“I controlli di Mazzone. Le telefonate di Moratti. E ho visto il dio Ronaldo”

Un paio di zanzare moleste, sistemate con altrettanti ceffoni sugli avambracci, valgono bene uno dei posti di lavoro più ambiti al mondo. “Da quando sono stato nominato ct della nazionale delle Maldive è un continuo di messaggi di ex colleghi pronti a venirmi a trovare”. Non male per chi, decenni fa, è partito da un paesino del Salento e da una famiglia non proprio abbiente (“papà lavorava in ospedale come portantino, mamma puliva le scale”).

Il commissario tecnico “da atollo” è Francesco Moriero, 52 anni, salentino per accento, storia personale e rivendicazione frequente (“pensi che ho esordito tra i professionisti in un derby contro il Bari”) e una carriera “importante” (aggettivo molto amato tra i calciatori insieme a “umile”) tra Lecce, Cagliari, Roma, Inter, Napoli e la maglia della Nazionale. Lui ha scambiato palloni e abbracci con pezzi di storia memorabile del calcio, come Francesco Totti, Christian Vieri, Roberto Baggio, Alvaro Recoba e sua maestà il Fenomeno Ronaldo (“Con lui ho visto cose che noi umani….”).

Mister, non è molto abbronzato.

Macché, sono stato in Sri Lanka per un torneo ed è piovuto per 15 giorni consecutivi.

Il bagno?

Solo la prima settimana; (ride) oh, io qui lavoro.

Quanta invidia intorno a lei?

Nessuna, però ricevo tante telefonate di ex colleghi: mi dicono che da giocatore ero avanti e da allenatore ancora di più.

Vogliono venirla a trovare.

Oh, ma proprio tutti!

Chi?

(Scatta l’elenco infinito, tutti per cognome, come a scuola, come in campo) Inzaghi, Cannavaro, Galante, Colonnese, Cauet, Zamorano, Simeone; Pippo mi ha pure mandato un video: si è reso disponibile per una amichevole, mentre Ganz mi ha chiesto se per caso c’è una nazionale femminile. Comunque qui è una bella impresa.

C’è di peggio…

A me basta avere il mare, da salentino mi sento a casa; poi la federazione mi ha messo a disposizione tutto, i calciatori sono bravi, però c’è un’altra mentalità: qui non sono professionisti, sono ragazzi che la mattina lavorano.

Di cosa si occupano?

Chi il commesso, chi scarica merce nei resort…

In Italia in quale serie giocherebbero?

Forse nell’Interregionale, quasi Serie C, però sono carini, disponibili, persone che ti seguono da subito; in Italia ci vogliono mesi prima di entrare nella testa di un calciatore.

Con lei calciatore quanto impiegavano gli allenatori?

Ho esordito a 17 anni in Serie B e non potevo permettermi di perdere tempo.

Il suo primo match.

Giocavo nel Lecce ed eravamo a Bari: Santin (l’allenatore) mi guardò: “Tocca a te”; poi è arrivato Mazzone e sono diventato titolare.

Mazzone è uno dei grandi personaggi del calcio…

Qui scatta la retorica, ma con lui è semplice vista l’unicità: è stato ed è un uomo fondamentale nella mia vita, non solo in ambito sportivo; (pausa) a quel tempo, nel nostro campionato, giocavano i fenomeni, mica come ora, quindi è riuscito a dosarmi, preservarmi, a rispettare la mia età fisica e psicologica.

Cioè?

All’inizio mi tenne quaranta giorni in ritiro, io e lui da soli, perché doveva insegnarmi i giusti comportamenti, anche alimentari; aveva paura che un ragazzo di talento potesse perdere la testa.

Schiaffoni?

No, però quando alzava la voce erano dolori. Tutti zitti. E le sue regole rigide valevano anche fuori dal campo: alle nove e mezzo eravamo obbligati a rientrare a casa, una sorta di coprifuoco, e alle nove e mezzo esatte squillava il telefono. Se non rispondevo erano guai.

E lei sgarrava?

Ma che è matto? Mai. Anche se ero un po’ birichino. Grazie a Mazzone il primo anno sono stato il miglior giocatore della B, e la stagione successiva il migliore della serie A.

Birichino in cosa?

Vengo dalla strada, quindi la fidanzata, qualche uscita, ma niente di più perché ero conscio di un punto: solo con il calcio avrei potuto sistemare la mia famiglia e gli amici.

