L’androloga ricca e sexy, il “Meta”-sterco su Fb e il politico finto-prete

E ora, per la serie “Le donne hanno questo odore ipnotico che ti stordisce e ti fa smaniare o sono io che sono inopportuno”, la posta della settimana.

Caro Daniele, Mark Zuckerberg ha lanciato il metaverso! (Silvia De Angelis, Roma). E Bezos ha subito contrattaccato: nella nuova versione, Alexa farà sesso orale (A proposito del nuovo nome di Facebook, “Meta”, nessuno ha sottolineato una concordanza che mi fa sbellicare: in zootecnia, “meta” è lo sterco di animali di grandi dimensioni. Che allegoria meravigliosa di Facebook e di tutte le schifezze che ha combinato in questi anni! Meta. Nomen omen).

Ho 50 anni, sono impiegato in una grande azienda, e il pensiero che potrò andare in pensione solo quando avrò 68 anni mi fa star male. Qualche idea su come reagire? (Fabrizio Nitti, Torino). Caro Fabrizio, come avrai capito ormai è tutti contro tutti. Ho chiesto ad Alexa, e lei suggerisce la rappresaglia: quando avrai 80 anni, sposa una ventenne e falle prendere la pensione di reversibilità per 60 anni (Alexa è proprio in gamba. La stimo molto. Quando penso a come potrebbe essere un suo pompino la mia testa ronza di congetture).

Hai letto? Morisi, il capo della Bestia web della Lega, pagava prostituti e pippava (Federica Giglio, Brescia). Il potere dà alla testa. Chi si credeva di essere, un prete?

Ti sei vaccinato? (Luisa Franzinelli, La Spezia). Ovviamente. Il Coronavirus è stronzo. Se te lo becchi, spalmarsi il petto di Vicks e mangiare croccantini per gatti potrebbe non bastare, come scoprono ogni giorno migliaia di no-vax intubati.

Devo fare una visita al pisello. Mi consigli un andrologo o un’androloga? (Andrea Orru, Nuoro). Se ce l’hai grosso, un’androloga. È perfetta per la classica fantasia maschile con l’androloga nel ruolo di Edwige Fenech. Una donna che ti visita l’uccello è sempre piccante, e crea un ricordo di valore inestimabile per le seghe. Che i giovani trascurino la visita periodica da queste professioniste mi pare pertanto inconcepibile, ma ascrivo il fenomeno ai tempi disorientati in cui viviamo. Considera che non c’è erotismo senza lusso, Andrea, e una dottoressa è alta borghesia. Cashmerino, collana di perle, gonna di tweed, collant, tacchi alti. Il suo profumo. La sua permanente vaporosa. Non vedrai l’ora che ti si rizzi per vedere che faccia fa, e quanto riuscirà a restare distaccata e professionale davanti al tuo membro gigantesco. Se invece ce l’hai piccolo, meglio un andrologo: un’androloga che trattiene a stento le risate alla vista del tuo fagiolino può causare un trauma ragguardevole, di quelli che Jung alzava le mani. Non ti resterebbe che comprare una Porsche. Una volta ho rimorchiato con facilità una ragazza che mi aveva visto uscire dallo studio di un’androloga. Aveva pensato che, se non avevo paura di andare da un’androloga, dovevo avercelo gigantesco, e s’era incuriosita. Non le ho mai detto che l’androloga era la mia compagna. C’è arrivata da sola.

Smettila di fare satira contro la religione. Cristo è morto in croce per noi! (Maria Salvaneschi, Todi). Ma chi gli ha chiesto niente?

