La lira crolla e si tira dietro Erdogan

“Lascia tutto e vieni in piazza!”. Dopo l’ennesimo crollo della lira turca nei giorni scorsi e l’inevitabile nuovo aumento dell’inflazione arrivata ormai al 20 per cento, Kemal Kilicdaroglu, leader del partito più forte dell’opposizione, il repubblicano laico Chp di ispirazione kemalista, ha esortato la popolazione a prendere parte alla maratona pubblica prevista il 4 dicembre dalla città industriale di Mersin. L’iniziativa è stata lanciata dal segretario del Chp allo scopo di dar voce ai cittadini sulla devastante crisi economica che sta mettendo in ginocchio il ceto medio e non solo i meno abbienti che sono a malapena in grado di acquistare il pane, il cui prezzo è arrivato a 5 lire a filone, considerato che lo stipendio medio è di 3.900 lire (circa 280 euro). Oggi per acquistare un solo euro ci vogliono infatti quasi 14 lire. L’altro motivo della maratona è quello di spronare i turchi a sostenere, seppur indirettamente, la richiesta da parte dell’opposizione (che comprende anche il nazionalista Partito Buono e il Partito democratico dei popoli filo curdo) di elezioni anticipate. Le prossime consultazioni si terranno nel 2023. Ma il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, è determinato a vendere cara la pelle e mai concederà che lo scrutinio venga anticipato. La deriva sempre più dispotica del “Sultano”, a fronte del progressivo abbassamento del suo indice di popolarità, preoccupa l’opposizione che teme un nuovo giro di vite del governo guidato dal partito della Giustizia e Sviluppo, Akp, di cui è segretario lo stesso Erdogan. Slogan come Akp istifá ! , “Akp dimettiti”, hanno iniziato a risuonare nelle ultime due serate, dopo la fine dell’orario di lavoro, a Istanbul, Ankara e Smirne nei pressi dei distributori di benzina che ha raggiunto un prezzo stellare. Dall’inizio del 2021, la lira ha perso il 45%, uno dei peggiori risultati nel mondo ma il presidente Erdogan ha ribadito che il taglio dei tassi di interesse è una mossa vincente. Da due anni, il presidente della Repubblica sta dimostrando di essersi trasformato in un autocrate megalomane anche a causa della propria convinzione, contro tutte le regole economiche, che tagliare i tassi di interesse blocchi il deprezzamento della lira e l’inflazione. Nel tentativo di perseguire tale piano fallimentare, Erdogan ha di fatto commissariato la Banca centrale – un’istituzione indipendente nei paesi democratici e non solo – e licenziato quattro governatori in un anno e mezzo. L’ex vice governatore della Banca centrale, Semih Tumen, uomo vicino al presidente fino al mese scorso, ha chiesto un ritorno a politiche che proteggano il valore della lira: “Questo esperimento irrazionale non ha possibilità di successo e deve essere abbandonato immediatamente”.

Londra e Parigi litigano sui migranti che affogano

Tra i 27 migranti, almeno, inghiottiti dalla Manica giovedì, c’erano anche tre bambini e sette donne, di cui una incinta. La maggior parte erano curdi, originari d’Iraq o Iran. Il bilancio è ancora provvisorio perché a bordo del gommone c’era probabilmente una cinquantina di persone. I soccorritori hanno potuto portare in salvo due uomini, un iracheno e un somalo, entrambi in ipotermia. Due giorni dopo, ancora non si conoscono le circostanze esatte del naufragio. Forse il gommone si è sgonfiato sotto il peso di tante persone. Forse ha urtato contro un’altra imbarcazione. Si sa invece che è il dramma peggiore di sempre nella Manica. Nel 2019 i morti erano stati quattro, sei nel 2020. Prima di giovedì, altri tre migranti avevano perso la vita in mare dall’inizio dell’anno. Ma malgrado i rischi altre centinaia di persone sono state ancora recuperate in mare dopo giovedì. Dall’inizio dell’anno, secondo i dati forniti dalla prefettura marittima francese, 31.500 migranti hanno lasciato le coste del nord della Francia nel tentativo di raggiungere l’Inghilterra. 7.800 sono stati salvati in mare.

