La “trattativa” in Parlamento: insulti al Fatto da Tajani&Minzo

Antonio Tajani mastica amaro: il racconto pubblicato dal Fatto delle “manovre di avvicinamento” a suon di promesse di soldi e altre utilità da parte di alcuni esponenti forzisti all’opera per assicurare a B. i voti necessari a conquistare il Quirinale, è stato un colpo al cuore: “Non c’è un nome, una prova, niente, si può scrivere tutto e il contrario di tutto così” ha detto ospite a Un Giorno da pecora non entrando nel merito della vicenda politica, a dir poco scivolosa. Il coordinatore azzurro ha preferito invece dare un giudizio “tecnico”, da giornalista: “Se fossi stato il direttore del giornale non l’avrei nemmeno pubblicato, qui non c’è né il chi, né il come, né il quando e né il perché”. Tutti elementi invece ben presenti nel nostro articolo di ieri in cui si protegge doverosamente la fonte, anzi le fonti che hanno preteso di rimanere riservate.

Come quelle citate per anni rigorosamente in forma anonima dall’ex retroscenista Augusto Minzolini, oggi direttore del Giornale. Pure lui prodigo di insulti con il Fatto: “Quando un giornale diventa carta igienica: non un nome. Sono affermazioni gratuite da querela. Calunnie in libertà. Più che un giornale una latrina”. Fatto sta che a dispetto dell’artiglieria pesante schierata da FI, le aspettative quirinalizie di B. hanno subito un duro colpo: ieri il centrosinistra ha chiarito che non lo voterà. “Non è il nostro candidato al Colle” ha detto Giuseppe Conte a cui ha fatto eco Nicola Zingaretti: “Berlusconi è un po’ troppo di parte. Penso che il presidente della Repubblica debba essere più una figura di unità”.

“Io peone per B.? Magari. Mi chiedeva sempre: ‘Antonio, vuoi qualcosa?’”

Lui sulla via di Silvio Berlusconi è stato folgorato nel dicembre 2010, quando mollò l’Italia dei Valori per salvare il governo dell’ex Cavaliere. “Ma l’ho fatto gratis, non mi aveva offerto niente nessuno”, giura Antonio Razzi, da allora diventato – complice una istrionica autoironia – volto simbolo del trasformismo pro-Silvio. Tema più che mai attuale oggi, dopo che il Fatto ha raccolto la confessione anonima di un parlamentare ex M5S a cui emissari di B. avrebbero offerto denaro o poltrone in cambio del sostegno della corsa di Silvio al Quirinale.

Antonio Razzi, lei ci crede che Silvio sia disposto a pagare i parlamentari per farsi votare?

Questo non lo so e non credo, perché di questi e 5 Stelle non mi fido poi tanto, però se fosse vero che qualcuno poi si decide a votare Silvio ne sarei felicissimo. Verrebbe premiata una persona che ha fatto tanto per l’Italia e finalmente sarebbe risarcita per tutto quello che ha subito.

Silvio cuore d’oro.

Io a suo tempo l’ho votato, ma senza nulla in cambio. E ogni volta che lo incontravo mi diceva: “Antonio, ma lei davvero non vuole niente da me?”. Ma io sono fatto così, nella vita ho sempre preferito lavorare.

A Berlusconi però servono i voti di decine di peones.

Ma Berlusconi è un gentleman riconosciuto in tutto il mondo, può prendere voti anche dal Pd e dai 5 Stelle. Io ogni tanto vado alla Camera e al Senato, con i 5 Stelle ci parlo. Mi dicono tutti che hanno fatto una grande cazzata a ridurre il numero dei parlamentari perché si sono tagliati le gambe da soli. Sono stati inesperti, ora si sono pentiti e non vogliono andare a votare.

Ce lo vede il santino di Berlusconi in tutti gli uffici giudiziari?

Sarebbe proprio una bella rivincita: l’unico modo per chiedere perdono di tutte le accuse ingiuste e le prese in giro che ha subito.

Ma lei lo sente ancora Berlusconi?

Ogni tanto sì, l’anno scorso sono passato ad Arcore per salutarlo e lui mi ha ricevuto con tutti gli onori.

Allora gli farà gli auguri per il Colle?

Io mi faccio li cazzi mia fino all’ultimo, non si sa mai che portasse sfortuna. Magari poi, se veramente riuscirà a farsi eleggere, sarò uno dei primi a fargli i complimenti.

E Mediaset silenzia i “populisti” di casa per non disturbare

Si sentiranno usati, Paolo Del Debbio e Mario Giordano. Le loro invettive sono molto apprezzate da Mediaset quando servono a ingrassare gli ascolti, ma diventano di colpo impresentabili quando il capo deve indossare il vestito buono.

I due volti della tv berlusconiana più populista e politicamente scorretta sono stati fermati di nuovo. Le loro vacanze di Natale saranno più lunghe del previsto: Fuori dal Coro e Diritto e Rovescio si fermano la prossima settimana, rispettivamente il 7 e il 9 dicembre, e non torneranno in onda prima dell’ultima settimana di gennaio. Una sospensione a sorpresa, per due programmi che godono di buona salute dal punto di vista dell’auditel e in questi mesi hanno presidiato con profitto la fascia dell’auditel più ostile ai vaccini e agli obblighi sanitari.

Il periodo di “vacanza” coincide casualmente con quello dell’elezione del presidente della Repubblica. La verità, in fondo, la sanno solo i vertici di Mediaset, ma provare a indovinare non è così difficile: in questa fase di berlusconismo ecumenico, trasversale e rassicurante, nel tentativo estremo di rendere B. credibile per il Colle, forse è meglio tenere sotto silenzio le voci meno “eleganti”.

Non è nemmeno la prima volta. La polemica sulle trasmissioni populiste coinvolge i piani altissimi del Biscione da diversi anni. Il primo a mugugnare contro la linea editoriale di Del Debbio e Giordano (e all’epoca anche di Maurizio Belpietro) fu il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, nel lontano marzo 2017, quando confidò al Foglio che nelle loro trasmissioni si stava “esagerando”. Nulla di personale nei confronti dei conduttori, “che sono bravi e non propongono fake news, ma c’è talvolta un eccesso nel racconto che non mi piace”. L’anno successivo, a margine delle elezioni dell’onda grillo-leghista, la scomunica arrivò invece forte e chiara e direttamente dal grande capo. Berlusconi consegnò le sue lagnanze a un retroscena di Francesco Verderami sul Corriere della Sera: “Le nostre tv hanno nutrito i populisti”. Secondo B. i tre anchor men di Mediaset in fondo in fondo lavoravano per Matteo Salvini e infatti a un mesetto dal voto Del Debbio, Giordano e Belpietro subirono la prima epurazione, in epoca gialloverde. Il primo non confermato, il secondo sollevato dalla striscia serale Stasera Italia, il terzo rimosso. Con il ritorno di Berlusconi nell’ovile del centrodestra e il rinnovato sodalizio con Salvini e Meloni, anche Del Debbio e Giordano erano tornati a trainare la carovana dei talk “populisti”, peraltro con risultati difficili da attaccare sotto il profilo dello share. Ma per B. sono risorse “intermittenti”: un momento servono, il momento dopo non più. Nei giorni della disperata corsa al Quirinale, evidentemente, sono ritenuti più dannosi che altro. E zac.

