Nuovi ceppi e durata in “scadenza”: Israele si prepara alla 4ª dose

Israele, uno dei Paesi in cui è stata già individuata la nuova variante B.1.1.529 è “a un passo dallo stato d’emergenza”. Sono parole del premier Naftali Bennett che arrivano poche ore dopo la pubblicazione sul British Medical Journal di uno studio dell’Ariel University in cui si rivela il calo progressivo della protezione vaccinale dopo tre mesi. Lo studio ha selezionato 83 mila individui, vaccinati con doppia dose Pfizer risultati positivi al Covid dopo 130-180 giorni (in media). Circa 8 mila soggetti avrebbero contratto la malattia, registrando un aumento del rischio contagio del 15%, a 6 mesi dalla seconda dose di vaccino.

Il calo è confermato dal governo di Tel Aviv, tanto che lo stesso ministro della Sanità, Nitzan Horowitz, ha affermato in un’intervista a Channel 12, che potrebbe esserci bisogno di una quarta dose di vaccino. La curva dei contagi indica che il 9% dei nuovi casi aveva ricevuto la terza dose di richiamo.

Un altro studio pubblicato su The Lancet ha riguardato 1.684.958 individui, la metà dei quali vaccinati con due dosi di AstraZeneca, Moderna o Pfizer, ognuno abbinato a un individuo non vaccinato con analoghe caratteristiche anagrafiche. Sono stati esaminati i casi di contagio sintomatico e di Covid grave nel periodo dal 12 gennaio al 4 ottobre 2021.

Riguardo ai casi di contagio sintomatico, i risultati mostrano che la riduzione media del rischio relativo con il vaccino Comirnaty (Pfizer) diminuisce progressivamente dal 92% dopo 15-30 giorni al 47% dopo 121-180 giorni, e dopo circa sette mesi è sostanzialmente nulla. Con Moderna la riduzione media del rischio relativo diminuisce più lentamente, raggiungendo il 59% dopo sei mesi. La riduzione media del rischio relativo è minore con Astrazeneca e si riduce più rapidamente, senza più alcuna efficacia a sei mesi. Per quanto riguarda il Covid grave, la riduzione media del rischio relativo passa dall’89% dopo 15-30 giorni al 42 dal giorno 181 in poi.

Il contesto israeliano è sempre importante, perché fotografa con anticipo quello che potrebbe avvenire in Europa. In queste ore, il Jerusalem Post sintetizza in un titolo tutti i dubbi che sta affrontando il Paese: “L’aumento dei casi di coronavirus è l’anticamera di una quinta ondata?”. In pochi giorni, i casi totali sono passati da 5 mila positivi a oltre 6.500, con un crescendo che è passato da 517 a 603 contagi al giorno, nel giro di due settimane, aumentando di 100 unità di media. I consiglieri del governo israeliano affermano che la campagna di vaccinazione dei bambini non sarebbe comunque stata sufficiente da sola per fermare la diffusione del Covid. Il professor Eran Segal dell’Istituto Weizmann è intervenuto martedì davanti al governo e ha sostenuto che il livello di immunità è diminuito da novembre e che ciò si riflette nell’aumento del numero di nuovi casi confermati. Stando a quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, il panel di esperti ha consigliato al governo di adottare ulteriori restrizioni.

“Iniezioni ai bimbi, meglio aspettare. I dati non bastano”

Tra gli studiosi più perplessi sulle vaccinazioni dei bambini c’è Antonio Cassone, membro dell’American Academy of Microbiology ed ex direttore delle Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. Come molti suoi colleghi ha sollevato dubbi sul trial di Pfizer-Biontech per i numeri troppo esigui.

Non c’erano bambini a sufficienza?

Questo non può essere. Un anno e mezzo fa c’erano frotte di adulti che finivano in ospedale e morivano. Pfizer e Biontech fecero un trial con 15 mila vaccinati e 15 mila placebo, poi sono arrivati a 30 mila vaccinati. Noi abbiamo creduto ai dati perché c’era potenza sufficiente nello studio. A maggior ragione avrebbero dovuto fare un buon trial con i bambini, di cui ben pochi vanno in ospedale.

Perché non l’hanno fatto?

