russo dovrebbe arrivare già nei prossimi mesi.

All’Africa solo briciole: appena il 3% dei vaccini

Poche dosi disponibili, gravi carenze infrastrutturali, contrarietà al vaccino. Sono questi i principali motivi che rendono l’Africa il continente con il più basso tasso di vaccinazione al mondo, quello dove è più probabile che si sviluppino nuove varianti del virus, come sembra essere successo con la Omicron, individuata per la prima volta in Botswana l’11 novembre scorso.

Secondo i numeri pubblicati da Our World In Data, delle otto miliardi di dosi di vaccino usate finora, solo il 3% è andato all’Africa, anche se nel continente vive il 17% della popolazione mondiale. Si fa presto a dire Africa, però. Analizzando i dati delle singole nazioni, si notano infatti differenze molto rilevanti. Qualche esempio aiuta a chiarire la situazione. Nella Repubblica democratica del Congo ha ricevuto almeno una dose di vaccino lo 0,1% della popolazione, in Sudafrica il 28%, in Botswana il 37%, in Tunisia il 51%, in Marocco il 66%. Si va dunque da livelli prossimi allo zero, ad altri in cui la percentuale è persino maggiore rispetto a quella di alcune nazioni dell’Unione Europea. Tanto per dire: in Polonia ha ricevuto almeno la prima dose il 55% della popolazione, in Romania il 40%, in Bulgaria il 26%. E anche negli Stati Uniti la quota di vaccinati con prima dose è di poco superiore a quella del Marocco (69% contro 66%). Tutti questi numeri indicano che, per spiegare come mai in Africa il tasso medio di vaccinati sia così basso, oltre alla disponibilità delle dosi contano anche altri fattori.

Partiamo proprio dalla disponibilità di materia prima. “Un elemento chiave è stata la fornitura di dosi, con i Paesi dell’Africa che si trovano in fondo alla coda delle consegne di vaccini”, ha scritto sul suo blog Axel van Trotsenburg, direttore generale della Banca mondiale, convinto come molti altri esperti che “nessuno è al sicuro finché non tutti siamo al sicuro”. Per conoscere le dosi a disposizione di ogni nazione c’è il database di Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tiene conto dei vari strumenti usati per ottenere vaccini: contratti diretti con le case farmaceutiche, donazioni fra Stati, accordi multilaterali stretti attraverso strutture come Covax, Avat e altre. I dati mostrano enormi diseguaglianze a livello globale. L’Italia, ad esempio, si è assicurata finora abbastanza dosi da poter vaccinare quasi quattro volte la propria popolazione (377%). La proporzione è simile per tutti gli altri Paesi Ue, anche se – come detto – in alcuni il tasso di vaccinati resta basso nonostante l’enorme disponibilità di materia prima: la Romania, tanto per citare un caso emblematico, si è assicurata dosi per coprire il 319% della propria popolazione, ma solo il 40% dei romeni si è fatto iniettare almeno una dose.

Da questo quadro l’Africa esce malissimo. La maggioranza delle nazioni del continente non si è infatti assicurata nemmeno una quantità di dosi tali da poter vaccinare una volta tutti i suoi cittadini. L’Algeria è ad esempio al 35% della propria popolazione, il Mali al 30%, l’Etiopia al 33%. Questi dati non tengono ancora conto dell’annuncio fatto due giorni fa dal governo cinese, che ha detto di voler regalare un miliardo di dosi al Continente. Ma la fotografia scattata da Fmi e Oms, al di là di alcune eccezioni, dimostra che i Paesi con tante dosi a disposizione sono anche quelli in cui il tasso di vaccinati è più alto. Esempio: il Marocco, che come detto è in cima alla classifica continentale per iniezioni somministrate, è anche una delle nazioni africane che si è assicurata più dosi (pari al 121% della sua popolazione). Per questo motivo sono in molti a credere che l’unico modo per provare ad allargare la copertura vaccinale sia quello di sospendere i brevetti, così da aumentare la produzione di dosi su scala globale. Su questo finora non è ancora stato trovato un accordo, perché la riforma necessità dell’unanimità all’Organizzazione mondiale del commercio e una manciata di componenti, tra cui l’Ue, continua a opporsi.

