Mercato “fittizio”. La Figc si sveglia e riapre il dossier

L’inchiesta sulle plusvalenze fittizie, carneadi e ragazzini scambiati a peso d’oro per ritoccare i bilanci, non è un fulmine a ciel sereno. È uno scandalo che va avanti da anni, non solo in casa Juve. Perché le plusvalenze sono come l’amore, si fanno sempre in due, e quindi sono tante le squadre coinvolte, nell’intera Serie A. Basti dire che ammontano a circa 700 milioni l’anno, il 20% in media del fatturato dei club. Tutti sapevano tutto. E nessuno ha fatto nulla. Fino ad ora. Il calcio italiano fa finta di niente e ogni tanto si ricorda del problema. Era successo ad esempio nell’estate 2018, quando la Procura Figc allora diretta da Giuseppe Pecoraro aveva portato in tribunale Chievo Verona e Cesena: un’autentica montagna che aveva partorito un topolino, appena 3 punti di penalizzazione agli scaligeri (nulla ai romagnoli già falliti). Perché, sancirono i giudici, era di fatto impossibile quantificare il valore di un giocatore, legato al mercato, e quindi dimostrare l’illecito. Quella sembrava la pietra tombale sulla possibilità di punire le plusvalenze. E infatti dopo la sentenza da “liberi tutti” i dirigenti della Serie A si sono letteralmente scatenati, convinti della loro impunità. Qualcosa è cambiato lo scorso autunno. Per iniziativa della Covisoc, l’organo di controllo della Figc che però non è la Figc, anzi recentemente è stato piuttosto svilito dalla scelta della Federazione di sospendere le verifiche sui conti dei club per il Covid.

A fine 2020 la Covisoc riapre il faldone e lo porta sul tavolo del presidente Gravina, chiedendo di interessare la Procura federale. In parallelo nello stesso periodo iniziano i contatti con la Consob, che pure ha aperto un’inchiesta perché la Juve è quotata in Borsa. Il primo incontro sul tema con il procuratore federale Chinè è di febbraio 2021 ma l’impressione è che mentre la Covisoc voglia accelerare, la Procura sia più titubante su un argomento così delicato: la prima relazione Covisoc in primavera viene considerata incompleta. La seconda, a ottobre, è un elenco di 62 operazioni che coinvolge diversi club e giocatori, dalla Juve al Napoli al Genoa, da Pjanic a Osimhen a Rovella, e trapela sui giornali. La Procura Figc a quel punto apre un fascicolo, anche se il presidente Gravina definisce l’indagine “non persecutoria ma conoscitiva”. Ora che però si muovono anche la Procura di Torino e i finanzieri cambia tutto. E tutti si chiedono cosa rischia la Juve: se finirà come sempre a tarallucci e vino o sarà l’occasione per fare davvero pulizia, magari anche tra le altre squadre. Il punto resta trovare dei criteri oggettivi a cui ancorare la valutazione dei giocatori per dimostrare l’illecito: su questo la Figc si è già arenata una volta. Ma le prove potrebbero arrivare proprio dall’inchiesta della Procura di Torino, dai documenti sequestrati, dalle intercettazioni dove potrebbe emergere il dolo. Perché se la plusvalenza non è un reato, il suo utilizzo fraudolento (e di conseguenza la falsa fatturazione) sì. Basti pensare che per i pm l’ex direttore dell’area tecnica, Fabio Paratici (oggi al Tottenham) sarebbe stato “artefice della pianificazione preventiva delle plusvalenze”. La FederCalcio invece pensa di varare un provvedimento che esclude le plusvalenze senza flusso di cassa dai parametri per l’iscrizione al campionato: se ne parla da anni. E dopo lo spavento di oggi i dirigenti ci penseranno due volte prima di fare la prossima plusvalenza. Almeno per un po’.

“Juve macchina ingolfata. La merda non si può dire”

C’è una “carta famosa che non deve esistere teoricamente” e che, secondo chi indaga, riguarda il “rapporto contrattuale e le retribuzioni arretrate” a Cristiano Ronaldo durante la sua permanenza alla Juventus, dal 2018 al 2021. Il fuoriclasse portoghese, oggi al Manchester United, è estraneo all’inchiesta. La Guardia di Finanza di Torino venerdì sera era a caccia anche delle “scritture private” relative ai suoi compensi, durante le perquisizioni presso le cinque sedi del club bianconero, dal noto “training center” di Vinovo alla sede legale di Milano. Per i pm, gli accordi “che non esistono” con Cr7 potrebbero essere fra i documenti “costituenti corpo del reato”.

Gli indagati sono 6. Ci sono i tre principali dirigenti della Juventus Football Club degli ultimi anni: il presidente Andrea Agnelli, il suo vice Pavel Nedved e l’ex capo dell’area tecnica Fabio Paratici (oggi al Tottenham). Con loro i chief financial officer Giovanni Marco Re, Stefano Bertola e Stefano Cerrato (ognuno per propria competenza). Nel mirino della Procura di Torino, che contesta i reati di fatturazioni per operazioni inesistenti e false comunicazioni sociali delle società quotate, ci sono circa 280 milioni di euro di ricavi “sospetti” derivanti dalle cosiddette “plusvalenze”. Approvando i bilanci 2018, 2019 e 2020, infatti, secondo i pm la Juventus avrebbe, fra le altre cose, effettuato “operazioni di scambio – si legge nel capo d’imputazione – connotate da valori fraudolentemente maggiorati e neutre sotto il profilo finanziario, così da generare un ricavo di natura meramente contabile e, in ultima istanza, fittizio”. Tradotto: ci sono stati scambi di calciatori con altre società a prezzi decisamente più elevati, secondo gli inquirenti, del loro effettivo valore di mercato. Ma non solo. I finanzieri sono anche a caccia dei documenti relativi agli accordi con l’Atalanta per le operazioni relative ai giocatori Merih Demiral e Christian Romero.