C’è stata pressione, forse, sugli enti regolatori, forse anche dai genitori. Proteggiamo i bambini perché vadano a scuola e consentano ai genitori di andare al lavoro. Sono benefici reali. Lo studio del New England Journal of Medicine parla di 1.550 vaccinati e 750 con il placebo, più altri 500 soggetti ancora sotto esame. Circa tremila. Hanno visto una buona efficacia, nessun effetto collaterale grave e hanno detto ‘andiamo avanti’. Negli Usa ci sono molti meno adulti vaccinati che da noi: il terrore è che se il virus circola molto tra i bambini si rischia di infettare gli adulti. Dimenticano che gli adulti si ammalano, hanno più virus e spesso infettano i bambini. La Food and drug administration (Fda) degli Usa è un ente molto serio, ma ci chiediamo il perché di tanta fretta. Facendone così pochi hanno avuto tre casi di malattia tra i vaccinati e 16 nei placebo. Ma è solo una stima media dell’efficacia, c’è un intervallo di credibilità statistica: dal 60 al 97%. Nella realtà può essere più alta o anche molto più bassa. Secondo punto è la sicurezza: 1.550 vaccinati sono pochi per vedere un effetto collaterale grave che potrebbe essere uno su mille; devi averne almeno due-tremila.

Hanno preoccupato molto miocarditi e pericarditi tra i ragazzi dai 12 anni in su. Quante sono state?

Sono state osservate negli adolescenti maschi vaccinati soprattutto fra i 12 e i 16 anni: una ogni cinquemila per lo più dopo le seconde dosi; secondo alcune statistiche anche meno, molto vicino a uno a mille-duemila. Ma i bambini da 5 a 11 anni potrebbero essere meno sensibili, non lo sappiamo, né conosciamo il rischio di altri effetti avversi gravi. Il trial non li esclude, siamo tutti d’accordo, anche l’editore di Science che però dice ‘andiamo avanti’. Non si è rispettata la regola secondo cui la sperimentazione si fa con numeri che diano certezze sul rapporto rischi-benefici. In emergenza si può anche accettare un rapporto rischi-benefici appena favorevole, ma si deve sapere qual è. Qui non si sa. Hanno preso un rischio, può essere che sia ragionevole e andrà tutto bene. Il produttore poteva fare altri 5.000 soggetti, il tempo ci sarebbe stato, mi meraviglia che non lo dicano i pediatri.

Andrea Crisanti ha detto che presto avremo i dati da Israele, anche stavolta il vero trial è quello?

Non è un trial, stanno vaccinando e basta. Ma Crisanti ha ragione. Per Natale dovremmo sapere qualcosa in più.

Qui sembra che non inizino prima perché mancano le dosi pediatriche.

Se aspettiamo qualche mese è un fatto positivo. Anche Silvio Garattini (Istituto Mario Negri, ndr) dice di aspettare.

Secondo l’Iss in Italia abbiamo avuto 5.800 under 12 in ospedale per Covid-19, 119 in terapia intensiva e 19 deceduti. Sono bambini con altre patologie? Quali?

Non è specificato. Sono patologie che abbassano un po’ le difese immunitarie. Possono essere patologie cardiache o renali, altre malattie croniche, diabetici, obesi… Anche l’Iss dice che molti sono bambini con fattori di rischio grave.

Il presidente della Società di pediatria tedesca, Jörg Dötsch, consigliava di vaccinare solo i bambini più fragili.

Anche Danimarca e Svezia, che vaccinano i bambini molto più di noi, non volevano dare adesso il vaccino agli infradodicenni. È senz’altro corretto vaccinarli se hanno fattori di rischio.

La “Omicron” minaccia i vaccini Oms: “Mutazione preoccupante”

E dopo Alfa, Beta, Gamma e Delta è arrivata Omicron. Il Covid-19 ha ufficialmente la sua quinta variante “preoccupante” (VOC) secondo la classificazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Vuol dire, purtroppo, che a differenza della quasi totalità degli oltre 1.500 ceppi di Sars-Cov2, della variante che per meno di ventiquattr’ore abbiamo chiamato “sudafricana” sentiremo ancora parlare.

Per sapere se Omicron (variante B.1.1.529) soppianterà Delta e – soprattutto – se sarà in grado di “bucare” i vaccini è troppo presto, ma il grado di fibrillazione internazionale registrato ieri è di quelli non comuni. Per il momento, i casi confermati sono solo 85 e riguardano principalmente il Sudafrica (dove nelle ultime tre settimane il tasso di positività è salito da meno dell’1% a oltre il 30) e il Botswana, ma casi sono già stati segnalati in Belgio, Israele e Hong Kong.