Pare che i due interessati abbiano appreso la notizia dai giornali. Mario Giordano ieri pomeriggio stava registrando la penultima puntata prima dello stop e non ha voluto commentare. Paolo Del Debbio invece è ancora in attesa dell’ordine di servizio che ufficializzi la sospensione: “Per quanto ne so io, dovremmo fare la solita pausa natalizia, come ogni anno. Il primo giovedì del 2022 cade nel giorno dell’Epifania, quindi immaginavo di riprendere la settimana successiva, il 13 gennaio. Non mi è stata comunicata alcuna sospensione, quando sarà il momento, allora commenterò. Ma ne ho viste di cotte e di crude, ormai non mi sorprende più nulla”. Il conduttore lucchese si concede poco più di una battuta sull’ipotesi di Berlusconi al Colle e sull’eventualità che sia proprio quella la ragione del suo stop: “Non mi riguardano le sue strategie personali, ma non credo proprio che ci sospenda per questo motivo. Ne sarei quasi lusingato: se la mia trasmissione influenza il presidente della Repubblica, vuol dire che sono diventato più potente di Bruno Vespa”.

FI è in rosso: figli e amici di Silvio versano l’obolo per il sogno Colle

Le casse del partito sono in rosso e l’insolita campagna elettorale tra i peones in vista del voto per il Quirinale richiede uno sforzo per tutti, senza eccezioni. E così, da qualche settimana, Silvio Berlusconi ha sollecitato facoltosi amici e parenti a rendere meno astratto il proprio sostegno a Forza Italia, contribuendo ai bilanci della sua creatura.

I risultati si vedono: a settembre, stando all’elenco dei donatori depositato da FI, il partito ha battuto ogni record di legislatura, incassando oltre 430 mila euro. Con gli introiti di ottobre, pur tornati a cifre più contenute, si supera così il mezzo milione di entrate in due mesi, in attesa dei dati di novembre. Per intendersi sull’ordine di grandezza: si tratta di una somma pari a quella scucita in tutto il 2020 da parlamentari e consiglieri regionali forzisti.

Niente male. Curiosa è anche la provenienza degli assegni più corposi. A spiccare per generosità è senz’altro Luigi Berlusconi, classe 1988, ultimogenito del Cavaliere, pronto a sponsorizzare le mire quirinalizie del padre con una donazione di 100 mila euro. Obolo identico a quello che a inizio anno aveva staccato Fininvest, la cassaforte di famiglia, costretta a mettere una pezza ai conti del partito.

Ma al giovane Berlusconi va vicina, per slancio di altruismo, la “Società delle Scienze Umane Srl”, ovvero il gruppo che sta dietro la nota università telematica “Niccolò Cusano” (conosciuta anche come UniCusano), il cui ideatore, Stefano Bandecchi, è da anni un sostenitore di Forza Italia. E non solo a parole: per aiutare Silvio, la Società delle Scienze Umane ha appena donato 95 mila euro, raddoppiando il contributo garantito al partito nel 2020. Negli stessi giorni, ecco poi un altro ricco assegno giunto nelle casse di FI: 40 mila euro dalla “Seda International Packaging Group”. Il nome del gruppo forse non dirà granché, ma quello del suo patron è ben più conosciuto: trattasi di Antonio D’Amato, imprenditore napoletano già presidente di Confindustria tra il 2000 e il 2004, uno che Berlusconi ha tentato più volte di candidare prima nel Pdl e poi in Forza Italia, ricevendo sempre garbati declini.

Con una raccolta fondi del genere, è costretto agli straordinari pure il coordinatore nazionale Antonio Tajani, che oltre al solito assegno mensile da 800 euro ha aggiunto una donazione da 5 mila. A cui si aggiungono i 3 mila euro arrivati dalla sezione romana di Federfarma, il sindacato dei farmacisti. Cifra non certo determinante per il bilancio forzista, ma significativa dal punto di vista delle relazioni politiche: Andrea Cicconetti e Alfredo Procaccini, vertici di Federfarma Roma, sono in ottimi rapporti con Andrea Mandelli, vicepresidente della Camera in quota FI e storico dirigente di Fofi, la federazione degli ordini dei farmacisti.

Altri 5 mila euro sono poi arrivati dalla Geko Spa, azienda attiva nel settore dell’energia: il patron della società è Alfonso Gallo, grande accusatore di Alfonso Papa al processo sulla P4 (Papa ne uscì prescritto).

Tutto ciò, come detto, porta ossigeno nei registri contabili del partito. L’ultimo bilancio, quello chiuso il 31 dicembre 2020, è impietoso: il disavanzo è di quasi 830 mila euro, il totale dei debiti supera i 100 milioni. Per salvare il partito, Silvio si è già fatto carico di oltre il 90 per cento di quel debito, rilevandolo dagli altri creditori. Ma non basta, anche perché negli ultimi anni Forza Italia ha sofferto una sanguinosa emorragia di eletti, il cui ultimo esodo è stato verso Coraggio Italia. Non a caso, nell’ultimo bilancio, il tesoriere Alfredo Messina lamentava “le numerose fuoriuscite” e “la riduzione dei versamenti provenienti dagli eletti”, anche per colpa dei tanti “morosi” che da mesi bucano il finanziamento da 900 euro chiesto da B. Adesso, per coprire il buco, a Silvio tocca precettare i fedelissimi.

Questa è la storia di B.

 

1936. Silvio Berlusconi nasce a Milano il 29 settembre, figlio primogenito di Luigi Berlusconi e Rosa Bossi. Il padre è funzionario alla Banca Rasini, di cui diventerà direttore generale e che verrà indicata da Michele Sindona come l’appoggio di Cosa Nostra al Nord per il riciclaggio del denaro sporco. La madre è casalinga. Dopo Silvio, nasceranno suo fratello Paolo (1949) e sua sorella Maria Antonietta (1943).

1954. Prende la maturità classica al liceo salesiano Copernico e si iscrive all’Università Statale, facoltà di Giurisprudenza. A tempo perso, vende spazzole elettriche porta a porta, fa il fotografo ai matrimoni e ai funerali, suona il basso e canta nella band dell’amico d’infanzia Fedele Confalonieri, anche sulle navi da crociera della compagnia Achille Lauro. Anni dopo racconterà che: “La mia carriera canora è cominciata con una tournée in Libano (ma, dalle accurate ricerche del suo biografo Giuseppe Fiori, non risulta che sia mai stato in Libano); “Al ‘Gardenia’ di Milano, come poi sarebbe avvenuto a Parigi, dopo aver cantato, mi buttavo in pista per ballare con le bionde” (ma non risulta che abbia mai suonato a Parigi); “Ho studiato due anni a Parigi, alla Sorbona, e per mantenermi dovevo suonare e cantare nei locali della Capitale” (ma non risulta che abbia mai studiato alla Sorbona); “A Parigi facevo il canottaggio ed ero campione italiano studentesco con il Cus di Milano” (ma esistono seri dubbi anche sui suoi titoli sportivi conquistati in canoa).

