I Moschettieri infilzano la nuova Davis

Panatta, game: “Dalla vittoria in Cile l’Italia ci ha accolto come reietti”. Pietrangeli, set: “Sembravamo ladri che avessero rubato le caramelle a un bambino”. Barazzutti, match: “La Coppa Davis è stata comprata dalla società Cosmos, che oggi l’ha fatta diventare i Mondiali di calcio”. Campioni si rimane, Una squadra pure: in anteprima al 39° Torino Film Festival, la docuserie di Domenico Procacci, il produttore di Fandango per la prima volta dietro la macchina da presa, ritrova i protagonisti dell’unica Coppa David conquistata dall’Italia, 45 anni fa in Cile. I giocatori Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta e Tonino Zugarelli e il capitano Nicola Pietrangeli per 5 anni, dal 1976 al 1980, furono il team da battere: 5 finali disputate, appena una insalatiera d’argento, tanta gloria e ancor più polemiche.

Sei episodi scritti da Procacci con Lucio Biancatelli e Sandro Veronesi, montati da Giogiò Fanchini e destinati ad approdare su Sky a maggio 2022, “non è una serie sulla Davis del ’76, né un documentario tradizionale, piuttosto abbiamo lavorato all’editing come fosse un film, giacché i personaggi – osserva il regista – si prestavano, sono archetipi del nostro cinema: Adriano è Gassman, Paolo Tognazzi, Tonino Manfredi, Corrado il Satta Flores di C’eravamo tanto amati, Nicola Aldo Fabrizi o Adolfo Celi”.

Che Una squadra sia commedia all’italiana lo dice già la freschezza del racconto, la godibilità degli aneddoti – e le schermaglie a tutto campo tra i tennisti-mattatori, ma è il graffio sulla realtà a dare l’imprimatur: nelle certezze, “era un altro sport, diverso dal tennis moderno” (Panatta), e nelle incertezze, la maglia rossa del doppio Barazzutti-Panatta fu un intenzionale sfregio a Pinochet? La partita non è finita, e gli indimenticabili moschettieri, più Pietrangeli, non si sottraggono: “Fatico a chiamarla ancora Davis, è un’altra competizione: la formula è cambiata radicalmente qualche anno fa” (Bertolucci); “Non è più la Davis, sembra la Coppa Croce o la Coppa Facchinetti. La chiamano World Cup of Tennis, bene, levassero Davis, non c’è niente di male” (Panatta); “Il condizionamento è economico, la spinta delle tv, la Coppa è stata smantellata, e purtroppo con il voto favorevole della nostra Federazione” (Barazzutti). E che dire dell’attuale compagine capitanata da Filippo Volandri? “Sinner e gli altri – conclude Bertolucci – sono giovani e hanno il potenziale per vincere nell’arco di qualche anno, ma la vecchia formula della Davis li avrebbe favoriti”.

 

Striscia di Gaza. Confine aperto verso Betlemme per i cristiani

Le autorità israeliane hanno annunciato che consentiranno a 500 membri della piccola comunità cristiana della Striscia di Gaza di entrare in Israele e in Cisgiordania per celebrare il Natale. Israele in passato ha permesso agli abitanti di Gaza di uscire dal territorio sotto assedio per celebrare la Festività, sebbene la pratica sia stata congelata l’anno scorso a causa della pandemia di coronavirus.

Negli ultimi mesi lo Stato ebraico ha iniziato ad allentare alcune restrizioni, concedendo a diverse migliaia di abitanti di Gaza permessi di lavoro giornaliero all’interno di Israele come parte di una strategia – suggerita dal’Egitto – per allentare le tensioni e per cercare mediare un cessate il fuoco a lungo termine.

Il COGAT, l’organismo di difesa israeliano responsabile degli affari civili palestinesi, ha annunciato che i permessi consentiranno alle persone di visitare parenti e luoghi santi per i cristiani in Israele e in Cisgiordania. Verrà consentito, sempre a un numero limitato di fedeli, l’accesso a Gerusalemme per i cristiani del nord della Cisgiordania.

Betlemme, venerata dai cristiani come luogo di nascita di Cristo, si trova a sud della Cisgiordania. La città è fortemente dipendente dal turismo, ma albergatori e ristoratori temono che quest’anno ci saranno pochi visitatori a causa degli effetti persistenti della pandemia.

Sono 1.000 i cristiani che vivono a Gaza, una piccola frazione dei 2 milioni di abitanti dell’enclave sul Mediterraneo. La maggior parte sono greco-ortodossi, con i cattolici che costituiscono circa un quarto della piccola comunità. Hamas ha designato i cristiani una minoranza protetta. C’erano stati alcuni attacchi contro i cristiani da parte di fanatici islamici nei primi anni di Hamas al potere, ma da allora il movimento islamico ha lavorato per garantire che tali attacchi non si verificassero.

Israele ed Egitto mantengono uno stretto blocco su Gaza da quando Hamas ha preso il controllo del territorio nel 2007 con un sanguinoso colpo di stato, nel tentativo di cercare di fermare il gruppo terroristico dall’importare armi e materiali militari.

 

Nome in codice Akira: come ti scompagino le presidenziali

Una domenica di settembre, una giovane donna mascherata prende la parola sui gradini del museo Carnavalet di Parigi, davanti ad un gruppo di persone, tutte con lo smartphone in mano per filmare la scena. La giovane sta lanciando una campagna per le presidenziali del 2022: “Siamo figli di un’epoca messa a fuoco e fiamme, ma vedo popoli interi insorgere per la dignità. Mi chiamano Akira, un nome per tutte e per tutti. I pagliacci in cravatta – continua – sanno solo proporci elezioni senza sapore. Le opzioni che si prospettano davanti a noi sono sempre le stesse: votare per esclusione, per fare blocco o non votare affatto. Akira è la costruzione di una forza politica all’altezza della nostra epoca”.