A destare preoccupazione sono le 32 mutazioni (il triplo della variante Delta) della proteina Spike, ossia la proteina che la maggior parte dei vaccini (quelli a mRna come Pfizer e Moderna) usano per innescare il sistema immunitario contro il Covid-19. In pratica, per dirla in termini un po’ grezzi, se la proteina è irriconoscibile, gli anticorpi prodotti dai vaccini potrebbero, appunto, non riconoscerla e dunque non funzionare.

Questo è ovviamente il rischio più grande, ma si tratta di discorsi per ora prematuri: “Questa variante – ha comunicato in serata l’Organizzazione mondiale della Sanità – ha un gran numero di mutazioni, alcune delle quali sono preoccupanti. Prove preliminari suggeriscono un aumento del rischio di reinfezione”.

“Sulla base delle prove disponibili – ha quindi reso noto l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) – è probabile che questa variante sia associata a una trasmissibilità molto elevata e a una significativa fuga immunitaria (cioè resistenza ai vaccini, ndr). Finora, non ci sono prove di cambiamenti nella gravità dell’infezione”.

Un nota dell’Agenzia europea del farmaco (Ema), infine, comunica che al momento “è prematuro” prevedere se un eventuale adattamento dei vaccini: “Le informazioni attuali – spiegano da Ema – sono insufficienti per determinare se questa variante si diffonderà in modo significativo e fino a che punto potrebbe eludere l’immunità ricevuta con i vaccini”.

Nel dubbio BionTech ha comunicato di essersi già attivata: “Comprendiamo la preoccupazione degli esperti – afferma in una nota la casa farmaceutica partner di Pfizer – e abbiamo immediatamente avviato indagini sulla variante B.1.1.529. Ci aspettiamo più dati dai test di laboratorio al più tardi tra due settimane. Questi dati forniranno maggiori informazioni sul fatto che B.1.1.529 possa essere una variante di fuga, che potrebbe richiedere un aggiustamento del vaccino se si diffondesse a livello globale”. E sempre nel dubbio la Commissione europea ha attivato il cosiddetto “freno d’emergenza” per i voli provenienti dall’Africa australe (Italia, Francia, Gran Bretagna Austria e Israele avevano già anticipato il blocco dei voli): “Gli Stati membri – si legge in una nota della Commissione Ue – hanno convenuto di introdurre rapidamente restrizioni a tutti i viaggi da 7 Paesi della regione dell’Africa meridionale: Botswana, Eswatini, Lesotho, Mozambico, Namibia, Sudafrica, Zimbabwe. Test, quarantena e tracciabilità dei contatti per i passeggeri in arrivo sono importanti”.

“Non abbiamo ancora elementi di certezza tali da poter già arrivare a un esito di analisi – ha dichiarato in serata il ministro della Salute, Roberto Speranza – però è del tutto evidente che le organizzazioni internazionali hanno scelto una linea di grande prudenza. Sarebbe da irresponsabili non essere preoccupati”, ha concluso.

Arrivedooorci!

È vero che ormai viviamo immersi in una mega-barzelletta, dove le cose ridicole vengono prese sul serio e quelle serie sul ridere. È vero che nessuno fa un plissé neppure se il premier firma un trattato con la Francia di cui solo lui e Macron conoscono il testo e il Parlamento pazienza, se il capo della nuova Alitalia minaccia e insulta chiunque passi, se il capo di gabinetto di Draghi viene beccato a fare marchette, se i renziani usano dossier falsi e lettere anonime per sputtanare Report e passano per “garantisti”. Ma la corsa al Quirinale supera anche i già ragguardevoli standard medi della farsa politica. Dal 2 febbraio Mattarella ha ripetuto in pubblico sei volte che non si farà rieleggere. Per essere più convincente, ha citato Segni e Leone, che non solo teorizzarono il mandato unico, ma si dimisero in anticipo. S’è fatto fotografare mentre cercava casa. E ha iniziato un giro di saluti, confermando a tutti che a febbraio se ne va. Tanta insistenza può avere due soli moventi. 1) Porre fine allo stalking di chi, in pubblico e soprattutto in privato, gli rompe le palle per il bis. 2) Stanare quella sfinge di Draghi che – ormai lo sanno tutti – aspira al Quirinale, ma proprio per questo fa il pesce in barile in ossequio al celebre detto vaticano: “Chi entra papa esce cardinale” (o sacrestano). Ma più Mattarella saluta, più lorsignori fingono di non sentire.