Lavoro dei suoi?

Papà portantino, guadagnava 600 mila lire al mese, mamma puliva le scale dei palazzi: tempo dopo ho scoperto che, per mandarmi in ritiro con la squadra e non farmi sentire diverso dagli altri, chiesero soldi in prestito per acquistare magliette, pantaloncini e jeans; (sorride) a casa esisteva ancora la liturgia dell’abito buono per la domenica e le feste.

A scuola?

Non mi piaceva, sono arrivato al secondo anno professionale e da lì ho iniziato con il calcio; (ci pensa) l’alternativa era quella di seguire le orme professionali di mio padre, ci avevo anche pensato.

E invece?

Andai in ritiro con la prima squadra; dopo qualche giorno chiamai i miei: “Se quest’anno non sfondo, vi giuro che inizio a studiare”.

I suoi?

Attenti, rispettosi e sempre dietro le spalle per proteggermi. Ma con pudore; (cambia tono e ammazza una zanzara) venivano agli allenamenti, senza farsi vedere, mentre io raggiungevo a piedi i campi da pallone: anche otto chilometri, pioggia o sole, con il borsone sulle spalle.

Mezzi pubblici?

Il biglietto costava cinquanta lire e ogni volta che li chiedevo a mio padre, rispondeva: “Mi dispiace ne ho solo diecimila sane”; anni dopo mi ha confessato che era una scusa, serviva a verificare se le mie intenzioni fossero serie. Dovevo prendermi le mie responsabilità.

Tutto questo dentro di lei.

Una spinta verticale; quando ho firmato il primo contratto da due milioni di lire al mese, sono andato a ritirare le loro cambiali e le ho coperte. Ancora oggi resta uno dei giorni più belli della mia vita.

Primo sfizio per sé…

La Uno Turbo di seconda mano acquistata da un ex compagno del Lecce: pagata cinque milioni. Lì sopra mi sentivo un re, io che da ragazzino non avevo neanche una bicicletta.

Il suo valore aggiunto?

Oltre la famiglia? Il non provare ansia.

Proprio mai?

Neanche quando in campo, sulla fascia, mi trovavo contro Maldini o il francese Lizarazu ai Mondiali del 1998.

Il più forte contro di lei?

Maldini era complicato: magari lo saltavo, o ero convinto di averlo saltato, invece mi tornava sotto, prendeva la palla e ripartiva. Un grandissimo.

Ha giocato con tanti fuoriclasse.

(Altra lista infinita di nomi) Barbas, Pasculli, Francescoli, Herrera, Valdes, Oliveira, Balbo, Fonseca, Totti, Zamorano, Recoba, Ronaldo, Vieri, Baggio, Zanetti…

Ecco, Baggio.

Ci sentiamo spesso, è una persona molto discreta, particolare: all’Inter stavamo sempre insieme, anche in camera, e giocavamo a carte. Da lui ho imparato molto, non solo sul piano tecnico, ma proprio umano.

Era l’Inter di Moratti.

(Sorride) Un presidente-padre: il lunedì arrivava sistematicamente la sua telefonata, solo per domandarmi come stessi. Non ero abituato. La prima volta rimasi stupito, mi chiesi perché e percome, poi ho scoperto che trattava tutti allo stesso modo. Voleva sapere tutto, ci coccolava. Poi ogni volta che vincevamo arrivava negli spogliatoi e lo prendevamo in braccio. Lui è stato in grado di costruire una famiglia.

Lei quanto ci metteva ad assorbire le sconfitte?

Troppo, non le sopporto, mi chiudevo in casa un intero giorno e non parlavo con nessuno. Per molti aspetti questo approccio mi ha impedito una carriera più importante.

Ronaldo.

Dopo Maradona e Pelè è stato il giocatore più forte della storia: con lui ho vissuto la fantascienza, con giocate non spiegabili, a una velocità da cartone animato. Per non parlare in allenamento…

Cosa accadeva?

Impazzivamo tutti, compresi i duemila tifosi perennemente presenti sugli spalti: ogni giorno un casino, una festa, con cori e applausi. Cori e applausi pure da parte di noi giocatori. E lui si divertiva.

Dopo i gol di Ronaldo lei si inchinava davanti a lui e gli lustrava gli scarpini.

Il gesto dello sciuscià mi è venuto spontaneo, in qualche modo dovevo celebrare tanta meraviglia davanti a me.