La giovane donna esce di scena sotto una pioggia di coriandoli dorati. La piattaforma politica “Akira” prende il nome da un classico del manga giapponese di genere “cyberpunk”. Sui social distilla i fondamenti della sua campagna. Intende intervenire nell’avventura presidenziale sui temi dell’emergenza climatica, delle disuguaglianze sociali e della ”svolta fascista e autoritaria in atto in diversi Paesi”. Si inscrive anche in un processo rivoluzionario di ”lotta sociale”. Ma una bufera si è scatenata sul giovane movimento. Il video girato al museo parigino, postato sui social, ha generato una cascata di reazioni di scherno da parte di militanti di sinistra, di sostenitori dei partiti tradizionali e commentatori improvvisati. “Al di là dell’happening al Carnavalet, pensare a forme nuove per intervenire nel dibattito sociale e politico, è una questione che condividiamo – osserva un membro della direzione dell’Npa, il Nuovo partito anti-capitalista, che parla a titolo personale -. Ma la sostanza è importante quanto la forma. Questi di Akira pensano di essere i soli a riflettere su queste tematiche? Non sono seri”. Altre organizzazioni, soprattutto nel campo dell’ecologia radicale, sottolineano che, per il momento, “nessuno ha rivendicato l’appartenenza al movimento ”. Alcuni criticano la creazione continua di nuovi collettivi e organizzazioni che corrono dietro alle mode. Akira, insomma, a prima vista, non sembrerebbe aver conquistato i social network né essere riuscito a superare i confini della capitale. “È stata dura, soprattutto da parte degli amici di sinistra”, ammette Raphaël, uno dei suoi membri. Lo incontriamo in una riunione del gruppo che, da inizio novembre, si ritrova in una boutique di abiti di seconda mano del centralissimo quartiere Beaubourg, a Parigi. Uno dei partecipanti chiede spiegazioni sulla “teatralizzazione” del movimento: “Vogliamo unire lo spettacolare al lavoro di fondo – risponde Tito -. Sapevamo che ci sarebbero state critiche. La questione era soprattutto capire se saremmo stati presi sul serio oppure no”. Il video al museo Carnavalet è stato visionato due milioni di volte e ha generato centinaia di chiamate e messaggi sui social. “Era il nostro obiettivo. Ora possiamo scendere in campo”. Per fine novembre, Akira ha organizzato un incontro con altri collettivi militanti e una formazione sull’antifascismo. Sabato hanno partecipato a una mobilitazione contro l’estrema destra e il razzismo lanciata da varie organizzazioni e partiti. Hanno anche pubblicato un nuovo video contro il polemista di estrema destra Eric Zemmour, che aspira all’Eliseo. Allo stesso tempo, hanno previsto delle operazioni di solidarietà, in particolare nella periferia est di Parigi. Nuove iniziative sono già previste per gennaio.

Diverse incontri si sono tenuti a Parigi, ma anche nella sua regione, a Montreuil, Bagnolet, Saint-Denis, e dei nuovi gruppi si stanno formando in Bretagna e nel centro della Francia, vicino a Clermont-Ferrand, a Marsiglia e Bordeaux. In questa sera di novembre, a Parigi, la ventina di persone presenti alla riunione vi partecipa soprattutto per curiosità. Tra loro ci sono anche Isabelle, 54 anni, e Jean-Philippe, 55 anni, due amici “gilet gialli” del nord di Parigi, entrambi alla ricerca di asilo politico. “Le manifestazioni contro il pass sanitaire ci sembrano una battaglia persa. Non capiamo come mai non ci siano ancora mobilitazioni in vista delle presidenziali”, osserva Isabelle. Léo, Idriss, Maya, Pierre, Tito, già membri di Akira, raccontano di essersi incontrati nei diversi movimenti sociali degli ultimi anni, dai cortei contro la riforma del Lavoro di François Hollande al movimento Nuit Debout, alle mobilitazioni femministe, antirazziste o anti-islamofobia. Altri membri del gruppo partecipano a mense autogestite per aiutare i migranti o hanno partecipato ad organizzazioni antifasciste e anticapitaliste, o sono vicini a movimenti anarchici. Yvan, sulla trentina, ha deciso di venire stasera perché è “furioso” riguardo alla questione ambientale. Da tempo ha smesso di andare a votare: perché allora non appoggiare una candidatura poliedrica, al servizio delle idee e delle lotte sociali? Nicolas è stato attivista di Occupy Wall Street dodici anni fa, a New York: “Unire le lotte, organizzare mobilitazioni che hanno un certo impatto, è importante – dice –, ma per esperienza, so che senza obiettivi e una strategia chiara, il progetto è destinato a fallire”. Durante la discussione, emergono altre problematiche, note alle mobilitazioni contemporanee: la strategia, il costo personale dell’impegno militante, le linee rosse di un movimento che si dichiara anticapitalista e rivoluzionario, il rapporto con le istituzioni. “Vogliamo che l’anno prossimo i cittadini possano votare per Akira, pur votando anche per un candidato che possa essere eletto, se preferiscono non astenersi nel contesto attuale”, osserva Tito. Per Idriss è necessario “essere estremamente attenti ai rapporti di potere tra i membri del gruppo”. Di qui l’idea di creare dei canali decisionali molto fluidi. “Il desiderio di dre vita ad un collettivo politico senza un leader esiste, ma vediamo anche che questo tipo di esperienze il più delle volte non durano a lungo – aggiunge Tito -. Un’altra delle nostre preoccupazioni è l’efficacia. Abbiamo quindi creato delle cerchie più o meno decisionali e più o meno coinvolte, con un investimento basato sul volontariato e la possibilità di passare dall’una all’altra a seconda del tempo che si ha a disposizione, dell’energia, del lavoro”. I membri di Akira non vogliono neanche essere “dogmatici”. Rifiutano “l’ideologia scolpita nella pietra” o di “dividere i temi in gerarchie”. Desiderano dare la parola “ai diretti interessati” in una logica intersettoriale.