1957. Lavora saltuariamente nell’impresa edile Immobiliare Costruzioni e intanto dà esami alla Statale, dove conosce un giovane studente palermitano di quattro anni più giovane: Marcello Dell’Utri, che per qualche tempo gli fa da segretario.

1961. Si laurea in Legge con 110 e lode con una tesi su “Il contratto di pubblicità per inserzione”. E vince una borsa di studio di 2 milioni messa in palio dalla concessionaria Manzoni. Evita, non si sa come, il servizio militare. E si dà all’edilizia, acquistando per 100 milioni un terreno in via Alciati, grazie alla fideiussione fornitagli in garanzia dal banchiere Carlo Rasini, datore di lavoro del padre, che gli procura anche un socio: il costruttore Pietro Canali, cliente della Rasini. Nasce così la Cantieri Riuniti Milanesi.

1963. Fonda la Edilnord Sas: soci accomandanti Carlo Rasini e il commercialista svizzero Carlo Rezzonico (a nome della misteriosa finanziaria luganese Finanzierungesellshaft fur Residenzen Ag). Berlusconi risulta soltanto “socio di opera”.

1964. Apre un cantiere a Brugherio per edificare una città-modello da 4 mila abitanti.

1965. Il primo condominio è pronto, ma Berlusconi non riesce a vendere neppure un appartamento. Finché, non si sa come né perché, lo stabile viene acquistato dal Fondo di previdenza dei dirigenti commerciali. Nel 1969 l’operazione Brugherio sarà ultimata con mille appartamenti venduti. Nello stesso anno Silvio sposa la spezzina Carla Elvira Dall’Oglio, che gli darà due figli: Maria Elvira detta Marina (1966) e Pier Silvio detto Dudi (1969).

1968. La Edilnord acquista per appena 3 miliardi di lire 700 mila metri quadrati di terreni nel Comune di Segrate, dove Berlusconi intende edificare la gigantesca città-satellite “Milano 2”. L’operazione è̀ resa possibile dalla complicità di un giovane, potente e furbo sacerdote-affarista veronese: don Luigi Verzé, che dal 1961 progetta la costruzione della clinica privata San Raffaele su terreni acquistati a Parco Lambro, ma nel 1964 è stato sospeso a divinis dalla Curia milanese per la sua spregiudicatezza.

Berlusconi gli regala 46 mila metri quadri dei terreni di Segrate, che peraltro valgono quasi zero, visto che lì a due passi c’è l’aeroporto di Linate e, a ogni ora del giorno e della notte, decollano e atterrano gli aerei. Proprio per la rumorosità della zona, è stata appena bloccata la costruzione del Nuovo Policlinico.

Ma don Verzé avvia ugualmente i lavori per il San Raffaele, grazie a un mutuo agevolato di 600 milioni di lire e al riconoscimento ministeriale alla futura clinica dello status di “Istituto di ricovero e di cura a carattere scientifico”. Arriva a stipulare anche una strana convenzione con l’Università di Milano. Peccato che manchi la licenza edilizia e dunque i lavori siano abusivi.

1972. La prima Edilnord viene messa in liquidazione ed entra in scena la Edilnord Centri Residenziali di Lidia Borsani & C. La Borsani, cugina di Berlusconi, è socia accomandataria; accomandante è un’altra misteriosa finanziaria svizzera luganese, l’Aktiengesellschaft fur Immobilienlagen in Residenzzentren Ag, che fornisce il capitale iniziale.

1973. Berlusconi e don Verzé, spalleggiati da fantomatici “comitati anti-rumore” creati ad hoc, presentano una petizione al ministero dei Trasporti perché dirotti altrove i voli degli aerei in partenza e in arrivo a Linate, per non disturbare gli abitanti di Milano 2 e soprattutto i ricoverati del San Raffaele. Che però sono ancora quattro gatti: sia Milano 2 sia il San Raffaele sono in costruzione. Ma basta ungere le ruote, anzi le ali giuste e il ministero si porta avanti col lavoro.

Nel 1972 Civilavia sposta le rotte aeree verso il Comune di Segrate, che invece è abitato da 200 mila persone da ben prima che nascesse l’aeroporto. Don Verzé verrà condannato per istigazione alla corruzione di alcuni politici lombardi: la sentenza collegherà il dirottamento dei voli alle sue “pressioni illecite, non esclusa la corruzione, sulle competenti autorità locali e centrali”. Così migliaia di cittadini da un giorno all’altro si vedono piovere sul capo gli aerei, per proteggere la tranquillità di quelli di Milano 2 e del San Raffaele (che quasi non esistono). Per mascherare quella decisione ad personam, vengono falsificate le carte di volo dei piloti Alitalia: Milano 2 diventa una grande chiazza nera di 700 mila metri quadri con una grande “H” (Hospital), come se la lussuosa città residenziale di Berlusconi fosse tutta San Raffaele. Una gigantesca No fly zone per non svegliare gli inesistenti malati.

Così i prezzi dei terreni e delle case di Milano 2 raddoppiano: da 200 a 400 mila lire al metro quadro. Nel 1974 il pretore di Monza, Nicola Magrone, condannerà il direttore generale di Civilavia Paolo Moci per disturbo della quiete pubblica nei comuni danneggiati e definirà il San Raffaele “ospedale dai connotati molto ambigui”.

Intanto nel 1973 Berlusconi fonda la Italcantieri Srl, grazie ad altre due misteriose fiduciarie ticinesi: la Cofigen (legata al finanziere Tito Tettamanti) e la Eti AG Holding (amministrata dal finanziere Ercole Doninelli). E acquista una mega-residenza con un immenso parco in Brianza, ad Arcore. È villa San Martino, di proprietà della famiglia Casati Stampa, protagonista nel 1970 di un tragico fatto di cronaca nera: durante un gioco erotico in veste di guardone, il marchese Camillo Casati Stampa ha perso la testa e ha ucciso nella sua casa romana la moglie Anna Fallarino e il suo giovane amante Massimo Minorenti, per poi togliersi la vita.

