Nel fantastico mondo di Oz c’è il kibbutz

“Beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti” si legge in Giuda, uno dei capolavori di Amos Oz, lo scrittore israeliano scomparso nel 2018. Non a caso il kibbutz è un tòpos della sua letteratura. Svariate le opere in cui ha raccontato l’utopia di una vita allo stato primitivo, a contatto con la terra, senza scambio di denaro e con il tabù della proprietà. In quelle comunità rurali a gestione collettiva, battezzate dal sionismo laburista, la scommessa è stata vertiginosa: cambiare la natura umana, neutralizzare egoismo e crudeltà con l’eguaglianza. Un’illusione che nessuno meglio di Oz ha saputo rappresentare sulla pagina.

Adolescente – in rotta con il padre dopo il suicidio della madre – andò a vivere proprio in un kibbutz e ci restò per trent’anni. Ecco allora che risuonano peculiari i dieci racconti di Le terre dello sciacallo, suo esordio del 1965 finora inedito in Italia, in libreria per Feltrinelli. È come tornare alle radici della sua scrittura e ricalibrare con un senso critico più compiuto tutte le sue prove successive. Nove storie (la decima ripercorre la parabola biblica di Iefte) che si smarriscono nella vastità di deserti ostili e che pure sembrano riecheggiare certi toni da tragicommedia della nostra provincia: si sa tutto di tutti, i segreti non resistono all’alba, il male e il bene si mescolano in oasi di ambiguità. Si avverte l’eco di un Dio dispotico che concede la sua grazia a un figlio e a un altro la nega (vedi Isacco e Ismaele nella genesi del popolo ebraico).

C’è poca luce in queste storie, le righe affondano in notti dove “tutti i predatori dormono, ma non hanno il sonno profondo”. Si sentono gli ululati degli sciacalli che, “come sacerdoti neri a una cerimonia del lutto”, divorano gli uomini e le donne che provano a mettere un piede fuori dal cerchio. È l’umanità che cade il concime di queste Terre dello sciacallo: la relazione tra una ragazza e un uomo che potrebbe rivelarsi il suo padre biologico; un intellettuale costretto a subire l’umiliazione di un figlio paracadutista pavido; un eroe militare locale e un infermiere da campo arresi davanti alla lezione di un monastero trappista: “Le parole sono alla radice del peccato. Senza parole non c’è menzogna.”; un membro del kibbutz che, lasciato l’insediamento, trascorre il tempo a creare mappe di porti immaginari; un anziano professore e suo figlio, entrambi in procinto di nozze, che si nascondono la verità; un kibbutz danneggiato da una strana tempesta e una vecchia signora che vuole pubblicare le lettere del marito morto nella guerra civile spagnola.

Nella storia tra un artigiano filatelico e una poetessa scorre il senso di queste trecento pagine: “Anche Dio ci raccoglie uno alla volta, mette ordine, ci incolla nel suo album e si gode l’armonia misteriosa che c’è dietro le nostre sofferenze”. Non si distingue nemmeno chi si è sacrificato per gli altri, come nella storia di un meccanico la cui tomba “non è diversa dalle altre.” La parabola di Iefte – nomade e figlio di una prostituta che riuscirà a diventare giudice di Israele – chiude il libro, richiamando la metafora sull’identità che Amos Oz ha disseminato nella sua bibliografia: “Sono straniero, da straniero ho vissuto tutti i giorni della mia vita”.

 

Le terre dello sciacallo – Amos Oz, Pagine: 272, Prezzo: 18, Editore: Feltrinelli

Quel mito di Faust dall’imperatrice e poetessa cristiana ai diavoli protestanti

Urc! Faust: “Un oceano insondabile” anche per chi lo studia da decenni, come Paolo Scarpi, curatore della minuta antologia, 566 pagine, Faust. Dalla leggenda al mito (Marsilio).