Da una sponda all’altra della Manica ci si rimbalza le responsabilità. Londra rimprovera a Parigi di non fare abbastanza per fermare i migranti che partono dalle spiagge di Calais e Dunkerque su delle imbarcazioni di fortuna, da quando i muri alzati intorno al porto di Calais e all’Eurotunnel hanno sigillato quelle vie di fuga. Il Daily Mail ha pubblicato una foto di agenti francesi che osservano senza reagire un gruppo di migranti mentre mettono in mare un gommone. Stando a Londra, 22.000 migranti hanno raggiunto le coste inglesi nei primi dieci mesi dell’anno. Nella sola giornata dell’11 novembre, 1.185 migranti sono riusciti a sbarcare. Per l’Home Office, il numero di richieste di asilo nel Regno Unito è esploso: fino a settembre sono state presentate 37.562 domande, il numero più alto da giugno 2004, quando erano state 39.746. La questione dei migranti rende ancora più forti le tensioni tra Londra e Parigi, le cui relazioni sono già degradate per i disaccordi sulle licenze dei pescatori nell’accordo post-Brexit. Il ministro francese dell’Interno, Gérard Darmanin, ha annunciato l’arresto di cinque persone, dei presunti passeurs, gli scafisti. Il gommone potrebbe essere stato acquistato in Germania, poiché è stata trovata una targa di immatricolazione tedesca. Un’inchiesta per “omicidio e ferite involontarie”, “incitamento al soggiorno irregolare” e “associazione per delinquere” è stata aperta dal tribunale speciale di Lille. Darmanin ha accusato Londra di “cattiva gestione dell’immigrazione”: “Non possiamo essere i soli a lottare contro i passeurs”, ha detto.

Da dati del ministero, 1.500 scafisti sono stati arrestati dall’inizio dell’anno dalla polizia francese. Da parte sua, la ministra degli Interni del governo Johnson, Priti Patel, aveva già accusato la Francia di usare i migranti come arma per destabilizzare il Regno Unito dopo la Brexit.

Il nuovo piano del governo per l’immigrazione di Londra prevede nuove misure per gestire l’immigrazione illegale, tra cui la condanna all’ergastolo per i trafficanti di esseri umani. Boris Johnson ha proposto a Emmanuel Macron di “intensificare gli sforzi comuni” e di dispiegare pattuglie di polizia comuni. Il premier francese Jean Castex ha annunciato a sua volta più mezzi di salvataggio in mare, più droni, più telecamere termiche per individuare i migranti sulle spiagge durante la notte. Da Zagabria, Macron ha ribadito l’importanza di fare della Manica una questione europea: “Abbiamo bisogno di una più forte cooperazione europea”. Ed è stato annunciato un incontro domenica a Calais tra i ministri incaricati dell’immigrazione di Belgio, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito, oltre che dei responsabili della Commissione europea, per combattere le reti di trafficanti.

Zhan paga cara la verità su Wuhan

Il 13 maggio 2020, Zhang Zhan, avvocata e già attivista del movimento pro-democrazia di Hong Kong, diventata citizen journalist – il giornalismo partecipativo di chi grazie alla diffusione capillare dei nuovi media porta a conoscenza verità scomode per i regimi – pubblica il suo ultimo video da Wuhan, l’epicentro della pandemia di Covid. Nelle immagini un po’ sgranate, la giovane donna viene minacciata da un poliziotto che le ingiunge di smettere di riprendere e postare online il suo materiale su WeChat, Twitter, YouTube e altri social media.

Quello del 13 maggio è infatti uno dei tanti video di denuncia già diffusi da Zhang Zhan, che dalla nativa Shanghai si è spostata a Wuhan, fin dal febbraio precedente, per contrastare la narrazione ufficiale.

Per mesi l’attivista ha intervistato testimoni e descritto la gestione dell’epidemia da parte del governo cinese per com’è davvero, quella crisi che le autorità vogliono nascondere a tutti i costi. Nei giorni in cui Pechino rassicurava il mondo parlando di un virus sotto controllo, Zhang raccontava di crematori al lavoro giorno e notte, della falsificazione al ribasso del reale numero delle vittime, di giornalisti indipendenti o familiari in cerca di verità vessati e ridotti al silenzio. È senza remore nel criticare il governo locale e nazionale. Quello del 13 maggio è anche il suo ultimo video. Il giorno dopo scompare: a lungo non si sa nulla di lei. Come ricostruisce in seguito Chinese Human Rights Defender, un’associazione internazionale non governativa che difende i diritti umani di dissidenti cinesi, è stata fermata dalla polizia il 15 maggio e arrestata formalmente il 19 giugno. L’accusa? Nelle fiorite definizioni del governo cinese per reprimere il dissenso, il suo crimine è picking quarrels and provoking trouble, “aver attaccato briga e provocato disordini”.

È l’articolo 293 del Codice penale cinese: una definizione abbastanza vaga da tornare utile per la repressione di qualsiasi forma di dissenso, usata quindi come grimaldello legale per colpire attivisti pro-democrazia e dal 2013 estesa dallo spazio fisico a quello online. Prevede una pena fino a 5 anni di carcere.

