Buona notizia dal Giappone

Sotto l’albero di Natale vorremmo trovare una bella notizia, la fine della pandemia. Gli eventi che stiamo vivendo, purtroppo, non ci permettono di sognare. Il virus c’è e mostra tutto l’interesse biologico a restare fra noi. Purtuttavia, potrebbe accadere un fenomeno, abbastanza raro ma possibile. Abbiamo più volte detto che SarSCoV2 è un virus a Rna e perciò estremamente mutevole. La sua principale caratteristica è proprio la produzione di mutazioni. Più si riproduce, più “sbaglia” nel copiare il suo patrimonio genetico da una generazione all’altra. Questo fenomeno biologico si tramuta, per il virus, in opportunità di sopravvivere ai vaccini.

Nei giorni scorsi è stato pubblicato su The Japan Times, un articolo che ci fa tirare un sospiro di sollievo. Si riferisce a un improvviso crollo dei contagi in Giappone, dopo una importante quinta ondata dovuta alla variante Delta Plus, con quasi 26.000 nuove infezioni. Secondo un gruppo di ricercatori, la spiegazione sorprendente (non per noi virologi) potrebbe essere che le mutazioni siano evolute fino a un’autoestinzione del virus. Infatti, secondo una teoria proposta da Ituro Inoue, ricercatore e docente presso l’Istituto Nazionale di Genetica, la variante Delta in Giappone ha accumulato troppe mutazioni nella proteina non strutturale che corregge gli errori del virus chiamata nsp14. Di conseguenza, il virus ha faticato a riparare gli errori in tempo, portando infine all’effetto autodistruttivo. L’ipotesi, possibile ma da verificare, potrebbe essere confermata. Non trascuriamo che il Giappone ha uno dei più alti tassi di vaccinazione tra i Paesi avanzati con il 75,7% dei residenti completamente vaccinati, che le misure di distanziamento sociale e l’uso di mascherine sono ora profondamente radicate nella società giapponese, anche in epoca pre-Covid. Confermata o no quest’ipotesi dalle analisi genetiche in corso, non dimentichiamo che abbiamo bisogno di un vaccino aggiornato. Il monopolio della produzione dei vaccini a livello mondiale non ci lascia però un’ampia manovra di richiesta.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Einaudi rigoroso: “Non sai l’inglese? Leggilo lo stesso”

Leggere. Consigli di lettura di Luigi Einaudi a Corrado Sforza Fogliani, 9 maggio 1960. Tra gli economisti, la Prefazione di Francesco Ferrara, i Principi di Economia di Maffeo Pantaleoni. Scienze politiche: Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca, La révolution française et l’ancien régime e La démocratie en Amérique di Tocqueville e il Principe di Machiavelli. Dei pensatori: Croce, tutto. “Non fare attenzione troppo alle novità. Informarsi prima di leggere, per non sprecare il tempo. Lei ha 21 anni e molto tempo dinanzi a sé. Ma il tempo in ogni caso conviene spenderlo bene. Impari, oltre il francese, almeno l’inglese, e se potrà, passato qualche tempo, il tedesco, più difficile. Per tenermi al corrente di quel che succede nel mondo, dal 1896 leggo ogni settimana l’Economist di Londra, tutto, salvo la pubblicità. L’essenziale è tutto, perché se lei legge solo quegli articoli che paiono interessarla, non saprà mai nulla di quel che è diverso da quel che già la interessa. E il necessario è la curiosità di quel che è fuori di noi. Se non sa l’inglese, legga lo stesso. Ricorrendo meno che può al vocabolario; ma argomentando dalla simiglianza delle parole e dal costrutto. Frattanto prenda lezione. Ogni fascicolo corrisponde a circa 150 pag. in 8°. Perdoni la predica, scusata dagli 86 ai 21 anni. Suo, Luigi Einaudi”.