La cosa solleva molti dibattiti. “Per me, il femminismo è una forma di militantismo esclusivo. Non riesco a capire come si possano includere le minoranze di genere in questa battaglia”, sostiene Meriem, una giovane donna che fa parte di un gruppo femminista che incolla messaggi sui muri di Parigi per denunciare le violenze contro le donne. “Quello che dici può risultare iper violento nei confronti delle persone che non si riconoscono né come donna né come uomo”, reagisce Lina. Léo suggerisce di portare avanti questi discorsi in un “ambiente più informale”. Ma, a fine serata, Pierre conferma uno dei principi fondamentali del movimento, di cui diversi membri provengono dalla comunità Lgbtqia+: “Non possiamo escludere queste persone dalle nostre lotte politiche, è fuori discussione. Come l’antirazzismo, questa battaglia fa parte dei nostri valori”. “Siamo seri, la situazione non è pre-rivoluzionaria”, osserva una donna sulla cinquantina, sul finire della riunione, ricordando molte discussioni militanti dell’estrema sinistra. Il primo a reagire è Jean-Philippe, già “gilet giallo”: “Chi avrebbe mai detto, fino a qualche mese fa, che si sarebbe ancora potuta gridare la parola “rivoluzione”, a migliaia di persone sugli Champs-Élysées? Nessuno”. Nel suo manifesto, pubblicato alcuni giorni fa, l’organizzazione politica afferma di vedere nella “sincerità” e nel rifiuto del cinismo un’“arma rivoluzionaria”. Alla fine della riunione, la maggior parte dei nuovi arrivati chiede di poter aderire all’organizzazione, alcuni perché ci hanno creduto davvero, altri solo per “vedere come va”. Fino a che punto e in che modo Akira potrà davvero far “deragliare” il gioco presidenziale?

(Traduzione di Luana De Micco)

Twitter. La perfetta camera dell’eco (e dell’Ego): il 25 % degli utenti produce il 97% dei contenuti

Cassa di risonanza, altro che social: una ricerca del think tank Usa Pew Research ha rilevato che solo il 25 per cento degli utenti di Twitter, che conta circa 211 milioni di utenti giornalieri – quindi molti meno degli altri social network – genera il 97 per cento dei post circolanti, dunque la quasi totalità. L’analisi è stata effettuata sugli utenti americani ma, trattandosi del mercato più esteso, si può facilmente ipotizzare che la stessa dinamica si ripeta negli altri mercati.

Esisterebbe dunque una ristretta cerchia di opinionisti dei 140 caratteri in grado di muovere e indirizzare il dibattito sulla piattaforma. E come se non bastasse, solo il 14 per cento dei contenuti prodotti da questo quarto degli utenti sarebbe formato da tweet originali. Apparentemente spopola la pigrizia intellettuale: l’80 per cento del circolante è formato per lo più da retweet (49 per cento) o da risposte ad altri tweet (33 per cento) ed entrambi costituiscono la maggior parte delle azioni compiute da chi usa meno Twitter, quindi dal restante 3 per cento sul totale.

Questi numeri incoronano definitivamente Twitter come una camera dell’eco da manuale all’interno della quale si formano bolle di pensiero generate dai continui rimpalli tra follower affini ed estimatori. Questa dinamica può essere virtuosa o pericolosa. Così come può dar risalto facilmente a cose buone, che altrimenti resterebbero nascoste, fa sì che ogni stortura diventi rapidamente strutturale ed evidente. Un fenomeno di poco conto può essere gonfiato al punto da risultare rilevante anche quando non lo è.

Da qui il cortocircuito massimo: Twitter è infatti anche il mezzo con cui le persone si informano e da cui parte l’informazione: i media sempre più spesso prendono a riferimento quanto accade su questa piattaforma per identificare e definire tendenze generalizzate che, ora è evidente, generalizzate potrebbero anche non essere.

Al centro, la sensazione di attendibilità e di coinvolgimento: il 46 per cento degli utenti ha affermato infatti che Twitter ha aumentato la propria comprensione degli eventi nell’ultimo anno e il 30 per cento ha detto che li ha fatti sentire più impegnati politicamente. Ed è un cane che si morde la coda: “I tweeter ad alto volume – si legge – differiscono dai tweeter meno prolifici in modi importanti. La maggioranza visita il sito ogni giorno e circa uno su cinque afferma di farlo troppe volte per poterne tenere il conto. Il loro uso di Twitter ha anche una valenza più apertamente politica: sono più propensi di altri a dire che il sito ha aumentato il loro impegno nell’ultimo anno”. Il sondaggio ha rilevato inoltre che, per la maggior parte degli utenti, Twitter serve principalmente per vedere ciò che gli altri stanno dicendo (64 per cento) piuttosto che come mezzo di espressione (7 per cento). Solo per il 28 per cento le due funzioni convivono.

 

Il contratto di governo tedesco: ecco quello che c’è da sapere

La Germania è pronta ad avere un nuovo governo. Verdi, socialdemocratici e liberali hanno firmato il patto di coalizione (KoalitionsVertrag), un accordo che segna l’inizio ufficiale dell’inedita alleanza “semaforo” e che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro dell’Europa. Dopo 16 anni di Merkel, insomma, si apre una nuova stagione: il prossimo cancelliere sarà Olaf Scholz, della Spd, partito che non esprimeva il capo del governo dal 2005. Il ministero più conteso, quello delle Finanze, andrà al rigorista Christian Lindner (i liberali di Fdp), mentre Robert Habeck (Verdi) avrà il megadicastero all’Economia e al Clima. “Lo stile dell’accordo e delle trattative è incoraggiante: niente fughe di notizie e i tempi sono stati rispettati, significa che c’è fiducia e mi dà la sicurezza che questo governo lavorerà in modo efficace”, dice al Fatto Max Krahé, direttore di ricerca di Dezernat Zukunft, giovane think tank tedesco che ha fornito molti spunti ai lavori preparatori.

