Il premier odia i referendum e vuole privatizzare tutto

Nel nostro Paese si sta aprendo una nuova stagione di privatizzazioni nonostante il chiaro insegnamento della pandemia: il mercato non protegge, separa persone e comunità, non riesce a garantire diritti fondamentali, a partire da quello alla salute.

Evidentemente il governo Draghi preferisce trascurare questa lezione adoperandosi per aprire il settore dei servizi pubblici locali al mercato. La strategia adottata è ben più articolata e subdola rispetto al passato. Oggi si utilizzano strumentalmente il Pnrr e le “riforme abilitanti” per aggirare l’esito referendario del 2011. Il Pnrr punta a realizzare una vera e propria “riforma” nel settore idrico fondata sull’allargamento verso Sud del territorio di competenza di alcune grandi aziende multiservizio quotate in Borsa che vengono identificate come gestori “efficienti”, ma che in realtà risultano tali solo nella massimizzazione dei profitti mediante processi finanziari. Il ddl Concorrenza, licenziato il 4 novembre dal Cdm, rientra tra le condizionalità imposte dalla Commissione europea per l’erogazione dei fondi del Pnrr e ha finalità esplicite: rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, all’apertura dei mercati. Si tratta di una serie di norme ispirate da un’evidente ideologia neoliberista in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il contrario, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, delle perdite delle reti, dei consumi e dei prelievi, a fronte di investimenti insufficienti, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia.

Gli enti locali che opteranno per l’autoproduzione del servizio saranno costretti a “giustificare” (letteralmente) il mancato ricorso al mercato e dovranno dimostrare le ragioni di tale scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust. Mentre per i privati la strada è in discesa, avendo solo l’onere di produrre una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati. Inoltre, si prevedono incentivi per favorire le aggregazioni indicando così chiaramente che il modello prescelto è quello delle grandi società multiservizi quotate in Borsa che diventeranno i soggetti monopolisti (alla faccia della concorrenza!) praticamente a tempo indefinito. In ultimo, questa norma rischia di restringere fortemente il ruolo degli enti locali, espropriandoli di una loro funzione fondamentale come la garanzia di servizi essenziali e dei diritti a essi collegati, per cui da presidi di democrazia saranno ridotti a meri esecutori della spoliazione della ricchezza sociale.

D’altronde, Draghi non ha mai dissimulato la volontà di voler contraddire l’esito referendario. Il 5 agosto 2011, solo un mese e mezzo dopo lo svolgimento della consultazione, in qualità di governatore della Banca d’Italia firmò, insieme al presidente della Bce Jean Claude Trichet, la lettera all’allora presidente del Consiglio Berlusconi che indicava come necessarie e ineludibili “privatizzazioni su larga scala”. Oggi Draghi, da premier, cerca di realizzare questo obiettivo, incurante che il combinato disposto del ddl Concorrenza e Pnrr si configuri come un attacco alla volontà popolare che nel 2011 hanno indicato una strada diametralmente opposta: lo stop alle privatizzazioni e alla mercificazione dell’acqua. È necessario che su questi temi si sviluppi un onesto dibattito pubblico, anche a livello parlamentare. In questi ultimi dieci anni si è sviluppata un’interessante riflessione sui servizi pubblici e sui beni comuni che ha individuato in essi un valore fondante della società, senza i quali ogni legame diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte.

 

 

Il patto Draghi-Macron è il trionfo del segreto

Si è parlato più volte, nella scorsa settimana, del Trattato italo-francese di cooperazione – il cosiddetto Trattato del Quirinale – che Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno firmato ieri al Quirinale. Ma se ne è parlato per giorni come se si trattasse di un tesoro nascosto, da custodire in stanze chiuse, impenetrabili. Il testo non era disponibile a chi volesse esaminarlo o magari criticarlo, anche perché nessuno dichiarava di volerlo. Il Trattato veniva ripetutamente definito segreto, come fossimo alla vigilia di qualche terribile guerra e occorresse osservare la consegna del silenzio al massimo grado, per evitare che il nemico ascoltasse. Chissà cosa poteva succedere nelle avanguardie o nelle retroguardie, se qualche bozza fosse trapelata e un giornale l’avesse intempestivamente pubblicata.

Sono in gioco interessi potenti – geopolitici, finanziari, economici, legati ai rispettivi complessi militari-industriali – e questo spiega il recinto oligarchico che fino a ieri ha avvolto l’illustre evento. La cosa stupefacente non è il recinto e non è l’oligarchia: siamo abituati ai recinti, alla non trasparenza e alle democrazie oligarchiche. Stupefacente è la naturalezza con cui giornalisti, diplomatici ed esperti danno per scontate e accettano benevolmente, fino al giorno della firma di un Trattato, la segretezza e la non trasparenza dei negoziati che l’hanno prodotto.

Eppure non erano mancate alcune vigili messe in guardia. Quella di Romano Prodi ad esempio, che confida a La Stampa i suoi timori per una Francia sempre più tentata dal sovranismo alla vigilia delle Presidenziali del 2022 (inseguendo Eric Zemmour e Marine Le Pen, tutto il centrodestra imbocca la via polacca e rivendica il primato del diritto francese su quello europeo, specialmente sulle migrazioni: questo è oggi il sovranismo francese). O la messa in guardia dell’economista Carlo Pelanda, che agli inizi di novembre esamina in un’intervista a Sussidiario.net alcuni “leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina” e si domanda: “Che senso ha oggi firmare un trattato bilaterale a 360 gradi con la Francia in un’Europa dove l’Italia e le altre nazioni avrebbero semmai l’interesse opposto, quello di depotenziare il trattato franco-tedesco dell’Eliseo che guida l’Europa dal 1963?”. A cosa serve la frantumazione dell’Unione europea in aree potenzialmente separate, dai Nordici ai Paesi del gruppo Visegrad a Est?