Il saggio affastella opere, o stralci, su uno dei personaggi più emblematici, eppur polisemici, dell’immaginario occidentale, tanto da essere diventato “un genere letterario” a sé, paradigma dell’uomo ulissiaco che anela – grazie a un patto col diavolo – alla vita eterna, all’amore, al potere o alla conoscenza.

La cernita di Scarpi è personale e risente della formazione dell’autore, professore di Storia delle Religioni: sbilanciata sull’aspetto esoterico-teologico più che sapienziale-filosofico, la raccolta predilige testi di prosa teatrale. Grande assente, ad esempio, è Thomas Mann col suo romanzo anni 40, come pure mancano i frammenti di Lessing, il fantasy di George Sand, la tragedia di Pessoa…

Faust è un antieroe della tradizione squisitamente protestante, con radici a Wittenberg, la città di Martin Lutero: è lì che, nel tardo 500, si aggira “un tizio che ha imparato la magia a Cracovia… un uomo diabolico, turpissimo, sbandato, dalla vita del tutto corrotta; una bestia, fogna di diavoli”. Ed è sempre lì che la sua storia si intreccia con quella di Margherita, il nome della madre di Lutero, accusata dai cattolici di aver copulato con Mefistofele.

In Germania, l’eredità del personaggio è accolta da Johann Spies, dal gigante Johann Wolfgang von Goethe e dal poeta Heinrich Heine. Il cattivone teutonico per eccellenza diventerà poi banalmente, non solo per Paul Valéry, un perfido nazista. Fuori dai confini tedeschi, invece, il “dottore” ha ispirato due patriarchi del teatro – Marlowe e Calderón de la Barca –, ma il suo prototipo risale addirittura alla tarda cristianità, grazie all’imperatrice e poetessa bizantina Eudocia, il cui mago, tuttavia, ritrova la fede in Dio, e al diavolo il demonio. Faust resta solo un povero cristo “inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero” (© Campana).

 

“Beginning”, esordio di Dea su una donna maltrattata

La rinuncia alla carriera d’attrice per una vita all’ombra del marito, eminente “fratello” dei Testimoni di Geova nella sperduta provincia della Georgia contemporanea: tale è il vissuto di Yana, donna bella e madre affettuosa, che capisce molto ma può (fare) poco per modificare un destino che, del resto, si è scelta.

La svolta della vita avviene tra le fiamme di un incendio: accanto alla distruzione della Casa del Regno causata da un attentato terroristico, a sgretolarsi è ogni sua certezza. E mentre il marito è temporaneamente assente, Yana cade vittima di una violenza che ne deteriora irreversibilmente esistenza e coscienza.

Dramma radicale, Beginning è auspicabilmente “l’inizio” di una grande carriera autoriale, trattandosi dell’esordio in regia della georgiana Dea Kulumbegashvili. Scoprire questo film, e con esso il talento di questa cineasta dalle chiare inclinazioni video-artistiche, è stato una rivelazione. Perché con poche ma perfette inquadrature fisse alternate a minimi movimenti di macchina nel formato 4/3, Kulumbegashvili riesce a creare una narrazione di straordinario impatto immaginifico. Capacità questa che denota un’evidente consapevolezza della forma da parte della 35enne, nella sua scelta di raccontare una donna ferita all’interno di una società ipocrita e disumanizzata.

Qui non conta ciò che è “mostrato”, “messo in scena” bensì l’effetto che ne deriva sulla protagonista. Sulle tracce ispiratrici di maestri come Tarkovskij e Haneke, ma anche della collega Chantal Akerman, la regista organizza un proprio sguardo originale, già capace di imprimere una cifra espressiva potente e sofisticata, luogo ideale per incoraggiare un dialogo attivo con il pubblico.

Per quanto suoni come un ossimoro, Beginning è un film sulla “distruzione finale” a ogni livello: dall’edificio della comunità al corpo della donna, fino all’annientamento stesso della maternità lungo un viaggio negli abissi della coscienza umana.