La strada finora intrapresa per aiutare i Paesi più poveri è stata quella delle donazioni, della beneficenza, ma a quasi due anni dall’inizio della pandemia i risultati sono deludenti. “Solo il 14% delle dosi contrattate da Covax e l’8% delle dosi contrattate da Avat sono state consegnate finora dai produttori”, hanno calcolato infatti Fmi e Oms. Non solo. Molte delle dosi donate sono arrivate a destinazione quando erano ormai prossime alla scadenza. Conseguenza: milioni di vaccini buttati nel cestino perché inutilizzabili. È successo ad esempio in Malawi, Sud Sudan e Congo, ha raccontato la Bbc. “A oggi – si legge in un comunicato pubblicato due giorni fa sul sito dell’Oms – oltre 90 milioni di dosi donate sono state consegnate al continente (africano, ndr) tramite Covax e Avat, e altri milioni di dosi tramite accordi bilaterali. Tuttavia, la maggior parte delle donazioni fino a oggi sono state fornite con scarso preavviso e breve durata. Ciò ha reso estremamente difficile per i Paesi pianificare campagne di vaccinazione e aumentare la capacità di assorbimento”. A questo problema si aggiunge la scarsa capacità di alcune nazioni di gestire la campagna vaccinale, anche a causa della mancanza di infrastrutture (strade, porti, aeroporti) necessarie per portare le dosi nelle aree più remote. Il caso più clamoroso è quello della repubblica democratica del Congo, nazione grande come due terzi dell’Europa occidentale, ma con poco più di duemila chilometri di strade asfaltate.

A pesare sul basso tasso di protezione dell’Africa c’è poi lo scetticismo sui vaccini. Secondo uno studio pubblicato nel febbraio scorso dall’Africa Cdc (istituto dell’Unione Africana), “una significativa quota” della popolazione africana “esprime preoccupazione sulla sicurezza dei vaccini”. In media, quasi un intervistato su cinque (18%) ha detto di non volersi proteggere anche se fosse dimostrata la sicurezza e l’efficacia della puntura. Le proporzioni cambiano molto da Paese a Paese. Si va dal minimo della Tunisia (solo 2 su 100 dicono no al vaccino) al massimo del Congo (38 su 100). Insomma, con più dosi a disposizione per tutto il mondo il rischio che si sviluppino nuove varianti diminuirebbe, ma per azzerarlo non è detto che questo sia sufficiente.

Gkn riapre procedura licenziamento collettivo

La Gkn Driveline Firenze, in una lettera datata 26 novembre, ha comunicato ai dipendenti della fabbrica di Campi Bisenzio che dopo aver ritardato “l’avvio della procedura di licenziamento collettivo fino alla fine di novembre”, ora è “costretta a iniziare la procedura legale alla fine di questo mese”. I licenziamenti erano stati decisi lo scorso 9 luglio dal fondo di investimenti britannico Melrose, che gestisce Gkn e che tramite una mail aveva avvisato i 422 dipendenti della chiusura dello stabilimento, senza alcun preavviso. Ma lo scorso settembre il Tribunale del Lavoro di Firenze aveva bloccato la procedura poiché avvenuta in violazione dello Statuto dei lavoratori. La vicenda è di recente finita anche al centro del caso del premio attribuito dalla rivista Tax&Legal all’avvocato Francesco Rotondi con la motivazione di aver condotto la procedura di licenziamento di 340 persone. Intanto, secondo quanto si apprende, giovedì pomeriggio è stato convocato dalla viceministra allo Sviluppo economico, Alessandra Todde, un nuovo tavolo al Mise con Gkn.

Manovra, Draghi apre sulle bollette (ma sono spiccioli)

Che il premier Mario Draghi concederà ai partiti poco o nulla sulla manovra è scritto nei numeri: ci sono solo 600 milioni da spartire tra i partiti di maggioranza che non riusciranno, quindi, a ottenere molto di più nonostante il diluvio di emendamenti, 6.290, che hanno presentato alla legge di Bilancio ma che potrebbero ridursi a circa 500 “segnalati”. Il premier lo ha fatto intendere lunedì ai 5 Stelle e lo ha riportato ieri a Lega, Forza Italia e Pd, i cui leader e capi delegazione sono stati ricevuti a Palazzo Chigi. Anzi, per essere precisi, è stato il ministro dell’Economia, Daniele Franco, a dialogare con le delegazioni. Il premier si è limitato a parlare ogni tanto e a vigilare sugli incontri con un distacco che alcuni dei partecipanti hanno percepito come una vera e propria manifestazione di fastidio nei confronti dei partiti.