Totti.

Da ragazzino era sicuramente forte, con quel qualcosa in più, ma non credevo che sarebbe arrivato ad altissimi livelli: è stato bravo a crescere anno dopo anno, forte della famiglia, delle origini umili, di Carlo Mazzone e di qualche compagno adulto che gli ha spiegato le basi. (Sorride) Per mio figlio piccolo lui è il mito: gioca con la speranza di imitarlo.

Torna il concetto di umiltà.

Quando hai fame sai da dove vieni e sai perché vuoi saziarti: è quello che manca oggi. Arrivano troppo presto; per questo il calcio è mediocre: un tempo il giocatore era pensante, non ossessionato dalla tattica.

E l’allenatore?

Era un uomo in grado di gestire lo spogliatoio, poi aveva tutto in mano, si prendeva la responsabilità per la scelta dei calciatori che, ripeto, ormai sono meno forti. (Sorride) Io magari mi trovavo davanti a Rijkaard, Van Basten e Gullit e se li superavo ecco Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini. Capito?

È stato uno shock smettere?

Per niente, però non è stato facile: giocavo nel Napoli, ma non ero più me stesso, non mi divertivo, anche per una serie di infortuni. Io che non mi ero mai fatto male.

E così?

Non dormivo, quasi come in un film mi affacciavo dalla finestra e guardavo il Vesuvio, fino a quando ho detto stop e ho piazzato gli ultimi scarpini in una scatola di cartone. Non li ho più tirati fuori.

Proprio mai?

Per me il calcio giocato è finito, ho ceduto solo a qualche evento benefico per l’Inter.

Sogna mai la partita?

Solo una volta in 25 anni: era così vera da svegliarmi con la convinzione di essere un calciatore, poi ho visto i miei tre bambini e sono tornato nei panni attuali.

Rivede le sue partite?

(Altra zanzara) Durante il lockdown, con i miei figli: mi guardavano stupiti, quasi con lo sguardo del “ma tu eri questo? Cosa ci siamo persi!”. Alla fine un po’ di nostalgia mi ha assalito.

“Il calciatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia” secondo De Gregori.

La canto da sempre, da quando ero ragazzino. Mi ci rivedevo. Poi mamma amava Bruno Conti e quando sono andato alla Roma non ci poteva credere (silenzio, gli esce un tono salentino in più). Per me Bruno era qualcosa di immenso insieme a Franco Causio.

Ha giocato con la numero 7, come Conti.

Anche qui, altra liturgia. Ora le magliette si lasciano davanti all’armadietto, invece a quel tempo Mazzone le consegnava di persona: prima ti fissava negli occhi e da quello sguardo non potevi sfuggire (pausa). La prima volta aggiunse: “Ricordati chi l’ha indossata, vedi di tenere alto il suo nome”.

Non male.

Che emozione fantastica. Ma Bruno Conti era inarrivabile.

Come mai il mondo del calcio è così chiuso?

Non lo so, però mi dispiace, perché certe storie, come quella di Bruno Conti, si tramandavano ai bambini, li aiutavano a innamorarsi del pallone; ultimamente i piccoli sono meno appassionati e nelle scuole calcio vedo situazioni oscene.

Quali?

Gli allenatori parlano da subito di tecnica funzionale. Siamo matti? Fino a una certa età i bambini e i ragazzini si devono solo divertire e sognare.

Problemi lontani, tanto ora è alle Maldive.

(Ride) Oh, mica sono in vacanza. Io qui lavoro.

Lei chi è?

Francesco Moriero, un ragazzo venuto dal Sud con una bellissima famiglia; (pausa) uno che deve tutto al calcio, non solo sul piano economico: ho imparato a vivere, la disciplina, a parlare, a ragionare. Per questo dico grazie.