La frase sulla “carta famosa che non deve esistere” è una delle intercettazioni contenute nelle 12 pagine del decreto di perquisizione emesso dalla Procura torinese. A essere stati ascoltati, la scorsa estate, sono stati proprio i vertici bianconeri. Secondo i pm, le frasi dimostrano come “i vertici del consiglio d’amministrazione bianconero” e “in primis il presidente Agnelli”, fossero “ben consapevoli della condotta attuata dall’ex manager bianconero”, quale “correttivo dei rischi assunti in tema di investimenti e dei costi connessi ad acquisti e stipendi ‘scriteriati’”.

“Hanno chiesto di fa’ le plusvalenze (…) che almeno Fabio (Paratici, ndr), dovevi fa le plusvalenze e facevi le plusvalenze”. Proprio alla “gestione Paratici”, i pm imputano una “pianificazione preventiva delle plusvalenze”. Non solo. La Juve viene paragonata a una “macchina ingolfata” a causa di investimenti oltre le previsioni di budget. “Sì, ma non era solo il Covid, e questo lo sappiamo bene!”. Tutto lascia pensare che ci sia dell’altro: “Tutta la merda che sta sotto che non si può dire”, si legge nei brogliacci dei manager bianconeri.

In totalele voci di bilancio contestate ammontano a 282 milioni di euro totali: 131 milioni nel bilancio chiuso al 30 giugno 2019, 119 milioni nel 2020, 30 milioni nel 2021. Gli inquirenti parlano di tre tipologie di operazioni “sospette”: gli acquisti “a specchio” con altre società, in cui la Juve e la controparte si scambiavano uno o più giocatori “a somma zero, con conseguente assenza di movimento finanziario e presenza di un duplice effetto positivo”; l’ipervalutazione di giovani calciatori, o di giocatori in scadenza di contratto. Nelle carte, si fanno persino i nomi: Marley Akè e Franco Tongya, scambiati con l’Olympique Marsiglia per 8 milioni ciascuno. Oppure Marques e Pereira col Barcellona. E ancora, i noti Nicolò Rovella, Manolo Portanova e Elia Petrelli col Genoa. Tutti i calciatori nominati non sono indagati, così come i loro procuratori. Le operazioni attenzionate, tuttavia, sono molte di più, visto che la Consob ha già aperto un fascicolo simile dato che la Juventus è una società quotata in borsa. In generale, per gli inquirenti si tratta di una “gestione malsana delle plusvalenze” su cui ora i pm vorranno fare luce. Secondo i pm, infatti, “sono emersi indizi precisi e concordanti per ritenere che i valori sottesi ai trasferimenti in questione non siano stati oggetto di una fisiologica trattativa di mercato ma che si sia di fronte a operazioni sganciate da valori reali di mercato, preordinate ed attestanti ricavi meramente contabili, in ultima istanza fittizi”.

Soldi, accordi e piano anti-Fatto: tutto ciò che sappiamo di Open

Il 19 ottobre la Procura di Firenze ha chiuso l’inchiesta sulla Fondazione Open, che vede indagati per concorso in finanziamento illecito il leader di Italia Viva Matteo Renzi, gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, Alberto Bianchi (ex presidente della Open) e l’imprenditore Marco Carrai. Lotti è indagato con Bianchi anche per corruzione per l’esercizio della funzione: secondo i pm l’ex sottosegretario si sarebbe adoperato per favorire disposizioni normative di interesse di British American Tobacco Italia Spa (Bat) o del Gruppo Toto ricevendo in cambio utilità. Ad esempio? I contributi di Bat alla Fondazione. Ora gli atti dell’indagine fiorentina depositati – circa 92 mila pagine – non sono più riservati e possono essere utilizzati nell’ambito della cronaca giudiziaria. Ecco dunque cosa è emerso finora.

Conti correnti

Il 6 novembre, il Fatto pubblica alcuni bonifici in entrata su un conto di Renzi contenuti in un’informativa della Gdf del 10 giugno 2020. Sono, in gran parte, i compensi per le conferenze. Ci sono ad esempio i 43.807 euro arrivati dal Ministero delle Finanze dell’Arabia Saudita o i 19.032 euro pagati dalla 21 Investmenti Sgr, “private equity di Alessandro Benetton”. Secondo la Gdf dal giugno 2018 al marzo 2020 Renzi ha incassato (lecitamente) 2,6 milioni di euro. I compensi non sono oggetto di indagine.