La cineasta raggiunge tale punto di non ritorno attraverso un percorso di interiorizzazione del dramma, in cui gli elementi naturali divengono simbolici, i dialoghi si rarefanno mentre a crescere è il caos interiore di una donna pluri-abusata. Dopo i festival di Cannes, Toronto e l’en plein di premi ricevuti a San Sebastian, è nelle sale da giovedì, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Vedere il mondo, essere Bourke-White

Fu, per tutta la vita, la fotografa della prima volta. Dalle vedute aeree dell’America di Roosevelt alla Russia dei piani quinquennali; dalla copertina del primo numero di Life al racconto della “misteriosa malattia” che la colpì a 50 anni non ancora compiuti. Margaret Bourke-White è stata, con la sua capacità visionaria e narrativa, pioniera dell’immagine e dell’informazione. In una vita che, come scrisse lei stessa in Portrait of Myself, “non ha avuto nulla di casuale”. Forse, l’unica cosa che a uno primo sguardo le era sembrata un caso, è stata quando, finito il primo matrimonio, lei, giovanissima, decise di tornare all’università: alla Columbia, a New York, dove aveva seguito qualche anno prima un corso di Clarence H. White, tra i protagonisti della Foto-Secessione americana. “Tornai all’università con una macchina fotografica usata tra le mani, una 3¼ x 4¼ Ica Reflex”, si legge nella sua autobiografia. “A suggerirmi di rimettere in funzione quel vecchio apparecchio fu la vista della cascata. Provai a copiare lo stile flou ed evanescente, ma fu un artigiano della scuola di Clarence a farmi capire che le fotografie non dovevano imitare i quadri. Da quel momento tutto sembrò animarsi, magicamente”. Fu la bellezza delle macchine, agli inizi, a rapirla. “Le forme imponenti, i giganteschi ganci da trasportatori, l’estensione della fabbrica, vasta e oscura. Fotografavo il profilo delle acciaierie che si stagliavano su montagne di ferro e carbone. Cercavo di ottenere il massimo della luce del metallo fuso. Scattavo quelle foto perché non potevo farne a meno”. Era stato il padre, ingegnere, a farle scoprire quell’incanto: “La bellezza delle macchine – le disse una volta – è grande come quella della natura”. Erano i primi anni del Novecento. Lei, unica donna in un mondo di uomini. Nessuno, prima di Margaret Bourke-White, aveva fotografato le acciaierie in quel modo. A notarla fu il fondatore del Time Henry Luce: assunse Margaret come “primo fotografo” per una nuova rivista, Fortune. Lì, lei, frequenterà alcune delle menti più brillanti dell’epoca. All’ultimo piano del Chrysler Building metterà il suo studio. È il 1929, l’anno della Grande Depressione. E della svolta professionale. Nei soggetti della sua fotografia qualcosa cambia: l’approccio diventa quello del reportage, della denuncia. L’anno dopo è in Germania, e poi in Russia, per documentare il piano quinquennale (fu la prima a cui venne permesso di scattare immagini in territorio sovietico e, da allora, in Russia Margaret vi farà ritorno più volte, compreso per l’invasione nazista, nel 1941, unica accreditata fra i fotoreporter americani).

Il 23 novembre 1936 esce il primo numero della rivista Life, che farà la storia del fotogiornalismo. In copertina, la diga di Fort Peck in Montana: scatto di Margaret Bourke-White. Per Life sarà inviata a Buchenwald, il giorno dopo la liberazione. Accanto al reggimento americano sull’Appennino, a Napoli, a Cassino. Tra il ’46 e il ’48, in India, a intervistare e a fotografare Gandhi per ultima, sei giorni prima del suo assassinio. E poi in Sudafrica, e nel Sud povero e pieno di siccità americano. Dal 1953, a impedirle di scattare sarà il Parkinson. L’ultimo suo reportage è quello sulla sua malattia, raccontata grazie alle foto del collega e amico Alfred Eisenstaedt. “Non esiste niente come sentire una nuova storia che nasce”, scriverà a proposito della sua vita a Life. “Trovare qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché oltre a essere un fotografo sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto”.