@A_Ferrucci

“Finnegans Wake”, serpente erudito che si morde la coda

 

ELEMENTI DI STILISTICA COMICA

Scartabellando fra gli stilemi che accomunano Rabelais e Joyce, abbiamo notato l’uso di elenchi, metaplasmi, e allitterazioni. Le allitterazioni, insieme con altri tipi di ripetizione (calchi interni, rime, balbettii &c.), contribuiscono a rendere Finnegans Wake un intero dalle parti inseparabili (una totalità non consiste di cose, ma di rapporti). Inoltre, Joyce interconnette FW ai suoi libri precedenti con riscritture e riprese, “spostando, tagliando, ricombinando, riconfigurando, ristrutturando, destrutturando, decomponendo e ricomponendo” (Fordham, 2007). Per esempio, le parole conclusive di Ulysses, il celebre “and yes I said yes I will Yes” di Molly Bloom, tornano più volte in FW, distorte e reinterpretate fino alla serie di “ouis sis jas jos gias neys thaws sos, yeses and yeses and yeses” che parodiano quel finale ottimistico. Un altro esempio riguarda l’incipit di Ritratto dell’artista da giovane, “Once upon a time and a very good time it was”, che in FW diventa “once upon a wall and a hooghoog wall a was”, “Eins within a space and a wearywide space it wast” e altro (Natali, 2016). Infine, Joyce sottopone a questo trattamento di citazione trasformativa ogni prestito utilizzi, in un’orgia di intertestualità universale che ben s’addice a un’opera il cui soggetto è la Storia come paronomasia, ripetizione di eventi modificati. Il gioco parodistico di Joyce, come quello di Rabelais, si estende dalle parole ai frame della cultura occidentale (luoghi comuni, stereotipi espressivi, versi, slogan, citazioni, personaggi, trame, filosofie, ideologie, cfr. Qc #15 e #51).

La derivazione poliglotta è un altro stilema che accomuna Rabelais e Joyce. Per esempio, nella frase “nin porth zadikin” (“a meno che tu non porti del cibo”), Rabelais combina latino (nisi), francese (port), ebraico (th) e arabo (zadik e kin) (Pons, 1931). Anche FW è zeppo di ibridi multilingue, come buildung (inglese + tedesco), maisonry (francese + inglese) ed eriginating (latino + inglese), per non parlare delle parole-tuono, sciarade di 100 lettere che accorpano parole dalle lingue più diverse. Dal saggio di Sainéan “La Langue de Rabelais”, Joyce trasse molte parole di Rabelais che ritroviamo metabolizzate in FW. Per esempio prende “ricqueracque”, cioè zig zag, che Rabelais usa per l’atto sessuale; “brimballer”, cioè fare sesso; “jocquer”, appollaiarsi; e “joli cas”, l’atto sessuale; e le ricompone nella neoformazione “Ricqueracqbrimbillyjicqueyjocqjolicass”. La parola ibrida, oltre che un gioco, è un atto di ribellione contro l’autorità: per Rabelais, quella accademica che scoraggiava lo studio delle lingue straniere; per l’irlandese Joyce, l’autorità dell’inglese oppressore (Korg, 2002).

Variazioni enigmatiche. Rabelais non estende il gioco delle metabole verbali a tutto il testo, sicché il divertimento locale è immediato. Invece la tecnica di complicazione semantica progressiva impiegata da Joyce nella stesura di FW lo rende un romanzo tanto espressivo quanto criptico: è divertimento per eruditoni (con la complicazione aggiuntiva di una miriade di errori di trascrizione e di stampa che hanno sconvolto parecchie coerenze sintattiche). FW è un Traumscrapt, uno script onirico che è anche scrap, rifiuto (Gramigna, 2007). Spiega Burgess (1973): “Fatto addormentare, il linguaggio della veglia, con la sua rigida interpretazione del tempo e dello spazio, si fa fluido, si apre alle incursioni di immagini dell’inconscio collettivo, si fa fertilizzare da altre lingue. Il dormiente, un oste che vive in un sobborgo di Dublino, diventa l’uomo universale, che rivive in una notte di sonno la storia occidentale, usando la sua famiglia e gli avventori del suo pub con una troupe di attori che interpretano vari ruoli, lui stesso nella parte di tutti i protagonisti. La storia è quella ciclica immaginata da Vico, con le sue quattro fasi: preistoria, dove gli uomini venerano gli dei, la cui voce è il tuono; fase aristocratica, quella dei patriarchi, opposta a quella teologica; fase demagogica; e caos, da cui l’umanità si redime tornando ad ascoltare la voce degli dei. Nella versione di Vico fatta da Joyce, l’eroe-dio è Finn McCool. Gli succede il patriarca Earwicker, il buon padre di famiglia, che interpreta anche Finn. Finn è umanizzato in Finnegan, il muratore alcolizzato, ma è anche il gigante sul cui corpo disteso poggia Dublino. Earwicker cade come Adamo ed è rimosso da Edenborough, che governava, e viene rimpiazzato dai suoi figli, uno dei quali (Shem) è un artista, inadatto a incarnare l’autorità, mentre l’altro (Shaun) è una parodia tronfia del genitore cui cerca di succedere. La grande confusione porta al ricorso vichiano, dove viene invocata la grande figura paterna, in modo che riparta la norma teologica. Il libro stesso è circolare, non termina realmente, si interrompe, l’ultima parola essendo l’articolo the, che regge la prima parola del libro, riverrun, in prima pagina”. FW ha la forma dell’uroboro, il mitologico serpente che si morde la coda; e la struttura ricorsiva è la stessa di molte filastrocche, fra cui quella su Michael Finnegan, i cui basettoni escono e rientrano di continuo (“There was an old man named Michael Finnegan / He grew whiskers on his chin-again / They grew out and then grew in again / Poor old Michael Finnegan, begin again…”), che Joyce riutilizza così: “Such is manowife’s lot of lose and win again, like he’s gruen quhiskers on who’s chin again, she plucketed them out but they grown in again”. La critica genetica (l’orientamento filologico che analizza le fasi compositive di un testo) sta studiando, oltre alle varie stesure di FW, i taccuini di lavoro, una cinquantina, dove Joyce elencava parole e frasi che prendeva dalle fonti più diverse (libri, cataloghi, manuali, riviste, giornali) e in seguito arrangiava nelle varie sezioni del testo (i blocchi narrativi con cui componeva i capitoli). FW è prima di tutto un gigantesco assemblaggio di objets trouvés, la moda artistica dell’epoca, agglutinati in una narrativa coerente: uno sberleffo del modernista Joyce all’ideale romantico dell’artista che crea per ispirazione metafisica.