Volo per Washington

Agli atti ci sono anche le conversazioni del giugno 2018 tra Renzi e l’imprenditore Vittorio Manes (non indagato). I due parlano di un volo che l’ex premier avrebbe dovuto prendere per partecipare alla cerimonia per il 50esimo anniversario della morte di Bob Kennedy. Renzi sarebbe dovuto partire dopo aver votato contro la fiducia al Conte-1. Scrive a Manes: “Non posso evitare di votare la sfiducia a queste merde”. Poi chiede: “C’è qualche tuo amico riccone che viaggia dopo le 18 verso Washington?”. Alla fine a pagare il volo sarà Open.

Ristoranti e cene

Per i pm parte dei contributi volontari incassati dalla Open sono stati utilizzati per “sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti, Boschi e della corrente renziana”. Secondo i conti della Finanza dal 2012 al 2018 la Fondazione (prima Big Bang poi Open) ha pagato per beni e servizi di cui ha usufruito Renzi 548.990 euro. Cifra che comprende, ad esempio, i 7.416 versati per la benzina e i pedaggi del “Camper Matteo”, ma anche le spese per ristoranti e alberghi. Secondo la Gdf, Open ha sostenuto spese anche per Luca Lotti (26.955 euro) e per Maria Elena Boschi (5.915 euro).

Macchina Social

Il 7 gennaio 2018 Renzi riceve una mail (che inoltrerà a Carrai) dal giornalista Fabrizio Rondolino (non indagato). La mail contiene un piano per creare una “struttura di propaganda antigrillina” che comprenda anche una “character assassination” con “…rivelazioni mirate a distruggere la reputazione” di soggetti come “Grillo”, “Di Maio”, “Casaleggio”, ma anche dei giornalisti “Travaglio e Scanzi”. Per metterla in atto, Rondolino propone di creare una redazione ad hoc con due giornalisti d’inchiesta e di ingaggiare “un investigatore privato”. Renzi ha spiegato che “quel messaggio non ha avuto alcun seguito”.

Per far meglio funzionare la macchina social a supporto di Renzi – si scopre ora dalle carte – la Open ha acquistato anche due software israeliani, Voyager e Tracx, al costo di 260 mila dollari e 60 mila euro. Il quotidiano Domani ha rivelato alcune chat di Carrai del 2016, in cui si parla di una “dark room”, una “stanza oscura” messa in piedi dall’imprenditore dove “in una settimana hanno fatto 600 fakes”.

“Referendum del cazzo”

“Abbiamo speso due milioni di euro per quel referendum del cazzo”, è invece lo sfogo di Bianchi in chat. Proprio in vista del referendum del 4 dicembre, Renzi invoca, in una chat finita agli atti, l’apporto di “politici e simpatizzanti” per promuovere la sua linea. Fra le altre cose, il 12 novembre 2016 scrive: “Mandiamo Delrio in radio, ha la voce calda”.

Accordi con le tv

Agli atti c’è anche una mail del dicembre 2017 che Renzi invia a Carrai. Nel testo c’è scritto “Politiche 2018”, in riferimento alle elezioni del 2018. Si comincia dal “Mondo La7”. È scritto nella mail: “Dobbiamo pretendere una figura dedicata di raccordo tra noi e Andrea Salerno – direttore di La7, ndr – (…). Conoscere le scalette. Capire i format dei nostri avversari”. Per il “Mondo Mediaset” si punta invece a un “Accordo con Brachino/Confalonieri. Monitorare costantemente Berlusconi e chiedere di fare altrettanto, sempre”. Alla voce “Mondo Rai” è scritto: “Accordo Agnoletti/Orfeo”, dove Marco Agnoletti era il portavoce di Renzi e Mario Orfeo l’allora dg Rai. Tutti i protagonisti hanno smentito l’esistenza di accordi e fonti vicine all’ex premier hanno spiegato che la mail era “una sorta di elenco di compiti per l’ufficio comunicazione”. A proposito di Rai, agli atti emerge anche un appunto di inizio 2017 di Bianchi destinato a Lotti in cui fa presente di aver ricevuto “3 messaggi da Maggioni (Monica, ndr)”, appena nominata direttrice del Tg1: “Salvo opposizione improbabile (…) – scrive Bianchi – il cda sfiducia Campo dall’Orto (…) le piacerebbe assumere lei l’interim. Oppure un ticket Dal Brocco/Maggioni”. La Maggioni ha smentito la circostanza. Non mancano nelle carte i riferimenti ai rapporti tra esponenti del Giglio magico e giornalisti. Il 9 marzo 2017 Bianchi scrive a Lotti: “La Chirico (Annalisa, estranea all’inchiesta, ndr) stasera va dalla Gruber, glielo ha chiesto Matteo…”. Il 2 marzo sempre Bianchi a Lotti: “La Chirico scrive domani sul Foglio sulla vicenda Consip. L’ha sollecitata M. (…)”.

Il ruolo di Funiciello

Nelle carte è citato, ma senza essere indagato, Antonio Funiciello, capo di gabinetto del premier Mario Draghi. Agli atti ci sono i messaggi scambiati con alcuni dei protagonisti dell’inchiesta fiorentina: da una parte con il manager di Bat, Gianluca Ansalone, dall’altra con il patron delle concessioni autostradali Alfonso Toto. Funiciello all’epoca era capo dello staff di Paolo Gentiloni e, prima ancora, presidente del comitato “Basta un sì”. “Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo”, gli scrive Ansalone il 19 dicembre 2017. “Ha lavorato ventre a terra avendo compreso la drammaticità della nostra infrastruttura”, dice invece Toto di Funiciello il 17 dicembre 2017. Dal 21 novembre Il Fatto ha chiesto a Draghi di intervenire su Funiciello: nulla si è mosso.