Puntualità. “A proposito di puntualità, mi sovviene di un giorno in cui, essendo entrato in Consiglio all’ora esattissima della sua convocazione, ma già quando i colleghi avevano preso posto, il Luzzatti mi si rivolse con un ‘Come mai questo ritardo?’. Al che io risposi mostrandogli l’orologio. Ed egli di botto: ‘Per tua norma, la puntualità è già di per sé un ritardo’”. (Giovanni Raineri, ministro dell’Agricoltura, del Commercio e dell’Industria nel governo Luzzatti, 1910-11).

Pompam. Luigi Einaudi scriveva “Corriere della sera” con la s minuscola. Era avversario delle maiuscole senza senso, ad pompam.

Diffusione. Diffusione del Corriere della Sera nel 1900: 75 mila copie. Nel 1915: 500 mila copie.

Consumi. “Negli anni anteriori alla guerra, il consumo di alimenti, di bevande, di vestiti, le spese in divertimenti erano divenute eccessive e dannose. La vita per molti uomini era diventata brutta, perché essi lavoravano allo scopo puramente materiale di mangiare e divertirsi. Gran parte dei bisogni sedicentemente imposti dalla civiltà moderna erano imposti dallo spirito di imitazione, dalla mania di godimento materiale e contribuivano a rendere la vita faticosa e meno degna di essere vissuta. La guerra ci impone la necessità di essere morigerati; e ci insegna come si possa vivere parcamente in modo assai più nobile di prima. La guerra ci fa comprendere come molti dei nostri sedicenti ‘bisogni’ fossero fittizi e soltanto imposti dall’abitudine e dalla moda. Al ritorno di condizioni normali, quando i prezzi torneranno a scendere e i redditi presenteranno di nuovo un margine oltre i consumi strettamente necessari, quale immenso campo di perfezionamento si presenterà agli uomini! Libri, viaggi, sane scampagnate, abbellimento della casa e del giardino invece di troppa carne, troppo vino, troppi dolciumi, troppo cinematografo, tutte cose di cui oggi abbiamo imparato l’inutilità e la vanità!” (Einaudi, 20.11.1917).

Rimedi. “Chi cerca rimedi economici a problemi economici è sulla falsa strada: la quale non può che condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale” (Einaudi).

Notizie tratte da Luigi Einaudi, “Elogio del rigore”, Rubbettino, pagine 176, euro 16 (1. Continua)

 

Omicron & C., il terrore è un boomerang

Due notizie, una lo specchio dell’altra. La prima: “Così ho scoperto Omicron, ma non allarmatevi i sintomi sono molto lievi” (Angelique Coetzee, presidente dei medici sudafricani, su Repubblica). La seconda: “Corsa a immunizzarsi. Super Green Pass e i timori per la nuova variante spingono gli indecisi” (La Stampa) Se “l’intera arte della politica consiste nel condurre con razionalità l’irrazionalità degli uomini” (Reinhold Niebuhr, teologo americano) oggi c’è da chiedersi quanto sia giusto e corretto che il discorso pubblico governativo, supportato dagli esperti di fiducia, e con al seguito il solito carro dell’informazione mainstream si serva anche della paura irrazionale per ottenere i suoi scopi. Pur se in presenza di finalità condivisibili quando si tratta di immunizzare quella parte della popolazione restia a vaccinarsi, spesso per motivi del tutto folli. Saremmo cioè di fronte alla paura come antidoto alla paura perché soltanto venerdì scorso la variante sudafricana e le sue 30 mutazioni, tentacoli speventosi di un mostro spietato, era lì a farci sentire nuovamente indifesi, oltre ad affossare psicologicamente i mercati. Oggi che ci sentiamo un po’ rassicurati si resta abbastanza perplessi quando un autorevole virologo come il professor Andrea Crisanti viene bacchettato in tv se esprime prudenza sulla vaccinazione dei bambini, prima che sia testata in misura più ampia rispetto a quella attuale. Perché, altrimenti, “in prima serata, la gente si spaventa e non capisce più niente”. Ma si resta letteralmente di sasso se una personalità sempre così riflessiva e posata come il senatore a vita Mario Monti sostiene che sul tema vaccinazione “bisogna trovare modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” e che “deciderà il governo, ispirato e istruito dalle autorità sanitarie”. Anche i più convinti sostenitori della vaccinazione (e chi scrive lo è) si augurano che ai no-vax squinternati non si contrapponga la strategia dei sì-vax terrorizzati. E che il discorso pubblico politico e di governo, in tutte le sue forme, ritrovi al più presto equilibrio e razionalità. Soprattutto perché gridare al lupo al lupo, quando il lupo va tenuto a distanza ma non sta per divorarci, alla lunga abbatte gli anticorpi della fiducia e della ragionevolezza.

