L’Ue boccia la cattura di CO2 Eni

“Siamo pronti a candidare al primo bando del Fondo per l’innovazione europeo il progetto per il nuovo hub di Ravenna che darà vita al più grande centro al mondo di cattura e stoccaggio di anidride carbonica (Ccs)”: ad annunciarlo, in un’intervista al Sole 24 Ore a maggio del 2020 era stato l’ad di Eni, Claudio Descalzi, aggiungendo che avrebbero sfruttato “l’immenso volume di stoccaggi che arriva dai giacimenti a gas offshore ormai esauriti del Medio Adriatico” e “le infrastrutture esistenti ancora operative, insieme a nuovi sistemi di cattura della CO2 sui camini delle attività di Eni sulla terraferma”. Ciò che al tempo Descalzi non aveva ancora calcolato è che questo progetto, che in estremissima sintesi pompa la CO2 liquida nei giacimenti di gas esauriti al largo delle coste mentre si produce idrogeno blu (quindi dal metano), non sarebbe stato approvato dalla Commissione Ue. Già la sua ammissione agli investimenti del Pnrr era stata respinta perché l’idrogeno blu non faceva parte della strategia verde dell’Ue.

Nei giorni scorsi dall’elenco dei progetti pubblicato dalla Commissione Ue era assente quello dell’Eni, come ha rilevato l’associazione non profit ReCommon. “Pur essendo stato promosso dal punto di vista tecnico, il progetto non poteva essere finanziato data la mancanza in Italia di un quadro normativo certo”, ha spiegato al Fatto l’Eni. Sono stati invece garantiti due finanziamenti a progetti di cattura della CO2 in Norvegia, Svezia, Belgio e Paesi Bassi. Ma per l’Eni “si tratta dell’interpretazione di un insieme di punteggi che vengono attribuiti a ogni singolo progetto. Dal punto di vista dell’innovazione tecnologica e dell’efficacia della decarbonizzazione il punteggio è stato massimo”. Dall’analisi del modello di business, invece, sarebbe emerso un punteggio più basso “dovuto alla dipendenza del progetto da un quadro regolatorio esistente”.

Ma non è la stessa versione della Commissione Ue che, pur non potendoci riferire i dettagli sulla valutazione del progetto, ci ha spiegato le modalità con cui si analizzano i progetti: il quadro regolatorio non è citato. I progetti – ci hanno detto – sono stati valutati da esperti indipendenti per la loro capacità di ridurre le emissioni di gas serra rispetto alle tecnologie convenzionali e di “innovare oltre lo stato dell’arte”, insieme all’essere “sufficientemente maturi per consentire la loro rapida implementazione”. Altri criteri di selezione includevano il potenziale dei progetti in termini di “scalabilità ed efficacia dei costi”. Qualcosa non è stato considerato sufficiente. “Il 26 ottobre – hanno aggiunto – la Commissione ha lanciato il secondo bando per grandi progetti con scadenza 3 marzo 2022. Si possono ripresentare i progetti che non hanno avuto esito positivo”. Chissà se Eni lo farà.

Bollette, a gennaio arriva un’altra mazzata: +40%

Quando tra un mese l’Autorità dell’Energia (Arera) comunicherà le nuove tariffe di elettricità e gas valide per il primo trimestre 2022, l’impatto sulle famiglie e sulle imprese sarà devastante: gli aumenti oscilleranno tra il 30 e il 40%. Anche se il governo stavolta è già corso ai ripari stanziando circa 3 miliardi con un decreto legge ad hoc, la mossa non basterà, se non in minima parte, né a contenere i rincari, né a coprire il fondo dei bonus sociali che da luglio vengono riconosciuti alle famiglie più bisognose al costo di circa 2,4 miliardi. “Le risorse già stanziate per calmierare i rialzi delle bollette non scongiureranno il pesante rialzo che potrebbe verificarsi all’inzio del 2022”, ha denunciato l’Acquirente Unico (che si occupa dell’approvvigionamento di energia elettrica per il servizio di maggior tutela). Dello stesso avviso è il presidente di Arera, Stefano Besseghini: “In assenza di nuovi correttivi, nuovi rincari si profilano in arrivo nel primo quadrimestre 2022”.