“Si parla dei vaccini ai bimbi per occultare i veri problemi”

“Sarà molto importante vaccinare anche i bambini. Per loro il danno del Covid è modesto ma possono infettare gli adulti non protetti, perché il vaccino protegge solo al 90%, e quelli che non si sono voluti vaccinare. D’altra parte questi ultimi possono infettare i bambini. Se gli adulti fossero tutti vaccinati ci sarebbe meno fretta di vaccinare i bambini”. Chi parla al Fatto è Silvio Garattini, farmacologo di fama internazionale, fondatore e presidente dell’Istituto Mario Negri.

Come i microbiologi Antonio Cassone e Andrea Crisanti e molti altri studiosi nel mondo, il professor Garattini vede qualche limite quantitativo nel trial del vaccino Pfizer, condotto su tremila bambini fra i 5 e gli 11 anni e approvato dalla Fda statunitense e dall’agenzia europea Ema, ora in attesa di valutazione dall’Aifa. “I dati a disposizione sono relativamente pochi. Forse la via migliore è aspettare di vedere cosa succede nei Paesi in cui si stanno vaccinando i bambini, Israele ma anche gli Stati Uniti. Il governo ha già detto che non si inizierà prima di Natale”. Ma soprattutto, secondo il professor Garattini “porre l’attenzione sui bambini al di sotto dei 12 anni è un modo per dimenticare tutti gli altri problemi. È il gioco anche dei mass media, che puntano sempre su qualcosa di nuovo. Le priorità sono altre”.

Quali sono le priorità?

Il problema di coloro che hanno più di 50 anni, o comunque sono sopra i 12 anni, e non sono vaccinati. E quello della vaccinazione di tutto il mondo, la vera cosa da fare che i governi non hanno il coraggio di fare. Non è un atto di beneficenza, è un atto di sano egoismo.

Qui in Italia dunque sono più importanti le prime e le terze dosi per gli adulti?

Sì, soprattutto per le persone più a rischio. Non possiamo fare tutto nello stesso momento, non abbiamo una grande capacità vaccinale, in parte l’abbiamo anche smontata dopo aver raggiunto livelli importanti. Sono poi molto perplesso, per usare un eufemismo, che qui a Milano si dica che la mascherina dev’essere portata soltanto in certe aree del centro ignorando che gli assembramenti sono dappertutto. Si fa finta di fare il super green pass ma non si ha il coraggio di togliere il tampone dal green pass, quando il tampone non ha niente a che vedere con la protezione, è solo una fotografia di un dato momento.

Per i bambini basta aspettare fine anno o di più?

Se questo periodo fosse utile per vaccinare tutti gli adulti si potrebbe aspettare. Non c’è una risposta sì o no. Molte cose non le sappiamo. Attendiamo le valutazioni dell’Aifa, che potrebbe dire di aspettare qualche settimana in modo da avere i dati di altri Paesi.

Le prime dosi sono più importanti delle terze?

Non è una terza dose ma un richiamo e si fa per precauzione. Se avessimo mantenuto la contagiosità a 1.500 casi al giorno, invece di 13 mila, l’urgenza sarebbe minore. E la contagiosità dipende dai comportamenti.

Non è difficile chiedere ancora sacrifici ai vaccinati?

Io ho fatto il richiamo e l’antinfluenzale ma sto attento. Il governo fa annunci, invece le cose vanno spiegate, anche le apparenti contraddizioni. Quello che è vero oggi può non esserlo domani quando avremo informazioni in più.

Bisogna dirlo a chi governa.

A loro mi rivolgo. Se chi governa fa le cose in modo razionale l’opinione pubblica segue, salvo i fanatici.

Il governo ha esagerato un po’ sulle garanzie dei vaccini e sull’immunità di gregge a settembre con il 70% di vaccinati.

I dati danno ragione alla vaccinazione, in terapia intensiva per il 90% ci sono non vaccinati. Ma non c’è il 100%, la protezione è sempre una probabilità. E chi ha parlato di immunità di gregge con il 70% di vaccinati ha sbagliato. Non lo sappiamo. Si parla in modo superficiale e contribuiscono anche molti medici. Io avrei messo una persona che ogni giorno parlava, rispondeva, spiegava

A chi pensava?

Una persona dialogante, che non abbia la presunzione di sapere tutto. Un gruppo con un portavoce: epidemiologi, virologi, farmacologi, sociologi.

C’è un Comitato tecnico scientifico coordinato dal professor Franco Locatelli e con un portavoce nella persona del professor Silvio Brusaferro.

Sì ma quante volte l’ha sentito il professor Brusaferro, persona rispettabile e degnissima? Ci vuole qualcuno che faccia questo mestiere, non può essere occasionale. Anche sulle aperture avrei fatto diversamente: con il 50% di vaccinati si apre questo, con il 60 quest’altro. Ma questo è solo il mio parere.