Zhang avrebbe inviato ‘una mole di notizie false sui social, concesso interviste a media stranieri come Radio Free Asia e Epoch Time, tutto con lo scopo di disturbare la gestione della pandemia. Lei respinge queste accuse ribattendo di non essersi inventata nulla, di aver visto tutto di persona. Il processo è una farsa di tre ore. La condanna? Arriva il 28 dicembre: 4 anni nel carcere di Pudong. Ma secondo la testimonianza del suo avvocato Zhang Keke, riportata da Amnesty International, mentre è in attesa di giudizio Zhang viene torturata con cappuccio sulla testa e manette ai polsi per 24 ore di seguito.

Da giugno 2020, quindi poco dopo il fermo, lei inizia uno sciopero della fame e viene alimentata a forza. L’avvocato riesce a visitarla in due occasioni, a novembre e dicembre 2020: ha un sondino per l’alimentazione forzata che le esce dalla narice, le mani bloccate perché non possa rimuoverlo. Secondo il legale, Zhang è debole, soffre di emicranie, dolori all’addome, alla bocca e alla gola, dove passa il tubo che la alimenta. Dice di soffrire e di essere esausta. I magistrati negano a un secondo avvocato, Ren Quanniu, l’accesso alle carte per preparare la difesa. Lei intanto la scorsa estate finisce in ospedale per malnutrizione. Secondo le ultime notizie dello scorso ottobre, sta continuando lo sciopero della fame ed è ormai in pericolo di vita. Ha 38 anni, è alta un metro e 77, pesa solo 40 chili: secondo i familiari, che l’hanno vista il 28 ottobre in videoconferenza, è troppo debole per camminare da sola e perfino per sollevare una mano. I suoi video sono scomparsi dal web cinese. Nel suo paese è un fantasma.

Il mondo, si fa per dire, si mobilita: chiedono formalmente la sua liberazione il governo degli Stati Uniti, le Nazioni Unite, l’Unione europea, anche il governo britannico tramite l’ambasciata a Pechino. Ma i dossier cruciali nei rapporti fra le potenze occidentali e la Cina sono altri, e la pressione diplomatica non arriva nelle carceri cinesi.

Reporter senza frontiere cerca di tenere alta l’attenzione assegnandole il suo Press Freedom Award 2021 ‘per il coraggio nel praticare, difendere e promuovere il giornalismo’. A settembre diffonde un appello al presidente cinese Xi Jinping per la liberazione di Zhang Zhan, firmato da altre 45 organizzazioni internazionali per i diritti umani.

Ma i giornalisti finiti dietro le sbarre delle case di detenzione per il loro lavoro indipendente su Wuhan sono 47. 114 in totale i reporter detenuti nelle carceri cinesi. Almeno 10 di loro, condannati a pene lunghe e ormai quasi dimenticati in carcere, rischiano la vita se non saranno liberati al più presto.

Trattato del Quirinale. Oggi la firma del testo che nessuno ha mai visto

 

Gentile redazione, è possibile leggere il contenuto dell’accordo Italia-Francia che ha preso il nome di ‘”Trattato del Quirinale”? È strano che, a parte pochi trafiletti, non se ne trovi traccia su giornali e tv; non mi risulta nemmeno che sia stato oggetto di votazione in Parlamento. Provo a chiedere a voi se conoscete i dettagli e potete spiegarci a cosa serve.

Giorgio

 

Buongiorno, sono un vostro affezionato lettore, abbonato da tre anni. Qualche giorno fa, nella rubrica Rimasugli di Marco Palombi, si citava la ratifica di un accordo tra Francia e Italia e chissà perché mi è sovvenuto l’accordo sottoscritto dall’allora premier Gentiloni sulla cessione dei nostri confini marittimi alla Francia, poi bloccato. Spero non sia lo stesso di allora e che il “Governo dei Migliori” non lo porti in Parlamento magari col voto di fiducia.

Marcello Colli

 

Gentili Giorgio e Marcello,rispondere è difficile perché almeno fino a stamattina – quando il Trattato sarà firmato al Quirinale – un testo ufficiale non c’è: dopo, ovviamente, sarà sottoposto al Parlamento per la ratifica (ma non col voto di fiducia, vietato dalla Costituzione per questo genere di leggi). Possiamo, qui e ora, mettere in fila quel che si sa. L’idea del Trattato nasce nel 2017 su proposta francese, ma non c’entra nulla col Trattato di Caen caro a Gentiloni. L’obiettivo, secondo il sottosegretario agli Affari Ue Amendola, è “creare una cooperazione rafforzata su molti temi (…) dall’innovazione allo sviluppo sostenibile, alla cultura e alla sicurezza”, a non dire della riforma del Patto di Stabilità. Cosa lascia perplessi? Intanto è un trattato bilaterale, mentre il nostro Paese ha sempre privilegiato la via “comunitaria”. Poi, a parte indicazioni generiche, non è mai stato spiegato a cosa serve e cosa prevede, né quale fosse il mandato dei tre saggi (Bassanini, Severino, Piantini) che hanno gestito la prima fase delle trattative. Infine va ricordato che il “sistema Francia” è di gran lunga l’investitore estero più rilevante in Italia – dalla finanza all’industria al lusso –, cosa che non sempre è reciproca (vedi Fincantieri-Stx). L’Eliseo, spiegando i vantaggi del Trattato, ha citato come esempio positivo il caso Stellantis, che però è l’acquisizione della ex Fiat da parte di Psa…