Draghi ha ascoltato tirando dritto, consapevole che le richieste non potranno essere soddisfatte: a parte qualche possibile minimo ritocco, l’unico intervento che farà inserire in manovra sarà quello per fronteggiare il caro-bollette, ma non perché ci sia poco tempo per convertire la manovra in legge o perché sia una delle poche richieste che ha messo d’accordo le forze di maggioranza. In realtà ha già deciso un mese fa che servono più soldi per riuscire a limitare il crescendo dei maxi-rincari che si sono già registrati negli ultimi sei mesi e contro i quali il governo è intervenuto in extremis solo per metterci una pezza. Lo scorso fine giugno ha stanziato 1,2 miliardi, limando così da oltre il 20% al 15,3% gli aumenti del gas e al 9,9% quelli della luce; poi a fine settembre, nonostante lo stanziamento da 3,5 miliardi, la bolletta della luce è comunque aumentata del 29,8%, mentre il gas del 14,4%. Ora, per scongiurare la batosta di gennaio (fino a +40%) servirebbero 5 miliardi. Ma Draghi ne ha disposizione molti meno di tre: in aggiunta ai due già previsti in manovra, ora spuntano 800 milioni avanzati dalla riforma fiscale. Nelle scorse settimane era emerso che il governo avrebbe stanziato un nuovo miliardo, ma questo avrebbe messo a rischio i fondi del Reddito di Cittadinanza, sui cui M5S e Pd hanno fatto le barricate (i grillini peraltro chiedono con un emendamento di ridurre il limite di residenza da 10 a 5 anni per gli stranieri).

Insomma, Draghi e Franco restano alla ricerca di coperture. Eppure Lega e M5S sono già entrati in conflitto per intestarsi l’unica concessione del premier, mentre FI, nella persona della capogruppo in Senato, Annamaria Bernini, ha affrontato Draghi “carica come una dinamo”, recriminando anche di non toccare palla sui decreti fiscali. Il Pd ha tenuto a rivendicare di aver detto dal primo momento che serviva un tavolo sulla manovra. “C’è un problema di metodo: nella riunione al Tesoro ai sindacati non sono state fatte vedere neanche le tabelle”, ha attaccato il vicesegretario Provenzano. Il ministro Orlando ha però spiegato che il “confronto con le parti sociali proseguirà” e che c’è “una volontà chiara del premier e di Franco”. Sono i sindacati quelli che potrebbero creare più problemi al governo. Stamattina proseguono le consultazioni: sarà il turno di Iv, Azione, Coraggio Italia e LeU. Intanto resta difficile l’approdo della manovra per il 17 dicembre in aula a Palazzo Madama.

Lobby, patto tra destra e Iv per smontare la nuova legge

Era quasi un conto alla rovescia il voto in prima lettura, giovedì in aula alla Camera, della legge che finalmente potrebbe dare all’Italia un regolamento sull’attività di lobbying dopo centinaia di proposte già morte in commissione. E invece dopo una riunione di maggioranza in cui pareva essere arrivati a un accordo e nonostante l’accoglimento di molte richieste (che hanno annacquato il testo) ieri in Commissione Affari costituzionali, quella maggioranza non ha tenuto e la legge si è arenata sugli ultimi emendamenti, col serio rischio che si blocchi definitivamente se dovessero decidere di non dare mandato al relatore. La causa: l’asse tra gli incontentabili Forza Italia, Lega, Italia Viva e Fratelli d’Italia.

La legge di cui parliamo, in estrema sintesi, è un testo che unifica le proposte di Pd, M5S e Iv e regola i limiti e i rapporti delle istituzioni con i portatori di interessi: tra le varie misure, si prevede un registro dei lobbisti, un comitato di vigilanza e codici deontologici per tutti (parlamentari membri del governo e vertici degli enti pubblici). “Farebbe venire allo scoperto il mondo occulto delle lobby e toglierebbe il paravento dietro cui si nasconde la politica – spiega Pier Luigi Petrillo, docente di Lobbying alla Luiss – Oggi spesso si attribuisce alle lobby la colpa di determinate scelte politiche, ma se iniziamo a conoscerle, se se ne rendicontano le attività, se si indicano le risorse a disposizione e gli incontri che realizzano, la politica non avrebbe più alibi”. Buone pratiche e buon senso, insomma, che sono stati condivisi trasversalmente, anche se con tutti i compromessi che richiede la politica.

Il meccanismo si è inceppato quando si è arrivati alla regolamentazione dell’attività di lobbying degli stessi parlamentari, dei membri del governo e dei vertici degli enti. La norma, infatti, tra le proposte prevedeva l’iscrizione nel registro anche delle associazioni datoriali (come Confindustria) e dei sindacati, ma soprattutto che Parlamentari e compagnia non potessero fare attività di lobbying per almeno tre anni dopo la fine del mandato. “I parlamentari vengono assoldati spesso appena finisce l’incarico, perché hanno un accesso privilegiato al decisore pubblico – spiega Petrillo – Nel nostro Paese, in assenza di regole, a questi ambienti si accede attraverso relazioni personali che nel corso del mandato parlamentare e dell’incarico di governo l’individuo ha realizzato e che dopo possono essere sfruttate per motivi privati”. Una dinamica che vale ancor di più per gli ex esponenti di governo, nazionale e regionale.