Spesa per i farmaci: il favore milionario alle imprese private

C’è un passaggio, nel centinaio di pagine che compongono le osservazioni della Corte dei Conti sul ddl Bilancio per il 2022, che dovrebbe preoccupare tutti, in particolare le Regioni, ma farà felici le case farmaceutiche. Gli articoli 96 e 97 della manovra, infatti, modificano (aumentandoli, come già accaduto quest’anno) i tetti per la spesa farmaceutica tanto convenzionata che ospedaliera, i quali peraltro vengono costantemente violati da anni: una voce, per capirci sulle dimensioni della cosa, che da gennaio a luglio 2021 vale da sola 11,8 miliardi di euro (dati Aifa).

Qual è il problema? È il meccanismo del cosiddetto “payback”, vale a dire – citiamo un dossier della Camera – “la particolare procedura introdotta (dal governo Prodi nel 2007 e ampliata da quello Monti nel 2012, ndr) per effetto della quale le aziende del comparto farmaceutico sono chiamate a ripianare – per intero per quanto riguarda la farmaceutica territoriale e per metà relativamente all’ospedaliera – l’eccedenza della spesa farmaceutica, allorché sia superato il tetto stabilito per legge”. Tradotto significa che i produttori di farmaci – dopo aver guadagnato il giusto (almeno secondo il sistema dei tetti) – partecipano alla spesa sanitaria totale ridando i soldi alle Regioni: mentre, però, la farmaceutica convenzionata è quasi in pari (anche grazie al payback al 100%), quella ospedaliera è comunque in forte deficit.

La manovra del governo Draghi pone a questo meccanismo, già non perfetto, due problemi. Il primo è tecnico: alzando i tetti nei prossimi tre anni finiscono per diminuire anche i fondi dal payback appannaggio delle Regioni. “Di sicuro rilievo – scrive la Corte dei Conti – sono le risorse necessarie a compensare i minori introiti regionali derivanti dalla progressiva modifica dei tetti alla spesa farmaceutica diretta e la conseguente riduzione delle entrate per il payback: si tratta di una riduzione stimabile nell’ordine di oltre 200 milioni nel 2022”. Messa in un altro modo: “Guardando ai risultati del primo semestre 2021, con le nuove soglie 7 regioni avrebbero superato il tetto del 7% previsto per la spesa convenzionata”, cioè la parte che è normalmente in equilibrio. L’altra è già nei primi sette mesi dell’anno sopra soglia per 1,5 miliardi ed è attesa chiudere attorno ai tre miliardi sopra il tetto a fine anno.

La cosa più preoccupante, però, è un’altra: la manovra contiene, per omissione, quello che potremmo definire un disincentivo a rispettare il payback per Big (e Little) Pharma. Com’è comprensibile, le aziende non sono mai state molto felici di pagare e la previsione del ristoro è stata oggetto di un lungo contenzioso: nel 2018 il ministero della Salute, all’epoca guidato da Giulia Grillo (l’unica a protestare oggi), riuscì a chiudere quello 2013-2017 con un accordo da quasi due miliardi e mezzo, ma subito dopo è ripartita la sarabanda delle cause contro Aifa. Per non farla troppo lunga, l’Agenzia del farmaco ha da poco pubblicato lo stato dell’arte del payback farmaceutico aggiornato al 15 settembre scorso: “A fronte di un importo di ripiano per l’anno 2019 pari a euro 1,36 miliardi risulta versato l’importo di euro 757,2 milioni, pari al 56% del totale”. In soldi, fanno 604 milioni di euro: tra quelle che stanno facendo miliardi coi vaccini, per dire, risulta che Janssen non ha versato nulla (74 milioni) e Pfizer 47 milioni su 70.

A fronte di tutto questo, cosa s’è inventato il governo? Dice la Corte dei Conti: “Deve essere sottolineato come l’eliminazione nel ddl Bilancio 2022 della previsione normativa che condizionava l’aggiornamento dei tetti all’integrale pagamento, da parte delle aziende farmaceutiche, degli oneri per il ripiano degli sfondamenti, a partire da quelli verificati nel 2019, desta qualche perplessità” visto quel che dice Aifa sulla compliance delle imprese. Tradotto: finora si diceva alle case farmaceutiche che i tetti sarebbero stati alzati (meno payback, più guadagno) solo se avessero sganciato i soldi che dovevano allo Stato, da ora la cosa è lasciata al buon cuore loro e alle cure dello stuolo di avvocati con cui alluvionano Aifa di ricorsi. È appena il caso di ricordare che, anche se i privati non pagano, le Regioni iscrivono quei soldi a bilancio come crediti esigibili e li usano per erogare servizi sanitari: il rischio è nascondere il buco sotto al tappeto e poi ricorrere ai famigerati “piani di rientro” che, via tagli, hanno negato e negano a milioni di italiani il diritto alla salute.

“La Omicron silente da luglio”. Scoperto il primo caso in Italia

Omicron è in Italia. Un cittadino campano rientrato dal Mozambico, e vaccinato con doppia dose, è risultato positivo ieri: l’analisi genomica del suo tampone, effettuata dall’ospedale Sacco di Milano, ha individuato la variante B.1.1.529. L’uomo – un dipendente di un’azienda internazionale – è in buone condizioni di salute, ed è stato messo in isolamento. Così come i suoi cinque familiari, contagiati anche loro e per cui sono stati programmati i sequenziamenti sui campioni. È stato un alert sulla piattaforma Icogen a segnalare la presenza di alcune mutazioni chiave. Ma ora la domanda è: quanto è già diffusa, in Italia e non solo, quest’ultima mutazione?