Insomma, una stangata che segue quella degli ultimi sei mesi. Per ora il governo ha provato a tamponare: a giugno ha stanziato 1,2 miliardi, limando così da oltre il 20% al 15,3% gli aumenti del gas e al 9,9% quelli della luce. Poi a settembre, nonostante uno stanziamento da 3,5 miliardi, la bolletta della luce è comunque aumentata del 29,8%, mentre il gas del 14,4%. Ora i conti sono presto fatti: per azzerare tutti i rincari servirebbero fino a 9 miliardi, cifra a cui non si arriva – nonostante le promesse di Mario Draghi – neanche contando i due miliardi già previsti dalla manovra. Nel solo 2021 la spesa per famiglia arriverà oltre i 650 euro per la bolletta della luce e i 1.130 euro per il gas. “Così si rischia di coprire solo un quinto di quanto sarebbe necessario”, spiega Davide Crippa del M5S.

Fino ad oggi, il governo si è mosso in un’unica direzione: la riduzione dell’Iva per le bollette del gas e la sterilizzazione degli oneri generali che pesano sull’elettricità per oltre il 20% e dove entrano le componenti più diverse (dagli incentivi alle rinnovabili ai costi di smantellamento delle centrali nucleari). Ma stavolta non sarà sufficiente. Il prezzo del gas, a cui quello della luce è legato, resta ai massimi storici (100 euro per Megawattora) e il caso Nord Stream 2 complica tutto (il consorzio guidato dai russi di Gazprom, che dovrebbe portare il gas in Germania, è stato temporaneamente bloccato da Berlino). Il premier Draghi si dice “pronto a investire anche di più perché è essenziale che il rincaro dell’energia sia limitato per famiglie e imprese”. Non è solo questione di buon cuore: a non dire della pandemia, meno consumi e una frenata delle imprese potrebbero mettere seriamente in dubbio i numeri sulla crescita del Pil su cui si basano i conti per i prossimi tre anni.

Ma in uno scenario così turbolento per l’Arera e l’Acquirente Unico sono solo due le strade da perseguire per agire sul lungo periodo. L’Authority ha in diverse occasioni ribadito la necessità di eliminare fin da subito dalla bolletta gli oneri di sistema non direttamente connessi, mentre per la società pubblica per “contenere l’impatto negativo sulle famiglie più svantaggiate, la soluzione più sostenibile e applicabile in tempi brevi è il mantenimento della funzione di garanzia della fornitura”. In altre parole impedire la fine del cosiddetto “mercato tutelato” il 1° gennaio 2023. I 5 Stelle, fautori delle svariate proroghe ottenute in questi anni, hanno già presentato diversi emendamenti al ddl Bilancio. La maggioranza pensa anche di dirottare alle bollette, per il 2022, il miliardo che si dovrebbe risparmiare dal taglio delle tasse. Intanto la stangata è dietro l’angolo.

Solo 19 strutture emerse, a 3 anni dalla nuova legge

È una barzelletta che però non fa ridere: a tre anni dalla approvazione della legge Spazzacorrotti sono state rintracciate solo 19 fondazioni da sottoporre agli stessi obblighi di trasparenza imposti ai partiti. E così a fronte di un mondo che conta oltre seimila realtà che potrebbero potenzialmente rientrare nei parametri che certificano la connessione con la politica, il bottino è ben magro.

E non certo per colpa della Commissione di garanzia incaricata della mappatura. Il suo presidente Amedeo Federici dice sconsolato al Fatto Quotidiano: “Non abbiamo né mezzi né poteri per accertare quel che ci chiede la legge. Che del resto non prevede un obbligo giuridico delle fondazioni di autodenunciarsi”.

Finora l’hanno fatto in 19, e non erano nemmeno tenute a farlo. Ma riavvolgiamo il nastro.

La legge Spazzacorrotti approvata a fine dicembre 2018 (e poi modificata dal dl Semplificazioni nel 2019) prevede tra l’altro l’equiparazione ai partiti di tutte quelle fondazioni che hanno all’interno dei propri organi direttivi esponenti politici. Una norma tanto spaventosa per un certo mondo da indurre, ad esempio, l’avvocato Alberto Bianchi a consigliare a Luca Lotti e a Maria Elena Boschi di chiudere urgentemente la Fondazione Open (cosa che puntualmente avvenne), prima che le nuove regole entrassero in vigore, come emerso dagli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze.