Un Trattato simile, che impegna i contraenti a cicliche pre-consultazioni bilaterali ogniqualvolta vengono prese decisioni dai rispettivi governi e viene convocato un vertice europeo, non dovrebbe essere segreto, almeno in tempi di pace. Le bozze del Trattato dovrebbero essere discusse, eventualmente emendate, nelle Camere e anche sulla stampa, non al momento della ratifica parlamentare, ma prima. Non si dovrebbe fare esclusivamente ricorso ai leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina. Soprattutto se le parti non prendono alcun impegno comune sulle questioni migratorie, dunque sull’accoglienza, la redistribuzione e l’integrazione dei richiedenti asilo che approdano in Italia, ma ci si limita a preconizzare pseudosoluzioni come il “contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare” (articolo 1 del Trattato). Soprattutto se c’è il sospetto di un trattato asimmetrico, e addirittura, come scrive ancora Pelanda sconsigliando la firma, di “un’autoannessione alla Francia, industriale e strategica. Edulcorata ma sostanziale” (“All’occhio attento non sfugge che i tecnici francesi mostrano di sapere benissimo cosa vogliono, mentre quelli italiani sono spaesati, cercano di fare controproposte che sono deboli perché prive di prospettiva. C’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante”).

La naturalezza con cui si accetta tale opacità è la stessa con cui, ormai automaticamente e sistematicamente, e ben più che in altri Paesi dell’Unione, si va dicendo che ogni sorta di riforma italiana legata al Pnrr, o di decisione politica, s’impone “perché l’Europa lo chiede, lo vuole”.

Perché l’Europa “ci sottrarrà i soldi del Recovery Plan” in caso di non adempienza. Significativo ci pare quel che Chiara Saraceno afferma nell’intervista rilasciata a Carlo Di Foggia, venerdì, su questo giornale: tutti i suggerimenti sul Reddito di cittadinanza presentati dal Comitato di esperti da lei presieduto “sono stati ignorati dall’esecutivo”, compresa la proposta di ridurre la durata di permanenza in Italia di migranti che desiderano ricorrere al Reddito: per quanto riguarda “la proposta sugli stranieri ci è stato perfino detto che era ‘improponibile’ per motivi politici e che si preferisce aspettare che sia l’Unione europea a risolvere il problema sanzionandoci”.

Ecco come stiamo messi in Europa, nei rapporti con i singoli Paesi alleati, e di certo anche nella Nato: siamo lì in attesa di “annessioni”, di ordini, sperando in sanzioni il giorno in cui si constaterà che abbiamo sbagliato o i conti o le leggi.

Perfino la data delle elezioni viene fatta entrare nelle chiuse stanze dell’opacità che decidono, in segreto e chissà in quale sede, dei nostri destini.

In questi mesi che precedono la scelta del successore di Mattarella non si parla d’altro: delle elezioni, anticipate o no. Se ne parla nei giornali, nei talk show. Ma aggiungendo ogni volta, sotto forma di monito o di leak, che “l’Europa le elezioni proprio non le gradirebbe”. Perché? In vista di quale guerra incombente, che impone di ignorare le procedure costituzionali e di tener cucite le bocche e le urne?

 