La rete di sorveglianza italiana non aveva ricevuto, prima di alcuni giorni fa, alcun tipo di allarme. Non è escluso però, per le poche informazioni a oggi disponibili, che questa variante non sia stata isolata per la prima volta ora, ma già a luglio-agosto, sempre nel continente africano, e lì rimasta silente e confinata. Da qualche giorno, però, l’allerta è diventata massima. Regno Unito, Olanda (i 61 passeggeri di ritorno dal Sudafrica) e Germania confermano i primi casi di variante Omicron, oltre a Belgio e Israele. La maggior parte dei Paesi ora corre ai ripari, con un rafforzamento delle misure anti Covid e in molti casi con lo stop ai voli provenienti dai Paesi ad alto rischio. “Capisco chiudere subito le frontiere – dichiara Michele Morgante, direttore dell’Istituto di Genomica applicata di Udine – ma che la variante fosse già tra noi era facile prevederlo. In questo momento bisognerebbe sforzarsi di sequenziare tutti o quasi i tamponi positivi. E non è un obiettivo impossibile – prosegue – basterebbero soldi, coordinamento e buona volontà”. Torna insomma attuale il tema del sequenziamento genomico dei positivi, ossia “leggere” il codice del virus rilevato dal tampone: è solo così – con tutte le misure di contenimento che devono al più presto seguire – che si scovano le varianti. Non è un caso che la Omicron sia stata identificata con il Sudafrica, poiché è praticamente l’unico Stato di quel continente a depositare genomi sul database internazionale Gisaid.

Serviranno alcune settimane per capire il livello di trasmissibilità e virulenza di Omicron. La Task Force Covid19 del Botswana – dove è stata individuata la nuova variante – ha rilasciato un report preliminare che riguarda i loro primi 4 casi di variante B.1.1.529 e che segnala come sia stata identificata in soggetti “fully vaccinated”, completamente vaccinati. In seguito, è arrivata la dichiarazione di Angelique Coetzee, presidentessa della South African Medical Association, la quale ha affermato che la nuova variante di Sars-CoV2 provocherebbe una “malattia lieve”. Quello che sappiamo per ora è che, “si presenta con sintomi come dolori muscolari e stanchezza per un giorno o due. Le persone infette non soffrono della perdita del gusto o dell’olfatto. Potrebbero avere una leggera tosse. Per ora – ha aggiunto Coetzee – è una tempesta in una tazza da tè”.

L’atteggiamento è diverso in Europa, ma spiega al Fatto Antonio Cassone, già Direttore di Malattie Infettive dell’Iss, “non abbiamo ancora dati chiari”. Allo stato attuale, è chiaro che la condivisione in tempo reale di questi ceppi da parte dei collaboratori della banca dati mondiale Gisaid in Botswana, Sud Africa e Hong Kong sta funzionando. Ma, sul tema specifico, “potremo riparlarne appena ne sapremo di più”, spiega Cassone.

Ma a che punto è il sequenziamento in Italia? Meglio rispetto a un anno fa, quando con la miseria di 920 sequenze depositate il nostro Paese era ai livelli di Congo e Arabia Saudita. Oggi i genomi depositati dal 10 gennaio 2020 sono 76.029, numero che pone l’Italia in una posizione di classifica migliore, ma che rappresenta appena l’1,53% del totale dei tamponi positivi, ben lontano dal target minimo del 5% richiesto dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo e raccomandato dall’Oms.

Sallusti, guardacaso

C’è del marcio nell’inchiesta su Ciro Grillo e i tre amici appena rinviati a giudizio. La scoperta si deve al noto segugio Alessandro Sallusti, che ha notato una serie di “coincidenze che sommate ai ritardi diventano indizio di una magistratura così così”, inquinata da “interessi politici”. Tenetevi forte, perché il materiale è altamente infiammabile: “quando è scoppiato il caso, nell’estate 2019, ministro della Giustizia era il grillino Bonafede” e infatti “per quasi due anni nulla è successo” (cioè la Procura ha aperto e condotto le indagini), “la cosa sembrava finita nel dimenticatoio” (Sallusti non si era accorto delle indagini in corso); poi, all’improvviso, la “svolta di ieri” col rinvio a giudizio, guardacaso “dopo l’insediamento del nuovo governo che ha visto il ministero della Giustizia uscire dall’orbita 5Stelle” (Sallusti pensa che il rinvio a giudizio non l’abbia disposto il gup, ma la Cartabia). L’acuta deduzione appare un po’ meno fondata di quelle dei complottisti, terrapiattisti, No vax e negazionisti del Covid. Ma gli serve per alimentare un’antica ossessione: quella di dimostrare che B. è un giglio di campo perseguitato.