Prima, donna – M. Bourke-White Museo di Roma in Trastevere, fino al 27.02

“Sing 2”, quando l’animazione rende grande il cinema

Nel 2016 l’animazione Sing conquistò plauso di critica e favore di pubblico, rastrellando 634 milioni di dollari al box office globale. Sceneggiava Garth Jennings, per una regia a quattro mani con Christophe Lourdelet: cinque anni più tardi è rimasto il solo Jennings, sotto il cappello della Illumination di Chris Meledandri, il papà dei Minions e di altre creature entrate nell’immaginario collettivo. Dal 23 dicembre al cinema con anteprime l’11 e il 12, forse il sequel supera addirittura l’originale e attesta come il predominio artistico di Disney-Pixar sia da coniugare al passato prossimo: Illumination sa davvero il fatto suo, Sing 2 annovera perizia stilistica, consapevolezza drammaturgica e sapienza umanista.

Destinato a grandi e piccini, espande nelle forme, nei colori e nella scala la lezione del primo capitolo, ovvero l’importanza di credere in sé stessi e perseguire i propri sogni. Lo fa per interposto koala, l’ottimista e indomito impresario Buster Moon (vociato in originale da Matthew McConaughey), che dopo aver esaltato il New Moon Theatre ora punta il bersaglio grosso: il Crystal Tower Theatre nell’affascinante Redshore City, dove allestire una spettacolosa odissea nello spazio. Al suo fianco il gorilla canterino Johnny, l’indecisa scrofa Rosita, la rocker porcospino Ash, la timida elefantessa Meena, il risoluto porcello Gunter e il vanaglorioso toro Darius (da noi Frank Matano), ma per convincere il protervo boss della Crystal Entertainment, il lupo Jimmy (Bobby Cannavale in originale), toccherà promettere l’impossibile: il ritorno sulle scene della leggenda del rock Chris Calloway (Bono in originale, da noi Zucchero “Sugar” Fornaciari), un carismatico leone ritirato a vita privata dopo la scomparsa della moglie. Riusciranno i nostri eroi a salvare pelle e show dall’oligarca Jimmy Crystal, che peraltro impone la viziata figlia Porsha quale star? Bullizzato dalla nasica coreografo Klaus, Johnny riguadagnerà l’autostima grazie alla deliziosa lince ballerina Nooshy, Meena corteggerà un gelataio, Rosita si proverà coraggiosa, mentre Buster si troverà a penzolare da un grattacielo: proverbialmente, l’unione fa la forza, il battito animale la colonna sonora, dove alla partitura ex novo di Joby Talbot si affiancano le hit di Billie Eilish, Drake, The Weeknd, Prince, Taylor Swift, BTS, Cardi B, nonché tre classici degli U2 e l’inedita Your Song Saved My Life, primo brano della band di Bono dal 2019. Si ride, si sorride e, perfino, si rimane estasiati per lo spettacolo nello spettacolo, un musical di quantità fantasmagorica e qualità curative, che non avrà il potere sovversivo che tradizionalmente compete al genere, ma dispensa garbata revanche e buoni sentimenti: è la dose Buster che ci voleva.

Insomma, la migliore apertura possibile, iersera, per la 39esima edizione del Torino Film Festival, in programma sino al 4 dicembre sotto la direzione di Stefano Francia di Celle.

 

Centro di gravità Battiato. Ricordi, interviste, manie e amici

Presentiamo alcuni estratti dal libro L’alba dentro l’imbrunire. Una storia illustrata di Franco Battiato, a cura di Francesco Messina e Stefano Senardi (Rizzoli Lizard). Sedici capitoli sulla sua musica e sui temi che gli erano cari: il cinema, il teatro, i libri, i viaggi, la sua inesausta ricerca spirituale, attraverso la sua stessa voce e quella di chi ne ha condiviso il cammino.