I migliori programmi tv: “Tiger kings” e il rilancio del comunismo sovietico

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

NETFLIX, streaming: Tiger King, docuserie. Scusate se interrompo la lettura del Fatto con qualcosa di rilevante, ma è arrivata la seconda stagione di una serie al cui confronto Gomorra è Kiss me Licia. Riassunto delle puntate precedenti: il gruppo Bilderberg vuole rilanciare il comunismo sovietico per sostituire le defunte politiche neo-liberiste purché nulla cambi, e approva uno storytelling, ideato dalla Scuola Holden, i cui protagonisti sono Lenin Exotic, eccentrico cantante country allevatore di tigri, un violento psicopatico con baffi lunghi, capelli biondo tinto, body attillato sbracciato di lycra animalier, pistola al cinturone, vari tic palpebrali, e un ghigno stampato sul volto; e la sua arci-nemica, Rosa Luxemburg, un’animalista diventata milionaria dopo la morte misteriosa del marito, padrone di uno zoo. L’auspicio di autori e committenti è che la bella pensata faccia andare in fissa le masse contemporanee (quali? tutte) avide di guilty pleasure e malate di voyeurismo morboso. L’altro rivale di Lenin è Trotsky, un sedicente ‘amante dei gatti’ che realizza ‘safari’ a San Pietroburgo con l’aiuto di bellissime minorenni che intrattengono relazioni saffiche mentre lui sta a guardare masturbandosi. Il dubbio businessman Pierre Lafargue, dirigente del Partito Operaio Francese, nonché genero di Karl Marx, entra in scena per salvare il parco di Lenin Exotic dalla bancarotta, e finisce per rilevarlo lui stesso. Nel frattempo, Lenin sposa Nadežda Krupskaja, una donna snervante, sempre pronta con l’improvvisa emicrania e la fulminea aspirina. Finito in galera per aver cospirato un assassinio nei confronti di Rosa Luxemburg (piano fallito perché il sicario, Pedro Pasanada, al momento di premere il grilletto del Mannlicher-Carcano inghiottisce una vespa e sbaglia, colpendo alla tempia il mimo che alle spalle della donna distratta la stava scimmiottando fra le risate dei presenti), Lenin è accusato inoltre di aver cercato di ricreare un’antenata preistorica dei grandi felini, la tigre di Sabertooth, estintasi 11mila anni fa (incisivi lunghi come zanne), facendo accoppiare una tigre con sua suocera. La nuova docuserie ripercorre i momenti salienti della biografia di Lenin, a cominciare dai suoi genitori aristocratici e anaffettivi (“Non mi hanno mai detto ti voglio bene”, confesserà anni dopo, in una celebre intervista a Playboy, dove raccontò pure di essere stato violentato a 5 anni da un ragazzino più grande, Georgij Plechanov, poi diventato un famoso teorico marxista), genitori che lo costringevano a trascorrere i mesi estivi in una stazione idroterapica alla moda, a smerigliarsi le tubature intestinali con sorsi ben calcolati di acqua nauseabonda. La madre, Marija Alexandrovna Blank, ci teneva a sembrare complicata e indecifrabile, ma il più delle volte era solo stronza; il padre, Ilja Ulianov, un costoso baritono del foro, quando parlava alla moglie aveva sempre l’aria di chiederle scusa, ma quando parlava agli amici aveva sempre l’aria di chiedere scusa di avere una moglie come quella. Lenin li odiava entrambi alternativamente, e inventerà la rivoluzione d’ottobre soprattutto per rovinarli. Iscrittosi a legge, viene espulso dall’università per attività sovversiva (copiava le rivoluzioni dal vicino di banco, Allan Königsberg, che oggi è un anziano confuso, ghiotto di soufflé provenzali). In vacanza a Stresa con la famiglia, Lenin conosce infine i coniugi Livanov, due attivisti implicati nell’affare Kovalskij, che gli insegnano a fabbricare le molotov con le bottigliette di Johnny Walker del frigobar. “La parte difficile, quando si è infelici, è restare modesti”: quanta verità, nel claim del programma.

 

Il rompicapo dei pass: cento combinazioni

L’uomo del bar mi fa: lei che è giornalista sa dirmi se posso servire clienti non vaccinati al bancone, o se basta la mascherina? Allargo le braccia. Dipende se siamo in zona bianca o gialla, interviene uno più informato. No, scuote la testa un terzo, ma non sa spiegare perché. Tanto poi chi controlla? (e mi dileguo all’italiana). Sul benemerito Corriere della Sera

trovo la guida dal titolo: “Dove serve il Green pass ‘base’ o ‘rafforzato’”. Perfetto. Conto trentacinque risposte su trentacinque interrogativi principali. Cerco di memorizzare incrociando i dati suddivisi per categorie. Vediamo: Green pass, Super Green pass, vaccinati con una dose, con due dosi, con tre dosi, no vax, no pass, tampone molecolare (durata 72 ore), antigenico (48 ore), zona bianca, gialla, arancione, rossa, senza mascherina, con mascherina. Quindici modalità che con un semplice calcolo producono circa un centinaio di combinazioni-base.

Per esempio: se sono un no-vax che ha fatto il tampone antigenico, munito di Green pass “non rafforzato” posso entrare, provvisto di mascherina, in una palestra ubicata in zona gialla? Poi, c’è la variabile connessa alla vaccinazione dei bambini da 5 a 11 anni. Mettiamo una coppia con lei vaccinata e lui no ma provvisto di mascherina. Possono prendere posto sul treno che conduce da una zona bianca a una gialla con il figlioletto di sette anni, anche se vaccinato ma con una leggera alterazione febbrile?

Come si vede, si tratta di elementari quesiti che l’apposito comitato tecnico scientifico provvederà a chiarire quanto prima attraverso un agile prontuario della dimensione del dizionario Rocci di greco, distribuito in tutti gli esercizi pubblici e nel mio bar. Nel frattempo le varie ipotesi saranno dibattute nel corso di un talk chiarificatore con il professor Galli, la sora Cesira e il tizio che prende a testate i giornalisti. Viene in mente la celebre frase: grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente. Mao Tse-Tung? No, Mario Draghi.

La guerra Vivendi-KKR in breve: meglio smembrata o com’è ora?

Circa un mese fa, il titolo azionario di Tim era ritornato ai minimi degli ultimi 25 anni. Con la diffusione dei dati del terzo trimestre (sotto le attese del mercato), le quotazioni si erano riportare ai livelli minimi dell’ottobre 2020 e Vivendi, primo azionista col 23,8%, ha avviato la sua guerra all’amministratore delegato Luigi Gubitosi, che aveva assunto la carica nel 2018 grazie al blitz in cda del fondo Elliott (aiutato dalla Cdp), che si è conclusa con l’estromissione del manager.

Nella partita tra l’azionista di maggioranza e Gubitosi si è inserita però una singolare offerta d’acquisto del fondo Kkr, che ha presentato al Cda una semplice “manifestazione d’interesse” che pareva più una sponda per difendere la posizione dell’Ad piuttosto che una seria offerta d’acquisto. Adesso che Gubitosi è fuori dai giochi vedremo che fine farà questo interesse e come si concluderà questa ennesima puntata nella travagliata storia dell’ex monopolista dei telefoni.