 

Mannelli e La coscia nell’occhio del “Foglio”

Nel giorno contro la violenza delle donne il Foglio si fa nobile e bello accusando di sguaiatezza sessista la vignetta di Riccardo Mannelli, che appariva sulla prima pagina del Fatto mercoledì. Con dovizia di particolari due autori del foglio di Ferrara/Cerasa criticavano il messaggio contro le donne che il disegnatore voleva secondo loro trasmettere nella “gazzetta delle espettorazioni di Travaglio”. Cattivo gusto insopportabile e incommentabile – epperò scrupolosamente commentato – secondo le rubriche del pensiero fogliaceo. Però girando la pagina si trovava un’altra rubrica, aulicamente intitolata “Alta società”, non firmata ma redatta da un noto bon viveur che loda l’ultimo libro capitatogli in mano come lettura da treno. Un titolo giudicato intrigante, tanto più di questi tempi di dibattito sulle violenze contro le donne: “Atti di sottomissione”, autrice Megan Nolan, così recensito – riporta il rubrichista – dal liberal londinese Guardian: “È l’esplorazione della vita di una giovane donna fatta di smarrimenti ed eccessi, alienazione e masochismo”. E siccome anche l’occhio dell’alta società e voyeurista, l’estensore ammicca: “Intrigante sin dalla copertina. Particolare di due belle cosce”… Alte espettorazioni.

Conferenze stampa col metodo “blatter”

Un giorno, parlando a un quotidiano argentino, l’ex presidente della Fifa, Joseph Blatter, confessò una tecnica in voga nei sorteggi calcistici: “Bastava freddare alcune palline, così al tatto le altre sarebbero sembrate calde”. Ora, questo giornale non è in grado di rivelare se, dopo essersi affidato a illustri personalità come Renato Farina e Claudio Durigon, il governo abbia deciso di avvalersi anche della collaborazione di un galantuomo come Blatter. Ma il dubbio è che i suoi racconti possano avere ispirato Palazzo Chigi, perlomeno nella scelta delle testate che ogni volta dovrebbero essere sorteggiate per poter rivolgere una domanda a Mario Draghi in conferenza stampa. Per una serie di sfortunati eventi, quasi sempre il Fatto esce sconfitto da questa lotteria, in cui invece risultano particolarmente fortunati i colleghi del Corriere o dell’Ansa, più ancora rispetto a Repubblica e Stampa. Nel dubbio, approfitteremo del Black Friday per recapitare un bel freezer a Palazzo Chigi.

Banca Tercas, Trefiletti “Indennizzare i clienti”

Il presidente dell’associazione CentroConsumatoriItalia, Rosario Trefiletti, torna a chiedere giustizia per migliaia di piccoli azionisti della Cassa di Risparmio di Teramo che nel 2014 hanno visto azzerare le loro azioni a seguito del sostanziale default della banca, che ha bruciato decine di milioni di risparmi. “Per questi risparmiatori – scrive Trefiletti in una lettera inviata a tutte le cariche istituzionali – i governi che si sono succeduti, a differenza di quanto avvenuto per i risparmiatori azzerati di altre banche, non hanno stabilito alcun indennizzo. E non hanno ottenuto nemmeno giustizia dal Tribunale di Teramo, che ha emesso delle sentenze palesemente errate dopo anni di cause senza istruttoria”.

Tim, Gubitosi attacca il cda sul caso Kkr e rimette le deleghe. A un passo dall’uscita

Una roba così, nella pur disastrosa storia ventennale della Tim privata, non s’era mai vista. Ieri l’Ad Luigi Gubitosi, sfiduciato dal primo azionista Vivendi e a un passo dalla bocciatura del Cda, ha sferrato un attacco al board con una lettera poi fatta recapitare alle agenzie di stampa. La mossa dimostra i rapporti ormai compromessi con molti dei consiglieri e prelude alla probabile uscita di scena del manager, che non a caso ieri ha rimesso le deleghe allo stesso consiglio, che si riunirà oggi per decidere.