Marco Palombi

MailBox

 

I misteri di Mussolini e una cena con Vespa

Una domanda facile facile: lo sapete “Perché Mussolini rovinò l’Italia” e soprattutto “come Draghi la sta risanando”? Ecco, se rispondete in modo convincente a questa domanda, vincete un premio meraviglioso: una serata in compagnia di Bruno Vespa.

Fausto Padovan

 

Non sto più nella pelle.

M. Trav.

 

Mannelli, pro e contro: “Che arte”. “No, volgare”

Vi scrivo semplicemente per suggerire, ove fosse possibile, di mettere in vendita, magari con un’asta di beneficenza, l’originale della vignetta di Mannelli sulla Leopolda. Addirittura se ne potrebbe fare un Nft, per essere moderni. Io un’offertina la farei.

Roberto Larosa

 

La vignetta apparsa ieri in prima pagina è vergognosa. Se l’intenzione era quella di fare ridere avete sbagliato di grosso, fa vomitare.

Sonia Bartesaghi

 

Sono molto indignata per la vignetta di ieri, che dire volgare è poco. Sembra proprio un invito allo stupro. Se la vostra intenzione era quella di fare della satira contro Renzi avete sbagliato clamorosamente il bersaglio. Temo che gli abbiate fatto un grande favore. La cosa che più mi meraviglia è che nessuno/a del giornale, in primis Gad Lerner e Padellaro, che apprezzo moltissimo e stimo, non abbiano avuto niente da dire se hanno saputo e visto la vignetta prima della pubblicazione. E Travaglio che dice? Oggi ho sentito a Prima Pagina il giudizio negativo che ne ha dato Gad Lerner. Non invoco il politicamente corretto, ma nella vignetta in questione c’è un allinearsi e sostenere la cultura maschilista patriarcale contro cui le donne e, ahimè, ancora troppi pochi uomini stanno lottando e che si sperava stesse morendo. Penso che dobbiate porvi il problema di far qualcosa di più delle semplici scuse.

Katia Ricci

 

Travaglio che dice? Che la vignetta era un finto annuncio erotico per il nuovo centro renziano, dunque lo stupro e il maschilismo c’entrano come i cavoli a merenda. La satira è estrema dai tempi di Aristofane e Rabelais. Ed è fatta apposta per divertire, indignare, disgustare, dare pugni nello stomaco, insomma suscitare reazioni forti e possibilmente far pensare. “Il Fatto” ha addirittura allegato il numero di “Charlie Hebdo”, campione di satira estrema, dopo la strage di Parigi, e ospita ogni giorno Luttazzi per la gioia di molti lettori e lo sdegno di altri. Mai mi sognerei di censurare una vignetta di Mannelli né di chiunque altro. Quella incriminata, oltretutto (ma questo importa poco, perché ognuno ha i suoi gusti), l’ho trovata azzeccatissima. Ma chi la pensa diversamente ha tutto il diritto di protestare, ben sapendo che non sarà né la prima né l’ultima volta che gliene daremo occasione. “Je suis Charlie” o è sempre o è mai, non a giorni alterni.

M. Trav.

 

Uggetti, le strane motivazioni della Corte

Sono state rese note le motivazioni della sentenza con la quale la Corte di Appello di Milano ha assolto Simone Uggetti, l’ex sindaco Pd di Lodi, dall’accusa di turbativa d’asta nella gara bandita per la gestione della piscina comunale. Scorrendo le motivazioni, si può leggere: “È pacifica acquisizione che una bozza del bando veniva inviata dal sindaco Uggetti al Marini” (ovvero il rappresentante della società Sporting, per cui il bando era stato costruito su misura). Ma secondo i giudici “l’obiettivo di affidare a Sporting Lodi la gestione degli impianti non era affatto irragionevole”, poiché “possedeva tutte le caratteristiche per realizzare la miglior gestione possibile delle piscine scoperte. Dunque la soluzione era satisfattiva degli interessi economici e dell’interesse pubblico a ottenere il miglior servizio possibile a beneficio dei cittadini del territorio lodigiano”. In pratica secondo i giudici ci fu il reato di turbativa d’asta, ma tale reato fu fatto a fin di bene e quindi non va punito. La Corte di Appello ha quindi dato un valore giuridico al famoso detto di Machiavelli secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. In questo caso il fine è stato giudicato buono dai giudici di appello per cui anche i mezzi per realizzarlo, pur se contrari alla legge, sono stati giudicati accettabili e condivisibili. E io pensavo ingenuamente che i giudici dovessero solo applicare le leggi.