Vaccini “Perché non fare i richiami solo a chi ha gli anticorpi bassi?”

Buongiorno, vi scrivo per cercare di capire due o tre cose che nei tanti dibattiti sul Covid nessuno chiede mai, come se fosse un argomento tabù. Il Cts dice che dopo sei mesi l’immunità tende a calare e quindi è necessario il richiamo. Se dicono questo, o hanno la sfera di cristallo, o navigano a vista e quindi è una decisione burocratica, o è molto facile che stiano monitorando con test sierologici un campione di volontari per controllare l’eventuale decremento degli anticorpi (Igg) nel tempo. Io ho fatto il Covid e sono vaccinato con una sola dose Pfizer come da protocollo. Secondo uno studio del Niguarda, su circa 2.500 operatori che hanno ricevuto il vaccino Pfizer, per il 62% sono stati rilevati “livelli elevatissimi di anticorpi dopo la seconda somministrazione” ovvero “una risposta superiore a 2.000 Bau (Binding antibody unit)/ml”. I risultati del mio sierologico fatto 45 giorni dopo il vaccino hanno indicato un livello di oltre 3.600 Bau/ml, l’80% di anticorpi in più rispetto agli operatori del Niguarda: quindi, pur non essendo un medico, mi pare di capire che io possa essere discretamente protetto. Il fatto è che nello stesso protocollo, sia l’Oms sia il Cts e il ministero della Sanità dicono che i sierologici non hanno nessun valore “ai fini del processo decisionale vaccinale”. E allora le domande mi vengono spontanee: 1) Perché il sierologico che ha valore per il Cts, che di conseguenza ci induce a fare un richiamo, non viene considerato se lo facciamo noi? 2) Se ho un livello elevato di anticorpi, per quale motivo dovrei fare il richiamo visto che sono già protetto? 3) Perché il Cts non consiglia a ogni paziente un esame sierologico prima del vaccino? Dopodiché alla luce dei dati si può decidere di fare richiamo per chi presenta una risposta anticorpale insufficiente, o di evitare il richiamo per coloro i quali hanno valori sufficienti a una protezione adeguata. Come ha dichiarato Galli al Fatto: “Bisogna considerare che il livello di anticorpi al SarsCov2 magari non rappresenterà una risposta esaustiva ma è la più semplice da trovare. E, che piaccia o meno, gli anticorpi sono un marcatore di risposta”. So che forse è un esempio che ha poco senso, ma lo faccio lo stesso: prima di assumere un farmaco contro le cardiopatie, la prostatite o il cancro, vengono richiesti una serie di esami alla luce dei quali si decide eventualmente cosa fare o cosa non fare. Forse dovrebbe essere così anche per il Covid.