L’altro giorno, mentre ribadiva per la sesta volta di avere le valigie pronte, quel gran genio di Tabacci invitava “i partiti, tutti” a non “infilarsi in vicoli perigliosi” (qualunque cosa significhi) e a “chiedere a Mattarella un ultimo sacrificio” perché “il Paese ha bisogno di continuità a tutti i livelli” (e, se lo dice Tabacci, sarà vero). Quello dice “non ci provate” e lui che fa? Ci prova. Intanto un pesce di nome Zanda e tal Parrini (il pidino che vuole abolire la Severino per i sindaci che rubano o truccano appalti) presentano un ddl costituzionale per la non rieleggibilità al Colle. Voi direte: almeno loro han recepito il messaggio. Magari: nel Paese dove chi vuole il bianco dice nero, l’obiettivo dei due buontemponi è l’opposto di quello dichiarato: “Lasciarsi uno spiraglio per un bis di Mattarella, il secondo e ultimo doppio mandato della Repubblica” (Corriere). Cioè: scrivono “niente bis” perché Mattarella conceda il bis. Cioè pensano che sia come loro e, quando dice “vado”, intenda “resto”. Come Stanlio e Ollio che salutano tutti (“arrivedooorci!”) e non si muovono di lì. Ora temiamo che al capo dello Stato, per non fare la figura del bugiardo tipo Napolitano e scrollarsi di dosso questi stalker, non resti che rinunciare al suo aplomb e sottolineare il settimo diniego con espressioni più persuasive e definitive. Tipo: “Chi camurria, m’aviti scassatu a minchia”.

L’auto elettrica convince poco sia i sindacati che i padroni

Che l’avvento dell’auto elettrica creasse preoccupazioni riguardo ai tagli occupazionali causati dalla riconversione industriale è cosa nota. Già dopo l’estate una ricerca del Boston Consulting Group aveva evidenziato che la transizione all’elettrone sarebbe costata all’Europa mezzo milione di occupati “tradizionali”, ovvero legati alla produzione di auto con motori endotermici. Posizione sposata un paio di mesi fa dall’amministratore delegato del gruppo Volkswagen Herbert Diess, che lamentava come 30 mila di questi fossero a rischio solo nella sua azienda.

I sindacati italiani, all’inizio speranzosi (come tutti, del resto) che l’auto a batteria potesse creare nuove opportunità, si sono dovuti ricredere: “Il passaggio alle nuove motorizzazioni mette a rischio 60 mila posti di lavoro”, hanno dichiarato compatti in settimana, sottolineando la necessità di un piano strategico nazionale che supporti la transizione. Cosa che, di fatto, nel nostro Paese ancora non esiste.

Ma le critiche arrivano anche dall’altro lato della medaglia, ovvero gli industriali. Ad esempio Alberto Bombassei, il patron di Brembo, ha fortemente criticato l’orientamento dell’Europa, “condizionato da una cultura a senso unico verso l’elettrico” senza considerare il principio della neutralità tecnologica. “Sono sicuro”, ha spiegato, “che la scelta di una sola strada ci farà correre il rischio di aver scelto quella sbagliata relegando il nostro continente e la sua industria a un ruolo di secondo piano nell’economia mondiale”.

Così a Maranello si progettano i sogni

La nuova creatura di Maranello, la Daytona SP3, è nata esclusiva fin dal primo bozzetto.

Perché è figlia di un progetto, denominato Icona, che a Maranello dedicano solo a clienti e collezionisti più affezionati. Quelli, per intenderci, che vengono selezionati non solo per la quantità di vetture acquistate nel tempo ma anche, come ha spiegato il direttore marketing Ferrari Enrico Galliera, “per la loro vicinanza all’azienda nel corso di eventi e manifestazioni, il loro porsi in modo attivo nei nostri confronti”. Insomma, è il senso d’appartenenza alla community uno dei requisiti principali per accedere al progetto più costoso (per i clienti) e riservato del Cavallino, che è nato nel 2018 e finora ha sfornato le Monza SP1 e SP2, auto ispirate alle “barchette” da corsa degli anni ’50, che inanellavano vittorie nelle competizioni e contribuivano così a creare la reputazione vincente delle Rosse negli sport motoristici. E l’intento di ogni nuova Icona che nascerà, è proprio quello di prendere un concetto (non un modello, attenzione) significativo dal passato e riproporlo secondo tecnologie e dettami moderni. Come spiega lo stesso Galliera, “non vuole essere una mera, riproposizione di stilemi passati, quanto piuttosto la volontà di distillare l’essenza di un’epoca utilizzandola come base di partenza per creare concetti nuovi, con il potenziale per diventare essi stessi iconici per le future generazioni. Si parte dal progetto ispirandosi al passato per portarlo al giorno d’oggi con tecnologia al top e materiali d’avanguardia dando al design la leadership per elaborare le soluzioni migliori”.