(83. Continua)

“Siamo centomila”: “Non una di meno” e il corteo di Roma

“Oggi eravamo centomila persone da tutta Italia – una marea viola di donne e uomini – ad aver invaso le strade della Capitale per urlare con forza che non siamo più disposte a subire violenza. Continua la nostra lotta per una società libera dal patriarcato”. “Siamo stanche delle parole di rito delle istituzioni il 25 novembre, quando durante il resto dell’anno non si muove un dito per contrastare davvero la violenza di genere” alcune delle frasi usate dalle organizzatrici del corteo che ha attraversato la Capitale.

Palombelli “assolta”. Ma l’AgCom si divide

L’Agcom ”assolve” Barbara Palombelli per le parole sui femminicidi. Lo scorso settembre, durante una puntata di Forum, la giornalista e conduttrice si era lanciata in un “è lecito chiedersi se questi uomini siano completamente fuori di testa o siano stati in qualche modo esasperati dalle loro donne” che aveva sollevato reazioni indignate e un esposto all’Agcom di Claudia Pratelli che oggi è assessora alla Scuola, Formazione e Lavoro della Giunta Gualtieri a Roma. L’Agcom le ha risposto con una missiva in cui le successive “scuse” della conduttrice facevano premio sulla dichiarazione improvvida. Nel dibattito in Agcom la Commissaria Elisa Giomi ha reputato la lettera inviata a Rti “troppo blanda”.

Stop all’abbattimento dei mufloni del Giglio

I mufloni dell’Isoladel Giglio sono salvi. Dopo giorni di querelle ieri l’annuncio dell’Ente Parco che solleva, almeno in parte, ambientalisti e animalisti. “Abbiamo sospeso gli abbattimenti dei mufloni sull’Isola del Giglio, ma non abbiamo concordato altro e sono in attesa di ulteriori incontri con il mondo animalista. Vediamo se a questo gesto di disponibilità da parte del Parco ne corrisponde un altro da parte loro. Si concordi però che il muflone al Giglio non ci deve stare”, sottolinea il presidente dell’Ente Parco Arcipelago Toscano, Giampiero Sammuri, che chiede anche che “si abbandonino le fake senza validità scientifica. Ora vediamo di implementare il dialogo. La sospensione degli abbattimenti è l’unico impegno preso”.

Per la Madonna a Roma niente assembramenti

Per evitare assembramenti, e il conseguente rischio di contagio da Covid-19, invece del consueto omaggio pubblico all’Immacolata, anche il prossimo 8 dicembre Papa Francesco compirà un atto di devozione privato, pregando la Madonna perché protegga i romani, la città in cui vivono e i malati che necessitano della Sua materna protezione ovunque nel mondo. Lo comunica la Sala stampa vaticana. L’anno passato, si ricorderà, dopo aver annullato la manifestazione, papa Francesco andò da solo, alle sette di mattina, a rendere omaggio alla Madonna di Piazza di Spagna, proprio per evitare i consueti assembramenti dei devoti.