Nelle 178 pagine dell’accordo non ci sono molti numeri, se lo confrontiamo con quello dell’ultimo governo Merkel: “È il segno di un cambiamento in Germania – spiega Krahé – L’accordo del vecchio governo conteneva un rigido impegno sullo Schwarze Null, il pareggio di bilancio: per questo bisognava quantificare tutto. Ora lo Schwarze Null non c’è più. Certo, dato che nel patto non ci sono numeri precisi su tutto, non sappiamo ancora in che direzione potrà andare questo cambiamento”.

Per arrivare alla versione definitiva ci sono voluti due mesi di difficili trattative in cui si è dovuta conciliare la necessità di fare grandi investimenti nel Paese senza derogare al cosiddetto “freno del debito”, una regola costituzionale che restringe la possibilità per il governo di spendere in deficit: nonostante i Verdi lo avessero criticato in passato, il patto di coalizione non lo mette in discussione.

Qualche innovazione c’è comunque, una positiva anche per l’Italia. Ad esempio, l’accordo apre a una revisione della stima dell’output gap – una misura di quanto l’economia è lontana dal pieno utilizzo delle risorse – affermando che saranno tenute in conto “le lezioni apprese negli ultimi dieci anni”. Per Krahé questo punto dell’intesa “è un primo passo, ma è già molto incoraggiante”: negli ultimi anni, infatti, le stime errate dell’output gap hanno spinto i governi a fare austerità nei momenti sbagliati, danneggiando l’economia e i lavoratori. Ora il campione della rigidità di bilancio, Berlino, pare aprire a modifiche.

Sulle politiche sociali, sono previsti molti interventi. Il salario minimo salirà da 9,6 a 12 euro. C’è un chiaro impegno a salvaguardare il sistema pensionistico: le pensioni non saranno ridotte e l’età pensionabile non sarà aumentata. Tuttavia, come fa notare Max Krahé, “resta aperta la questione di come rendere il sistema sostenibile a lungo termine, dato che la società tedesca sta invecchiando”. E ancora: il nuovo esecutivo s’impegna a sostenere la costruzione di 100mila nuove case e a un più rigido controllo sui prezzi degli affitti. Ovviamente, data la presenza dei Verdi, c’è particolare attenzione anche sul clima: l’accordo alza dal 65% all’80% l’obiettivo di elettricità prodotta da rinnovabili e accorcia i tempi “ideali” (dal 2038 al 2030) per l’abbandono del carbone.

Ai partner europei, però, interessa soprattutto l’atteggiamento verso le regole fiscali comuni. È qui che le interpretazioni divergono: non tutti leggono il nuovo accordo allo stesso modo. Krahé, ad esempio, si dice “positivamente sorpreso, perché l’accordo apre la porta a un’evoluzione del Patto di Stabilità. Le nuove regole dovranno incoraggiare la crescita, la sostenibilità fiscale e gli investimenti verdi, oltre a essere più semplici. Il prossimo passo sarà costruire fiducia per le negoziazioni”. Condivide l’ottimismo anche Lucas Guttenberg, vicedirettore del Delors Centre, che twitta: “Tutto sommato, ci sono buone notizie per l’Eurozona (…) È un buon inizio”.

Non la vede così, invece, Vitor Constancio. L’ex vicepresidente della Bce sottolinea sui social che sulla flessibilità di bilancio sono stati fatti passi insufficienti. È ancora più drastico Wolfgang Munchau, già editorialista del Financial Times, oggi animatore di Eurointelligence: l’accordo “rifiuta categoricamente il rinnovo del Recovery Fund” e “gli eurobond sono più lontani che mai”.

È chiaro che il contratto di governo si presta a varie interpretazioni. Anzi, su alcuni dossier l’ambiguità è stata forse necessaria proprio per arrivare a un’intesa. Ma qualche cambiamento c’è e non si può ignorare. I tedeschi vogliono riconvertire il loro sistema produttivo. Concederanno di farlo agli altri Paesi? Questo è il vero dilemma.

Sia lode alla conglomerata industriale, argine alla finanza

La scorsa settimana è stata definita “epocale” da parte dei commentatori economici internazionali. Johnson & Johnson scorporerà la sua divisione dei prodotti di consumo da quelle farmaceutiche e dei macchinari medicali. Toshiba si dividerà (salvo la non scontata approvazione del raggruppamento Mitsui) in tre tronconi indipendenti: sistemi di infrastrutture, strumenti elettronici e una holding mista. Ma il caso più eclatante è l’incombente scomparsa della leggendaria General Electric (GE), fondata da Thomas Edison nel 1892. Le principali attività di GE nei sistemi per energie rinnovabili, nell’avionica e nelle apparecchiature medicali diventeranno tre società distinte.

Un passaggio storico, che tuttavia si inserisce in una tendenza consolidata del capitalismo occidentale: il declino della conglomerata industriale, un’impresa di grandi dimensioni fortemente diversificata, ma con un discreto grado di coordinamento da parte della capogruppo e un’integrazione tra le divisioni che la compongono.

Negli ultimi quattro decenni, con l’eccezione di alcune importanti realtà come Honeywell e 3M, gli Stati Uniti hanno progressivamente visto scomparire o ridurre al cosiddetto “core business” settoriale alcune fra le più note conglomerate: IT&T, RCA, United Technologies, IBM, General Motors, DowDupont e altre. La stessa General Electric negli ultimi quindici anni è stata drasticamente ridimensionata dalla cessione delle divisioni plastiche, multimedia, elettrodomestici, biofarmaceutica e “Oil&gas”. Nel complesso, dal 2017 ad oggi, a livello globale si sono registrati 178 spin-off del valore complessivo di 800 miliardi di dollari (GE esclusa).