Una storia passata da una privatizzazione mal concepita e mal gestita al più grande leverage buy out condotto in Europa, che l’ha caricata di debiti, fino alla schizofrenica gestione Pirelli che ne ha ancor più appesantito la struttura finanziaria: gestioni che ne hanno segnato il destino per gli anni a venire con investimenti industriali in calo, dismissioni di asset e perdite di quote di mercato e di fatturato. Negli ultimi 15 anni poi, i passaggi dal controllo di Telefonica all’azionariato diffuso e quindi al controllo Vivendi non sono riusciti a invertire questa tendenza. La società, ancora troppo carica di debiti, viene da anni di ricavi in calo e pressioni sui prezzi, che l’hanno portata a valere, prima dell’offerta Kkr, intorno i 6,5 miliardi di euro: un sesto di quanto valeva all’epoca della privatizzazione e poco più di un decimo di quanto Colaninno e i “capitani coraggiosi” la valutarono nel 1999.

Togliendo la partecipazione in Tim Brasil (3,5 miliardi), Inwit (1,8 miliardi) e FiberCop (2,8 miliardi secondo il prezzo dato da Kkr per acquisirne il 38% proprio da Tim), il mercato riteneva che tutte le restanti attività – dai servizi di telefonia fissa e mobile ai contenuti digitali fino ai servizi Ict a più alto valore aggiunto – non fossero sufficienti a coprire l’indebitamento finanziario netto.

In effetti i profit warning e la revisione al ribasso della guidance annunciati nelle ultime due relazioni di luglio e ottobre non giustificano un sentiment differente: il mercato italiano si mantiene estremamente competitivo con le tariffe tra le più basse d’Europa, gli incentivi alle famiglie per l’adozione della fibra tardano ad arrivare e infine i primi risultati dell’accordo con Dazn sono disastrosi.

La valutazione data da Kkr nella sua proposta è coerente col range di prezzo (tra 0,45 a 0,60 euro per azione) che gli analisti ritenevano raggiungibile nel medio termine, e in linea coi multipli ai quali quotano società comparabili come Telefonica o Orange. Quindi gli americani cosa potrebbero ottenere in più alla valutazione data dagli analisti? Il fondo Kkr & C., nato nel 1977, è diventato famoso negli anni 80 per una serie di acquisizioni di aziende sottovalutate dal mercato, compiute con la tecnica del leverage buy out. Anche Tim sembra una preda perfetta. Il valore di mercato di metà novembre era circa il 25% di quello contabile, perché l’ultimo semestre di gestione Gubitosi, con l’investimento sul calcio che sta pesando per centinaia di milioni sui risultati del gruppo, ne ha depresso sensibilmente le quotazioni. L’ipotesi di un intervento che ne valorizzi le singole parti, nella logica del cosiddetto “spezzatino”, potrebbe offrire interessanti prospettive di guadagno.

Si pensi soltanto alla possibilità di sfruttare la tanto annunciata integrazione con Open Fiber per procedere allo spin-off e quotazione della nuova unità una volta che i fondi del Pnrr abbiano dato ulteriore slancio ai ricavi e ai margini della divisione reti. Una integrazione che potrebbe essere utilizzata anche per trasferire all’esterno della società, e magari sotto il controllo dello Stato, pure il personale in eccesso. Si potrebbe poi puntare sulla valorizzazione per via autonoma della divisione per i servizi cloud, che secondo alcuni analisti, nelle ipotesi più estreme, potrebbe arrivare a valere oltre 5 miliardi. C’è poi il classico taglio della forza lavoro: abbassandola del 20% si genererebbe un margine lordo aggiuntivo di circa 450 milioni e 2,3 miliardi di valore d’impresa. Insomma, si stima che – sotto una serie di condizioni favorevoli – la valorizzazione e cessione per parti delle attività più promettenti e la ristrutturazione di quelle mature possa riportare il valore dell’azienda intorno a 1 euro ad azione.

Ma parliamo di Tim, che per molte ragioni non è un’azienda come tutte le altre: la golden share del Tesoro, l’importante numero di dipendenti che ancora impiega, la presenza di alcuni azionisti di peso, la struttura finanziaria troppo fragile e non in grado di esser caricata di ulteriore indebitamento (Fitch ha già annunciato possibili conseguenze negative sul rating se la leva finanziaria dovesse aumentare per un’acquisizione), a non dire del ruolo strategico che ricopre per l’economia italiana, la rendono un’azienda sui generis, alla quale è complicato applicare solo e soltanto valutazioni contabili-finanziarie.

E così si giunge al diverso modo di concepire il valore che può esser creato attraverso il controllo della società. Kkr, e per molti versi Gubitosi, intenderebbero far recuperare valore a Tim attraverso un procedimento di valorizzazione per parti, esplicitando un valore che rimane sempre più nascosto, anche a causa dei non brillanti risultati recenti. Vivendi invece si è sempre dichiarato azionista di lungo termine e interessato a una crescita industriale, organica, della società, senza valorizzazione per vie esterne di singole parti. Non è ancora chiaro che tipo di soluzione preferisca il governo, decisore di ultima istanza grazie al Golden power, anche se il “prendere atto dell’offerta” sembra sempre di più un silenzio/assenso a una soluzione di smembramento di Tim.