Ma cosa prevede la legge? In teoria vincoli strettissimi per assicurare massima trasparenza su connessione e finanziamenti. Prevede infatti l’equiparazione a partiti e movimenti politici di fondazioni, associazioni e comitati la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da deliberazioni di partiti o movimenti politici. O i cui organi direttivi e di gestione siano composti per almeno un terzo da membri di organi di partiti o movimenti politici, ovvero persone che sono o sono state, nei sei anni precedenti, membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee elettive regionali o locali di comuni con più di 15.000 abitanti, ovvero che ricoprono o hanno ricoperto, nei sei anni precedenti, incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale, in comuni con più di 15.000 abitanti. Ma anche nel caso di fondazioni, associazioni e comitati che erogano somme a titolo di liberalità o contribuiscono in misura pari o superiore a euro 5.000 l’anno al finanziamento di iniziative o servizi a titolo gratuito in favore di partiti, movimenti politici o loro articolazioni, di membri di organi o articolazioni comunque denominate di partiti o movimenti politici ovvero di persone titolari di cariche istituzionali nell’ambito di organi elettivi o di governo.

Queste sono le buone intenzioni che si scontrano con la realtà. A distanza di tre anni, il bilancio della Commissione di Garanzia è sconsolante. L’esito del censimento delle fondazioni sarà contenuto nella Relazione al Parlamento del prossimo anno, ma qualche considerazione sulle difficoltà in cui versa l’organismo è già contenuta in quella presentata ad aprile scorso: “È agevole rilevare che all’ampliamento di nozione di partito e movimento segue il notevole incremento di compiti di controllo e sanzionatori della Commissione, cui si aggiunge un’intensa attività istruttoria per l’identificazione delle innumerevoli realtà associative destinatarie della nuova normativa, sovente con difficoltà accertative, atteso che si è in presenza di situazioni spesso mutevoli nella soggettività e nella denominazione”.

Tradotto: la Commissione rischia di continuare in una pesca col retino nell’oceano perché “non dispone di poteri accertativi diretti”. E del resto, quanto alle fondazioni, manca pure l’obbligo di farsi avanti perché venga accertato l’indice di connessione con la politica. Un monito a cui la stessa politica che fa e, in questo caso, si fa le leggi, è finora rimasta sorda.

Fondazioni politiche: bilanci al buio per 7 su 10

“La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti e si svolge nelle fondazioni, che dovrebbero essere trasparenti a 360 gradi: bilanci chiari, comprensibili e pubblici su tutte le entrate e le uscite. Il finanziamento delle fondazioni può essere un sistema per pagare tangenti”. Sono passati diversi anni da quando Raffaele Cantone, allora presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, pronunciò queste parole. Sugli obblighi di trasparenza delle fondazioni da allora sono intervenute addirittura due leggi, ma le cose non sono cambiate molto. Lo dimostrano i siti delle tantissime fondazioni, think tank e associazioni legate a politici italiani. Poche di queste strutture pubblicano infatti i bilanci, e ancora meno sono quelle che comunicano informazioni sui loro finanziatori.

L’ultimo rapporto di Openpolis, che da diversi anni si occupa del tema, dice infatti che nel 2020 erano attive in Italia almeno 105 organizzazioni di questo genere (153 sono quelle censite dal 2015, contando anche think tank e associazioni politiche), ma solo nel 29% dei casi pubblicano i propri bilanci e solo nove di loro, l’8% del totale, l’elenco dei donatori.

Fondazioni sotto accusa

Non basta però essere trasparenti per evitare l’accusa di aver violato il Codice penale. I casi di Fondazione Open, Comitato Change e Comitato Giovanni Toti Liguria sono emblematici. Pur essendo tra le poche strutture in Italia ad aver reso pubblici bilanci e nomi dei propri sostenitori, tutte e tre sono finite al centro di inchieste giudiziarie per finanziamento illecito.

Le Procure di Firenze (caso Open) e di Genova (comitati Change e Giovanni Toti) sostengono infatti che queste strutture, ufficialmente autonome, siano in realtà delle articolazioni di partito, cioè veicoli usati per raccogliere denaro senza farlo passare sui conti dei rispettivi movimenti politici.