Questi processi sono intrinsecamente legati alla cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia, che trova giustificazione nelle teorie propugnate da Milton Friedman e da Micheal Jensen sulla massimizzazione del profitto e sul “vomitare” all’esterno dell’impresa (ovvero agli azionisti) tutto il valore da essa creata.

La conglomerata oppone delle resistenze a questo modello perché la profittabilità non deve essere massimizzata in ogni unità che la compone e la capogruppo può allocare le risorse al suo interno sulla base di una strategia competitiva di lungo periodo, che prescinde dal raggiungimento del massimo rendimento annuale o addirittura trimestrale. Per questa ragione, lo smembramento del cerbero GE piace agli investitori finanziari (come i fondi di private equity presso cui lavora Jeff Immelt, ex Ceo di GE), perché permette di estrarre più valore da ogni singola divisione con la maggiore frequenza possibile.

Da tempo si assiste a una riconfigurazione delle conglomerate industriali sotto forma di colossali holding finanziarie governate da fondi di investimento, che operano secondo una logica prevalentemente finanziaria di massimizzazione dei ritorni.

Per fare qualche esempio, nel segmento private equity la sola KKR – agli onori delle cronache italiane per l’offerta Tim – ha un portfolio di aziende del valore di 150 miliardi di dollari, rappresentanti oltre 800.000 dipendenti. Berkshire Hathaway, la mastodontica holding di Warren Buffett da 875 miliardi di asset, che si colloca all’11° posto mondiale per fatturato (con un totale di 360.000 addetti delle società consolidate), possiede aziende che vanno da Duracell a Fruit of the Loom fino a quote di controllo in società quotate del calibro di Kraft Heinz e di American Express.

Attenzione però a proclamare l’estinzione globale della conglomerata industriale. In Europa, alcuni fra i più importanti gruppi manifatturieri hanno mantenuto questa struttura organizzativa: ABB, Bosch, Philips, ma soprattutto Siemens che, nonostante la scorporazione dei segmenti salute e energia rinnovabile, esercita un controllo da holding “industriale” sulle partecipate e preserva un sistema di fornitura e di ricerca centralizzato.

In Asia poi, i grossi gruppi diversificati rimangono il pilastro di dinamiche economie manifatturiere. Hitachi, Panasonic e Mitsubishi (che spazia dalle grandi navi cisterna alle penne a gel Uni-Ball) e altri giganti che dominano l’industria giapponese, fanno a loro volta parte di enormi “raggruppamenti” (keiretsu) di imprese con complessi incroci azionari organizzati attorno al perno di una banca finanziatrice. In Corea del Sud, le vette di comando dell’industria sono raggruppate nei cosiddetti chaebol a controllo familiare (Samsung, LG, Hyundai), con attività in ogni settore manifatturiero e nei servizi. Anche in Cina, dove i colossi di Stato tendono all’integrazione verticale, non sono assenti le diversificazioni interne e i singoli gruppi rispondono a holding pubbliche centrali o locali chiamate SASAC.

Il successo del capitalismo asiatico e il relativo declino di quello anglosassone trovano una parte di spiegazione nella forma dominante di impresa che li caratterizza. Lo abbiamo sperimentato anche in Italia, dove le fasi di sviluppo economico e di recente stagnazione sono coincise con la presenza e il successivo smantellamento dei grossi gruppi diversificati come Fiat, Iri, Olivetti e Montedison.

Questo dovrebbe suggerire una riabilitazione del modello di conglomerata industriale. La conglomerata presenta caratteristiche tecniche e organizzative che possono tradursi in vantaggi competitivi a livello del “sistema Paese”. Oltre a tutelare le attività produttive colpite da imprevisti sconvolgimenti esterni nel medio-lungo periodo, la conglomerata facilita la diversificazione in nuovi segmenti industriali, l’attivazione di sinergie tecnologiche e il raggiungimento di fondamentali economie di scala (nel marketing, nella ricerca, nella fornitura, eccetera). Il recupero del modello di conglomerata favorirebbe il ritorno a una logica industriale di creazione di valore economico diffuso, attenuando l’impostazione finanziaria che lo estrae a vantaggio di pochi.

Il triste spezzatino della conglomerata americana per eccellenza ci avverte: in molti ambiti dell’economia industriale vige l’aristotelico principio secondo cui “il tutto è maggiore della somma delle sue parti”.

*Economista, ricercatore dell’Institute for Innovation and Public Purpose di Londra,

“Quella società ai Caraibi mi fu proposta dentro Hsbc”

Identikit: medio imprenditore attivo nel settore degli arredi. Esigenza: una provvista nera da nascondere all’estero. Il nome di A.C., oggetto di una verifica fiscale della Gdf di Orbassano, viene trovato nei documenti emersi nella stagione dei leaks. Ciò che interessa i militari, però, non sono i ricchi conti in Svizzera presso Hsbc, ma un passaggio che, a un certo punto, scherma il correntista italiano e ne porta i capitali in società panamensi, la Surfing Inc e la Triss 67. Questo senza che A. C. sia mai stato ai Caraibi, né sappia esattamente, così dice, dove vanno a confluire i suoi capitali: “Ho aperto tale conto nel 2000, forse 2002. Avevo già un conto acceso presso l’Ubs di Lugano e poiché in quel periodo sembrava che la banca stesse per chiudere, ho aperto un nuovo conto presso la Hsbc di Lugano. Da quando ho aperto tale conto fino al 2006, forse 2008, lo stesso veniva alimentato in contante e mi recavo personalmente presso la sede di Lugano. Dal 2007 poi non è stato più alimentato. Le somme che versavo (…) provenivano da ricavi non fatturati della mia attività. All’inizio ero seguito da un consulente della Hsbc che poi si dimesso. Successivamente sono stato seguito prima da A. O. e poi da G. H.”. Ai finanzieri interessa sapere chi decise di aprire la società schermo: “È stata aperta su proposta di Hassan, mi disse che ci sarebbe stato un beneficio, non ricordo di che tipo. Non molto tempo dopo mi fu detto che non era più necessario e fu chiusa. Sicuramente è stata aperta a Lugano, ma l’operazione non è stata effettuata solo presso Hsbc, alcune formalità furono espletate in altri uffici”. Insomma, della gestione patrimoniale e burocratica, così come del trust e della schermatura, secondo il testimone si occupano i rappresentanti della banca: “Non ho mai avuto alcuna documentazione in relazione alla società e ai conti aperti presso Hsbc”. Dichiarazioni “inequivocabili” per la Procura, che però da sole non basteranno a portare la vicenda a processo.