Nessuna operazione nostalgia, dunque, bensì ricerca nel proprio Dna. Di tratti e caratteri esclusivi, che abbiano qualcosa da dire anche oggi. Non è un caso che per questi progetti speciali il design assuma un ruolo di primo piano, e non sia come accade di solito subordinato a esigenze tecniche e aerodinamiche. Solo così può nascere un’opera d’arte su quattro ruote.

Daytona Sp3, la Rossa che arriva dal passato costa 2 milioni di euro

La Ferrari 330 P3/4 che trionfò alla 24 Ore di Daytona del 6 febbraio 1967 è una vettura che incarna alla perfezione lo spirito degli Sport Prototipi anni Sessanta. Gli stessi a cui si ispira la nuova Daytona SP3, nuovo bolide “Targa” con tetto rimovibile fatto di carbonio. Attenzione, però, a non scambiarla per un’operazione nostalgia all’insegna della modernità, perché a Maranello è vietato ripetersi o autocelebrarsi.

“Il lessico formale della vettura è quello tipico delle Ferrari, ma guarda al domani”, spiega Flavio Manzoni, direttore del Centro Stile: “Il risultato è un’opera contemporanea, monolitica, concepita all’insegna dell’unitarietà stilistica”. Un insieme in cui ci sono note di 350 Can-Am, 312 P e 512 S, fatto di parafanghi voluttuosi, cabina compatta e incassata al centro di un corpo vettura scultoreo, tanto largo quanto basso, e “baciato” dall’aerodinamica, sofisticatissima: l’auto fa a meno di evidenti superfici alari, sostituite da soluzioni passive come i “camini di estrazione”, che succhiano aria dal fondo vettura e la portano al livello del cofano motore per “soffiarla” sul profilo aerodinamico incorporato nella coda. Mentre le portiere con canalizzazioni dedicate sono studiate per evacuare meglio l’aria, riducendo la resistenza all’avanzamento, e portarne di fresca ai radiatori laterali. Visivamente si riconosce pure una sorta di “corsetto virtuale”, che separa il volume dell’abitacolo – di foggia aeronautica, molto avvolgente – da quello della coda, che appare più lunga, con un retrotreno muscoloso e affusolato.

“Le linee sono definite dall’intersezione dei volumi”, dice Manzoni. Nell’abitacolo i sedili appaiono plasmati sulle forme del telaio, quasi fossero un drappo: sono fissi e fatti su misura; sono le posizioni di volante e pedaliera ad adattarsi alla taglia del pilota. Quasi assenti i tasti fisici, rimpiazzati da superfici touch, da cui si comanda il cockpit digitale multifunzione da 16”. L’architettura costruttiva a motore centrale deriva da LaFerrari, da cui la SP3 riprende la scocca passeggeri fatta di carbonio, in cui è incastonato un V12 aspirato di 6,5 litri e 840 cavalli. Niente elettrificazione qui: questione di purezza progettuale e contenimento del peso. Quasi in secondo piano le prestazioni. Quasi: la Daytona SP3 accelera da 0 a 200 km/h in 7,4 s e da 0 a 100 in 2,85, spingendosi oltre i 340 km/h. La trasmissione adotta un cambio doppia frizione a 7 marce. Insomma, per dirla con le parole di Manzoni, “la Daytona SP3 è una supercar da pista con un profondo valore artistico, un distillato del fascino dei tempi e delle imprese a cui si ispira”. Prime consegne a fine 2022: ne saranno prodotte 599 unità, tutte già sold-out e vendute ciascuna al prezzo di 2 milioni di euro.