Danilo Madonia, musicista

Mail Box

Le distrazioni di massa a cui ci hanno abituato

Ormai, come scrive anche Travaglio nei suoi editoriali, questo governo concentra la sua attenzione sui no-vax e no Green pass per distogliere l’attenzione dai suoi errori sull’emergenza Covid, soprattutto per quanto riguarda le scuole e i servizi pubblici. Non dimentichiamo poi che questa non è una epidemia ma una pandemia, sul nostro pianeta esistono paesi vaccinati in media con l’80%, perché se lo possono permettere, mentre nel resto del globo la metà della popolazione è priva di vaccini perché non hanno i soldi per comprarseli, ma in compenso sono grossi portatori di varianti. Persone disperate che scappano dalla fame, dalle guerre causate spesso dai paesi privilegiati proprio per mantenere i propri privilegi. Migliaia di uomini e donne accalcate alle frontiere dei paesi ricchi nelle migliore delle ipotesi, altrimenti rinchiuse nelle prigioni dei dittatori che, come dice il capo del governo dei migliori, sono “dittatori di cui abbiamo bisogno”. Altro che dittatura sanitaria, a nessuno interessa nulla purtroppo, ma il problema principale della pandemia sta proprio nella disperazione di queste persone, e se non ce ne rendiamo conto sarà inutile qualsiasi richiamo. Sarà un cane che si morde la coda finché la variante toglierà il fiato per rincorrersi.

Flavio Bondi

 

I dipendenti pubblici sempre bersagliati

Vi racconto una conversazione avvenuta con un amico. Con la scusa che un ufficio pubblico non aveva evaso una pratica in tempo, inizia il classico strale contro i dipendenti pubblici privilegiati, protetti, tutelati e lautamente stipendiati. Alcune delle cose dette in quella conversazione erano assolutamente condivisibili. La conclusione però mi ha lasciato stupito: bisogna togliere ai dipendenti pubblici tutti i diritti. Mi sono permesso di fare osservare che la situazione di privilegio dei dipendenti pubblici non è data solo dal loro vantaggioso contratto di lavoro, ma dal fatto che chi ha la responsabilità di controllare se lavorano non lo fa. Poi ho concluso dicendo che l’uguaglianza non si raggiunge togliendo diritti a chi li ha ma aggiungendogli a chi non li ha. E ho fatto una domanda che è rimasta senza risposta: quale sarebbe il mio vantaggio se una categoria perde i suoi diritti? Mi sembra di vivere in un mondo capovolto: invece di chiedere di fare rispettare le leggi a tutti, chiediamo di togliere i diritti a chi li ha. Come se non potendomi curare un tumore perché le cure non funzionano, fossi contento se sospendono chemio e radio a quelli per cui sono efficaci.

Giuseppe Caudullo

 

Water in strada: sarà ancora colpa di Raggi?

Quello che vedete nella foto accanto è di sicuro ancora colpa della Raggi!

Francesco Facciolo

 

Le critiche integraliste alla vignetta di Mannelli

Non vorrei che dopo la guerra ale “vignette sataniche” su Charlie Hebdo spuntassero qua e là nuovi piccoli integralismi à la carte, come quelli “femministi” che pare abbiano ispirato alcune donne della politica nostrana (che ritengono di racimolare così qualche voto delle “renziane”), nel definire “vomitevole” la vignetta di Mannelli di qualche giorno fa relativa alla Leopolda renziana, densa di molti e intelligenti significati allegorici. A parte che da sempre Mannelli disegna donne procaci seminude (come faceva il grandissimo Dorè) e nessuno ne ha mai invocato la censura (sempre orrenda e vomitevole). Un giornale come Il Fatto non si sognerebbe mai di censurare un vignettista guardando ai consensi elettorali di chicchessia, o ascoltando l’ultimo grido di chi interpreta fanaticamente, o su tale base, le sacrosante battaglie delle donne.

Carlo De Lisio

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di domenica “Soldi, accordi e piano anti-Fatto: tutto ciò che sappiamo di Open”, a firma di Vincenzo Bisbiglia, abbiamo scritto dei rapporti tra Matteo Renzi e l’imprenditore Vincenzo Manes (non indagato), chiamandolo erroneamente Vittorio. Ci scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Fq

Da Conte a Dibba, la galassia 5 Stelle è più una nebulosa

Ma i 5 Stelle sono ancora vivi? La domanda è lecita, perché non toccano palla quasi mai, non incidono nel dibattito politico e sembrano costantemente in cerca d’autore.