La villa di Arcore e altre proprietà passano in eredità alla figlia del marchese, Annamaria Casati Stampa, ancora minorenne. La ragazza è assistita da un giovane protutore di nome Cesare Previti, un avvocato civilista missino di origini calabresi, figlio di Umberto Previti, amministratore-prestanome della società berlusconiana Immobiliare Idra. Grazie ai suoi buoni uffici (e al suo conflitto d’interessi), la marchesina minorenne viene indotta a cedere all’amico di Previti, cioè a Berlusconi, la settecentesca villa San Martino, vasta 3.500 metri quadrati, con quadri d’autore, biblioteca di volumi antichi, parco di un milione di metri quadri, campi da tennis, maneggio, scuderie, due piscine e cascina, tenuta agricola per un totale di 2,5 milioni di metri quadri. Una favolosa proprietà dal valore inestimabile che Berlusconi paga circa 500 milioni di lire dell’epoca: un prezzo irrisorio. E, per giunta, non in denaro frusciante, ma in azioni di alcune società immobiliari non quotate in Borsa: così, quando la ragazza si trasferisce in Brasile e tenta di monetizzare i titoli, si ritrova in mano una carrettata di carta straccia.

A quel punto Berlusconi le offre di ricomprare le azioni, ma alla metà del prezzo inizialmente pattuito. E infine sborsa la miseria di 250 milioni in contanti. Pochi anni dopo, la stessa proprietà diventerà la garanzia per un finanziamento di 7 miliardi e 600 milioni accordato a Silvio da Cariplo e Monte dei Paschi. Una sentenza del Tribunale di Roma, nel 2000, assolverà il giornalista Giovanni Ruggeri, che ha raccontato il clamoroso raggiro nel libro Gli affari del presidente (Kaos, 1994).

Frattanto, in un condominio della nascente Milano 2, nasce una tv via cavo, Telemilano 58, che passerà ben presto sull’etere con il nome di Canale 5.

1974. Berlusconi si trasferisce con la famiglia a villa San Martino. Richiama in servizio Dell’Utri, che nel frattempo è tornato a Palermo e s’è messo a lavorare in banca alla Sicilcassa, perché si ristabilisca a Milano e gli faccia da segretario e anche da amministratore-prestanome della Immobiliare San Martino, fondata grazie a due fiduciarie della Bnl: Servizio Italia e Saf. Marcello però fa di più.

Siccome Silvio teme i sequestri di persona, il 7 luglio gli ingaggia un guardaspalle di tutto rispetto: il cosiddetto “stalliere” o “fattore” Vittorio Mangano, giovane e promettente mafioso della famiglia palermitana di Porta Nuova (guidata da Pippo Calò), raccomandato dall’amico del cuore Gaetano Cinà (mafioso anche lui) e presunto esperto di cavalli (peraltro assenti, all’epoca, nella tenuta di Arcore).

Mangano ha appena 34 anni, ma è già noto alle cronache giudiziarie e alle forze di polizia per tre arresti e varie denunce, processi e condanne. Diffidato nel 1967 come “persona pericolosa”, poi indagato per reati che vanno dalla ricettazione alla tentata estorsione, Mangano è stato fermato nel 1972 in auto con un mafioso trafficante di droga. Secondo i carabinieri di Arcore, “Dell’Utri ha chiamato Mangano pur essendo perfettamente a conoscenza del suo poco corretto passato”.

La sentenza definitiva della Cassazione che condannerà Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa accerterà che l’ingaggio di Mangano è stato suggellato da un incontro organizzato da Dell’Utri a Milano, in Foro Buonaparte, nel maggio del 1974, con Berlusconi, Cinà e i boss Stefano Bontate (capo di Cosa Nostra), Mimmo Teresi e Francesco Di Carlo (poi pentito): un summit coronato da promesse di reciproca “messa a disposizione”.

Infatti, da quel momento, Mangano si insedia a villa San Martino con la moglie, i due figli e la suocera, occupandosi della sicurezza, accompagnando a scuola Marina e Pier Silvio, scortando Silvio in giro per Milano e la moglie Carla a fare la spesa. E Berlusconi inizia a versare ogni sei mesi somme sempre più consistenti di denaro a Cosa Nostra, almeno fino al 1994.

La sera del 7 dicembre 1974, nella villa, si tiene una festa in onore del suo caro amico Luigi D’Angerio, sedicente “principe di Sant’Agata”: appena esce dal cancello a notte fonda, il finto principe viene sequestrato da una banda di malavitosi che però – a causa della nebbia – vanno a sbattere con l’auto contro un albero. L’ostaggio fugge e denuncia il fatto ai carabinieri. Questi indagano, sospettano che il basista del rapimento sia proprio Mangano e avvertono Berlusconi. Il quale non fa una piega e, come se nulla fosse accaduto, si tiene in casa lo “stalliere” mafioso per altri due anni.

1975. Le fiduciarie della Bnl Servizio Italia e Saf danno vita alla Fininvest. Nascono anche la Edilnord e la Milano 2. Ma Berlusconi non compare mai in alcuna delle sue società. Dal 1968 è inabissato e schermato da una miriade di prestanome: casalinghe, notai, ragionieri, commercialisti, elettricisti, perfino un cecoslovacco di 90 anni colpito da ictus e paralizzato in carrozzella, e un cugino del boss mafioso Tommaso Buscetta. Fa eccezione la Italcantieri, di cui Silvio diventa presidente nel 1975.

Intanto Mangano viene arrestato due volte dai carabinieri, che vanno a prelevarlo a casa di Berlusconi per condurlo in carcere a scontare condanne definitive per truffa, porto abusivo di coltello e ricettazione (Paolo Borsellino, nella celebre intervista rilasciata a due giornalisti francesi nel maggio 1992, poco prima di morire, racconterà che all’epoca Mangano era la “testa di ponte della mafia al Nord” ed era pure specializzato nel racket delle cliniche private: ai primari che non pagavano il pizzo, era solito recapitare teste di cane o di cavallo mozzate, come nella famosa scena de Il padrino).

Ma entrambe le volte, appena uscito dal carcere, lo “stalliere” viene riaccolto da Silvio e Marcello a braccia aperte, come se nulla fosse. Il 26 maggio esplode una bomba che devasta il portone di via Rovani 2 a Milano, sede della Fininvest e seconda residenza di Berlusconi. Il quale si guarda bene dal denunciare l’attentato, “firmato” da una croce nera sullo stipite. In una telefonata del 1986, ricostruendo il fattaccio, Confalonieri ricorderà che il sospettato numero uno era Mangano. Che però, fra una bomba e un arresto, rimane indisturbato a gestire la sicurezza di Berlusconi & C.. A domicilio.

1976. Fra i mesi di ottobre (secondo la Questura di Milano) e dicembre (secondo altre fonti), Mangano lascia villa San Martino ad Arcore e si trasferisce a Milano, all’hotel Duca di York. Lì si mette in proprio e continua a gestire il traffico di droga e il riciclaggio del denaro sporco. “Lo abbiamo allontanato per le voci su di lui”, dirà Berlusconi. “Me ne sono andato io e ho dovuto pure insistere, perché Dell’Utri e Confalonieri volevano che restassi”, ribatterà il mafioso.
Sia come sia, non è alla sua fedina penale, già peraltro nota al suo arrivo, che si deve l’allontanamento. Bensì, come testimonierà lui stesso, all’articolo di un giornale locale sulla sua ingombrante presenza accanto al rampante palazzinaro milanese, che lo induce a levarlo dall’imbarazzo e soprattutto a sottrarre se stesso dalla luce dei riflettori.
Infatti Berlusconi continua a stimarlo. E Dell’Utri a frequentarlo: il 24 ottobre Marcello e Vittorio partecipano al pranzo di compleanno del boss catanese Antonino Calderone, salito a Milano per festeggiare i suoi primi 40 anni al ristorante “Le Colline Pistoiesi” di via Marcona, insieme a vari picciotti in trasferta al Nord, come Nino e Gaetano Grado. Per precauzione, il Cavaliere si trasferisce per qualche mese con la famiglia in Svizzera. E poi in Spagna.