Mister Giubileo fiscale indagato per truffa

Strepitoso: “Non vogliamo un condono, noi siamo per un Giubileo fiscale”. Guido D’Amico, imprenditore, sindacalista delle piccole imprese e teorico di questo Giubileo dei tartassati, è stato appena giubilato dalla Procura di Roma perché sfortunatamente incastrato in una indagine sulle truffe ai bonus governativi elargiti durante la pandemia e oltre. Super bonus, sisma bonus e le decine di altri bonus che avrebbero fruttato cento milioni di euro a due imprenditori – i fratelli Mario e Davide Ciaccia – in stato di fermo giudiziario perché accusati di giocare a nascondino con le fatture e intascare, sine titulo, il privilegio dell’emergenza.

L’età del bonus, che nasce col governo Renzi, è andata via via arricchendosi, anche per colpa della gravissima situazione sanitaria, fino a giungere ai livelli esagerati in cui siamo immersi oggi. Palestre, piscine, alberghi, anche terme. Non c’è ramo di attività che non sia coperto da un sussidio. Con le migliori intenzioni, la sostenibilità ambientale, la riconversione dei manufatti, la messa in sicurezza degli edifici, la riqualificazione dei centri storici, il cemento l’ha fatta da padrone.

Ci siamo infatti avviati nell’età matura del bonus che, con la misura del 110 per cento (contributo a fondo perduto ai proprietari di case) decisa dal governo Conte e poi confermata da Draghi, è divenuta super. Talmente super che imprenditori di ogni ordine e grado si sono buttati a capofitto e oggi, con l’indagine che coinvolge il presidente di Confimpresa Italia, associazione datoriale delle piccole imprese, teorico del Giubileo fiscale, colui che ambiva a dialogare col governo, negoziare i sussidi, questo Guido D’Amico, ambizioso promoter ciociaro, voglioso di creare una forza d’urto del settore, il cerchio un po’ si chiude.

Bonus facciate, bonus ristrutturazioni, ecobonus, sisma bonus, bonus del 110 per cento o solo del 70 o anche del 50. Nella selva oscura dei benefit l’inizio dell’avventura. Molti appalti, soprattutto piccoli, molte aziende senza materie prime, questa volta perché la domanda si è così innalzata da aver creato il vuoto e consegnato al mercato uno strepitoso aumento dei prezzi: rame, plastica, cemento, conglomerati e ferro sono così richiesti che il loro valore si è triplicato, e anche di più. Inizia così a comporsi anche la lista di faccendieri, grandi e piccini, di imprese false, di fatture finte, correlate a questo fantasmagorico processo di ricostruzione.

Cento milioni di euro, secondo l’accusa, sarebbero stati sgraffignati, deviati, occultati da questi fratelli Ciaccia, molto versati nell’edilizia. E così Roma, inaugurando la stagione delle truffe agli ecobonus, allarga il cerchio di chi ha agevolato, capiremo con quale ruolo e con quale responsabilità, queste operazioni di alleggerimento furtivo delle casse pubbliche. Tra i primi a essere chiamato è appunto D’Amico, promotore in quel di Fiuggi solo pochi giorni fa, di un partecipato incontro pubblico a cui non ha fatto mancare il saluto e la condivisione la ministra Mara Carfagna. Resistenza e resilienza. Alle due R del piano, che deve far ricca e operosa l’Italia, D’Amico aveva aggiunto la G di Giubileo: perdonare gli evasori, comprenderli, liberarli dal giogo delle tasse. Poi però purtroppo la cattiva notizia dal palazzo di Giustizia, seconda e imprevista G: avviso di garanzia, c’è odore di truffa.

Tim, Gubitosi si dimette. I guai del colosso restano

Luigi Gubitosi, come si suol dire in questi casi, esce di scena, anche se in realtà l’epilogo della guerra ai vertici di Tim mantiene fino all’ultimo la sua dimensione surreale visto che l’ormai ex amministratore delegato resta nel Consiglio di amministrazione. Così come resta aperto il futuro dell’ex monopolista, in crisi da anni e a rischio spezzatino. Il manager ha resistito per settimane, ma ha dovuto cedere ieri alla sfiducia del cda in una riunione fiume durato circa sei ore.

Per evitare la figuraccia di farsi ritirare le deleghe le ha prima rimesse al cda e poi si è dimesso. Restando in cda ha costretto il board a una soluzione intricata: deleghe operative come direttore generale al capo di Tim Brasil Pietro Labriola, mentre il presidente Salvatore Rossi riceve quelle dell’amministratore delegato. Per darle a Labriola direttamente sarebbe servito, infatti, che un consigliere gli facesse posto in cda.

Si conclude così lo scontro col primo azionista, la francese Vivendi (23,75%) che ormai da mesi voleva Gubitosi fuori, assecondata dal secondo socio, la pubblica Cassa depositi e prestiti (9,8%). Gubitosi – manager ex Wind, Rai e Alitalia, in sella da novembre 2018 – paga i pessimi risultati, ma ha cercato fino all’ultimo di restare in sella, appoggiato in extremis dall’ingresso in campo del fondo Usa Kkr, che solo la scorsa estate lo stesso manager aveva fatto entrare nella rete secondaria di Tim (Fibercop).