Sondaggi. Il M5S viene ancora dato al 15% o giù di lì, che è una cifra enorme tenendo conto della perdurante fase di stallo attraversata dai 5 Stelle dalla caduta del Conte-2 in poi. Quella percentuale scende però all’11% in altri sondaggi, che vedono addirittura Forza Italia (?) tallonarla. La sensazione è che, oggi, chi vota (o voterebbe) i 5 Stelle lo fa (o farebbe) principalmente per stima nei confronti di “Giuseppi”.

Conte. Appunto: Conte. Sta scoprendo quanto sia difficile fare il leader politico, ruolo diversissimo dal presidente del Consiglio. Non controlla i gruppi parlamentari, pieni di belle persone ma anche di conclamati casi umani. Appoggia Draghi, ma sa bene che più il governo attuale dura e più i 5 Stelle evaporano (deduzione così lapalissiana che ci è arrivato pure Renzi). Anche la canizza sulla Rai è stata comunicata male, perché è parsa la ripicca di una forza politica che non è riuscita a partecipare alla spartizione della torta. Conte era e resta l’ultima spiaggia del M5S, ma forse si è già pentito di non aver fondato un partito tutto suo. E ha scoperto troppo tardi che il Movimento da lui ora guidato rispecchia sin troppo bene la massima resa celebre da Alberto Malesani: “È una giungla, cazzo!”.

Di Maio. È quello più a suo agio dentro il governo Draghi. Abile, scaltro, in grado di controllare ancora buona parte del movimento. Per i detrattori è ormai un democristiano fatto e finito, ma di questi tempi (e non solo di questi tempi) essere “democristiani” non è detto che sia un difetto.

Grillo. Continua a delegittimare sistematicamente Conte, mascherando gli attacchi per battutine insopportabili. Da fuori sembra che sia in atto una noiosissima gara a chi ce l’abbia più lungo tra lui, Conte e Di Maio. A chi giova tutto questo? Ai 5 Stelle no di sicuro.

Azzolina. Cito lei per alludere ai non pochi esponenti 5 Stelle oggi malmostosi, che vorrebbero un M5S più maturo, efficiente e coeso, nonché pienamente progressista e ambientalista. Al momento queste istanze paiono però minoritarie, o quantomeno non suffragate da una reale volontà politica maggioritaria interna al partito (finitela di chiamarlo “movimento”).

Di Battista. Dice spesso cose giuste, sa fare opposizione, è efficace in tivù ed è l’unico con Conte – tra i grillini – a portare ancora gente in piazza, ma col suo (legittimo) desiderio di bastonare anzitutto i suoi ex colleghi rischia di fare il gioco di renziani, berlusconiani e meloniani. Infatti, di colpo, ha cominciato a risultare simpatico alle Gaia Tortora e ai retequattrini: non è un caso.

Ex. Cunial, Barillari, De Vito, Paragone. Per non parlare delle Gambaro, Fuksas, De Pin, Mastrangeli, “Alternativa c’è”, eccetera. I 5 Stelle hanno portato nelle istituzioni personaggi che non meriterebbero di gestire neanche una bicicletta morta. Lo ricordo a chi continua a rimpiangere “il primo M5S”. Ma rimpiangere de che? C’erano buone istanze sicuramente, come pure brave persone, ma c’erano anche troppi scappati di casa e salvati (senza troppo merito) dalla buonanima di Basaglia.

Pd. Sono il primo a sperare che i 5 Stelle creino un campo progressista con Pd, Bersani, Fratoianni, sardine e società civile. È l’unica strada. Resta però un problema di fondo: se i 5 Stelle di Conte diventano un Pd-2 annacquato, perché mai qualcuno dovrebbe votare loro e non direttamente il Pd originale?

 

In campo 5 minuti di var durano una vita: molto meglio biscardi

Cinque minuti. Che non sono tanti se uno aspetta sotto casa un amico, la fidanzata, un parente o chi volete voi.

“Cinque minuti e scendo”.

Va bene, ci sta.