1977. Dopo Mangano, anche Dell’Utri lascia Berlusconi: racconterà che aspirava a diventare dirigente nel gruppo del Biscione, ma Silvio non lo riteneva capace, così pensò di “prendersi un anno sabbatico per approfondire gli studi di teologia” (è da sempre vicino all’Opus Dei). Poi però opta per una missione più prosaica: va a lavorare per un amico di Cinà, Filippo Alberto Rapisarda, anche lui legato a mafiosi doc come Vito Ciancimino e il clan Cuntrera-Caruana (leader mondiale del traffico di droga fra Italia e Sudamerica). Rapisarda lo nomina amministratore delegato della Bresciano Costruzioni e ingaggia anche il suo fratello gemello Alberto, come Ad della Venchi Unica.
In pochi mesi i due fratelli Dell’Utri fanno bancarotta fraudolenta all’unisono con le rispettive società: fallite sia la Bresciano sia la Venchi. Alberto finisce in galera a Torino, mentre Marcello resta a piede libero, ma perde il lavoro. Rapisarda fugge in Venezuela, ospite dei Cuntrera-Caruana, con documenti falsi a nome di Alberto Dell’Utri. Poi trasloca a Parigi. Lì Marcello si reca a trovarlo e, non sapendo come pagare l’affitto del proprio appartamento milanese, s’imbuca nella bella casa lasciata vuota da Rapisarda in via Chiaravalle.
Intanto il presidente della Repubblica Giovanni Leone nomina Silvio Berlusconi Cavaliere del Lavoro. E lui, poco dopo, acquista il 12 per cento dell’editrice de Il Giornale, fondato nel 1974 da Indro Montanelli, di cui negli anni seguenti assumerà il controllo di maggioranza.

1975-1983. In otto anni, nelle 24 (poi salite a 37) “Holding Italiana” che controllano la Fininvest affluiscono 113 miliardi di lire dell’epoca (circa 300 milioni di euro) di provenienza misteriosa, parte addirittura in contanti. Berlusconi non svelerà mai l’identità degli anonimi donatori. Il consulente tecnico di Dell’Utri, il professor Paolo Iovenitti dell’Università Bocconi, dovrà ammettere al processo per mafia che alcuni di quei finanziamenti sono inspiegabili e “potenzialmente non trasparenti”.
Rapisarda, Massimo Ciancimino e diversi pentiti racconteranno che in quel periodo Bontate e altri boss (compreso Michele Graviano, padre dei futuri stragisti Filippo e Giuseppe) diventano soci del gruppo Fininvest, investendovi grossi capitali mafiosi. Queste accuse, suffragata anche dalle recenti dichiarazioni di Giuseppe Graviano, sono ancora al vaglio della Procura di Firenze, che indaga su Berlusconi e Dell’Utri nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del 1993-’94. Negli stessi anni, in parallelo, danno la scalata al potere due amici e sodali del neo Cavaliere del Lavoro: Licio Gelli, maestro venerabile della loggia deviata e occulta “Propaganda 2”, e Bettino Craxi, segretario del Psi dal 1976.

1978. Il 26 gennaio, presentato tempo prima a Gelli dall’amico giornalista Roberto Gervaso, Berlusconi viene affiliato alla loggia P2 con la tessera numero 1816 e il grado massonico di “apprendista muratore”. Di lì a poco inizia a ricevere crediti oltre ogni normalità dal Monte dei Paschi e dalla Bnl (due banche che hanno ai vertici alcuni uomini-chiave affiliati alla P2). E prende a collaborare, come commentatore di politica economica, al Corriere della Sera controllato dagli editori Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, entrambi iscritti alla P2.

1979. Completata la costruzione di Milano 2, Berlusconi esce allo scoperto anche nella Fininvest, assumendone la presidenza, fino ad allora occupata da vari prestanome.
Il 12 novembre la Guardia di Finanza compie una verifica fiscale presso la sua Edilnord Centri Residenziali. E accerta “violazioni alle norme valutarie, costituenti illecito amministrativo, per un ammontare complessivo di lire 5.738.533.877”, nonché “ipotesi di attività esterovestita da parte del dottor Berlusconi”. Lui però disconosce la paternità delle aziende che ha fin qui creato e si spaccia per un semplice “consulente” di Edilnord, che lo avrebbe incaricato della “progettazione” e “direzione generale del complesso residenziale di Milano 2”. Invece è il proprietario della società. La sua dichiarazione fasulla viene raccolta – e presa per buona – dal capitano Massimo Maria Berruti, che chiude frettolosamente l’ispezione nonostante le irregolarità riscontrate.
Nel 1980 Berruti abbandonerà le Fiamme Gialle per diventare avvocato della Fininvest (sarà poi processato insieme a Berlusconi e condannato per favoreggiamento nel processo per le tangenti alla Guardia di Finanza; dopodiché diventerà deputato di Forza Italia). Il comandante di Berruti che firma con lui il rapporto è il colonnello Salvatore Gallo, anche lui affiliato alla P2.

1980. Berlusconi fonda Publitalia 80, la concessionaria pubblicitaria delle sue reti tv, che due anni dopo affiderà alle cure di Dell’Utri. Questi torna all’ovile dopo un paio d’anni di autoesilio chez Rapisarda e diverrà presto presidente e amministratore delegato della nuova società. Il 14 gennaio Dell’Utri viene intercettato dalla Criminalpol di Milano, in un’indagine per droga, al telefono con Mangano, il quale gli propone “il secondo affare che ho trovato per il suo cavallo”. Dell’Utri risponde che per i “cavalli” (qualunque cosa vogliano dire: Borsellino spiegherà che spesso erano un nome in codice per indicare partite di droga) occorrono i “piccioli”, cioè i soldi, e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare “dal suo principale Silvio”. Dell’Utri risponde che “quello lì non sura”. Cioè “non suda”, non paga.