Morandi, i cani-soccorso stanno morendo. L’Usb: “Esposti all’amianto”. Indagano i pm

Alcuni cani si sono ammalati. Altri sono morti. Sono animali che hanno scavato nelle macerie del Ponte Morandi, hanno aiutato a recuperare persone intrappolate fra le macerie e i corpi delle vittime. In molti casi veterani che prima di quel disastro erano stati impiegati in altri disastri, da Rigopiano ai terremoti di Amatrice e Norcia. Con una differenza importante: il cemento del viadotto di Genova era impastato d’amianto. E infatti il sindaco-commissario Marco Bucci ha fatto trattare le scorie come rifiuti amiantiferi. La stessa cautela non è stata riservata ai soccorritori. Malattie e decessi dei cani, talvolta in età ancora giovane, adesso allarmano anche loro. Come è noto, gli effetti dell’esposizione ad amianto possono manifestarsi fino quarant’anni di distanza. E adesso sulla vicenda ha aperto un’inchiesta la Procura di Genova.

Il caso nasce da un esposto presentato dal sindacato dei vigili del fuoco Usb, assistito dall’avvocato Simona Nicatore: “Le norme di tutela della salute sono state intenzionalmente e volutamente disattese nei giorni successivi alla tragedia del Ponte Morandi”. A quella prima denuncia si è aggiunta in questi ultimi giorni un’integrazione che segnala anche la moria dei cani. Sugli episodi indaga il pm Arianna Ciavattini, con l’ipotesi di lesioni colpose. I casi sotto esame “sono circa una decina”, spiega Stefano Giordano, rappresentante sindacale Usb e consigliere comunale del M5S. “Io conosco tre animali morti per tumore, tutti relativamente giovani – spiega invece uno dei soccorritori intervenuti sul Morandi – numeri ufficiali non ce ne sono sulle malattie, sono difficili da raccogliere e anche da correlare”.

Non tutte le malattie possono trovare un collegamento certo all’esposizione ad amianto o altri inquinanti, e non tutti i cani erano giovani. Ma le contestazioni dell’esposto riguardano la mancata prevenzione: “Non c’è mai stata alcuna procedura di decontaminazione”, “non venivano indossati nemmeno semplici Dpi”. Il personale, insomma, “è stato lasciato all’oscuro” sui “possibili rischi”. Così anche per gli animali: unica eccezione l’intervento “a titolo volontario” del veterinario delle unità cinofile, che “effettuava piccoli risciacqui oculari e nasali” ai cani venuti a contatto con le macerie. “L’obiettivo non è ottenere riconoscimenti economici – dice Giordano – chiediamo il rispetto delle leggi, e uno screening di chi è intervenuto in quello scenario”.

Alza il tuo muro e ti dirò chi sei

Ci sono i muri di una volta, come il Vallo di Adriano in Britannia, fatto costruire fra 122 e 130 d.C. dall’imperatore che riorganizzò lo stato romano.

Oppure come la Muraglia Cinese, fondata addirittura nel 215 a.C. dal primo imperatore Qin Shi Huang (era anche sua, a Xi’an, l’enorme tomba difesa dal celebre “esercito di terracotta”); oppure ancora il “Monumento del Grande Zimbabwe”, poderosa fortificazione (a 250 chilometri dall’attuale capitale Harare) risalente al XV secolo e appartenente a un antico impero africano.

E ci sono i nuovi sbarramenti anti-migranti che nascono qua e là per contenere i flussi migratori. Mentre i “muri di una volta” servivano a difendere una qualche patria (anche se spesso costruita attraverso lacrime e sangue) da nemici esterni agguerriti e valorosi (i Barbari del Settentrione per Adriano, la Manciuria e la Mongolia per la Cina), le barriere di questi ultimi tempi sono mirate a bloccare persone stremate, indifese, in fuga da guerre o povertà.

Vi sono anche situazioni intermedie: il Muro di Berlino, che la Ddr ha tenuto in vita dal 1961 al 1989; il Muro di Nicosia nell’isola di Cipro, ancora in uso anche se non particolarmente minaccioso; per quanto riguarda l’Italia, il Muro di Gorizia.