Ma cinque minuti di attesa in mezzo a uno spettacolo, qualunque spettacolo, si traducono in noia. E la noia con il tempo diventa indifferenza, distacco o semplicemente sospensione dell’incredulità. Ed è la fine.

Domenica all’Olimpico, durante Roma-Torino, la noia ha avvolto lo stadio; una noia totale, folle, umida, di quell’umido che si addensa e penetra nelle ossa, che neanche la doccia calda di una bella azione sul campo toglie del tutto.

Cinque minuti per decidere se ci fosse rigore per la Roma, se ci fosse o meno il fuorigioco; cinque minuti per valutare i millimetri di un tacchetto di Abraham mentre rientrava nel campo di calcio.

Cinque minuti che neanche al Processo del Lunedì avrebbero retto, perché domenica il campo dell’Olimpico ha inglobato proprio il “Processo” di Biscardi, ma senza i (tele)spettatori coinvolti da urla, accuse, rimproveri, state boni, “si litiga due alla volta”…

No. Tutti in silenzio ad attendere la decisione dell’addetto al Var e di chi era con lui, una discussione nascosta, segreta e segretata; un dibattito sordo per chi stava allo stadio, sordo per chi stava sul campo, sordo per chi era davanti alla tv e non sapeva neanche come impiegare il tempo.

“Stretching?”

“Notizie sulla famiglia?”

“A casa tutto bene?”

“Hai già fatto i regali di Natale?”

“No, però mia moglie domani vuole addobbare l’albero”.

“Di già? Sì, non si sa mai”.

Nel frattempo, appunto, gli arbitri continuavano nella discussione, che allora sarebbe stato meglio rendere visivamente plastica, fruibile.

Uno prende i pop-corn, estrae il caro vecchio panino con la frittata, un caffè dello sportivo, si siede. E ascolta il confronto arbitrale, tanto per uccidere quella noia:

“Secondo me è fuorigioco”.

“Ma no, non vedi bene”.

“E vedi bene tu allora. (Pausa) Non capisci nulla, pure una donna lo capirebbe”.

“No, questo è sessismo!”.

“Che ho fatto?”.

“Hai detto che anche una donna lo capirebbe”.

“Sessista a me? A me? Sai come dicono a Roma? Noi eravamo già froci quando voi eravate nei boschi”.

“Allora sei sessista e omofobo”.

“Cavolo, ma non si può più parlare”.

Insomma, o ci ridate il dibattito alla Aldo Biscardi o Maurizio Mosca in casacca arbitrale-Var, o uno deve darsi una regolata per non cadere preda delle sfumature della vita che tolgono quel sano brivido e quella illusione di poter giocare senza che i grandi stiano lì con il dito puntato in cerca di noiosissimi millimetri.

 

Pizzino a Draghi: o lascia il colle a B. o son dolori

Sic transit gloria mundi, ovvero: attenzione, in certi ambienti si fa in fretta a passare da eroe a disertore. Anche se ti chiami Mario Draghi.

Ammetto di non leggere spesso il Giornale, termometro fedele degli umori della famiglia Berlusconi. Ma domenica scorsa, conducendo su Radio3 la rassegna stampa mattutina Prima Pagina, ho trovato nell’editoriale del direttore Augusto Minzolini un messaggio talmente inequivocabile da meritare di essere preso molto sul serio: la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale non è solo un ghiribizzo velleitario finalizzato a rilegittimare il plutocrate che per oltre vent’anni ha dominato la scena italiana e per salvaguardarne la perdurante quota di potere. C’è di più. Si tratta di un’operazione spregiudicata ma ambiziosa mirante a ipotecare i futuri equilibri istituzionali di un Paese che si suppone destinato a essere governato dalla destra. L’avvertimento rivolto a Draghi è brutale: fatti da parte. Se non si affretterà a spazzare via l’ipotesi di una sua elezione alla presidenza della Repubblica, Draghi incorrerà in una di quelle campagne di denigrazione in cui la macchina propagandistica berlusconiana si è già distinta nel passato. Esagero? Leggete qui: “Ora a questo mondo si può far tutto, si può anche chiedere agli italiani pazienza e sacrifici e poi decidere di far bagagli e cambiar Palazzo e Colle. Solo che una scelta del genere, che sarebbe quasi naturale in futuro per un premier che si è speso in un momento dei più difficili della storia del Paese calandosi nei panni dell’eroe, oggi striderebbe non poco di fronte ai problemi del presente. Sarebbe un passaggio innaturale in questo momento, che finirebbe per fare a botte pure con la narrazione a cui ci ha abituato lo stesso Draghi”. Non è ancora abbastanza chiaro? Minzolini deve averlo pensato, perché non esita a rincarare: “Per cui, mi sia consentito con tutto il rispetto (qualora Draghi non togliesse di mezzo la sua candidatura, ndr) resterebbe di fronte agli occhi di tutti un’unica spiegazione: la metamorfosi dell’eroe in disertore”.