Pietro Volpi

 

Caro Volpi, il giudice Esposito ha ben spiegato sul “Fatto” perché quella assoluzione contiene vari errori giudiziari in diritto e si presta a un’impugnazione per essere riformata in Cassazione.

M. Trav.

L’escamotage alla latino- americana per il Colle

L’America Latina? È da sempre il luogo nel quale tutto è già accaduto. Nel quale, conoscendone la Storia, si possono trovare i precedenti e/o le giuste ispirazioni. Anni orsono, Vladimir Putin, ostacolato da una disposizione che gli impediva un terzo mandato consecutivo e in prospettiva continue rielezioni presidenziali, si ricordò del messicano Porfirio Diaz che, in una pressoché analoga situazione, aveva fatto eleggere nel 1880 un successore scelto sostanzialmente perché cambiasse la normativa e gli consentisse poi di governare non all’infinito ma quasi, cosa che fece per Putin Dmitrij Medvedev.

Oggi, guardando alla premier svedese Magdalena Andersson restata in carica solo 8 ore, s’è parlato di un record ma così non è visto che il 19 febbraio del 1913 Pedro Lascurain – anch’egli messicano – fu presidente del suo Paese certamente meno di 60 minuti e c’è chi dice addirittura soltanto 25.

Ma, venendo a noi e alle manovre in atto per il Quirinale – manovre che porterebbero a una conferma temporanea di Mattarella che resterebbe in carica fino al momento ‘giusto’ tra virgolette per la successione di Draghi – il personaggio latinoamericano che torna alla mente è Hector Campora.

Semplificando brutalmente la non poi tanto lontana vicenda che lo vide protagonista, costui, seguace dell’ex capo di Stato in esilio Juan Domingo Peron impossibilitato a proporsi da una disposizione impediente a suo carico, si candidò alla presidenza dell’Argentina nel 1973 ed entrato in carica il 25 maggio, in breve tempo, dopo aver consentito il rientro di Peron riabilitato elettoralmente, si dimise (lasciò il 14 luglio) permettendo – a parte un altrettanto breve interim di Raul Lastiri – al suo leader di subentrargli vincendo nelle urne subito convocate.

Mattarella all’incirca come Campora, quindi? Secondo i ‘draghisti’ più accaniti. Ma pare proprio che il presidente da questo orecchio non senta.

No femminicidi: le fanfare del pugno duro

Speriamo che trascorsa la Giornata contro la violenza sulle donne non si debba poi dire, ancora una volta, molto rumore per nulla. Viva mille volte il rumore che anche questa volta è stato fragoroso, ma che dovrebbe rimanere assordante a rammentarci l’esistenza di un’infamia di cui non riusciamo a liberarci. Attenzione però al nulla di fatto, implacabile ogniqualvolta in Italia si cerca di risolvere la questione delle tutele dei più deboli. Leggiamo su La Stampa: “Femminicidi, il governo accelera, ‘Ora leggi e pene più severe’”. Fantastico. Da applausi anche la proposta della ministra per il Sud, Mara Carfagna: “Aiuti alle donne coi fondi tolti alle mafie”. Ma chi ci assicura che provvedimenti così duri, una volta giunti in Parlamento, non affondino nella palude dei veti “garantisti” della destra, e addio, come avvenuto con il ddl Zan? Certo, attendiamo che la voce di Matteo Salvini e Giorgia Meloni su tali proposte si levi forte e chiara, ma siamo proprio sicuri che l’occhiuto senatore Pillon non abbia obiezioni sul merito? Esiste poi il problema delle aule di giustizia chiamate a giudicare gli autori dei misfatti. Leggiamo sul manifesto: “Femminicidi: se c’è la gelosia, l’aggravante spesso non è concessa”. In un’analisi qualitativa su 370 sentenze condotta da Alessandra Dino, docente a Palermo, emerge che nel 44% delle motivazioni i giudici definiscono le uccisioni di donne “come sentimentali, per rifiuto o abbandono, oppure relazionali, per possesso”. Per gli assassini implicite attenuanti coerenti con la descrizione della vittima “che molto spesso viene vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia la sua condotta sessuale disinibita all’origine dei gesti”. Poi, c’è un contesto pubblico nel quale si fatica a considerare i femminicidi come reati marchiati dal particolare allarme sociale che suscitano. Infatti, su Libero, Filippo Facci scrive, citando numeri ufficiali, che “l’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise, anche perché il tasso di omicidi è tra i più bassi del mondo”. Dati che, va riconosciuto, rappresentano un motivo di consolazione, e anche di pacata riflessione, per le 109 donne che dall’inizio dell’anno sono state sparate, accoltellate, sgozzate, sventrate, strangolate, massacrate di botte e, in definitiva, cancellate dalla faccia della terra. Anche perché, probabilmente, se l’erano cercata.

