“Beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti” si legge in Giuda, uno dei capolavori di Amos Oz, lo scrittore israeliano scomparso nel 2018. Non a caso il kibbutz è un tòpos della sua letteratura. Svariate le opere in cui ha raccontato l’utopia di una vita allo stato primitivo, a contatto con la terra, senza scambio di denaro e con il tabù della proprietà. In quelle comunità rurali a gestione collettiva, battezzate dal sionismo laburista, la scommessa è stata vertiginosa: cambiare la natura umana, neutralizzare egoismo e crudeltà con l’eguaglianza. Un’illusione che nessuno meglio di Oz ha saputo rappresentare sulla pagina.
Adolescente – in rotta con il padre dopo il suicidio della madre – andò a vivere proprio in un kibbutz e ci restò per trent’anni. Ecco allora che risuonano peculiari i dieci racconti di Le terre dello sciacallo, suo esordio del 1965 finora inedito in Italia, in libreria per Feltrinelli. È come tornare alle radici della sua scrittura e ricalibrare con un senso critico più compiuto tutte le sue prove successive. Nove storie (la decima ripercorre la parabola biblica di Iefte) che si smarriscono nella vastità di deserti ostili e che pure sembrano riecheggiare certi toni da tragicommedia della nostra provincia: si sa tutto di tutti, i segreti non resistono all’alba, il male e il bene si mescolano in oasi di ambiguità. Si avverte l’eco di un Dio dispotico che concede la sua grazia a un figlio e a un altro la nega (vedi Isacco e Ismaele nella genesi del popolo ebraico).
C’è poca luce in queste storie, le righe affondano in notti dove “tutti i predatori dormono, ma non hanno il sonno profondo”. Si sentono gli ululati degli sciacalli che, “come sacerdoti neri a una cerimonia del lutto”, divorano gli uomini e le donne che provano a mettere un piede fuori dal cerchio. È l’umanità che cade il concime di queste Terre dello sciacallo: la relazione tra una ragazza e un uomo che potrebbe rivelarsi il suo padre biologico; un intellettuale costretto a subire l’umiliazione di un figlio paracadutista pavido; un eroe militare locale e un infermiere da campo arresi davanti alla lezione di un monastero trappista: “Le parole sono alla radice del peccato. Senza parole non c’è menzogna.”; un membro del kibbutz che, lasciato l’insediamento, trascorre il tempo a creare mappe di porti immaginari; un anziano professore e suo figlio, entrambi in procinto di nozze, che si nascondono la verità; un kibbutz danneggiato da una strana tempesta e una vecchia signora che vuole pubblicare le lettere del marito morto nella guerra civile spagnola.
Nella storia tra un artigiano filatelico e una poetessa scorre il senso di queste trecento pagine: “Anche Dio ci raccoglie uno alla volta, mette ordine, ci incolla nel suo album e si gode l’armonia misteriosa che c’è dietro le nostre sofferenze”. Non si distingue nemmeno chi si è sacrificato per gli altri, come nella storia di un meccanico la cui tomba “non è diversa dalle altre.” La parabola di Iefte – nomade e figlio di una prostituta che riuscirà a diventare giudice di Israele – chiude il libro, richiamando la metafora sull’identità che Amos Oz ha disseminato nella sua bibliografia: “Sono straniero, da straniero ho vissuto tutti i giorni della mia vita”.
Le terre dello sciacallo – Amos Oz, Pagine: 272, Prezzo: 18, Editore: Feltrinelli