(1- continua)

No al garante della prostituzione

Il Presidente della Repubblica dev’essere il garante della Costituzione. Silvio Berlusconi è il garante della corruzione e della prostituzione, non solo sul piano giudiziario, mentre la Costituzione l’ha violata sia prima sia dopo il suo ingresso in politica. E ha tentato di scassinarla nel 2006, quando il popolo italiano lo fermò col referendum. Ha prostituito ai suoi interessi privati non soltanto le sue escort, alcune minorenni, ma anche e soprattutto i principi costituzionali che aveva giurato di difendere per ben tre volte da presidente del Consiglio: legalità, giustizia, eguaglianza, dignità delle donne, libertà di stampa, indipendenza della magistratura, libera concorrenza sul mercato, equità fiscale, scuola e sanità pubbliche, disciplina e onore, antifascismo. Dal 1994 è stato eletto in Parlamento sei volte, poi è stato espulso dal Senato in quanto pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e decaduto per legge, e nel 2019 è sbarcato al Parlamento europeo, malgrado sia ineleggibile per la legge 361/1957 sui titolari di pubbliche concessioni.

Ha frodato il fisco, derubando lo Stato che ora vorrebbe presiedere, per 368 milioni di dollari, occultando immense fortune nei paradisi fiscali, ed è stato condannato in via definitiva per i 7,3 milioni di euro scampati alla prescrizione. Ora, da pregiudicato, pretende di guidare il Csm che decide sulle carriere dei magistrati. Ha abusato dei pubblici poteri per piegare il Parlamento ad approvargli 60 fra leggi ad personam, ad aziendam e ad mafiam, alcune bocciate dalla Consulta perché incostituzionali. Grazie a quelle sul falso in bilancio e sulla prescrizione, si è fatto prescrivere 9 processi per accuse gravissime, dalla corruzione al falso in bilancio, dalla frode all’appropriazione indebita. E l’amnistia del 1989 l’ha salvato da una condanna per falsa testimonianza sulla loggia P2, a cui era affiliato dal 1978. Ha corrotto parlamentari per ribaltare le sconfitte elettorali, come attesta la sentenza definitiva di prescrizione sull’“acquisto” di Sergio De Gegorio per 3 milioni. Ha elevato a sistema il conflitto d’interessi, legittimando anche quelli degli altri. Ha sdoganato i peggiori disvalori, facendo pubblico vanto di condotte prima relegate alla clandestinità. Ha trasformato la Camera, il Senato e gli enti locali in stipendifici per i suoi avvocati, coimputati, lobbisti, camerieri, badanti, Papi girl e igieniste dentali. Ha screditato irrimediabilmente il Parlamento facendo votare la mozione “Ruby nipote di Mubarak”. Ha coperto di ridicolo l’Italia e di vergogna gli italiani con sceneggiate e pagliacciate in giro per il mondo. Ha danneggiato l’immagine del Paese con attacchi all’Europa ed elogi ad alcuni fra i peggiori regimi autoritari (dalla Libia di Gheddafi alla Russia di Putin, dalla Turchia di Erdogan alla Bielorussia di Lukashenko). Ha trascinato l’Italia in due guerre criminali contro l’Afghanistan e l’Iraq. Ha epurato giornalisti e artisti a lui sgraditi, da Enzo Biagi, Michele Santoro, Daniele Luttazzi, Carlo Freccero a molti altri, trasformando la Rai in servizietto privato per Mediaset e Forza Italia. Ha usato i suoi manganelli catodici e cartacei per calunniare i migliori magistrati e giornalisti, oltre agli oppositori che ostacolavano i suoi disegni eversivi.

Ha affermato che “Mussolini, in una certa fase, è stato un grande statista”, “Per un certo periodo fece cose positive”, “Non ha mai ammazzato nessuno: mandava la gente a fare vacanza al confino”. Ha elogiato pubblicamente l’evasione fiscale e varato condoni tributari, edilizi e ambientali che hanno vieppiù screditato il rispetto delle leggi e vilipeso chi lo pratica. Il suo gruppo, con soldi suoi, ha corrotto politici, magistrati, ufficiali della Guardia di Finanza, testimoni. Il suo braccio destro Cesare Previti è stato condannato definitivamente per aver corrotto il giudice delle cause Mondadori e Imi-Sir. Il suo braccio sinistro Marcello Dell’Utri è stato condannato definitivamente e arrestato, dopo la latitanza, per complicità con la mafia. Il suo referente in Campania, Nicola Cosentino, è stato condannato in primo e secondo grado per concorso esterno in camorra. Il suo referente in Calabria, Amedeo Matacena, è latitante negli Emirati dopo una condanna definitiva per concorso in ‘ndrangheta. Il suo ex presidente della Sicilia, Totò Cuffaro, è pregiudicato per favoreggiamento a Cosa Nostra. E manca lo spazio per una conta dei danni inferti dai suoi tre malgoverni all’economia, alla scuola, alla sanità, all’ambiente, alla cultura, ai diritti civili. Per queste ragioni chiediamo a tutti i parlamentari di non votarlo alla presidenza della Repubblica. Anzi, di non parlarne proprio. E, se possibile, di non pensarci neppure.

La “dinastia Fenoglio” perde un altro famigliare. Addio a Marisa, sorella (e collega) di Beppe

“Io sono nata sorella di Beppe. Sorella dello scrittore Beppe Fenoglio lo sono diventata poco alla volta. È stato un lento, lentissimo crescere di tutti noi in famiglia”. Così Marisa Fenoglio, sorella dell’autore de Il partigiano Johnny, scriveva nel libro di memorie Casa Fenoglio, pubblicato da Sellerio nel 1995. Ora, in prossimità dell’avvio delle tante iniziative con cui la città di Alba celebrerà il centenario della nascita del narratore (1922-1963), se n’è andata anche lei.

Marisa Fenoglio aveva 88 anni. È morta a Marburg, in Germania, dove era andata a vivere nel 1957 con il marito Giuseppe Faussone, dirigente della filiale tedesca della Ferrero di Alba. Aveva cominciato a scrivere tardi, dando alle stampe, all’esordio, quei ricordi sulla sua famiglia e su Beppe, la cui grandezza di scrittore fu incompresa, in vita, tanto in casa, quanto, salvo eccezioni, nel mondo letterario ed editoriale italiano. “Ho vissuto 23 anni a fianco di mio fratello”, narra Marisa, “in quella casa di piazza Rossetti dove abitammo fino al 1957, anno della mia partenza per la Germania e del trasloco della mia famiglia in corso Langhe, trasloco che coincise o addirittura simboleggiò la fine della nostra vita popolana di piccoli commercianti e ne aprì un’altra da tempi moderni, con abitazione nei quartieri nuovi della città, i figli impiegati (e a stipendio fisso) o sposati, e comunque autonomi: cioè ‘a posto’, come diceva mia madre”.

Diceva: “Per Beppe è stata la guerra a scatenare la scrittura, per me è stata l’emigrazione in Germania”. Un discorso, quello della vita da espatriata, che, dopo Casa Fenoglio, aveva proseguito con Vivere altrove (Sellerio 1997) e Il ritorno impossibile (Nutrimenti 2012).