Eravamo tutti squattrinati, ricordo un amico chitarrista che doveva pagare l’affitto il giorno dopo e non aveva un soldo. Franco ha preso centomila lire di allora e gliele ha date così, davanti a me. (Roberto Cacciapaglia)

I rituali a casa Battiato di Milo sono sempre gli stessi, scanditi da orari precisi. Quando c’erano molti ospiti Franco, all’una in punto, suonava la campana della piccola chiesa annessa alla casa. Adunata generale a tavola per il pranzo sempre alla stessa ora. Poi riposino. Lui ogni giorno nel tardo pomeriggio si ritira per l’ora della meditazione e nessuno lo può disturbare. (Grazia Coccia)

Come scrittori si può essere Testimoni di sé stessi o Testimoni della Collettività. Franco lo è di entrambi. (Gesualdo Bufalino)

Meglio non farlo arrabbiare! Detestava le perdite di tempo. Per certi versi era persino intransigente e per contro altre volte era quasi incapace di dire di no. (Alice)

L’affetto, per me, è il sentimento che di più si avvicina alla verità, pur nella sua apparente parzialità. I difetti appartengono alle personalità, e scompaiono appena finiscono i suoi fenomeni, o non appena si oltrepassano i limiti della materia. (FB)

Durante l’estate era un viavai di visitatori, dal vicino di casa Lucio Dalla ai musicisti di passaggio, a fanciulle locali accompagnate dai genitori che portavano in dono succulenti vassoi di cannoli e paste di mandorle. Pretendenti alla mano del famoso “cantante” ancora scapolo d’oro… Ridevamo di cuore… anche perché Franco non aveva alcuna intenzione di sposarsi. (Grazia Coccia)

Altro genere di vertigine, invece, colse Franco a New York quando ci trovammo in cima alle Torri Gemelle… a quel punto lui disse: “Basta con queste altezze! Stiamo coi piedi per terra”. (Juri Camisasca)

Non posso dire di aver mai sentito o visto Franco emozionato prima di salire sul palco, lui sapeva perfettamente cosa voleva trasmettere e lo faceva coscientemente e oggettivamente sempre, cantando con un sentimento puro che generava lo stesso in chi l’ascoltava con una precisione nell’intonazione direi assoluta. (Alice)

Voglio vendere ma non svendermi. (FB)

Non lo vedevo da un po’ quando un giorno lo incontrai per caso in centro, a Milano. “Che stai facendo?”. “Ho appena finito un album di musica classica per poveri”. (L’era del cinghiale bianco, ndr – Riccardo Bertoncelli)

Amava il mare di ottobre. Raccontava barzellette. Odiava il jazz. (Marco Mangiarotti)

L’ombra della luce. A proposito di quest’ultima più volte lui stesso ha raccontato del piccolo gazebo che aveva fatto costruire nel suo giardino, dove andava spesso a meditare. Ci teneva una sedia e un harmonium e capitò che, un po’ alla volta giorno dopo giorno, gli era “arrivata” la canzone, musica e testo insieme, solo mettendosi in un certo stato d’animo. “Cose che capitano raramente” si affrettò ad aggiungere.

Mangio e vivo da solo anche se fortunatamente sono contornato da persone che mi accudiscono; e questo è una fortuna. Però mangio da solo, ed è una cosa che mi piace proprio. (FB)

Franco in un’intervista affermò che per una questione di principio sarebbe stato disposto a mandare a gambe all’aria tutta la sua carriera. (Mino Di Martino)

C’è stato anche un periodo in cui lo accompagnavo alle mostre o a qualche asta, soprattutto di quadri e tappeti antichi… era così affascinato dall’arte del tappeto che a un certo punto si era persino iscritto ad un corso specifico che si teneva fuori Milano. (Alice)