Le pennellate di Scarpelli per “illuminare” i suoi film

Mario Monicelli, morto il 29 novembre di undici anni fa, se ne serviva con beneficio d’invenzione: “Spesso, per certi personaggi particolari, mi rivolgevo a Scarpelli, perché Furio è anche un disegnatore bravissimo. Gli chiedevo: ‘Ma tu come lo vedi questo personaggio, fai un disegnino…’. E lui qualche volta lo faceva, e un po’ m’illuminava o mi confortava”. Pennello, china e macchina da scrivere: il triumvirato creativo di Scarpelli non conosce ostacoli, balbettii e autocensure di sorta. In una delle prime strisce umoristiche, per lo sportivo Il Tifone nel 1938, inquadra un pittore intento a ritrarre un bellimbusto in poltrona: “Fatemi somigliante”; il risultato lascia a desiderare, ma i ritocchi non saranno alla tela, bensì ai connotati dell’uomo, fino a raggiungere pugno dopo pugno “la rassomiglianza perfetta”. Il Catalogo dell’opera grafica, a cura di Sabrina Perucca, Alberto Sarasso e Giacomo Scarpelli per Edizioni Erasmo, mette ordine nell’immaginifico lato B del grande sceneggiatore, che insieme ad Agenore Incrocci – la storica coppia Age & Scarpelli – inchiostrò la migliore commedia all’italiana, da La Grande Guerra a L’armata Brancaleone di Monicelli, da Sedotta e abbandonata di Germi a I mostri di Risi, da A cavallo della tigre di Comencini a C’eravamo tanto amati di Scola. Il segreto di tanti capolavori? “Non si può narrare nulla di drammatico se non hai in mano quel sottilissimo strumento che sottolinea e fa accettare in modo emozionante la tragedia, e che si chiama ironia”.

Furio incomincia presto, ereditando dal papà giornalista e disegnatore Filiberto, che muore tragicamente nel 1933: neppure quattordicenne, deve mettersi al lavoro per sfamare la famiglia. L’impegno è profuso su riviste e giornali, fumetti per i più piccoli ne Il Balilla e La Piccola Italiana, rielaborazioni favolistiche e storie originali quali La famiglia Pestapepe e Il prof. Buongiorno: disegni, disegni, ancora disegni, un serbatoio di licenze fantasiose e ancoraggi alla realtà, diritto di critica e dovere di cronaca. L’approdo al satirico Marc’Aurelio nel Dopoguerra lo accomunerà ad altri cineasti in erba, da Monicelli a Fellini, da Scola a Steno, incubando nelle vignette l’esplosiva sintassi che precipiterà sullo schermo.

Il voltaggio grafico è sempre sociale, sovente politico, segnatamente per il Don Basilio e, negli anni Ottanta, per L’Anamorfico. Premesso che “oltre ad essere un artista dal talento inimitabile è stata la persona più intelligente, divertente, tenera, generosa, geniale che abbia mai conosciuto”, un altro cinematografaro dal tratto felice, Paolo Virzì, ne distingue la graphic novel Passioni, che lo stesso Furio definiva “manuale di recitazione eccessiva in forma di fumetto romantico”. In contrasto con l’attuale “superficialità e la rozza approssimazione del luogo comune” nel ridiscutere quella stagione della storia italiana, l’opera “colpisce per l’acutezza nella lettura del fascismo come – osserva Virzì – innanzitutto una patologia psicosentimentale, una malattia dell’anima che rende scemi e ridicoli, e dalla quale è possibile guarire solo con un malinconico, senile rincoglionimento”.

Ricco nell’apparato iconografico e puntuale nei contributi, Furio Scarpelli Pennello, china e macchina da scrivere mette in appendice un ghiotto rinvenimento del figlio Giacomo: “Meno 5, 4, 3, 2, 1… è il titolo della storia di sei pagine dattiloscritte contenuta in una cartellina celeste, saltata fuori dall’archivio degli inediti di mio padre, firmata insieme ad Age e a Monicelli e datata 1967”. Denominazione alternativa Big Deal on the Moon, che rimanda ai Soliti ignoti distribuito negli Usa come Big Deal on Madonna Street, il brogliaccio si concludeva con “sincerely yours”, insinuando una committenza d’Oltreoceano: “Non si dimentichi che tra il 1958 e il 1965 Age, Scarpelli e Monicelli avevano ricevuto la nomination all’Oscar oltre che per I soliti ignoti, per I compagni (il loro capolavoro) e per Casanova ’70, e che – rammenta Giacomo – nel 1965 i due sceneggiatori erano stati chiamati a Hollywood da Hitchcock per scrivere il copione delle Cinque R”. Chissà che luna americana avrebbe illuminato Furio.