Il suo gran libro resta Casa Fenoglio, una saga piemontese del Novecento raccontata con mano felice, tra nostalgia e qualche rimpianto. E, su tutto, la figura di Beppe: “A volte, la sera, arrivava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta, e passava veloce e distratto accanto a mia mamma e a me che, sedute in cucina sul tavolo, proprio sotto la lampada, eravamo intente a qualche lavoro a maglia o di cucito. Si ritirava subito in camera da pranzo e attaccava a lavorare. E noi, dall’alto, percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, il battere dei tasti della macchina da scrivere”.

Al British “piove dentro”, però i marmi restano lì

Di fronte alle richieste di rimpatrio dei marmi del frontone del Partenone, scolpiti da Fidia nel V secolo a. C. e di cui circa metà hanno raggiunto il Regno Unito all’inizio del XIX secolo, acquistati legalmente secondo gli inglesi, abusivamente secondo i greci, i britannici ripetono da decenni le stesse giustificazioni: “A Londra sono garantite migliori condizioni di conservazione e sono fruibili dai turisti di tutto il mondo”. Ma da almeno dieci mesi, quell’affermazione, che troviamo anche nelle didascalie del British Museum, si scontra con una realtà ben diversa: la galleria che ospita i marmi, insieme ad altre sei di arte greca, non ha mai riaperto da quando, a luglio, il British è tornato ad accogliere i visitatori dopo il lockdown.

“Due to regular maintenance”, per manutenzione ordinaria, recita il sito dell’istituzione, ma la percezione diffusa è che dietro la protratta chiusura ci sia altro: un’infiltrazione di umidità che caratterizza i tetti del museo britannico e che già nel 2018 la televisione greca aveva messo in evidenza. Allora il museo spiegò che “nessuna delle sculture” era stata danneggiata. Stavolta è The Art Newspaper a mostrare, con foto scattate in loco ad agosto, come lo stesso fenomeno si stia ripresentando. Fonti del museo avevano spiegato che la galleria del Partenone avrebbe riaperto in autunno, ma fin qui non è stata annunciata nessuna data: una situazione che non fa che avallare le preoccupazioni e dar forza alle rivendicazioni greche.

All’inizio di ottobre, peraltro, la ministra greca Lina Mendoni ha incassato un altro importante sostegno, quello dell’Unesco, che attraverso il suo Comitato per la promozione della restituzione dei beni culturali, ha chiesto al governo britannico di assecondare le richieste elleniche. Poi, in occasione della sua visita a Londra il 16 novembre, il premier greco Mitsoakis ha reiterato la richiesta, ma il suo omologo Johnson ha glissato, sostenendo che la decisione spetti al British Museum, istituzione saldamente contraria a ogni restituzione permanente. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, in privato Mitsoakis sarebbe arrivato a proporre a Johnson uno “scambio”, offrendo a Londra straordinari reperti conservati nel Museo archeologico di Atene (a partire dalla celeberrima “maschera di Agamennone”) pur di riportare in Grecia i marmi di Fidia. Per quello che è probabilmente il più noto caso di richiesta di restituzione inevasa al mondo, saranno la politica e l’opinione pubblica a fare da ago della bilancia, con la percentuale di britannici favorevoli al rimpatrio che, secondo un recente sondaggio di YouGov, sarebbe salita al 56%.

Natale in casa De Filippo. Eduardo in tutte le salse

Come Eduardo nessuno mai. Non c’è anniversario pieno, solo nel 2024 cadranno i quarant’anni dalla morte, c’è indubbiamente l’età dell’oro che la sua città, Napoli, sta vivendo per l’audiovisivo, ma come spiegarsi la fortuna che Eduardo De Filippo riscuote negli ultimi mesi?

Nato il 24 maggio del 1900, il drammaturgo, attore, regista e sceneggiatore ha superato la prova del tempo come solo i grandi: rimanendo vivo nel nostro immaginario, vocabolario e – esageriamo? – breviario. Voleva in Napoli milionaria!, “ha da passà ’a nuttata”, lui non passa, e verosimilmente è questione di cuore: “Continuerà a battere anche quando si sarà fermato”, vaticinò nell’ultimo discorso a Taormina del 15 settembre 1984, e quel battito rivelatore persiste tra cinema, teatro e televisione.

Moderno, attuale, è questo il suo segreto? Edoardo De Angelis, che lo conosce bene, non crede: “Non si può parlare di un classico in siffatti termini. Ha raccontato conflitti, desideri e passioni che riguardano ogni essere umano sulla faccia della terra, con una giustapposizione paradossale tra dolore e divertimento: le sue opere tecnicamente sono tragedie, non commedie, basti pensare a Natale in casa Cupiello che si conclude con la morte del protagonista, però nella percezione popolare fanno ridere, e non è falsa”. Dopo aver portato sul piccolo schermo quel famoso Natale il 22 dicembre del 2020, richiamando cinque milioni e 536 mila spettatori, De Angelis conclude la trilogia eduardiana con Non ti pago e Sabato, domenica e lunedì: dopo l’anteprima al 39° Torino Film Festival, arriveranno in prima serata su Rai1 rispettivamente il 14 e 21 dicembre. A impersonare tutti e tre i protagonisti è Sergio Castellitto, che di De Filippo loda “la drammaturgia classica, ovvero eterna: ha un’innata scandalosità, le sue sono tragedie travestite da commedie, il dolore arriva attraverso la beffa del sorriso”. Castellitto ricorda la prima volta al cospetto del maestro, “da studente d’Accademia, scoprirlo all’Eliseo nel Natale fu come vedere Vasco Rossi, una rockstar. Un uomo minuto, gracile, allettato e bofonchiante, Eduardo mi parse un ex voto: un’immagine, sacra, piccola, minuta eppure così luminosa, di una energia morente”.

Dal 13 al 15 dicembre in sala il testimone passerà a Sergio Rubini con I fratelli De Filippo, ovvero Peppino, Titina e, appunto, Eduardo, che dallo “zio” – in realtà padre – Eduardo Scarpetta non ebbero nulla in eredità se non l’arte: “Mi affascinavano le loro ferite nascoste, sconosciute: tre fratelli emarginati che si affermeranno in virtù della loro creatività, tenacia e abnegazione. In fondo, una storia molto italiana”. Ma il resoconto dell’ascesa teatrale dei figli illegittimi di Scarpetta vuole anche sfatare le apparenze o, meglio, le credenze: “Non furono i personaggi museali – ha affermato Rubini alla Festa di Roma – che abbiamo mandato a memoria, ma giovani, donnaioli, rivoluzionari, capaci di tradire per costruirsi la propria strada”.

Sui binari del biopic si è mosso pure Qui rido io, che Mario Martone ha dedicato proprio a Scarpetta, incarnato da Toni Servillo. In Concorso alla Mostra di Venezia e poi in sala con discreto successo, inquadra, per il regista, “una figura quasi mitologica, che divora Pulcinella e il teatro San Carlino” e, per l’attore, “un animale che si ritaglia il territorio di caccia, facendo di donne, teatro e testi le proprie prede”.