La stessa accusa riguarda la Fondazione Eyu, creata nel 2017 da Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Pd ai tempi della segreteria di Matteo Renzi, oggi senatore di Italia Viva. Bonifazi è stato appena rinviato a giudizio dal Tribunale di Roma perché la Eyu nel 2018 ha ricevuto bonifici per 150 mila euro dal costruttore Luca Parnasi. Il quale – sostiene la Procura capitolina – con quei versamenti voleva finanziare il Pd.

Con una motivazione molto simile andrà a processo, a Roma e a Milano, Giulio Centemero. Il tesoriere della Lega ha fondato nel 2015 la Più Voci, un’associazione formalmente slegata dal partito guidato da Matteo Salvini. Pochi mesi dopo essere stata creata, la Più Voci ha ricevuto 250 mila euro da un’azienda di Parnasi (basata a Roma) e altri 40 mila euro dalla catena di supermercati Esselunga (basata a Milano). Si vedrà come andranno a finire inchieste e processi.

Gli altri comitati renziani

Quando si tratta di comitati e fondazioni attivi nella raccolta fondi, Renzi è stato sicuramente uno dei politici più attivi negli ultimi anni. Oltre ad Open, che dal 2012 al 2018 ha incassato donazioni per 6,7 milioni di euro, ci sono almeno altri due veicoli che sono stati usati in questi anni, dopo la chiusura di Open, per racimolare soldi da privati. Uno si chiama “Ritorno al Futuro – Comitato di Azione Civile Nazionale” ed è stato attivo nel 2019. In quell’anno, ha incassato 620 mila euro. Tra i donatori più generosi ci sono stati Davide Serra (Algebris Investments), Gianfranco Librandi (Tci Telecomunicazioni), Daniele Ferrero (Venchi), Lupo Rattazzo (Neos): tutti imprenditori che negli anni precedenti avevano regalato soldi anche a Open.

Sempre nel 2019, e anche nel 2020, è stato attivo anche il “Comitato Leopolda” 9 e 10, che ha raccolto in tutto 543 mila euro, di cui oltre la metà arrivati dal solito Librandi, deputato di Italia Viva e imprenditore nel settore dell’illuminazione.

Sommando gli incassi di Fondazione Open, Ritorno al Futuro – Comitato di Azione Civile Nazionale e Comitato Leopolda 9 e 10, il totale fa 7,9 milioni di euro. È il denaro raccolto in nove anni da queste tre strutture formalmente slegate da Renzi.

Leggi e regole del gioco

Per rendere più trasparenti i rapporti finanziari di fondazioni, associazioni e think tank, negli ultimi anni il Parlamento ha varato ben due leggi sotto il governo Conte I. Nel 2019, prima la Spazzacorrotti e poi il decreto Crescita hanno infatti modificato le regole del gioco.

Oltre alle strutture che finanziano i partiti, oggi sono equiparate ai movimenti politici tutti gli enti privati i cui organi direttivi o di gestione sono composti per almeno un terzo da politici che negli ultimi sei anni hanno ricoperto incarichi nel Parlamento italiano, in quello europeo, nei Consigli regionali o nei Comuni con più di 15.000 abitanti. Ciò significa che tutte le fondazioni con queste caratteristiche devono pubblicare la lista dei propri donatori, proprio come i partiti? No. Come verificato da Openpolis, infatti, delle 105 organizzazioni (tra fondazioni, associazioni e think tank) attive nel 2020, solo nove pubblicano sul proprio sito l’elenco dei donatori. Fanno parte delle altre 96, tanto per fare degli esempi: la Free Foundation di Renato Brunetta, ministro della PA; la Fondazione Italianieuropei, di cui il ministro della Sanità, Roberto Speranza, è membro del comitato d’indirizzo; la Fondazione Italia-Usa, che ha tra i suoi consiglieri delegati Federico D’Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento.