 

Rai, la spartizione è illecita sempre

Ha sbagliato Giuseppe Conte nel lasciarsi andare a escandescenze pubbliche, fino a impedire, o almeno cercare di impedire, la presenza dei rappresentanti grillini nelle trasmissioni Rai, perché i 5 Stelle non sono stati adeguatamente rappresentati come primo partito del Paese nella spartizione dei ruoli di quello che è, o dovrebbe essere, un Ente pubblico.

Ha sbagliato perché, pur contestando questa spartizione partitocratica, e proprio perché l’ha contestata, Conte l’ha avallata. Se i grillini fossero stati adeguatamente rappresentati in Rai, secondo la loro attuale forza parlamentare, Conte non avrebbe probabilmente proferito verbo. E questo è in totale contrasto con l’originaria concezione dei 5 Stelle secondo cui la Rai avrebbe dovuto essere sottratta all’occupazione, del tutto arbitraria, da parte dei partiti. Se c’è un renziano in più o un grillino in meno la sostanza non cambia. È la spartizione partitocratica della Rai ad essere del tutto illegittima e che non può essere accettata.

Intendiamoci, la presa dei partiti sulla Rai esiste da quando esiste la Rai. Alle origini la Rai era in mano a un solo partito, la Dc, che aveva ben capito il potere di questo mezzo che non le deriva dal fatto di “far vedere” (anche un film “fa vedere”) ma dall’essere piazzata nelle nostre case. Non è possibile ignorarla. Il Pci, il grande antagonista di allora, aveva scelto una strada diversa: portare dalla propria parte gli artisti e, in modo particolare, i registi (tutto il “neorealismo” è fatto di questa pasta). Agendo in un regime di monopolio commerciale, e che quindi non era sottoposto ai diktat di Auditel, la Rai di Ettore Bernabei poteva permettersi di offrire trasmissioni di alto e anche di altissimo livello. Prendiamo il “varietà” del sabato sera, l’intrattenimento popolare per definizione. Si chiamava Un, due, tre di Tognazzi e Vianello; Il mattatore di Gassman; Alta fedeltà (testi di Chiosso e Zucconi); Studio uno di Walter Chiari (1963), Lelio Luttazzi (1964), Ornella Vanoni (1966); Il signore di mezza età a cura di Camilla Cederna, Marcello Marchesi, Gianfranco Bettetini, presentato dallo stesso Marchesi con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; L’amico del giaguaro, con Bramieri, la Del Frate e Raffaele Pisu; Scarpette rosa con Carla Fracci, Walter Chiari, Mina; Quelli della domenica con Paolo Villaggio (testi di Marchesi e Costanzo). Erano tutti spettacoli che si sostenevano su professionisti di ottimo livello che, per necessità, dovevano essere presi tutti dalle arti e dai mestieri, fosse pure il circo di Moira Orfei, perché quella prima televisione non poteva alimentarsi di se stessa, come invece avviene oggi dove basta una comparsata di un signor nessuno per farne un personaggio che poi ripresentandosi per saecula et saeculorum sul piccolo schermo ci ossessionerà per anni pur non avendo nulla da dire e da dirci. Inoltre quella Televisione bernabeiana cercò di unificare l’Italia dei dialetti a un italiano di buon livello, c’erano addirittura venature “puriste” in quel linguaggio, tanto lontano dal basic-english-romanesco di oggi. C’era poi lo sceneggiato all’italiana (Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po) e la trasmissione dei grandi romanzi dell’Ottocento dai Fratelli Karamazov ai Demoni di Dostoevskij (con la straordinaria interpretazione di Luigi Vannucchi nel ruolo del principe Stavrogin). Bernabei si permise di dare alle 20.30, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ognuno lo interpretò secondo la propria sensibilità, la mia segretaria (lavoravo allora in Pirelli) lo prese come un noir e in fondo ci stava anche quello.