Anni fa, per giustificare i bungabunga a gettone con escort minorenni, tirò in ballo John Kennedy per la liaison con Marilyn (che purtroppo era maggiorenne, non era pagata e soprattutto girava sola, non in comitiva). Ora tenta di paragonare un ex premier puttaniere candidato al Quirinale con un privato cittadino figlio di un privato cittadino, entrambi sprovvisti di cariche pubbliche. E sostiene che i processi a B. corrono a razzo, mentre l’indagine su Grillo jr. è durata “un’eternità”. In effetti c’è sempre stata una fretta sospetta nei processi a B.: l’unica condanna definitiva scampata a prescrizioni & depenalizzazioni, quella per le frodi fiscali Mediaset, arrivò nel 2013 da un’indagine partita nel 2005; e il processo Ruby ter, nato da un’indagine del 2014, langue in tribunale dal 2018. Invece l’inchiesta su Grillo jr. è durata poco più di un anno, dall’estate 2019 (sotto Bonafede) alla chiusura indagini del novembre 2020 (sotto Bonafede); poi dagl’interrogatori sono emersi nuovi elementi e i pm hanno depositato la nuova chiusura con un nuovo capo d’imputazione, nel maggio 2021 (sotto la Cartabia). Quindi con entrambi i ministri (che non hanno alcun titolo per occuparsi di indagini, né risultano averlo fatto) la Procura ha sempre inteso chiedere il rinvio a giudizio. Ma queste son cose che sanno i giornalisti, dunque non Sallusti. Casomai volesse approfondire altre inquietanti “coincidenze”, gliene segnaliamo una fin troppo eloquente, anzi definitiva: nel 1981 fu scoperto il virus dell’Aids e Alessandro Sallusti diventò giornalista. E questo è più di un “indizio”: è una prova.

Anche Heidegger, Foucault e Derrida se stavano male andavano dal medico

Èun duro corpo a corpo, una “disputa filosofica” d’altri tempi, lontana dalle rassicuranti lectiones magistrales offerte dai festival di filosofia, quella che ingaggiano Maurizio Ferraris e Paolo Flores d’Arcais. Un contenzioso in cui al centro c’è la scienza, la sua oggettività distinta dalle “interpretazioni”, ma anche la fine del postmoderno, l’archiviazione o meno dell’ermeneutica, la filosofia continentale che ha segnato il 900.

Dibattito durato otto anni, spiegano i due nella introduzione, e che si dipana in dieci lettere, cinque per ciascuno, in cui è soprattutto Flores d’Arcais ad affondare i colpi, mentre l’altro ha l’occasione di difendersi e precisare. Precisare cosa sia il suo “realismo positivo” frutto di uno storico ripensamento delle posizioni ermeneutiche – “non esistono fatti, solo interpretazioni” – di cui Ferraris è stato esponente, sulla scorta della lezione di Hans-Georg Gadamer, dell’amicizia con Jacques Derrida, del rapporto con Gianni Vattimo.

Il fondatore di Micromega esige però un chiarimento maggiore, una precisione dei concetti nel nome di un “illuminismo di massa” che gli pare l’unica filosofia “che ci può salvare”. Esiste la realtà, dunque, la rigorosità delle scienze naturali, o “scienze dure” nell’anglicismo ormai adottato, e queste sono separate dai valori, dalle norme e soprattutto dal “dover essere” che connota lo specifico umano della nostra esistenza. Per cui la filosofia è soprattutto impegno civile, etica. Ferraris non vuole rinnegare del tutto il passato postmoderno, ricorda che anche Heidegger, Gadamer, Foucault e Derrida ritenevano le scienze dello spirito “radicalmente superate” dalle scienze della natura e, ognuno di loro, “quando è stato male è andato dal medico”. Ma, rilancia, “la scienza è il metro di qualunque conoscenza cogente?”. La risposta è “un nettissimo No”. Ma da qui riparte Flores d’Arcais, e il carteggio cresce d’intensità.

Controversia sull’essere Maurizio Ferraris e Paolo Flores d’Arcais, Pagine: 264, Prezzo: 16, Editore: Rosenberg&Sellier

 

“Quando scrivo non so chi sono, forse 20 persone”

In una lettera che Virginia Woolf scrisse al critico del Bloomsbury Group, Lytton Strachey, si legge questo scambio: “E il vostro romanzo?”, “Oh, caccio una mano dentro il sacchetto e tiro su quel che viene”, “Che cosa meravigliosa. Ed è sempre diverso”. “Sì, io sono venti persone”. Elena Ferrante ne resta colpita e nel primo dei quattro testi inediti raccolti ne I margini e il dettato – ad approfondire il suo rapporto con la scrittura, croce e delizia, dai suoi primi romanzi, la cosiddetta trilogia del mal d’amore, sino al successo mondiale del ciclo de L’amica geniale – riflette: “Ciò che la scrittura cattura non passa al vaglio di un io singolare, ben piantato nella vita d’ogni giorno, ma è venti persone, cioè un numero buttato lì per dire: quando scrivo, nemmeno io so chi sono”.

Chi sia Elena Ferrante non lo sappiamo (e pace) – la traduttrice Anita Raja?, suo marito Domenico Starnone?, sarà poi vero che è figlia di una sarta napoletana come racconta nel diario La frantumaglia? –, ma nei suoi scritti c’è un’unica penna abile a declinarsi in molte voci e volti, in prevalenza femminili.