Tentiamo una panoramica. Il Vallo di Adriano è il tratto più poderoso dei 10.000 km del confine, o Limes, dell’impero romano: un’opera in muratura che si estende per 117 km fra la foce del fiume Solway a ovest e quella del Tyne a est, e costituisce il confine settentrionale della Britannia. L’isola era stata conquistata in varie fasi nel corso del I sec. d.C.: Adriano lascia al di fuori della provincia la Caledonia (Scozia), ritenuta troppo lontana e indifendibile. Il Limes era costituito, oltre che dal muro (che poteva anche essere sostituito da palizzate), da fossati, da terrapieni e da una strada che assicurava la mobilità delle guarnigioni; lungo il percorso sorgevano castra, castella (fortini maggiori e minori) e torri di guardia. I resti in certi tratti sono molto ben visibili e serpeggiano in lontanza sulle alture; numerosi “walkers” (camminatori) percorrono per intero “the Wall”.

Su scala diversa, anche la Grande Muraglia serpeggia sulla cima delle montagne. Dopo la prima realizzazione in terra compressa ai tempi di Qin Shi Huang, si avvicendarono per secoli rifacimenti e spostamenti. Fondamentali fra XV e XVI secolo gli interventi della dinastia dei Ming, con lunghi tratti costruiti in pietra e mattoni. I più imponenti, su creste impervie, sono quelli che difendono Pechino, muniti sulla sommità di un ampio camminamento, che anche qui assicura mobilità alle truppe. Secondo Tim Marshall (I muri che dividono il mondo, Garzanti, 2019), “la Muraglia fu costruita intorno a un’idea semplicistica: da una parte c’era la civiltà e dall’altra la barbarie”.

Dopo un impero europeo (Roma) e dopo uno asiatico (Cina), vediamone uno africano. Il Grande Zimbabwe è un possente complesso fortificato fra i fiumi Zambesi e Limpopo che ha finito per dare il nome attuale a tutto lo Stato un tempo detto “Rhodesia”. La principale struttura, Imba Huru (“Sacro Recinto”), era un’ampia cerchia muraria in grandi blocchi squadrati, con torrioni troncoconici. Faceva forse parte di un impero, Monopotama, che nel XII secolo includeva anche parte del Mozambico: le monete arabe e le ceramiche asiatiche rinvenute rivelano rapporti ad ampio raggio.

Veniamo alle barriere attuali. TPI ne ha parlato varie volte, l’ultima il 9/11. In Europa abbiamo 1.000 km di nuove strutture: fra Grecia e Macedonia, fra Macedonia e Serbia, fra Serbia e Ungheria… Via via nella Ue 10 Paesi su 27 ne hanno realizzate di nuove o intendono farlo (Repubbliche Baltiche, Norvegia, Austria, Slovenia…). Strutture spesso orribili, enormi matasse di filo spinato, un dato chiaro: quelli da respingere non sono nemici bellicosi (obiettivo dei muri storici), ma migranti allo stremo. Incapaci di accoglierli, gli Stati mirano a bloccarli o dirottarli. Per la crisi in corso al confine Polonia-Bielorussia, ecco la soluzione polacca: 350.000.000 di euro per 200 chilometri di barriera d’acciaio alta 6 metri (Il Fatto, 15 novembre).

In tutto il mondo, si calcola che i chilometri di nuove barriere realizzate o progettate siano 40.000. Ha avuto ampia risonanza il progetto trumpiano per il muro Usa-Messico, ma c’è ben altro, con motivazioni (almeno ufficialmente) non sempre crudeli ma con esiti spesso nefasti. Sbarramenti fra Israele e Palestina, fra Arabia Saudita e Yemen, fra India e Bangladesh, e così via. In Africa, dopo il fascino del Grande Zimbabwe, scopriamo ora situazioni ben diverse alle due opposte estremità. A N-O c’è il Muro del Marocco, costruito fra 1982 e 1987 per contrastare il Fronte Polisario che si batte per l’autonomia del Sahara Occidentale: con i suoi 2.800 km di bunker, fossati, fili spinati e campi minati, è il più lungo dopo la Muraglia Cinese. A S-E, la barriera che il Sudafrica ha eretto negli anni 90 al confine con il Mozambico (per sbarrare il passo a chi fuggiva dalla guerra civile in corso), lunga 496 km, riecheggia in parte il Limes romano (barriera seguita da fossati praticabili), ma reca sulla sommità rotoloni di filo spinato elettrificati a 3500 Volt. Un “serpente di fuoco” che costò la vita a centinaia di profughi.