Urca. “Con tutto il rispetto”, Minzo da par suo si fa latore di una minaccia esplicita al capo del governo, cui lo stesso giorno Berlusconi ricordava – e a questo punto suona come un monito – che fu lui a designarlo governatore della Banca d’Italia e a candidarlo alla Bce. A quanto pare, l’ex Cavaliere si aspetta di venirne ricompensato con una doverosa rinuncia. Tant’è che l’ultima frase dell’editoriale di Minzolini prefigura, ammantata di falso riguardo, la spiacevole conseguenza che toccherebbe in sorte al malcapitato protagonista della metamorfosi da eroe a disertore: “Un’immagine, il primo a saperlo è l’interessato, che non appartiene a Mario Draghi, che sarebbe ingiusta e che l’ex governatore della Bce non si può certo permettere”. Capito? “Non si può certo permettere”, caro Draghi, di aspirare oggi al Quirinale. Sarebbe magari “ingiusta”, ma si beccherebbe, da parte di chi a gettar fango è specialista, un’offensiva mediatica cucita apposta sulla figura del disertore.

Chi l’avrebbe detto che l’uomo fino a ieri magnificato anche sul Giornale come Salvatore dell’Italia, potesse repentinamente venir tacciato di essere un carrierista, pronto a usare il prestigio acquisito per piazzarsi sette anni al Quirinale? Minzolini non si fa scrupolo nell’insinuarlo: “Appunto, la parola chiave è responsabilità. Una parola che mal si concilierebbe con l’immagine di un premier che, sia pure per ambizioni più che legittime, lasciasse il lavoro a metà. Ed è inutile che Draghi ripeta che la situazione è sotto controllo se continua a chiedere responsabilità agli italiani, perché la responsabilità o è di tutti, o è di nessuno”. Insomma, non faccia il furbo. “Tanto più che la variante Quirinale negli ultimi tempi, con tutto il rispetto (a ridàgli, ndr) ha già reso meno performante l’azione di governo”. E con ciò al presidente del Consiglio perviene anche un secondo messaggio. Non solo rischia di trasformarsi in disertore, se non si accontenta di restare a Palazzo Chigi, ma intanto a scricchiolare è il suo stesso esecutivo, dimostratosi meno “performante” del necessario. Orbene, che un governo fondato su una maggioranza parlamentare al cui interno convivono forze antitetiche non fosse in grado di varare riforme significative, era già apparso evidente. Cominciano malvolentieri a prenderne atto pure i suoi laudatori. Ma ora l’avvicinarsi della scadenza del mandato di Mattarella rende sempre più precaria la sorte del governo Draghi. L’irrompere della campagna per eleggere Berlusconi nientemeno che capo dello Stato, qualunque ne sia l’esito, comincia a esercitare una funzione destabilizzante.

Chissà quale diavoleria sarebbero in grado di inventarsi Minzolini e compagnia bella per mettere alla berlina un Draghi troppo ingombrante.