Prima del Cda chiamato a mettere alla porta Gubitosi, il colosso americano – noto per le operazioni aggressive con cui acquista a debito società che poi vengono caricate dei debiti contratti per la scalata e vendute a pezzi sul mercato per estrarre più valore possibile – ha presentato una manifestazione di interesse “non vincolante e non indicativa” per comprare Tim a 0,50 centesimi per azione, valutandola 11 miliardi, 4 più del valore attuale di mercato. Il titolo è schizzato in Borsa, ma il Cda non ha dato a Gubitosi il mandato a trattare con gli americani. Per tutta risposta, giovedì l’ex ad ha scritto una lettera di fuoco accusando il board e i 5 consiglieri espressi da Vivendi di fare l’interesse solo del gruppo guidato da Vincent Bolloré invece che di tutti i soci, ventilando il rischio di dover subire un’azione di responsabilità. Ieri il cda, dopo le deleghe affidate a Labriola, come auspicato da Vivendi, secondo quanto filtra mentre andiamo in stampa avrebbe affrontato anche il capitolo Kkr nominando un comitato per valutare la manifestazione di interesse del fondo Usa (che ha dato 4 settimane) e qualunque altra proposta dovesse arrivare.

I problemi del gruppo, infatti, restano tutti. Gubitosi è arrivato al vertice a novembre 2018 al termine dello scontro con cui il fondo Usa Elliott, aiutato dal governo via Cdp, aveva messo in minoranza Vivendi. Una tregua tra gli azionisti ha permesso la sua riconferma a marzo, poi però la crisi dei conti ha rotto la pace. Tim ha lanciato due profit warning, cioè una revisione delle stime degli utili, e ieri il cda ha affrontato il rischio di un terzo, visto che c’è uno scostamento di 500 milioni sul fronte ricavi, 300 dei quali per i pessimi risultati della partnership con Dazn per la Serie A di calcio. Il cda non ha creduto alle soluzioni promesse da Gubitosi, tra cui la revisione degli accordi con Dazn e un taglio del costo del lavoro che rischiava di tradursi in migliaia di esuberi.

Durante quest’anno di gestione Gubitosi, Tim ha perso ricavi in una fase in cui il Pil cresce del 6% e si prospettano investimenti corposi nella rete coi fondi del Pnrr: per questo i problemi restano come le diverse ipotesi per affrontarli.

La manifestazione di interesse di Kkr sarebbe finalizzata a uno “spezzatino” dei rami d’azienda che parta separando i servizi dalla rete, che verrebbe offerta al governo, attraverso la Cdp, in modo da poter poi procedere a creare una società a controllo pubblico che gestisca l’infrastruttura con tariffe regolate accollandosi parte del personale e del maxi-debito dell’ex monopolista. È la discussione che da 15 anni circonda Tim. Il governo non ha chiuso all’ipotesi e, in teoria, nemmeno gli azionisti. Che si concretizzi è tutto da vedere. In ballo ci sono 40 mila posti di lavoro.

Fuortes, un’orda di comunicatori per restare zitto

La comunicazione afona. Tanto da essere commissariata. Così si spiega l’arrivo in Rai di un nuovo consulente, Maurizio Caprara (nella foto sotto). Che ufficialmente avrà l’incarico di “assistente per la comunicazione e le relazioni esterne dell’amministratore delegato” Carlo Fuortes. In pratica, però, dovrà mettere un po’ di pezze sulle mancanze degli altri. Ovvero del responsabile della comunicazione, Pierluigi Colantoni, e del capoufficio stampa (ma pure vicedirettore comunicazione), Stefano Marroni.

Caprara è un giornalista di lungo corso del Corriere della Sera, esperto di politica interna e internazionale, spesso chiamato a incarichi istituzionali. Negli ultimi anni, ad esempio, è stato consulente al Quirinale con Giorgio Napolitano, portavoce della presidente del Senato Alberti Casellati (ma pure lui su quella poltrona è durato poco) e pure capo della comunicazione al ministero dell’Innovazione tecnologica. Toccherà a lui rimettere un po’ di ordine e di senso in un settore strategico per la tv pubblica, quello della comunicazione appunto. Che Fuortes, appena arrivato in Viale Mazzini, ha voluto rivoluzionare. “La Rai comunica troppo e male, bisogna cambiare tutto. Dobbiamo inaugurare una narrazione positiva”, ha detto chiaro e tondo l’Ad appena insediatosi. E infatti a guidarla non ci mette un esperto di media, ma un creativo, Pierluigi Colantoni, portato in Rai in epoca Gubitosi da Costanza Esclapon e poi piazzato da Fabrizio Salini a dirigere i Nuovi Format. Incarico che tuttora detiene, anche se idee su nuovi programmi finora se ne sono viste poche. Al momento della sua nomina, però, hanno fatto furore certi suoi video su Youtube in cui canta stuzzicanti canzoncine ballando senza veli. Ora, tra i vari suoi consulenti, ha chiamato anche il suo predecessore Marcello Giannotti, che seguirà la comunicazione dell’Eurovision Song Contest (a Torino nel maggio 2022): evento che, dopo il successo dei Maneskin, per importanza sarà secondo solo a Sanremo.