Pochi i dati disponibili

In teoria, esiste uno strumento utile per velocizzare la ricerca, cioè per sapere chi foraggia le fondazioni senza dover passare al setaccio centinaia di siti internet. È il registro delle erogazioni liberali pubblicato sul sito del Parlamento: oltre tremila pagine ricche di nomi e cifre. Analizzandole, si scopre però che le fondazioni citate sono solo tre. C’è la Fondazione De Gasperi, presieduta da Angelino Alfano, fino a tre anni fa ministro degli Esteri: dal 2019 a oggi ha incassato 150 mila euro di contributi privati. Tra i maggiori donatori spiccano Intesa Sanpaolo (50 mila euro), Consiglio Nazionale del Notariato (15 mila euro), Federazione Nazionale Tabacchi (10 mila euro), Federfarma Lombardia (10 mila euro).

Nello stesso periodo, ha ricevuto in totale 174 mila euro la Fondazione Democrazia Cristiana (che prima si chiamava Fondazione Fiorentino Sullo), creata dall’ex ministro Gianfranco Rotondi. Le più generose con lui sono state due imprese note: 10 mila euro sono arrivati dal Gruppo Cremonini, multinazionale della carne; la stessa cifra è stata versata dal gruppo Toto, attivo nel mercato delle concessioni autostradali, delle costruzioni di strade, ferrovie e impianti d’energia.

Terza e ultima fondazione presente nel registro parlamentare è Farefuturo. Nel consiglio direttivo siedono due parlamentari: Giuseppe Basini, deputato della Lega, e Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e presidente Copasir. Negli ultimi tre anni Farefuturo ha percepito 61.500 euro da privati. La donazione più ricca, 7 mila euro, è firmata San Carlo de Nancy, ospedale del gruppo Gvm, presieduto dal re della sanità privata, Ettore Sansavini. Una goccia di trasparenza nel mare oscuro delle fondazioni.

Cannabis libera, governo diviso

La pandemia e il lockdown hanno influenzato anche il mercato e il consumo di droga: nella seconda parte del 2020, secondo i dati del Viminale, i sequestri sono aumentati dell’8% rispetto al 2019. A crescere sono stati i sequestri di cocaina e di droghe sintetiche.

I dati sono stati forniti ieri dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese in un videomessaggio in occasione della VI Conferenza nazionale sulle dipendenze a Genova. L’iniziativa è tornata dopo 12 anni di assenza per volontà del ministro per le Politiche giovanili del governo Draghi, la 5 Stelle Fabiana Dadone, che ha ricordato il discorso ispiratore di Don Gallo del 2000 in cui il prete di strada disse: “È l’ora di pensare in grande”. Pochi mesi dopo, per intenderci, diventò ministro quel Carlo Giovanardi che nel 2005 firmò con Gianfranco Fini la celebre legge “Fini-Giovanardi” che inaspriva le pene per i consumatori non distinguendo tra droghe leggere e pesanti (è stata ritenuta incostituzionale nel 2014). L’ultima edizione della Conferenza si era tenuta nel 2009 a Trieste, con Giovanardi sottosegretario, quando una controconferenza alternativa con Don Gallo sancì la differenza di vedute con le posizioni ufficiali del governo.

Dunque, dodici anni dopo è già una una notizia che la ministra per le Politiche giovanili con delega alle politiche antidroga abbia organizzato la kermesse con un obiettivo preciso: la liberalizzazione della cannabis. Una proposta che però ha spaccato in due la maggioranza di governo con M5S e Pd favorevoli e il centrodestra – Lega e Forza Italia – contrario. Nel suo intervento introduttivo al Palazzo Ducale di Genova, la ministra Dadone ha fatto riferimento al programma del nuovo governo tedesco che si propone di liberalizzare la cannabis. Secondo l’esponente del M5S anche in Italia bisogna seguire quell’esempio: “Questa è una scelta che anche l’Italia dovrebbe valutare ma serve raggiungere una maggioranza parlamentare. Spetta al Parlamento, il governo può fare un lavoro istruttorio”. La proposta è sostenuta anche dal presidente di Libera Don Luigi Ciotti e dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che è intervenuto alla Conferenza. In sostegno a Dadone è arrivato il ministro del Lavoro Pd Andrea Orlando : “È inevitabile una riflessione anche nel nostro Paese”. Ma Matteo Salvini ha alzato subito il muro: “È molto preoccupante che un ministro, anziché ascoltare le tante comunità di recupero che eroicamente salvano migliaia di ragazzi e combattono le dipendenze tutti i giorni, parli con leggerezza di droga. Orlando pensi ai lavoratori”. La ministra di FI Mariastella Gelmini è più cauta (“Nel governo ci sono sensibilità diverse”) pur dicendosi contraria “a qualsiasi forma di legalizzazione” e alla “libertà di drogarsi”. Giorgia Meloni, dall’opposizione, attacca: “Un messaggio devastante”.