Ho vissuto anni stupendi dentro una stanza. Si sta molto bene quando si approfondisce qualcosa, quando si scava. (FB)

Per lui erano importanti solo due cose: prima di tutto, l’arte musicale. Non gli interessava particolarmente la popolarità e questa sua onestà traspariva in modo netto nel suo lavoro. In secondo luogo, amava l’ora di pranzo. Verso le 12.30/13.00 iniziava a diventare irrequieto e a cercare un buon posto dove mangiare. (Gavin Harrison)

Una notte, ero sicuro di morire (più del solito). Giunto al massimo mi lasciai andare, accettando tranquillamente l’idea della morte, quando all’improvviso cominciai a sentire un’energia inequivocabile che, partendo dalla testa, si stabilizzò presto in tutto il corpo, portandomi una serenità e una gioia che non immaginavo neanche potessero esistere. (FB)

A una certa ora del pomeriggio mi diceva regolarmente: “Andiamo a fare un giro nel parco, così vediamo il tramonto”. Così aspettava l’imbrunire, l’ora più bella come la definiva e in cui ha poi sempre amato ritirarsi. Si immergeva in un raccoglimento silenzioso e meditativo. (Alice)

Politicamente? Sono un proletario dello spirito. (FB)

“I giornali, noi donne e la lotta ai polpettoni in stile Hemingway”

Martha e Lilli, due donne e un secolo in mezzo. Eppure hanno un sacco di cose in comune, per esempio due mamme fuori dal comune che hanno messo nella loro educazione il seme dell’autonomia. Ma anche il mestiere di giornalista e un grande amore, nato nel luogo dove la morte splende: il fronte di una guerra. Si sono incontrate la prima volta grazie a un libro – Per chi suona la campana di Ernest Hemingway – dedicato “a Martha Gellhorn”. Così Lilli scopre la più grande inviata di guerra del Novecento, terza moglie di Hemingway, l’unica capace di tenergli testa. Allora si sono incontrate di nuovo, in un altro libro che s’intitola La guerra dentro. Martha Gellhorn e il dovere della verità.

Lilli, Martha aveva bisogno di “andare a vedere” le cose per raccontarle. Giovanissima si guadagna uno scalcagnato passaggio verso l’Europa in cambio di un articolo su una nave a vapore: era il 1929. Oggi il giornalismo ha meno ansia di “andare a vedere” e forse più di farsi vedere?

Sono passati cent’anni e sono arrivati i social, oggi farsi vedere è uno stile di vita. Di persone che provano un interesse smodato per il proprio ombelico ce ne sono parecchie, non solo nel giornalismo. Però, per i giornalisti, è grave: se ti convinci di essere la notizia finisce che ti dimentichi di dare le notizie. Dobbiamo coltivare rigore e curiosità, due qualità fondamentali del nostro lavoro. Ma attenzione: i buoni giornalisti non li porta Babbo Natale: vanno formati e valorizzati. Dopo quel primo viaggio rocambolesco da esordiente, Martha Gellhorn ne fece altri, da professionista, tra cui la guerra in Finlandia e la sua bellissima “luna di miele” con Hemingway in Cina. Furono ben organizzati, spesati e retribuiti grazie a una grande testata giornalistica, Collier’s. Ai giovani inviati oggi magari non manca la voglia di andare a vedere, ma le risorse per farlo. Troppo facile dare la colpa ai singoli, o al pubblico, per le distorsioni del sistema. Più impegnativo correggerle, ma bisogna. Perlomeno se vogliamo salvare il giornalismo di qualità e con esso le nostre democrazie.

Martha è stata anche collega di Hemingway, entrambi hanno raccontato lo sbarco n Normandia. In che modo erano diversi?