“Sì Meazza”: cresce l’onda contro il blitz imperiale di Sala

Non se lo aspettava, Giuseppe Sala. Sapeva che doveva chiudere al più presto, con un blitz imperiale, senza dibattito, l’affare San Siro. Aveva messo in conto qualche mal di pancia anche tra i suoi, ma trattenuto; e qualche netta opposizione, ma circoscritta, dei soliti no-tutto. Invece sta crescendo una resistenza ampia, tenace, intelligente, civile, composita, trasversale. È nato un comitato che si chiama Sì Meazza: per far capire bene fin dal nome che non si tratta dei soliti-contro-qualsiasi-cosa. Sono cittadini ragionanti che vogliono salvare un bene pubblico, lo stadio dei milanesi, la Scala del calcio, che Sala vuole invece abbattere per lasciar fare su suolo pubblico – con la scusa di costruire un nuovo stadio – un’operazione immobiliare privata da 1,2 miliardi di euro. Come se si decidesse di abbattere l’ospedale Niguarda per permettere a un privato di costruirci al suo posto una bella clinica privata. Nel comitato c’è la presidente del comitato San Siro, Gabriella Bruschi, che per prima ha sollevato il problema, quando Sala, ancora sotto elezioni, faceva finta di essere incerto e di mercanteggiare le volumetrie con i privati come in un suq di Marrakesh. C’è l’architetto Luca Beltrami Gadola, animatore del giornale online più vivace della città, Arcipelago Milano. C’è l’ex presidente di Atm Bruno Rota. Ma poi ci sono tanti nomi inaspettati, i socialisti Roberto Biscardini e Felice Besostri, il repubblicano Franco De Angelis, l’organizzatore di concerti Claudio Trotta, il nuovo patron del Teatro Arcimboldi Gianmario Longoni.

C’è anche, in posizione preminente, da promotore, Luigi Corbani, ex vicesindaco di Milano ed ex leader dei “miglioristi” del vecchio Pci milanese, che proprio sul sito Il Migliorista ha scritto a proposito dell’operazione San Siro cose di una lucidità sconvolgente (e quindi nascoste dai giornali mainstream, tutti impegnati a glorificare Sua Maestà Sala Bonaparte): “Se il Milan e l’Inter si comprano delle aree e si vogliono costruire lo stadio, passi”, scrive Corbani. “Ne è un esempio il mitico Old Trafford costruito dal Manchester United a Trafford nella Grande Manchester. Se una squadra vuole comprarsi il Meazza, e lo paga al Comune, discutiamone. Ne è un esempio il West Ham a Londra che ha preso in affitto, per 99 anni, l’Olympic Stadium, oggi denominato London Stadium. Se una squadra vuole fare del proprio stadio uno stadio-business, bene. L’esempio è il Real Madrid. Ma qui si sta parlando di aree pubbliche… Cioè si fa un complesso di edilizia residenziale, commerciale e ricettiva con annesso uno stadio: il tutto purché sia remunerativo per il fondo americano e la proprietà cinese”. Si capisce allora perché Sala abbia perso la calma. Tanto da ribattere a Massimo Moratti, anche lui un Sì Meazza: “Vuole salvare lo stadio? Se lo compri”. Un tantino volgare, come gli ha fatto notare Corbani: “Sala forse è nervosetto, ma non si deve dimenticare che è stato eletto da un cittadino su quattro”. Lo stadio è già pubblico, ma Sala venderebbe ai privati anche la Madonnina (che per fortuna non è sua). Il dibattito pubblico che Sala non vuole fare sarà fatto comunque dai cittadini. Sabato 27 novembre, grande assemblea di Sì Meazza al teatro Elfo Puccini. Martedì 30, tavola rotonda all’Archivio di Stato con Riccardo Aceti e Nicola Magistretti, autori di un progetto di riqualificazione del Meazza che ottiene gli stessi risultati dello stadio nuovo, ma con metà della spesa (e senza l’operazione immobiliare attorno); l’economista Salvatore Bragantini; il promoter Claudio Trotta; il nuovo presidente della Commissione antimafia del Comune, Rosario Pantaleo; e Gianfelice Facchetti, attore e scrittore, autore di un libro imperdibile, C’era una volta a San Siro (Piemme), nonché figlio di quel Giacinto Facchetti che il Meazza ha contribuito a farlo diventare grande.