“1 miliardo di euro”. I pm di Milano e i 7 istituti svizzeri

Sul banco degli accusati stavolta sono finite le banche, alcune delle più famose al mondo: 7 istituti di credito con base in Svizzera, a pochi chilometri dal confine, sono sospettati di aver riciclato per anni il nero dei loro clienti italiani, due hanno già patteggiato. Nelle storie di criminalità fiscale, a piangere di solito sono solo gli evasori colti con le mani nel sacco, ma stavolta la Procura di Francesco Greco ha puntato il bersaglio grosso. Gli inquirenti hanno dato un nome all’operazione: “1 miliardo di euro”. Sono i soldi che i pm di Milano Monia Di Marco ed Elio Ramondini, titolari dei procedimenti, sperano di recuperare dalle banche accusate grazie alla legge 231/2001 sulla responsabilità delle società (in questo caso nel favoreggiamento del riciclaggio). Due istituti – il colosso Ubs e la piccola Pkb Privatebank – hanno già scelto il patteggiamento, versando in tutto circa 120 milioni di euro all’Italia, ma evitando così un processo che sarebbe potuto diventare imbarazzante per chi fa da sempre della riservatezza il suo punto di forza. Per gli altri istituti – Hsbc, Edmond de Rothschild, Julius Baer, Bsi e Corner Banca – i pm stanno proseguendo con gli accertamenti.

Il 14 gennaio 2021 il gup di Milano Livio Cristofano ha firmato la sentenza contro la Pkb Privatebank SA. La banca svizzera degli industriali piemontesi Trabaldo Togna – fondata nel 1958 e di cui fa parte anche l’italiana Cassa Lombarda – ha subito la confisca di 1,8 milioni di euro. Un patteggiamento con la Procura che contesta alla banca di aver favorito il riciclaggio di denaro dall’Italia almeno dal 2012 al 2018. Non erano però i clienti ad andare in filiale. La società presieduta da Umberto Trabaldo Togna, si legge nella sentenza, “si avvaleva nel corso degli anni di almeno 20 dipendenti, che operavano in Svizzera e nel territorio italiano, sollecitando la sottoscrizione di rapporti con l’Istituto funzionali all’occultamento e al trasferimento di risorse finanziarie provento (almeno) di evasione fiscale da parte di clienti/contribuenti italiani”. C’è un caso, riportato nella sentenza contro Pkb, in cui si racconta nel dettaglio come il trasferimento di denaro oltreconfine fosse collegato a una bancarotta fraudolenta. Rosario Stellitano era titolare della Centralpelli Srl, azienda di produzione di pelle basata a Castelfranco di Sotto (Pisa): la società è fallita nel 2015, ma già tre anni prima lui, il manager di Pkb Stefano Maltese e un “relationship manager” non ancora identificato, avevano iniziato a svuotarla. La banca ha riciclato 300mila euro della Centralpelli Srl prima del fallimento, tutto spostato in Svizzera in contanti, impacchettato in buste di plastica a bordo di una Mercedes 320, col servizio di spallonaggio pagato il 2% della somma. Stesso costo quando il cerchio si chiudeva col cash consegnato in Toscana direttamente nelle mani di Stellitano. La colpa della banca? Non aver impedito, si legge nella sentenza, “la commissione di reati di riciclaggio di fondi di provenienza delittuosa… ripetuti nel tempo”.

Fondamentale, nella ricostruzione di questi rapporti, la miniera di informazioni ricavata dalle dichiarazioni all’Agenzia delle Entrate per le voluntary disclosure. I magistrati di Milano hanno potuto contestare alle banche il favoreggiamento del riciclaggio, visto che erano gli istituti ad attirare nei propri forzieri il nero degli italiani. Parallelamente, il Fisco ha potuto dimostrare che le stesse banche per anni hanno avuto una stabile organizzazione occulta in Italia: gli istituti non pagavano le tasse a Roma perché non avevano una sede legale e dicevano di non fare affari qui, ma la presenza di quei dipendenti (i relationship manager) che facevano la spola tra l’Italia e Lugano ha dimostrato il contrario. Conseguenze? Le 7 banche svizzere sono state sanzionate per quanto fatto in passato e costrette ad aprire una sede in Italia: d’ora in poi, se faranno utili, pagheranno le imposte anche a Roma.

Vuoi portare il nero all’estero? Niente paura, ci pensa la banca

Se l’evasore non va al paradiso fiscale, è il paradiso fiscale che va a cercare l’evasore. O meglio, non lo fa direttamente, in mezzo c’è un altro passaggio: una banca. Nel gergo finanziario, si chiamano “professional clients”: istituti di credito o società fiduciarie europee che si è scoperto – quando si è alzato il velo su importanti leaks, dalla lista Falciani ai Panama Papers – controllavano decine, se non centinaia di società schermate.

Due inchieste, condotte fra Torino e Milano, con esiti alterni, hanno scoperchiato una sorta di sistema, andando a contestare il reato di riciclaggio non più solo al singolo evasore, ma direttamente alla banca.