Opposti: lui si metteva al centro di ogni storia, lei metteva al centro le storie. Lui inventava dialoghi e situazioni per rendere più avvincenti le sue narrazioni, lei sapeva raccontare la realtà dei fatti rendendola più avvincente di qualsiasi narrazione. Guardiamo i loro due reportage dalla Normandia. Quello di Hemingway è una specie di polpettone di guerra con lui come protagonista e uomo chiave: sembra che su una nave carica di soldati fosse l’unico a saper leggere una mappa militare. Quello di Gellhorn è un resoconto senza fronzoli, ricco di dettagli realistici e testimonianze di prima mano, da cui però emergono immagini ed emozioni così vivide che è come guardare un film, anzi è come esserci dentro, al film. Dettaglio non trascurabile: Hemingway e la sua barca fecero dietrofront sotto il fuoco nemico e in Normandia lui non sbarcò mai. Gellhorn, invece, scese dalla scialuppa nell’acqua alta e quella spiaggia martoriata la calpestò davvero.

La Gellhorn è stata la prima a raccontare la guerra dal punto di vista di chi non aveva voce: le donne, i bambini, la popolazione civile. È una questione di sguardo?

Diamo atto a Hemingway che fu un suo suggerimento. Quando la giovane Gellhorn arriva a Madrid nel 1937 non è una giornalista. Vuole diventarlo, vuole “stare con i ragazzi”, ovvero i grandi intellettuali che raccontavano la Guerra civile spagnola: oltre a Hemingway c’erano Dos Passos, Robert Capa e Gerda Taro e altri. È un capitolo romantico della sua vita – e del libro – ma prova anche molta incertezza. Si chiede: cosa ci faccio qui? Non è certo andata in Spagna solo per dividere il letto con Ernest, che peraltro a letto non è un granché. Così le chiede consiglio e lui le dice: racconta quello che sai. Sottinteso: tu che sei “solo” una donna, e di strategie militari non capirai mai nulla, scrivi delle vittime civili. Martha gli dà retta, e trova la sua cifra. Superando il maestro. Non credo che questa cifra avesse a che fare con il suo essere donna, tanto è vero che poi diventerà brava quanto Hemingway anche a raccontare i movimenti di truppe e a spiegare i risvolti geopolitici. Forse però un uomo non avrebbe avuto l’umiltà di accogliere il suggerimento e il coraggio di mettersi in gioco. Anche oggi, in parte la forza femminile credo abbia a che fare con il mettersi in discussione, cercare la propria strada e la propria dimensione senza dover per forza fare a chi ce l’ha più lungo.

Per gli inviati di guerra la strada è sempre stata in salita. Più per le donne: è ancora così?

Ai tempi di Martha alle donne era vietato andare al fronte: più in salita di così! Lei si imbarca clandestinamente, sulla nave ospedale per la Normandia, e al ritorno rischia di non riuscire più a lavorare, finisce confinata in una caserma. La mia esperienza non è stata così estrema e anzi la Guerra del Golfo è stata una delle prime in cui si è vista la presenza di un nutrito drappello di inviate. Oggi nessuno si stupisce se è un volto femminile a raccontare i fronti caldi del pianeta. Ma quanti direttori di grandi quotidiani e reti televisive sono donne? Quanti ceo di grandi gruppi editoriali? Questo è il vero campo di battaglia: la presenza delle donne ai vertici. E finché non saremo 50-50, non dobbiamo deporre le armi.

Da una trincea all’altra: lei conduce Otto e mezzo da 14 anni. Il confronto più difficile da gestire?

In studio nessuna difficoltà. Nella preparazione delle puntate trovo faticosa la pretesa, da parte di certi personaggi – non solo politici – di decidere il contesto dell’intervista, per esempio cercando di imporre chi debbano essere gli altri ospiti. Pretesa che a Otto e mezzo viene invariabilmente rintuzzata, a volte a prezzo di discussioni sfinenti e inutili: la mia è una trasmissione giornalistica, non un menu à la carte.

Perché Mario Draghi non va in tv e non rilascia interviste?