Democrazia dell’alternanza: l’Italia si ispiri alla Germania

Lo so che fa tanto provinciale curiosare nei programmi di governo altrui in cerca di un modello per noialtri. Lo so che il Pd non somiglia per nulla ai socialdemocratici tedeschi quanto a profilo culturale e codici di comportamento. Tantomeno sarebbe lecito paragonare ciò che resta del Movimento 5 Stelle all’ormai consolidata esperienza dei Verdi in Germania. Un partito liberale che superi l’11% dei consensi, come la Fdp, infine, resta il sogno irrealizzato di una borghesia italiana che liberale lo è solo a parole. E però… la tentazione è troppo forte, lasciatemi giocare con l’immaginazione.

Ordunque: la Germania, benché in piena emergenza pandemica, spedisce all’opposizione la Cdu ponendo fine a quella esperienza di unità nazionale che invece da noi, nel culto di Draghi, la classe dirigente pretende obbligatoria, concepita per giunta all’opposto di come la Merkel l’ha praticata, cioè come assoggettamento dei partiti politici ai tecnocrati. Si chiama democrazia dell’alternanza.

Elaborato in due mesi un meticoloso programma di 177 pagine, da sottoporre all’approvazione degli iscritti attraverso consultazioni online o veloci congressi, il governo Scholz si profila con una netta impronta di centrosinistra sul terreno sociale, ambientale, dei diritti civili e dell’europeismo. Se scorriamo i punti di questo programma, ne invidieremo il nitore e anche il coraggio. Soprattutto, vi troveremo indicazioni preziose nella definizione degli obiettivi con cui uno schieramento progressista potrebbe candidarsi al governo dell’Italia. Altro che la vaghezza di contenuti della nostra legge di Bilancio, imbrigliata dalla compresenza di forze antitetiche “costrette” nella stessa innaturale maggioranza. Prima di tutto: la questione salariale. La Spd, partito storicamente legato al movimento sindacale, ha imposto un aumento del salario minimo orario a 12 euro. Da noi restano vigenti accordi contrattuali da 6 euro l’ora che di fatto legalizzano la piaga del lavoro povero. Non dovrebbe essere, questa degli aumenti retributivi, la priorità di una sinistra che aspiri a rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici? Altrettanto impegnativo è l’impegno strappato dai Verdi tedeschi: anticipare al 2030, cioè entro 8 anni, la chiusura di tutte le centrali a carbone. Scadenza che appare temeraria in un Paese come il nostro, dove si continuano a prorogare i tempi di riconversione dell’acciaieria di Taranto, già riconosciuta colpevole di disastro ambientale. Seguono progetti di edilizia residenziale a costi contenuti per 400 mila nuovi appartamenti all’anno, provvedimenti di contrasto alla povertà infantile, concessione della doppia cittadinanza ai lavoratori stranieri, investimenti nell’agenda climatica e nella digitalizzazione. In un Paese che condivide con l’Italia il triste primato dell’età media più elevata, ai giovani si lancia un messaggio di coinvolgimento nelle scelte pubbliche con l’estensione del diritto di voto ai sedicenni. Pochi mesi fa, quando a proporlo fu il neosegretario del Pd, Enrico Letta, nessuno lo prese sul serio, quasi si trattasse di una boutade demagogica. Invece si può fare, basta volerlo. Anche la scelta di procedere alla legalizzazione della vendita controllata di cannabis, funzionale tra l’altro a combattere la microcriminalità legata allo spaccio, evidenzia un’assunzione di responsabilità sconosciuta alla politica italiana. Tant’è vero che da noi tale proposta ha marciato solo sulle gambe di un referendum promosso dal basso. Afflitti da scetticismo, i commentatori italiani del nuovo “governo del semaforo” rossogialloverde indugiano sui vincoli di bilancio che la Germania potrebbe continuare a imporre all’Ue, dando per scontata la continuità con l’era Merkel. Un centrosinistra italiano meno esitante, invece, dalla svolta del semaforo avrebbe molto da imparare.

 

Draghi gioca di retorica per vendere il green pass

A leggere i giornali, la conferenza stampa del presidente Draghi sul nuovo decreto che istituisce il cosiddetto Super Green pass è appena al di sotto del Discorso della Montagna, e precisamente per i motivi per cui a noi non è piaciuta.