Tradotta in 40 lingue, per la critica statunitense la nuova Elsa Morante, culto per Hillary Clinton, Jonathan Franzen, Elizabeth Strout, Jane Campion, candidata da Saviano nel 2015 allo Strega con la motivazione “la sua assenza pesa più di qualunque presenza. Un nome riempito solo dalle sue parole: questa è la letteratura”, quando frequentava le elementari era ossessionata dall’idea di star dentro le righe e i margini rossi delle pagine dei quaderni con grafia disciplinata, ma la soddisfazione di farcela, di fare quello che gli altri si aspettavano da lei, si accompagnava a un’impressione di “perdita, di sciupio, per esserci riuscita”. Sì: stare nei margini è limitante. E se sei scrittrice il limite è spesso di natura patriarcale. È leggendo la poetessa cinquecentesca Gaspara Stampa che realizza come “la penna femminile, proprio perché imprevista dentro la lingua scritta di tradizione maschile, doveva fare una fatica enorme, molto coraggiosa, cinque secoli fa come oggi, per violare l’usato gioco e darsi vena e stile”.

Lei quel coraggio l’ha avuto, raccontare le donne dal punto di vista delle donne, e se da un lato resta fedele a una scrittura “acquiescente” ne affianca un’altra “impetuosa”, impulsiva e “strafottente” che asseconda sotto il bisogno d’ordine un’energia “che vuole inceppare, disordinare, deludere, sbagliare, sporcare”. La sensibilità di Ferrante la rende consapevole dei limiti del mezzo ma pure delle sue potenzialità. “Scrivere è accomodarsi in tutto ciò che è già stato scritto e farsi, nei limiti della propria vorticosa, affollata individualità, a propria volta scrittura”, dice.

Le sue donne sono memorabili: Delia, Olga e Leda, rispettivamente protagoniste di L’amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura, diverse per storia personale, età, città di appartenenza sono però connesse da un filo rosso. Hanno trascorsi pesanti ma sono disposte a fare i conti con passato, presente, futuro. Incarnano molti dei temi ricorrenti nelle opere di Ferrante: l’infanzia magica ma anche traumatica, il rapporto contrastante tra madri e figlie, le difficoltà della maternità, Napoli città da cui tutti fuggono e a cui tutti tornano, il Sud maschilista che soggioga e la conseguente forza di non soccombere, scappando dai perimetri imposti, geografici e non, per occupare spazi altri, l’amicizia femminile che, pur quando spinosa, si rivela salvifica.

A un certo punto Ferrante si convince che La figlia oscura sia il suo ultimo libro, poi l’incontro coi testi della filosofa Adriana Cavarero e la lettura dell’Autobiografia di Alice B. Toklas di Gertrude Stein la spingono a lavorare su una “alterità necessaria” che pone le basi della diade Lila e Lenù de L’amica geniale. “Ci piaceva molto sedere l’una accanto all’altra, io bionda, lei bruna, io tranquilla, lei nervosa, io simpatica, lei perfida, noi due opposte e concordi” dice Lenù in Storia della bambina perduta. La verità è che le due, entrambe “geniali”, sono complementari e se anche, “come per una cattiva magia, la gioia e il dolore dell’una presupponessero il dolore o la gioia dell’altra”, niente può spezzare la catena che le unisce.

Nel Texas della fame da Grande Depressione: il “crime” lurido e cupo di Amelia e Arnold

La storia cattura sin dall’incipit, diretto ed essenziale e in cui irrompe crudamente il fattore del sangue: “Una volta, nella classe di terza elementare della signorina Wexler, Amelia Laxault vinse il premio in aritmetica. Ricevette un diploma, una penna stilografica d’oro donata dalla signorina Wexler stessa e un naso sanguinante, omaggio di Arnold Critchin che l’aveva beccata mentre tornava a casa, saltandole addosso”. Lo stesso Arnold che poi la stupra e la sposa nemmeno quindicenne, lei che invece è perdutamente innamorata del dolce e gentile Billy, figlio di artisti che abitano in una fattoria. Siamo nel Texas rurale della Grande Depressione innescata dal crollo di Wall Street nel 1929. In campagna si fa la fame più nera e si mangia ogni genere di animale, dal coccodrillo al cuccioli di cane (che serve anche per il brodo).

Amelia avrebbe voluto studiare e amare Billy, ma il padre dispotico le impone di lavorare la terra e di sposare uno come loro, cioè un contadino. Arnold, appunto. La mamma, rassegnata da decenni, consola così Amelia: “Noi donne abbiamo un talento: sappiamo sopportare. È quello che sappiamo fare. È quello che possiamo fare”. E Amelia sopporta davvero di tutto, oltre alla fame: il sesso e le gravidanze continue; il marito ubriaco e che toglie il poco cibo ai figli per darlo agli amati cani; il marito ancora che finisce in galera per contrabbando di alcolici o per rissa. Fin quando sulla scena non compaiono Billy, che fa lo sceriffo, e un misterioso gigante nero di nome Lucious per la cruenta resa dei conti.

“Questa è una storia oscura, lurida (…). Les Edgerton (classe 1948, ndr) è il mio autore di crime preferito. È uno dei nostri autori migliori e più sottovalutati. È un triste appellativo da attribuire a chiunque: sottovalutato”. Parola di Joe R. Lansdale.

 

Tempi difficili –  Les Edgerton, Pagine: 187, Prezzo: 16, Editore: elliot