“Obbligo vaccinale mascherato. Il governo ci tratta da bambini”

Professor Ainis, su Repubblica lei ha scritto, senza mezzi termini, che il green pass è “un cappio al collo” per 8 milioni di non vaccinati.

Non è un giudizio di valore, è una constatazione. Prima la regola generale era la libertà di scelta, eccetto per i medici. Ora la regola è diventata l’obbligo di vaccinazione. Un obbligo mascherato. Le eccezioni sono sempre più esigue e ristrette.

In sostanza ai non vaccinati vengono negati i ristoranti e lo sport, e solo nelle Regioni in cui la situazione è più grave.

Si va verso il diniego di tutti i diritti del tempo libero: viene preclusa la socialità. Certo, sono diritti secondari rispetto all’istruzione e al lavoro. Ma anche se non siamo all’obbligo generalizzato, ci stiamo arrivando gradualmente. Siamo passati da una prima fase di persuasione, a una seconda fase – quella dell’introduzione del Green pass – di induzione. Ora siamo di fatto alla costrizione.

Questo “obbligo mascherato” è incostituzionale?

No, dal punto di vista costituzionale non ci sono impedimenti espliciti. L’articolo 32 contempla l’ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio (e quindi anche l’obbligo di vaccinazione, che è già stato esercitato nei confronti dei minori) ma allo stesso tempo stabilisce la libertà assoluta di disporre del proprio corpo.

Quindi il legislatore ha discrezionalità assoluta?

La discrezionalità non significa capriccio o arbitrio. Non si può sparare a una mosca con un cannone: la legge deve essere giustificata dal contesto. Pensi alle misure restrittive che erano in vigore nel 2020, quando eravamo in lockdown e non si poteva uscire di casa. Se avessimo avuto i vaccini allora, l’obbligo sarebbe stato giustificato dalle circostanze.

Oggi invece non lo è?

No, credo che oggi non ci siano le condizioni per l’obbligo vaccinale. Penso sarebbe controproducente e potrebbe creare problemi di ordine pubblico. Otto milioni di persone sono tanti. Questi cittadini non sono mossi tanto dalla sfiducia nella scienza, ma nelle istituzioni. È un sentimento che sommerge la politica, i partiti, il Parlamento, la magistratura. Non si fidano dello Stato perché ha dato cattiva prova di sé. Non sono otto milioni di fascisti, credo, ma 8 milioni di italiani che diffidano del proprio Stato.

Lei spiega che il “super green pass” non è incostituzionale, quindi è solo una questione politica?

È soprattutto un problema di comunicazione politica. Ne posso comprendere le ragioni. Lo scopo è pedagogico: si vuole abituare gli italiani a una serie sempre più stringente di restrizioni, fino a che l’obbligo di vaccinazione, se ancora ce ne sarà bisogno, finirà per essere considerato naturale. Il movente è soprattutto di ordine pubblico. Già con questo pseudo obbligo ci sono proteste di piazza e c’è un incattivimento progressivo dell’opinione pubblica. Insomma, posso capire che si cerchi di ritardare il momento dell’obbligo. Però in questo modo si crea un senso di opacità, si alimenta quella sfiducia nello Stato di cui parlavamo prima. Diceva Bobbio: “La democrazia è l’esercizio del potere pubblico in pubblico”. Non mi pare questo il caso.

Più che pedagogia di Stato, sembra paternalismo.

È così, a me personalmente non piace che i cittadini vengano trattati come bambini. È un vizio italiano: siamo spesso trattati come un popolo immaturo. Basta vedere come sono scoraggiati gli strumenti di democrazia diretta come il referendum. Oppure il sistema elettorale: abbiamo una legge che non ti permette di scegliere davvero chi ti rappresenta. Questo atteggiamento paternalistico è tipico dello Stato italiano e si riflette anche in questa fase di gestione della pandemia. E mi lasci dire che anche se non ci sono profili di incostituzionalità, c’è comunque una forzatura evidente.