La retorica è stucchevole: l’elogio ripresistico, aleatorio e borsistico, del “rischio ragionato” di aprile è diventato un prudenziale “non vogliamo rischi, la normalità deve continuare”.

Ma se adesso non possiamo più permetterci rischi, è perché ce ne siamo permessi abusivamente in onore alla ripresa emotivamente confezionata o, come usa dire ultimamente, alla “resilienza”. Per non ammettere questo – che per esempio è stato illogico togliere l’obbligo delle mascherine all’aperto, dopo che si sono inseguiti i runner solitari sulle spiagge coi droni, o non ridurre l’affollamento sulle metropolitane e sui treni dei pendolari, o fingere che i tamponi rapidi avessero una affidabilità che non hanno – Draghi ripete una formula pubblicitaria piuttosto fiacca: “Prevenire per preservare”. L’accento è percussivo: “Vogliamo essere molto prudenti per evitare i rischi sì, ma per riuscire a conservare quello che ci siamo conquistati, che gli italiani si sono conquistati nel corso di quest’anno”. Cosa ci siamo conquistati? La libertà di accedere a ristoranti, cinema, teatri etc. esibendo (se richiesti di farlo) un codice Qr con cui vaccinati, guariti e tamponati erano equiparati a livello sanitario, sebbene non lo fossero, perché potessero esserlo a livello sociale. Su metro, bus e treni regionali, addirittura, l’uguaglianza era totale: non era richiesto il Green pass.

Ma se ce lo siamo conquistato, perché lo dobbiamo abbandonare? È semplice: perché non ha funzionato. Perché i tamponi rapidi hanno una percentuale altissima di falsi negativi; perché il vaccino non è uno scudo contro l’infezione; dunque essere vaccinati non equivale a essere negativi, ed essere negativi al test antigenico non equivale a non essere infetti, e dunque il Green pass usato come lasciapassare autorizza a sentirsi immuni quando non lo si è affatto. Poiché questi argomenti sono per gente matura e non per un popolo che si suppone docilmente affidatosi a un Salvatore, nel discorso di Draghi c’è un’insistenza retorica che sposta il punto della questione sanitaria su un campo sentimentale ed etnologico: “Salvare il Natale”. Natale che si suppone sia: socialità e consumo. A questo punto Draghi si arrampica su un bizzarro ragionamento lievemente inquietante (scrivemmo a suo tempo della debolezza oratoria di Draghi, osando l’indicibile): “Spero sia un Natale normale. Se abbiamo un po’ di restrizioni per i vaccinati è normale questo Natale, e speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia veramente per tutti. Questo è quello che vogliamo riconquistare, che lo sia per tutti. Bisogna che coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni… possano tornare a essere parte della società con tutti noi”. Dal che si evince che Natale è uguale società e che i non vaccinati non sono parte della società, o che comunque le nuove misure non servono a indurli a vaccinarsi, ma a escluderli vieppiù dalla società da cui si autoescludono. Posto che i no-vax sono qualche milione di persone, basterà impedirgli via via sempre più attività sociali, dopo l’obbligo del Green pass pure per lavorare, fino a ridurli a paria? Si aspetta che la pandemia evolva, facendo fuori i fragili e i no-vax, o si decide di parlare di educazione e misure sanitarie piuttosto che di tutela del folclore? E a livello linguistico: perché tutta questa nebbia paternalistica invece di una corretta, laica, illuministica informazione? Bisognerebbe dire la verità: più aumentano i contagi, più aumentano in percentuale i malati gravi, anche tra i vaccinati, più si intasano gli ospedali, e questo sarebbe un disastro sanitario, a scapito anche della cura di altre patologie.

Già che c’era, Draghi avrebbe dovuto anche dire che il governo ha fatto pasticci togliendo l’obbligo di mascherine all’aperto (oggi infatti ripristinato da alcune Regioni), revocando quasi totalmente lo smart working per assecondare le ossessioni di Brunetta, preoccupato del Pil delle zone urbane e degli introiti della grande distribuzione più che della salute dei lavoratori (come se non fossero importanti anche gli incassi dei piccoli commercianti di prossimità), e somministrando ai giovani dei vaccini poi ritirati (inventandosi il “cocktail” come panacea), ciò che ha contribuito a creare sfiducia nella popolazione. Le formulette retoriche vuote hanno le gambe corte: “il rischio ragionato” era calcolato male, la scommessa è persa, e sarebbe stato saggio adottare misure ragionevoli per ridurre l’impatto della prevedibilissima quarta ondata, non aspettare il punto di non ritorno facendo leva sul Natale come sui dolcetti da far trovare ai bambini sotto l’albero.