Proprio contro l’inserimento delle associazioni datoriali e lo stop di tre anni si è creato un asse tra destra e Italia Viva, in parte accontentate per portare finalmente a casa la legge: Confindustria e i sindacati sono stati esclusi dall’obbligo mentre il periodo di astensione è stato ridotto a un anno per gli ex membri del governo. Per i parlamentari invece è rimasto solo il divieto di fare i lobbisti durante il mandato (che oggi, incredibilmente, non esiste).

Neanche questo però è bastato: ieri mattina, durante il voto degli emendamenti e dopo un ordine di scuderia arrivato da Forza Italia, in Commissione è iniziato l’ostruzionismo che oltre a Lega e Fratelli d’Italia ha coinvolto pure Italia Viva, proprio mentre il suo leader, Matteo Renzi, è al centro delle polemiche per le conferenze in Arabia Saudita (oltre che per l’inchiesta su Open) e i compensi ricevuti da aziende (come la 21 Investimenti di Alessandro Benetton), che una regolamentazione delle attività dei parlamentari potrebbe aiutare a inquadrare meglio sia in termini di vincoli sia di trasparenza.

Le proposte di compromesso sono state votate, ma resta, ad esempio, sospeso l’emendamento che prevede l’anno di stop anche per le alte cariche di enti pubblici o di diritto privato che ricevono finanziamenti pubblici. Oggi si deciderà il destino della legge, se si fermerà o se ci sarà l’ennesimo compromesso per salvarla. “Speriamo si risolva – ha detto Giuseppe Brescia, presidente della commissione –, ma è inaccettabile che in Conferenza dei capigruppo si dia l’assenso a portare il testo in aula, e poi ci si metta di traverso. Chiediamo lealtà ai partiti di maggioranza”. Anche perché la relatrice Vittoria Baldino aveva ricevuto sul testo parere positivo dal governo: “Essendo una legge molto attesa, non voglio credere che vogliano sabotarla, sarebbe un pessimo segnale”.

Verdini deve 8,6 milioni allo Stato

Ancora guai per Denis Verdini. L’ex senatore, che sta scontando la condanna a 6 anni e 6 mesi arrivata a novembre 2020 per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino, ora dovrà risarcire – in solido con due società e con i vertici delle stesse – ben 8,6 milioni di euro alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La condanna per l’ex leader di Ala è arrivata stavolta dalla Corte dei Conti. La citazione in giudizio riguardava due vicende separate.

La prima era relativa a un presunto danno erariale collegato ai contributi pubblici percepiti “indebitamente”, secondo l’accusa, dalla Società Toscana di Edizioni (Ste). Le annualità di riferimento sono quelle del 2008 e del 2009 e l’ente che ha erogato i contributi è il fondo per l’editoria presso Palazzo Chigi, l’organo che di fatto erogava i soldi per il sostentamento delle imprese editoriali che avevano i requisiti per accedere al contributo. Insieme a Verdini, come ha riportato ieri il quotidiano La Nazione, sono stati condannati in solido al risarcimento la stessa Ste e i dirigenti Massimo Parisi (anche lui ex parlamentare di Forza Italia e Ala), Girolamo Strozza Majorca Renzi, Pierluigi Picerno, Enrico Biagiotti e Gianluca Lucarelli. Il danno erariale calcolato dai giudici contabili è stato di 4.808.213 euro. Sempre in relazione ai fondi per l’editoria, la Corte dei Conti ha deciso anche per i 3.846.507 euro percepiti dalla società editrice Sette Mari scarl, sempre nel 2008-2009. In questo caso, a rispondere in solido, oltre a Verdini, – riporta La Nazione – anche la Sette Mari e i dirigenti Parisi, Picerno, Samuele Cecconi e Fabrizio Nucci. Anche in questo caso i contributi, per i giudici contabili, sarebbero stati percepiti “illecitamente”. Durante le indagini, due anni fa la procura presso la Corte dei conti della Toscana aveva anche congelato beni fino a 9 milioni a garanzia del credito erariale, con una misura cautelare disposta nei confronti di Verdini e Parisi, quest’ultimo soggetto di fiducia per le questioni editoriali.