Less is more, dicono gli inglesi: probabilmente ritiene di essere più efficace così. Da giornalista, però, non solo mi piacerebbe poterlo intervistare, ma credo che il confronto con la stampa libera sia importante per un capo di governo: non bastano le rare conferenze stampa. Diciamo che accettiamo la temporanea indisponibilità del nostro premier come uno dei tanti sacrifici imposti dalla pandemia.

Ultima: come ha convinto suo marito Jacques, che sembra un tipo riservato, a farsi intervistare in un capitolo del libro?

Come Sheherazade: creando l’atmosfera di una serata di vino e storie. Solo che invece di raccontare io le storie, le ho fatte raccontare a lui. È stato per 30 anni corrispondente di guerra dell’Afp, in Ciad, in Iran, a Beirut, Baghdad (dove ci siamo conosciuti) e Sarajevo. Sono venute fuori avventure degne di un romanzo di Ian Fleming: è il capitolo più lungo del libro. Alcune vicende non le conoscevo e dopo vent’anni di matrimonio è un grande regalo che tuo marito riesca ancora a sorprenderti. A giudicare dai messaggi delle lettrici e dei lettori, non ha sorpreso solo me.

Montefiascone, Comune contro la costruzione del parco eolico

Il Comunedi Montefiascone, in provincia di Viterbo, ha preso una posizione netta contro la costruzione di un parco eolico che dovrebbe sorgere nella zona agricola del paese. In un comunicato stampa l’amministrazione ha denunciato che l’impianto fa parte della “speculazione energetica che negli ultimi anni sta radicalmente stravolgendo la Tuscia”. Anni in cui sono stati presentati 51 progetti di campi fotovoltaici, in gran parte approvati, la cui realizzazione ha coperto nel complesso oltre 2.100 ettari fra terreni agricoli e boschi.

“Meglio cagna viva che gatta morta” Poi cancella i post

Si possono immaginare diverse spiegazioni per quanto accaduto ieri: la prima è che la famosa influencer Chiara Ferragni abbia davvero pubblicato senza pensare alle conseguenze la storia di Instagram e il tweet scomparsi dopo poco; la seconda che sia stata una trovata pubblicitaria per far parlare del disco del marito Fedez, la terza che non sia stata ammessa dalla piattaforma. Certo è che i post contenevano una frase poco in linea con il messaggio di forza e inclusione femminile che Ferragni fa trapelare dagli spot per cui presta volto e fama. “‘Meglio una cagna viva che una gatta morta’ come mantra della vita” ha scritto sui suoi social, a corredo di un suo selfie. La citazione è dal testo di una canzone (con Myss Keta) del disco di Fedez . Una reazione alle offese alle donne? Nel caso, non è stato certo compreso. Ci sono state proteste, non molte, e alcuni commenti. Poi basta. Il tweet e la storia sono semplicemente scomparsi dalla timeline, per ricomparire come screenshot. Sul web, Ferragni lo sa, non si butta via nulla.

Zemmour non frena lo scoop di Closer: “Collaboratrice incinta”

Nel 2022il celebre polemista francese Eric Zemmour diventerà padre: invano, il politico ha tentato di impedire l’uscita di un articolo del settimanale Closer sulla presunta gravidanza della sua giovane consigliera e compagna, Sarah Knafo. Nata nel 1993, la Knafo è un’alta funzionaria pluridiplomata nelle migliori scuole di Parigi. I legali del polemista di estrema destra, che continua ad alimentare la suspense su una sua possibile candidatura all’Eliseo, hanno querelato il settimanale di gossip, (già noto per scoop di portata planetaria come la relazione tra l’ex presidente Francois Hollande e l’attrice Julie Gayet). La richiesta degli avvocati, Olivier Pardo e Simon Olivennes, che denunciavano un “grave oltraggio alla privacy”, è stata respinta. Scattata alla vigilia dell’uscita dell’ultimo numero di Closer, è stata ritenuta irricevibile dai giudici.