In quella televisione c’erano ‘pruderie’ comiche, la parola “uccello” era proibita e quando il finto ingenuo Mike disse: “Ahi, ahi, signora Longari lei mi è caduta sull’uccello” suscitò un putiferio, che ancor oggi si ricorda, ma sempre in termini bonari, come più bonaria era la società di quegli anni. Né io sono così ingenuo da non conoscere i rischi di totalitarismo che ci sono in ogni dirigismo. Resta il fatto che quella era una tv che avrei fatto vedere a mio figlio senza dovermene vergognare. Quella di oggi non è immorale (magari): è semplicemente volgare.

Il patatrac accadde quando nel 1975, con un’apposita Legge, fu introdotto il cosiddetto “pluralismo” televisivo, cioè le tre Reti Rai, con i loro addentellati, dovevano essere assegnate ai partiti: la Rete Uno di regola alla Dc, la Due al Psi, la Tre alla sinistra. Dovendo competere fra loro per acquisire audience, le tre reti Rai, aggiogate a questo o a quel partito, cosa che nessuno nega nemmeno fra i protagonisti di allora che pur se la danno da indipendenti, dovettero abbassare il proprio livello culturale. L’avvento delle “commerciali” ha fatto il resto. Quello culturale non è un “prodotto” come gli altri. Se io ti do una mela buona tu la mangi, se te ne do una un po’ meno buona tu la mangi, se te ne do una ancora meno buona tu la mangi lo stesso, ma se tu mi dai una mela marcia io te la butto in faccia. Il “prodotto” culturale può invece abbassare all’infinito il suo contenuto per ottenere audience più ampie, abituando così a un livello infimo i suoi consumatori che chiederanno un prodotto ancora più basso. E questo è il punto cui siamo arrivati oggi dove alle 20.30 invece di Bergman c’è una tipa che deve rispondere, per qualche centinaia di migliaia di euro, alla fulminante domanda: “Qual è l’infinito di volo”?

Come si esce da questo avvitamento? Non è poi così difficile se ci rifacciamo al modello britannico. In Gran Bretagna la Bbc, che è considerata una delle migliori televisioni al mondo, dipende dal governo inglese, perché anche il governo, rappresentando il Paese, ha il diritto e il dovere di dare, latu sensu, una sua impronta culturale. All’infuori della Bbc ci sono poi network privati che si battono tra loro per avere la maggior audience possibile, senza dover badare agli interessi pubblici e più in generale del Paese. Londra è a un’ora e mezza di volo. È così difficile riprendere da quel modello, che tiene ben fermo l’interesse pubblico senza castrare quello commerciale dei privati? Parrebbe di sì se ora anche il M5S, che doveva spazzare via la presa partitocratica dei partiti sulla Rai, fa, attraverso le parole di Conte, il ponte isterico perché ritiene di non aver avuto in questa spartizione il posto che pensa, non per Legge ma per consuetudine, che gli spetti. In fondo Conte, dando l’aria di contestare la spartizione pubblica della Rai, l’ha – di fatto e del tutto involontariamente – avallata.

Caro Massimo, magari la lottizzazione Rai fosse illegittima! Purtroppo è non solo legittima, ma addirittura imposta dalla legge (Gasparri, peggiorata da Renzi). Il M5S ha presentato una proposta di legge per riformarla nel senso della Bbc, senza però trovare i voti necessari in Parlamento. Nell’attesa, il governo lottizza in base alla legge vigente: ed è vergognoso che lo faccia con tutti i partiti, fuorchè col più rappresentato in Parlamento.

(M. Trav)

 

Haftar, mandato d’arresto per lui. E Misurata lo condanna a morte

Per un candidato alle imminenti elezioni presidenziali del 24 dicembre non è proprio il massimo per una campagna elettorale. La Procura militare ha ordinato che venga eseguito il mandato di arresto emesso nel 2019 nei confronti del generale Khalifa Haftar. Solo ieri l’Alta Commissione nazionale per le elezioni aveva accettato la candidatura dell’ufficiale. Ma la Procura miliare ha chiesto “l’esecuzione dei mandati di arresto” per cinque reati attribuiti all’ufficiale tra il 2019 e il 2020. Per l’emittente Al-Ahrar Haftar rischia fino a 5 anni di carcere. Altre brutte notizie per il leader che ha cercato di espugnare Tripoli durante la guerra arrivano da Misurata. La procura militare lo ha condannato a morte in contumacia, assieme a sei ufficiali dell’Esercito nazionale libico in relazione a un raid dell’agosto 2019 contro l’Air defense college, nel quale morì un soldato.