Nel novero andrebbero considerati i fratelli De Filippo, pur ricompensati della stessa creatività. Bando alle ascendenze, ortodossia eduardiana professa il dittico per la regia e l’interpretazione di Carlo Cecchi che riunisce due atti unici, Dolore sotto chiave e Sik Sik l’artefice magico, appena andato in scena al Teatro Gobetti di Torino e in tournée fino a marzo 2022. Proprio in Sik Sik il compianto Luca De Filippo nel 1980 recitò col padre, e “fu un momento bellissimo. Avevo già fatto parti importanti, ma nel ruolo di Rafele riuscii per la prima volta a farlo ridere”.

Riso e pianto, arte e vita, verità e finzione: la dialettica di Eduardo conosce solo sintesi ardite, guadagni scomodi, risoluzioni preziose. Ma basta a illuminarne il successo qui e ora? Per De Angelis c’è di più: “Tutti gli esseri umani sono disorientati, però lui – e mi fa tremare i polsi – va oltre, cerca un ordine nuovo, un mondo più quadrato come dice don Antonio Barracano nel finale del Sindaco del rione Sanità, una sintesi presepiale dopo il Big Bang”.

Impegnato a Napoli nelle riprese de La vita bugiarda degli adulti, De Angelis individua un filo tra Eduardo e l’autrice da cui è tratta la serie Netflix, Elena Ferrante, anch’ella saccheggiata in lungo e in largo dall’audiovisivo ultimo scorso: “Entrambi quando parlano di famiglia intendono disgregazione, quando parlano di padre evocano la crisi del patriarcato. Nessuno, del resto, può essere lontano da Eduardo, è questione di cromosomi: l’aspetto più drammatico delle vita con quello più ilare, questa commistione è anche della Ferrante. E forse dice del successo che li accomuna”.

 

Le restaurazioni non durano mai

Il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO, dal francese Groupe d’États contre la corruption) è sorto nell’ambito del Consiglio d’Europa con l’obiettivo di monitorare l’implementazione degli standard anti-corruzione dello stesso Consiglio, e fornire una piattaforma per la condivisione delle best practice in materia.

Nel quarto rapporto relativo all’Italia conseguente alla procedura di valutazione, inaugurata nel 2012, e conclusasi nel 2016, GRECO rilevava il persistere nel nostro Paese di criticità che richiedono un “approccio di lungo termine”, fondato su una “educazione continua in tutti i settori della società”.

Purtroppo l’Italia è un Paese dove la costanza e la memoria non sono sempre diffuse, sicché ci si dimentica che nelle valutazioni internazionali non abbiamo una posizione lusinghiera e così da un po’ di tempo, più nessuno si preoccupa della persistente corruzione diffusa, testimoniata dal costo delle opere pubbliche molto più elevato in Italia rispetto al resto d’Europa. Con la caduta dell’attenzione fioriscono proposte di modifica delle norme penali, come quelle relative all’abuso d’ufficio o relative a misure di cautela per impedire la reiterazione dei reati.

Un disegno di legge proposto da alcuni deputati del Partito democratico, ritiene “problematiche, salvo che per i delitti di particolare allarme sociale, le disposizioni di cui agli articoli 8 e 11 del predetto decreto legislativo n. 235 del 2012 (la cosiddetta legge Severino, ndr) che prevedono la sospensione di amministratori regionali e locali a seguito di sentenze non definitive e dunque suscettibili di cambiamento nel corso dell’iter processuale. In tali casi, risulta opportuno un nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione”.

Ora, a tacere del fatto che misure di cautela non sono affatto in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, dal momento che questa nell’art. 13 prevede “la carcerazione preventiva”, c’è da chiedersi se sia ragionevole o meno consentire che un condannato solo in primo grado o solo in appello per reati contro la pubblica amministrazione come quelli di corruzione e altri (fra cui la turbativa d’asta, cioè effettuare appalti truccati), debba continuare a svolgere funzioni pubbliche, giacché l’abolizione delle norme proposta in quel disegno di legge avrebbe questo effetto.

Mi chiedo: se il vostro vicino di casa fosse stato condannato solo in primo grado o in appello per pedofilia, gli chiedereste di accompagnare vostra figlia a scuola? Probabilmente no. Perché questa regola di prudenza non dovrebbe valere anche per l’esercizio di funzioni pubbliche? La giustizia è una virtù cardinale, ma anche la prudenza lo è.

In altri Stati non c’è neppure bisogno di simili norme perché chi ricopre cariche pubbliche, di norma, si dimette quando viene raggiunto da accuse di mancata correttezza nell’esercizio delle relative funzioni. In Italia invece è accaduto e accade che chi finisce sotto processo si candidi a cariche pubbliche e talora persino eletto.

Proprio per evitare che rimanessero al loro posto coloro che erano stati condannati, almeno in primo grado, per determinati reati, erano state introdotte le norme che ora si vogliono abrogare con il disegno di legge in questione.

Iniziative di questo genere sono proponibili perché evidentemente si ritiene che l’opinione pubblica sia indifferente (o meno reattiva che in passato) ad atteggiamenti di “indulgenza” verso chi, allo stato dei fatti noti, sia stato ritenuto responsabile di uno o più reati di malaffare amministrativo.

Si dice che le sentenze non definitive siano “suscettibili di cambiamento”, ma anche quelle definitive lo sono, dal momento che è prevista la revisione delle sentenze definitive di condanna.

Non è mai semplice il bilanciamento fra opposte esigenze, quali l’assicurare la presunzione di innocenza e non consentire di continuare a commette reati, ma il rimedio proposto rischia di determinare l’aumento di misure cautelari detentive, dal momento che non ci sarà più la sospensione dalle funzioni pubbliche. Sarebbe perciò opportuna una maggiore riflessione per meglio modulare il bilanciamento fra i beni da tutelare senza farsi trascinare dalla fretta.

Ho però la sensazione che la fretta sia frutto dell’idea che il momento sia favorevole al contenimento delle norme anticorruzione e che quindi si stia tentando una sorta di restaurazione della sostanziale impunità che esisteva per gli autori di questi reati prima del 1992 e che – peraltro – in buona sostanza è rimasta anche dopo.

Tuttavia l’esperienza storica insegna che le restaurazioni normalmente non riescono e quando riescono non durano.

Il ceto politico della cosiddetta Prima Repubblica era qualitativamente migliore di quello attuale e se quel ceto è in parte caduto, ciò è conseguenza del fatto che un sistema profondamente corrotto è costoso e inefficiente e l’Italia non può più permetterselo.

Non illudiamoci: i fondi europei sono in larga misura prestiti che bisognerà restituire e quindi, quando la festa per il loro arrivo finirà, bisognerà affrontare i problemi che adesso sembrano dimenticati. La corruzione e i reati connessi sono una delle cause del debito pubblico che schiaccia l’Italia e graverà sulle future generazioni.

Il tentativo di restaurazione di un sistema che tollera la corruzione non mi sembra destinato al successo e comunque non durerà.