 

Scoreggioni col cane, errori in buona fede e ottimo vino a messa

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

L’attacco con drone Usa che uccise a Kabul 10 civili, di cui 7 bambini, fu “un errore in buona fede”, conclude il Pentagono al termine di un’inchiesta. Quando si dice la sfiga: una volta che gli Usa fanno qualcosa in buona fede, era un errore.

Nel 2018, alla “Festa della Scienza e filosofia”, Gino Strada disse: “La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dai teatri di guerra. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno a capire che non importa perché c’è una guerra. Non importa se la si chiama guerra contro il terrorismo, guerra per la democrazia, per i diritti umani. Guerra per questo, per quello, per quello. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, sono persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Sono persone che molto spesso non sanno neanche perché gli scoppia una mina sotto i piedi o gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e dai potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri. Questa è la realtà”. Sotto il video di quella dichiarazione di Gino Strada, un giornale online riassume il testo tradendolo, con una specie di lapsus ideologico, così: “Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno per capire che non importa se c’è un’altra guerra. Che sia contro il terrorismo, per la democrazia o i diritti umani”. (bit.ly/3rjwABq). Questo riassunto, con la sua sintassi, fa condividere a Strada il concetto della “guerra contro il terrorismo, per la democrazia o i diritti umani”, mentre Strada era contro chi le chiamava così: denunciava da sempre la propaganda bellica, per cui correggerei subito quel riassunto revisionista, se potessi. Come faccio ad accorgermi di queste cose sottili? Dormo bene, e mi sveglio ogni mattina brillante come un bottone. Inoltre sono un cagacazzi come pochi.

Una delle storie preferite dal padre di James Joyce era quella di Buckley, un soldato irlandese nella guerra di Crimea, che avendo l’opportunità di sparare a un generale russo non ne ebbe il coraggio quando il generale, con una reazione tanto umana quanto disarmante, si abbassò i pantaloni per defecare. Ma quando il generale si nettò il culo con una zolla erbosa, Buckley non ebbe più pietà e sparò. Joyce non sapeva come usare questo episodio nel Finnegans Wake. La chiave gliela fornì il suo segretario, Samuel Beckett, che, ascoltando l’aneddoto, nel momento in cui il generale si pulisce il culo con la zolla verde commentò: “Un altro insulto all’Irlanda”.

Weekend a Portofino. È pieno di ricconi. In chiesa al momento della comunione ti mostrano la lista dei vini.

Molti scoreggioni fumano il sigaro, hanno un cane puzzolente e sono stronzi. Le quattro cose formano un set (scoreggione, sigaro, cane puzzolente, stronzo) la cui regolarità fenomenica non smette di stupirmi.

Coppia al ristorante. “Perché non ti sei mai sposato?”. “Tu mi vorresti?”. “Cosa c’entro io?”. “Mi rispondono tutte così”.

 

Vademecum di Bruxelles “Meglio non dire Natale”

L’Europa non metterà al bando le parole che ricordano il Natale e non chiederà di evitare di utilizzare nomi cristiani come Maria o Giovanni, come ha invece denunciato ieri il centrodestra italiano nel commentare le nuove linee guida della Commissione per una “corretta comunicazione” dal titolo Union of Equality. La polemica è nata dopo un articolo de il Giornale secondo cui l’Europa avrebbe vietato DI dire “Natale” e perfino di usare il nome Maria. Nel testo, che è destinato ai dipendenti che si occupano di comunicazione, c’è scritto “che le festività non dovranno più essere riferite a connotazioni religiose, come il Natale, ma citate in maniera generica” e che “si dovrà dire che le ‘festività sono stressanti’ e non più ‘il Natale è stressante’”. Il centrodestra ha denunciato “il grave affronto subito dalle radici cristiane”. Accuse smentite dalla Commissione Ue. “Non stiamo vietando né scoraggiando l’uso della parola Natale. La direttiva – ha spiegato aL Fatto un portavoce della Commissione – sollecita a una scrittura che dia spazio alla diversità e al rispetto di ogni persona. Così come le parole ladies o gentleman vanno sostituite con un generico dear colleagues”.