A dirigere l’ufficio stampa c’è invece Marroni. Classe 1956, ex marito di Bianca Berlinguer, dopo una lunga esperienza a Repubblica come cronista politico, arriva in Rai nel 2002 dove approda al Tg2 fino a diventarne vicedirettore. Il nuovo corso di Colantoni e Marroni si basa su una linea ben precisa: comunicare il meno possibile. “Sui giornali della Rai si parla quasi sempre male, quindi meglio esternare lo stretto necessario. Dobbiamo veicolare solo i messaggi che decidiamo noi…”, viene spiegato. Detto, fatto. Il primo effetto è il taglio delle conferenze stampa: si fanno solo quelle per i grandi eventi di prima serata e stop. E la modalità è sempre via web e mai in presenza, così da limitare al massimo le domande dei cronisti. La cosa ha fatto inalberare molti addetti ai lavori, tra cui Milly Carlucci che, per fare la conferenza su Ballando, s’è dovuta imporre chiamando Fuortes. Al contempo, però, succede che, per alcuni programmi, si organizzino incontri “riservati” solo con alcune testate. È accaduto di recente per Dedicato (trasmissione con Serena Autieri che fa buoni ascolti il sabato su Rai1), per la cui presentazione è stata organizzata una “tavola rotonda” per pochi intimi nella sede della radio di via Asiago con soli sette giornali invitati (e un paio manco si sono presentati). Una strategia che Marroni applica anche al telefono: non risponde quasi a nessuno e le testate con cui interloquisce si contano sulle dita di una mano. Peccato, però, che il suo lavoro (per cui è lautamente pagato con soldi pubblici) consisterebbe proprio nel parlare coi giornalisti. Qualche maligno sussurra che non legga neppure la rassegna stampa, lasciando la scocciatura-incombenza ai suoi sottoposti. Chissà. Sta di fatto, però, che delle lacune comunicative si dev’essere accorto pure Fuortes che, contraddicendo le sue scelte iniziali, s’è visto costretto a chiamare Caprara, commissariando de facto gli altri due.

Un Flop al giorno: La rai dei migliori ha lo share moscio

Rai2 all’1,96 per cento, Rai3 all’1,86. Surclassati da tutti i principali competitor, incluso Nove (2,3 per cento con uno speciale su Freddie Mercury). I dati Auditel della prima serata di giovedì rendono bene l’idea delle difficoltà del servizio pubblico in questa stagione autunnale, con flop rumorosi anche solo per gli investimenti fatti e per i protagonisti di simili disastri. Il tutto nei giorni di una contestatissima tornata di nomine dei Tg, quella che la settimana scorsa sul Fatto Vittorio Emiliani ha definito “una spartizione monarchica di poltrone” gestita dal governo Draghi e dall’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes.

Quelli che…fan disastri

Spostato dalla consueta fascia domenicale, Quelli che il calcio ha perso identità e ascolti. Niente più partite raccontate in diretta, ma una sorta di talk show marmellata con la parte comica affidata a Luca e Paolo. Prima al lunedì sera, poi al giovedì per tentare di salvare il salvabile dopo i primi dati negativi. Ma due sere fa il programma è crollato addirittura sotto al 2 per cento, fermandosi a un 1,96 impietoso per un marchio storico del servizio pubblico.

Direttore in crisi

Il record negativo registrato giovedì sera da Rai3 ha un nome ingombrante: lo Speciale Frontiere, fermatosi all’1,86, è ideato e condotto dal direttore di rete, Franco Di Mare. Il programma ha buoni ascolti nella consueta fascia pomeridiana del sabato, quando galleggia oltre il 5 per cento. Ma l’ultimo speciale in prima serata è stato un disastro, anche perché la puntata di Frontiere sulla violenza contro le donne ha spodestato La Versione di Fiorella, la trasmissione di Fiorella Mannoia che peraltro avrebbe trattato lo stesso argomento. Forse, vista la popolarità della cantante, non sarebbe stata una cattiva idea coinvolgerla nel progetto.

Sette storie e una nomina

Monica Maggioni è stata appena promossa direttrice del Tg1. Eppure la sua ultima esperienza in Viale Mazzini con Sette storie, trasmesso in seconda serata su Rai1, non è certo un gran successo. Tutt’altro: al momento della nomina al Tg1, la media della stagione autunnale di Sette storie (la quarta dal suo lancio) resta lontana di un paio di punti dalla doppia cifra. Ma ciò che è più preoccupante è il trend dell’Auditel, dato che le prime tre stagioni hanno visto un calo dal 9,30 per cento fino al 6,77. Abbastanza, comunque, perché la Maggioni sia uscita dal giro di nomine col biglietto vincente in mano.

Magia sparito il pubblico

È durato appena tre puntate l’esperimento in prima serata su Rai2 di Voglio essere un mago, il programma prodotto dalla Stand by Me di Simona Ercolani. Dopo numeri deprimenti e un 1,9 per cento alla terza puntata, un mese fa lo show di magia è stato dirottato al pomeriggio per evitare danni peggiori. Non che le cose siano migliorate granché – gli ascolti sono di poco superiori al 2 per cento – ma se non altro la Rai ha potuto liberare lo slot della prima serata, mettendo una pezza all’investimento.

Da Grande Cattelan delude

Era forse il programma più atteso dell’autunno, visto il passaggio su Rai1 di quell’Alessandro Cattelan che per anni aveva funzionato alla grande a Sky. E invece il suo Da Grande, in onda per due domeniche a settembre, ha deluso tutti: 12,67 per cento la prima sera, 12 la seconda. Risultati imprevisti anche considerando la lunghissima lista di ospiti, mix tra il nazionalpopolare caro al pubblico di Rai1 e i gusti più giovanili di chi seguiva Cattelan su Sky: Il Volo, Paolo Bonolis, Luca Argentero, Carlo Conti, Antonella Clerici, ma anche Benji, Bella Thorne, Elodie. Tutto inutile.