Per la bancarotta della Ste, Verdini fu condannato nel 2018 in primo grado in sede penale a cinque anni e sei mesi, insieme ad altri amministratori della società. Il processo di appello si sarebbe dovuto aprire il 20 novembre 2020 ma fu aggiornato per la richiesta della Procura generale di Firenze di acquisire agli atti la sentenza con cui il 3 novembre 2020 la Cassazione aveva condannato Verdini a 6 anni e 6 mesi per la bancarotta dell’ex banca Credito cooperativo fiorentino, condanna definitiva che sta scontando. Il 10 giugno 2021 la Corte di Appello ha aperto il processo e lo ha rinviato al 18 febbraio 2022.

2xmille, sì della base 5S “Conte parli con Di Maio”

L’avvocato ha schivato nuovi guai, ma ai piani alti del M5S non è il caso di esultare. Perché è vero, nel voto conclusosi ieri alle 12 sulla piattaforma web SkyVote gli iscritti al Movimento hanno detto sì ai soldi del 2 per mille, e un altro totem è finito nel cassetto senza lacrime. Anzi, visto che gli attivisti avevano invocato quei fondi anche negli Stati generali, e ora si aspettano che gran parte di quei soldi vada ai territori, per iniziative e sedi. Però hanno votato in pochini, quasi 34mila iscritti, ossia il 25,6 degli aventi diritto. Ed è la conferma che dalle parti dei Cinque Stelle l’entusiasmo latita. E anche se Conte su Facebook celebra “l’importante partecipazione”, i freddi numeri dicono che a dare il via libera ai fondi pubblici sono stati poco più di 24mila iscritti, a fronte di 9mila contrari.

Non a caso in serata a Di Martedì l’ex premier corregge il tiro: “I numeri di affluenza sono in linea con le votazioni ordinarie anche del recente passato”. E comunque l’essenziale per l’ex premier era evitare una sconfitta. Perché il clima nel M5S è quello che è, e a ricordarlo, a urne telematiche appena chiuse, è il capogruppo alla Camera, Davide Crippa, veterano molto vicino a Beppe Grillo che Conte avrebbe voluto sostituire e che invece dovrebbe restare dov’è, anche dopo la scadenza di dicembre. “Sono scettico sul prendere il 2 per mille per il Movimento, è una misura chiesta dalla base tante volte ma il rischio è che il finanziamento che ne consegue sia esiguo rispetto a togliere un caposaldo di non finanziamento pubblico del M5S” dice Crippa a Mattino 24. Un’uscita che sembra un morso al leader, anche se Crippa – raccontano – non voleva apparire sgarbato.

Anche perché tra lui e Conte i rapporti sono ripresi, tanto che starebbero discutendo dei nomi che potrebbero affiancare Crippa nel prossimo Direttivo a Montecitorio. Ma diversi parlamentari notano quelle sillabe, mentre già si chiacchiera delle votazioni di giovedì e venerdì, quando gli iscritti dovranno ratificare i cinque vicepresidenti e avallare i coordinatori dei comitati tematici e i referenti territoriali. E sul portale verrà votata una pioggia di big, da Alfonso Bonafede a Chiara Appendino per arrivare al vicepresidente del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo e all’ex capogruppo in Senato Ettore Licheri. Sarà la tanto attesa struttura. Ma per tenersi stretto il M5S Conte deve anche cercare una pax interna. Impossibile riuscirci, almeno ora, con Beppe Grillo, che ai soldi del 2 per mille era contrario, ma che pubblicamente non ha fiatato sul tema. Piuttosto, dicono vari 5Stelle di peso, “Giuseppe deve mettersi attorno a un tavolo con un po’ di big, e il primo da chiamare è Luigi”. Cioè Di Maio, quello che punge e precisa, corregge e smentisce. Navigatore ormai abile delle acque politiche, domenica alla festa del Foglio il ministro ha recapitato al leader un promemoria non banale: “Spero che la strategia per i gruppi parlamentari si faccia tutti assieme, ascoltando i gruppi parlamentari”.

Traduzione: sulla Rai siamo andati in ordine sparso, ed è andata come è andata. Conte, va detto, ha già promesso una sorta di tavolo permanente sul Colle. Ma più d’un maggiorente in questi giorni gli consiglia di anticipare i tempi, e soprattutto di allargare temi e modi del confronto interno. Anche se l’ex premier soffre il dualismo con il ministro degli Esteri. Mentre resta un punto interrogativo Virginia Raggi, entrata stabilmente nell’orbita di Di Maio. “Sul Quirinale ci sarà un confronto continuo” promette forse non a caso a Di Martedì Conte. Per poi sostenere: “Siamo attaccati anche dall’establishment, dall’interno”. E chissà a chi si riferisce.