 

Lo spallonaggio 3.0 dei relationship manager

Il meccanismo, venuto fuori da testimonianze e da più inchieste, riscrive i connotati dello spallonaggio 3.0. Non erano gli evasori italiani a cercare modi per portare i soldi all’estero, ma intermediari delle banche, “relationship manager”, a procacciare clienti, come un qualsiasi promotore finanziario. Con la differenza che all’utente proponevano il pacchetto completo per trovare un rifugio sicuro a denaro di provenienza sospetta, quando non illecita: creazione di trust, conti cifrati, schemi di società offshore preesistenti, teste di legno pronte a mettere il proprio nome per proteggere i veri proprietari, i “beneficial owner”. Addirittura, in alcuni casi erano le stesse banche a organizzare l’intera operazione: prelevare il contante e trasferire il cash da e per l’Italia, ovviamente trattenendo una percentuale del 2%.

Un primo fascicolo nasce a Torino. Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza comincia a lavorare su due elenchi: uno più datato, la lista di titolari di conti correnti in Svizzera stilata dall’ex funzionario di banca Hervé Falciani, e uno più recente, quello dei “Panama Papers”.

I finanzieri, coordinati dal pool reati economici guidato dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio, cominciano a convocare i nomi contenuti nelle liste: imprenditori con provviste nere, nobili, bancarottieri, talvolta figli che hanno ricevuto eredità di cui sanno poco o niente. C’è un po’ di tutto.

A colpire gli inquirenti è però un’affermazione ricorrente: nessuno o quasi sembra aver avuto rapporti con lo studio panamense “Mossack e Fonseca”, gli specialisti di società offshore, la cui banca dati (i Panama Papers, appunto) è finita sui giornali di mezzo mondo e persino al centro di un film hollywodiano con un super-cast.. Alcuni di loro raccontano che sono stati i promotori a fare praticamente tutto, c’è chi giura persino di non aver avuto contezza di dove stavano esattamente i capitali.

Gli accertamenti si muovono su vari fronti. Da un primo censimento i finanzieri trovano anche alcune filiali (branch) estere collegate a banche italiane, “professional clients” con decine di posizioni aperte presso lo studio Mossack e Fonseca: la Societé Europeenne de Banque Sa (Intesa) ne ha 160; Global Trust Advisors Sa Luxembourg 130; Ubi banca international 95; Unicredit Luxembourg 63; Compagnie Monegasche de Banque (Mediobanca) 40. Va sottolineato: questo non è necessariamente sintomo di illegalità. Occorre infatti provare da dove vengano i soldi e come sono stati reimpiegati.

 

Il caso Hsbc molti indizi, ma indagine archiviata

Questo cerchio, però, arriva (quasi) a chiudersi solo in un caso: la Procura trova molti clienti legati a intermediari che lavorano per un’altra banca, il colosso britannico Hsbc. Attraverso documenti trovati nei leaks, i finanzieri ricostruiscono una rete di una decina di promotori, che lavora in una trentina di città italiane dove cura clienti particolari (incontri vengono documentati a Milano, Roma, Firenze, Genova, Varese, Modena, Trenti, Bassano del Grappa, Rovigo). Ben presto però l’inchiesta diventa un po’ una caccia ai fantasmi. Quasi nessuno dei professionisti è residente in Italia. Ci sono problemi di competenza territoriale. E da provare anche un collegamento che consenta eventualmente di traslare le contestazioni sulla banca.

I magistrati iscrivono sul registro degli indagati i nomi di due intermediari finanziari, A. O. e G. H., che gravitano sulla filiale della Hsbc di Lugano. A chiamarli in causa sono alcuni clienti, ma le loro contestazioni non bastano, tecnicamente sono “chiamate in correità” (i testimoni di fatto si autoaccusano e potrebbero avere interesse a scaricare la propria responsabilità) e necessitano per questo di altri riscontri. Così l’indagine viene archiviata. Mentre un’altra parte importante del fascicolo, su un terzo consulente che gravita su Roma, viene trasferita nella capitale dove diventa la base per un’importante operazione anti-riciclaggio.

Il lavoro di Torino viene però riattualizzato anche dalla Procura di Milano, che nel dicembre 2020 acquisisce gli atti dell’inchiesta piemontese. Gli accertamenti vengono riversati in un nuovo fascicolo, coordinato dai pm Monia Di Marco ed Elio Ramondini, che ipotizza un gigantesco giro di riciclaggio a carico di alcune banche svizzere. I pm milanesi hanno ipotizzato lo stesso schema partendo da un altro punto di partenza, le voluntary disclosure.

 

Il filone svizzero: il “manuale dell’evasore”

Tutto nasce dalla voluntary disclosure, lo strumento fiscale introdotto nel 2014 dal governo Renzi, che mirava a far emergere e regolarizzare – a fronte di una sanzione (variabile dal 3% al 15%) – capitali detenuti segretamente all’estero da cittadini italiani e che in un paio d’anni consentì di “ripulire” decine di miliardi pagando all’erario quasi nulla (l’8% in media).

Nella domanda che i clienti dovevano inviare all’Agenzia delle Entrate per chiedere di aderire alla “divulgazione volontaria” non era richiesto di spiegare come era stato accumulato il tesoretto all’estero, cioè di quale attività fosse frutto. Era però necessario, se si voleva beneficiare del condono, spiegare in che modo era stato trasferito fisicamente il denaro oltreconfine. Ed è così che è venuta alla luce la vera storia sul rapporto tra gli evasori fiscali nostrani e le banche del Canton Ticino, da sempre porto sicuro per certi capitali tricolori. Molti dei 130mila italiani che hanno aderito alla voluntary disclosure (la prima versione, le cui domande dovevano essere presentate entro novembre del 2015) hanno infatti spiegato candidamente come ha funzionato per anni il sistema: non era l’evasore fiscale italiano a prendere il contante, caricarlo in auto e portarlo in banca a Lugano, ma esattamente al contrario.