In posizione intermedia fra i grandi monumenti del passato e le efferatezze recenti o attuali si collocano i Muri all’interno di città. Il più “discreto” (se ne parlava poco), che separava Gorizia dalla slovena Nova Gorica, è stato abolito, ma poi pressoché ripristinato causa pandemia. Il più famoso era quello di Berlino (parte integrante e preminente della Cortina di Ferro), di cui si parla ancora molto per celebrare (giustamente) le ricorrenze della sua caduta nel 1989, anche se si è esagerato nella retorica dell’“ultimo muro d’Europa”, rivelatasi illusoria. Il più “gentile” è quello di Nicosia, inserito nella “Linea verde” che dal 1964 separa la Cipro greca da quella turca. In città il muro non appare crudele: punti di controllo quasi accoglienti; alcuni tratti costruiti un po’ alla buona con bidoni biancocelesti.

 

Il partito vieta il giubbotto di pelle “alla Kim”

Solo il partito può decidere chi si può mettere un giubbotto di pelle in Corea del Nord. Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha cominciato ad esibirlo nel 2019 e presto è diventata una moda. Prima potevano permetterselo solo i più ricchi, ma poi sono arrivate imitazione a poco prezzo. E questo non è piaciuto per niente a Kim, racconta Radio Free Asia. Ora l’ordine è di sequestrare i giubbotti, che siano indossati o in vendita.

A gennaio, numerosi alti papaveri hanno sfoggiato giacche di pelle durante una parata militare, alimentando ulteriormente l’interesse del pubblico. Il giubbotto piace anche alle donne, dopo che lo hanno visto indosso a Kim Yo-jong, la potente sorella del leader.

Adesso la polizia interviene direttamente presso i produttori e per strada ferma chi li indossa. A chi protesta dicendo di averli regolarmente comprati, la polizia risponde che mettersi abiti come quelli del leader è “un trend impuro che sfida l’autorità di Sua dignità”.

Il vescovo va via: oltre la love story segreta, ombre sulla sua gestione

Un nuovo scandalo scuote la chiesa cattolica di Francia. Monsignor Aupetit, vescovo di Parigi dal dicembre 2017, ha presentato le sue dimissioni a papa Francesco dopo le recenti rivelazioni di Le Point: il settimanale ha reso noto che l’alto prelato, uno dei maggiori rappresentanti della Chiesa in Francia, avrebbe avuto una relazione “intima e consenziente” con una donna nel 2012, ai tempi in cui era vicario generale. Un comportamento ovviamente vietato ai religiosi cattolici. Ma non è tutto: il vescovo è anche messo in discussione per la presunta cattiva gestione della diocesi. Dato l’imbarazzo della Chiesa, per molti osservatori le dimissioni erano diventate inevitabili. Le Point ha portato alla luce l’esistenza di una mail che Michel Aupetit, 70 anni, avrebbe inviato per errore alla sua segretaria e non alla donna cui era destinata.

Mail di cui i collaboratori del vescovo sarebbero al corrente dal 2020 e di cui una copia è stata trasmessa al nunzio apostolico, rappresentante del Vaticano in Francia. La diocesi di Parigi ha ammesso che il prelato ha avuto “un comportamento ambiguo”. Ma Aupetit nega che si sia trattato di una relazione d’amore: “Una donna si è fatta viva più volte e ho dovuto prendere disposizioni per allontanarla”. Il vescovo inoltre preferisce non parlare di dimissioni: “Mi rimetto nelle mani del Santo padre”. La decisione finale spetterà infatti al Papa e potrebbe prendere diverse settimane. Il religioso è stato medico prima di prendere i voti, a 44 anni, nel 1995. Nel 2012 ha preso posizione contro le nozze gay. Nel 2019 si è trovato a gestire l’incendio della cattedrale Notre-Dame. A ottobre la Chiesa francese è stata inghiottita dallo scandalo degli abusi sessuali dei preti pedofili: almeno 216 mila bambini sono stati vittime dei preti predatori in Francia dal 1950 ad oggi. La Chiesa si è impegnata a risarcire. In quell’occasione, Aupetit ha invitato i fedeli a “impegnarsi a correggere le disfunzioni” dell’istituzione.