Quale?

La Costituzione stabilisce che per disporre trattamenti sanitari obbligatori è necessaria una legge, non si può agire per decreto come ha fatto il governo. Quando si incide sull’habeas corpus, come in questo caso, ci deve essere una riflessione pubblica e si deve passare per il Parlamento. Perché il decreto legge, in teoria, potrebbe non venire convertito in legge dalle Camere, ma intanto i suoi effetti li ha prodotti.

È chiaro, se uno si vaccina non torna indietro.

Se un decreto, per assurdo, stabilisse di tagliare l’alluce a tutte le persone che si chiamano Michele, l’effetto sarebbe irreversibile. Se poi il Parlamento non lo convertisse in legge, avrebbe già prodotto i suoi effetti. Il decreto legge è atto con forza di legge ma è un atto “precario”, diventa legittimo solo nel momento in cui il Parlamento lo converte. Così si forza l’articolo 32 della Carta. D’altra parte durante l’emergenza non si può che agire con strumenti come il decreto. Si è creato un corto circuito costituzionale e si agisce in questo buco del tessuto normativo.

Premio al legale che aiutò Gkn a licenziare: è consulente Lega

Studio legale dell’anno in materia di lavoro? Vince quello che ha difeso la Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) nel licenziamento di 422 operai. Studio fondato dall’avvocato Francesco Rotondi, che dal 2015 è anche consulente della Lega di Matteo Salvini, per la quale partecipa anche come relatore alle scuole di formazione. Non è uno scherzo: la rivista Top Legal, autoproclamata giuria degli Oscar forensi, ha premiato per il 2021 LabLaw, la squadra che ha assistito la multinazionale dell’automotive nella vertenza partita i primi di luglio, con i dipendenti messi alla porta tramite messaggio. Per quella procedura la Gkn ha perso una causa per condotta “anti-sindacale”, come stabilito il 20 settembre dal Tribunale di Firenze. Nel 2018 Rotondi si vantava di aver affossato il “decreto Rider” voluto dal Movimento Cinque Stelle. Venerdì sera ha esibito il riconoscimento di TopLegal malgrado il dramma sociale sottostante alla vicenda Gkn. Dopo il post su Facebook, la pagina dello studio legale – bersagliata dall’indignazione generale – è diventata inaccessibile. Ne ha parlato anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: “Bisogna riflettere – ha detto – su una società nella quale diventa una medaglia aver assistito una multinazionale nel licenziamento in tronco dei lavoratori”. Alessandra Todde, che da viceministra dello Sviluppo economico ha seguito la crisi Gkn, ha commentato: “Quando leggo dichiarazioni di questo genere sono felice di avere valori diversi”. Lo studio legale ha poi provato a metterci la pezza: “Nella propria storia, passata e recente, LabLaw ha sempre agevolato soluzioni socialmente utili per la collettività in favore dei propri assistiti, e ha consentito, con il lavoro svolto dai suoi professionisti, la sottoscrizione di innumerevoli accordi sindacali in sintonia con sindacati e istituzioni”.

Pfas, ricercatore in Aula: “In Ue niente di simile”

“Se escludiamo la Cina, probabilmente quello che si è verificato in Veneto, almeno dal 2011 in poi, è il più grande inquinamento da Pfas del mondo. Sicuramente lo è in Europa”. Stefano Polesello, dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, lo ha dichiarato nel corso del processo che si sta svolgendo a Vicenza a carico di una quindicina di manager di Mitsubishi Corporation, Icig e della Miteni di Trissino, l’azienda indicata come la responsabile dell’avvelenamento della falda che scorre nel sottosuolo delle province di Vicenza, Padova e Verona. All’origine gli sversamenti di sostanze perfluoroalchiliche utilizzate nelle lavorazioni industriali. “L’estensione dell’area interessata, per importanza, ha raggiunto i circa 50 chilometri”. Polesello ha aggiunto che il C604, un composto chimico di nuova generazione, sarebbe già stato provato e lavorato dalla Miteni dieci anni fa, nel 2011, mentre l’Arpav lo aveva rintracciato solo otto anni dopo. La scoperta si è avuta grazie all’analisi recente di un campione prelevato nel 2011 che era stato congelato.