C’è un precedente, un’indagine apripista conclusa nel 2016, in cui la Procura di Milano aveva addirittura trovato una sorta di “manuale dell’evasore”. L’inchiesta, aperta nei confronti di Credit Suisse per frode fiscale, ostacolo all’autorità di vigilanza e riciclaggio, si è conclusa con un patteggiamento da 110 milioni di euro.

I magistrati avevano scoperto che l’istituto di credito forniva ai propri funzionari incaricati di fare la spola tra Italia e Svizzera istruzioni precise per evitare di mettere nei guai la banca. Non usare Pc o cellulari aziendali, non dormire per più di tre giorni nello stesso hotel, non portare con sé alcun documento riferibile alla banca: queste erano alcune delle mosse necessarie per evitare che, in caso di controlli delle autorità italiane, Credit Suisse potesse risultare responsabile.

Mail Box

 

Terapie intensive, anche i privati diano una mano

Perché non chiediamo al governo dei migliori che ci diano dei dati, veri ed esaustivi, sui posti letto delle terapie intensive della sanità privata? Qualcuno è in grado di gestire i ricoveri dei pazienti Covid, in modo equo, senza che i soli letti della sanità pubblica vengano caricati di tutto il peso della 4ª ondata pandemica? In Lombardia nel frattempo la signora Moratti sta riformando il servizio sanitario regionale costruito da Formigoni e da Maroni (sempre ribadendone l’efficacia), che non ha fornito brillanti prestazioni sul territorio, quando l’esplosione pandemica rivelò tragicamente gli errori della politica sanitaria .

Franco Gangemi

 

Scuola, ricette ignoranti. Meno Storia, più tecnica

Di nuovo, ciclicamente, scoppia la polemica contro la Storia. Stavolta a opera del ministro al greenwashing Cingolani. Nessuno stupore. Si potrebbe obbiettare come sia impossibile comprendere chi siamo se non sappiamo da dove veniamo. Ma soprattutto: è mai possibile che per studiare materie tecniche si debbano togliere quelle umanistiche? Questa continua aggressione alla Storia, come già Renzi fece, sembra tanto crisi di inferiorità da parte di qualcuno che, se gli parli di Vitruvio Pollione, architetto romano, o Archimede, genio della Magna Grecia, si vergogna di non sapere chi siano. E capisce solo Magna.

Giovanni Contreras

 

Riforma del fisco: tanto rumore per pochi spicci

Giornali e televisioni hanno subito incensato la decisone del governo sulla riduzione Irpef, in particolare per i dipendenti. Tutti a fare grandi conteggi sulle aliquote che portano a un risparmio di imposta veramente modesto (ad esempio: circa 260 euro annui per un reddito di 28000). Ma dal momento che non sono ancora state decise le detrazioni da lavoro dipendente che dovranno assorbire la riduzione del cuneo fiscale di 100 euro (quindi ben 1200 euro annui su 28000), inutile sbandierare il calo di tasse perché molto probabilmente l’esigua riduzione di aliquote e le nuove detrazioni (con l’assenza dei 100 euro mensili), se tutto andrà bene, porterà ad un pareggio se non a un aumento. E allora tutti taceranno.

Monica Stanghellini

 

Ergastolo e Severino: quando le legge è dispari

Perché non togliere da tutti i tribunali la grande scritta “la legge è uguale per tutti”? È solo una presa per i fondelli. Infatti vorrebbero abolire la legge Severino, per cui una grande quantità di sindaci potranno tornare a fare quello che facevano. Poi, con il disegno di legge sull’ergastolo ostativo, usciranno dalle carceri i colpevoli delle stragi, senza dare in cambio nulla alla giustizia. Stanno uccidendo nuovamente tutte le vittime di mafia. Se un comune mortale ruba per fame viene condannato, macchia la sua fedina penale e non troverà più lavoro. Quindi quella scritta sui tribunali non ha alcun valore.

Giulia Motta

 

Puzzer, il Conticidio e la “dittatura sanitaria”

Appunti per i senza memoria: la creatura Puzzer è nata in un contesto inquinato da personaggi (statisti, insigni giuristi, giornalai) che contestavano le misure anti Covid. Il lockdown rigoroso, dall’8 marzo fino a maggio dello scorso anno, senza vaccini e farmaci antivirali si rivelò lo strumento più efficace: ecco perché gli ospedali e le terapie intensive si svuotarono. Ma i dpcm che legittimavano tale misura vennero contestati, dentro e fuori il governo. Conte fu accusato di aver imposto la dittatura sanitaria, esautorato il Parlamento, sospesa la democrazia: uno “scandalo costituzionale”(Renzi). La Meloni definì l’ex premier “un criminale” e lo paragonò a Xi Jinping. Stessa sorte subì il decreto legge 16 maggio 2020 n. 33 che prescriveva l’obbligo della mascherina al chiuso e il divieto di assembramento (all’aperto, la distanza di sicurezza dove essere di almeno 1 metro). Salvini: “Emergenza? No, chi lo dice è in mala fede. Io la mascherina non ce l’ho e non la metto”; “Manderò mia figlia a scuola senza mascherina”. Il prof. Zangrillo il 31 maggio 2020 sentenziava: “Il virus è clinicamente morto”. Porro affermava: “Hanno creato il terrore della seconda ondata”. A luglio il giurista Cassese in punta di diritto accusava: “Lo stato di emergenza non serve, manca l’emergenza”; e ancora: “Chi ha scritto i Dpcm andrebbe mandato alla colonia penale in Siberia”, “Conte abusa dei Dpcm, siamo vicini all’usurpazione dei poteri, interverrà la Consulta”. La Consulta è intervenuta per dare ragione a Conte. Ma i Dpcm, prima brutti e cattivi, per Cassese diventarono belli e buoni – ecco la metamorfosi – con Draghi. Il governatore Fontana contestava il governo: “Divieti di Natale assurdi, chi li vìola ha ragione”. Che senso dello Stato! Chi è “er Puzzone”? Puzzer?

Maurizio Burattini