Tg2addio meritocrazia

Le ultime nomine nei telegiornali Rai hanno dato vita a un paradosso ben spiegato dall’analisi dello Studio Frasi sui dati Auditel della stagione autunnale: “Chi ha fatto meglio è stato silurato, chi ha avuto ascolti peggiori è stato confermato”. Il riferimento è al Tg1 e al Tg2, dove i direttori Giuseppe Carboni e Gennaro Sangiuliano hanno avuto fortune opposte. Il primo è stato silurato per far posto a Monica Maggioni, nonostante ottimi risultati: rispetto al 2020 (quando però le chiusure causa Covid hanno condizionato gli ascolti), il Tg1 oggi ha perso il 3,94 per cento del suo share, ma rispetto al 2019 ha guadagnato ben 8 punti percentuali.

Nello stesso periodo, il Tg2 ha perso il 21,58 per cento sul dato di dodici mesi fa e l’8,74 per cento rispetto al pre-Covid. Ma Sangiuliano, a differenza del collega, resterà al suo posto.

Anni 20 notte sotto al 2%

Secondo la Rai rappresenta “un nuovo modo di raccontare l’attualità, la cultura e la cronaca guardando il mondo da altre angolazioni”. Eppure Anni 20, programma di approfondimento condotto da Francesca Parisella, è in difficoltà: giovedì si è fermato all’1,5 per cento, ancor peggio del 2 per cento superato – pur a fatica – nelle scorse settimane. A nulla è servito, allora, lo spostamento in seconda serata a causa dei pessimi risultati nel prime time del giovedì.

Magalli sospeso e furioso

Giancarlo Magalli, si sa, non è certo avvezzo alla diplomazia. E così due giorni fa si è sfogato sui social contro la “sua” Rai2: “Mi vergogno a dirlo anche se non è colpa mia, ma oggi Una parola di troppo non ci sarà, domani nemmeno, lunedì sì e forse martedì no. Non ho mai visto in 40 anni una programmazione così schizofrenica”. Prodotto ancora dalla Stand by Me di Simona Ercolani, Una parola di troppo va in onda da inizio novembre nel pomeriggio di Rai2 e finora ha sofferto una programmazione ballerina che lo ha spesso sacrificato in favore di sport o di altri speciali. Motivo per cui il programma ha oscillato tra il 2 e il 3 per cento, senza riuscire a fidelizzare gli spettatori. Obiettivo su cui evidentemente la rete ha deciso di non puntare, trascurando ancora il quiz di Magalli, la cui ira lascia intendere quale sia il clima in Viale Mazzini.

Vince Macron, a poco prezzo

Al di là delle Frecce tricolori che hanno sorvolato Roma (mentre sulla stampa francese i toni sono stati incolori), e dell’enfasi dettata dal rito draghiano, i 12 punti del Trattato italo-francese “per una cooperazione bilaterale rafforzata” possono essere così sintetizzati.

Costi minimi. Gli impegni reali e gli effetti diretti sui cittadini sono davvero minimi, quasi a costo zero. Molta retorica diplomatica, taglio europeista, attestati di buona volontà e poi via con una serie di punti che spaziano dagli organismi multilaterali al Mediterraneo, a un inedito Consiglio italo-francese di Difesa, alla solita politica migratoria che parla astrattamente di flussi e di rimpatri, la tutela ambientale, il servizio civile, la democrazia, una scelta di immagine come l’invito, ogni tre mesi, di un ministro dei due Paesi presso il Consiglio dei ministri dell’altro.

Rimozioni. Non si fanno nomi ingombranti, ad esempio, la Libia. Così come, in campo economico, riferimenti a casi come Tim-Vivendi. Eppure, dopo la vicenda Fincantieri-Stx un chiarimento sarebbe stato utile.

Difesa Europa. Di concreto c’è l’insistenza, anche nei discorsi di Mario Draghi ed Emmanuel Macron, sulla difesa comune europea e la revisione del Patto di stabilità. Il capitolo Difesa è molto dettagliato e il Consiglio italo-francese è una novità. In tema di bilancio europeo, poi, nel testo appaiono le parole “risorse proprie”: un’allusione agli Eurobond non previsti, invece, nel programma di governo tedesco.

Dopo Merkel. Questo è bastato a far pensare che il Trattato voglia controbilanciare il peso tedesco dopo l’uscita di scena di Angela Merkel. Il controbilanciamento è una possibile lettura, ma è impensabile un riposizionamento francese, e a maggior ragione italiano, in chiave anti-tedesca.

Il vertice del triangolo. Da qui ne deriva una chiave di lettura geometrica. Prima del trattato italo-francese esisteva solo quello franco-tedesco. E l’anello di congiunzione tra i due è costituito da Parigi che così rafforza il proprio ruolo centrale. Senza Merkel in campo, Macron potrebbe ambire, con il sostegno di Draghi, a giocare questa nuova partita in caso di rielezione all’Eliseo.

L’ultima di Mattarella. Infine, il ruolo di Sergio Mattarella. Evidente il suo ruolo anche nella fotografia dell’evento. Mattarella ha preso in mano il trattato quando è nato il governo giallo-verde e lo ha voluto portare, letteralmente, a casa. Un ruolo attivo del Quirinale, probabilmente sovra tono rispetto al mandato presidenziale, che ieri è stato rivendicato apertamente.