A giorni arriverà in Veneto una delegazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ha accolto la richiesta delle Mamme No Pfas e di Greenpeace di verificare la carenza di interventi sanitari e informativi nei confronti della popolazione veneta. Previste audizioni al Ministero dell’Ambiente e al ministero della Salute, oltre che in Regione Veneto. La delegazione effettuerà sopralluoghi anche nell’azienda di Trissino e a Cologna Veneta, nel Veronese.

Aborto, ginecologi contro il Piemonte: “Regole disattese”

Il Piemonte guidato dal centrodestra è stato diffidato da 27 associazioni e dai ginecologi abortisti per “la mancata applicazione delle linee guida ministeriali per l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico”, la pillola Ru486. La diffida arriva dalla rete “Più di 194 voci Torino” e da Laiga, la Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194: “La Regione Piemonte non solo non s’è ancora adeguata alle nuove linee di indirizzo nazionali, ma ne ostacola l’applicazione. E nel caso di interruzione di gravidanza con metodo farmacologico, continua a richiedere il ricovero fino a 3 giorni”.

Accusa respinta dalla Regione. “Lo stop piemontese alle linee guida Speranza – ha replicato l’assessore Maurizio Marrone – è in linea con la legge 194 e tutela la vera libertà di scelta e salute della donna. Le associazioni femministe dopo il buco nell’acqua al Tar ripeteranno il flop: è proprio la legge 194 a chiarire che il consultorio è luogo di informazione e assistenza e non sede dove eseguire interruzioni di gravidanza”.

En plein di indagati nella Salerno di De Luca. Dopo il sindaco, nei guai il presidente d’Aula

Nella Salerno controllata col joystick dal governatore della Campania Vincenzo De Luca, indagato per corruzione intorno agli appalti delle coop, vige un curioso green pass per i politici in carriera: se non sei indagato o imputato non puoi occupare uno scranno di potere. Devi esibire il foglietto dell’avviso di garanzia, della convocazione in udienza. Oppure resti fuori. Tiriamo una sintesi: governatore indagato, sindaco di Salerno Vincenzo Napoli – nella foto – indagato, deputato Piero De Luca imputato (per la bancarotta Ifil di Mario Del Mese, arrestato pochi giorni fa per appalti della Provincia di Benevento). Mancava il presidente del Consiglio comunale, ma è stato posto riparo subito: con l’elezione di un indagato. Il Consiglio comunale ha nominato Dario Loffredo, mister 1800 preferenze. Pazienza se fresco di avviso concluse indagini per turbativa d’asta perché al telefono, nel 2016, avrebbe dato qualche anticipazione di troppo sul bando dei mercatini natalizi.

Il sindaco Napoli, indagato anche lui per turbativa d’asta, ma per fatti più recenti – il noleggio di una lavastrade durante il primo lockdown, uno dei tanti episodi del Sistema Salerno scoperchiato dall’arresto del ras delle coop Vittorio Zoccola e del suo sodale ex assessore Nino Savastano – in aula ha commentato: “Sono convintamente garantista e combatto ogni forma di giustizialismo. Il garantismo è espressione di una concezione illuminista del diritto. Il giustizialismo è un’idea regressiva che può diventare una pulsione nevrotica”. Insomma, chi chiede politici al di sopra di ogni sospetto avrebbe un problema di salute mentale. E vallo a spiegare ai dipendenti della San Matteo, una coop del Sistema ‘appalti-voti’, quella dell’audio in chat che minacciava ritorsioni per chi non votava la moglie del capo, Alessandra Francese di ‘Progressisti per Salerno’, la civica fondata nel 1993 da De Luca in cui è stato eletto Loffredo. Il marito di Francese, Gianluca Izzo, è stato arrestato e apriti cielo, il Comune di Salerno ha revocato alla San Matteo l’appalto per la sanificazione del Centro Agroalimentare “perché – si legge nella determina – sono venuti meno i requisiti di moralità”.

Ma come? Garantisti coi politici e giustizialisti con le coop? Da far sembrare un modello di uguaglianza quel “io so’ io e voi non siete un cazzo” del Marchese del Grillo, che almeno coi poveracci giocava a carte in osteria.