Breve riassunto. Vivendi vuole cacciare Gubitosi, alla guida da novembre 2018 e con risultati assai negativi. Il secondo azionista, Cdp, non sembra ostacolare la manovra. La scorsa settimana 11 consiglieri su 15, a cui si è di fatto aggiunto anche Giovanni Gorno Tempini, presidente della stessa Cdp, ha chiesto un cda urgente per oggi per discutere la posizione del manager. Con notevole tempismo, il fondo americano Kkr, che Gubitosi ad agosto 2020 ha fatto entrare nella controllata Fibercop, ha recapitato al cda una manifestazione di interesse “non vincolante e non indicativa” per acquistare Tim per 11 miliardi facendo schizzare il titolo. Domenica, però, il cda non ha dato mandato a Gubitosi a trattare. Ieri il manager ha scritto al board ricordandogli che ha il dovere “di tutelare tutti i nostri azionisti, di non privilegiare posizioni individuali e di agire nel rispetto rigoroso delle regole e con rapidità”. Poi l’avvertimento: “Atteggiamenti dilatori del cda – si legge – possono essere interpretati come volti a difesa degli interessi di taluni azionisti, sono da evitare e sarebbero tali da ingenerare responsabilità sugli organi della società”. Il manager bolla come “false” le accuse di una sua vicinanza a Kkr, accusa alcuni consiglieri di aver tentato di nascondere informazioni al mercato e rimette le deleghe per consentire “una serena valutazione dell’offerta non binding” del fondo Usa.

Ora la palla è al cda. La situazione è critica. Ieri si è tenuta una riunione del collegio sindacale e del Comitato rischi. Sul tavolo c’è uno scostamento di 400 milioni a livello dei ricavi, 300 dei quali per il flop della partnership con Dazn sulla Serie A. Due le ipotesi: o annunciare il terzo profit warning dell’èra Gubitosi o accettare la linea del manager che promette di rimediare entro fine anno rivedendo gli accordi con Dazn e tagliare i costi (col rischio di esuberi).

Dal Parlamento Ue sì al salario minimo. Conte: “Ora in Italia”

Nessun effetto per il blitz scandinavo, sostenuto da alcuni politici italiani di centrodestra, contro la direttiva europea sul salario minimo: è passata all’Europarlamento con 443 voti a favore, 192 contrari e 58 astenuti. Non un’approvazione definitiva – ora il testo va negoziato col Consiglio Ue, i governi – ma è un’investitura.

L’11 novembre la direttiva aveva già avuto via libera dalla commissione Occupazione. Alcuni eurodeputati danesi e svedesi – Paesi contrari al salario minimo – ha però raccolto le firme per obbligare la plenaria a votare. Ne bastavano 71, ma ne sono arrivate 175 e tra queste cinque italiane: il forzista Salini e i leghisti Borchia, Campomenosi, Zambelli e Zanni. Ieri in aula la Lega ha comunque votato sì (astenuta solo Silvia Sardone), Salini ha espresso voto contrario.

La direttiva non obbliga gli Stati membri ad adottare il salario minimo, ma traccia due opzioni per favorire la crescita degli stipendi in Europa. Ai paesi che adottano il minimo legale, indica parametri per quantificarlo, come la lotta alla povertà e il potere d’acquisto. Per chi che non lo adotta, fissa all’80% la copertura minima della contrattazione collettiva. Dovendo essere recepita, per l’Italia la direttiva è l’occasione per far tornare il salario minimo nell’agenda di governo. Da noi sono contrari il centrodestra, la Confindustria e i sindacati, mentre il M5S è un forte sostenitore: “Tutti i partiti italiani hanno votato a favore – dice l’eurodeputata Tiziana Beghin – ci aspettiamo che a Roma mostrino coerenza”. L’ex premier Giuseppe Conte ha rilanciato: “Facciamolo domani, c’è la proposta del M5S”, ha detto riferendosi al ddl di Nunzia Catalfo che suggerisce 9 euro come soglia minima oraria. Per ora restiamo uno dei sei Stati Ue senza salario minimo con Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. La Germania l’ha approvato nel 2015 e l’accordo tra Socialisti, Verdi e Liberali per il governo Scholz prevede ora l’aumento a 12 euro l’ora.

Taglio delle tasse: benefici (piccoli) solo per i ceti medi

Pochi soldi redistribuiti a una platea ristretta, più in alto che in basso. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, prova a staccare la cedola da 8 miliardi maturata grazie al recupero dell’evasione con la fatturazione elettronica e all’eliminazione del cashback. Sette miliardi saranno destinati a un intervento di riduzione dell’Irpef, 1 miliardo al taglio dell’Irap. Lo sconto fiscale sulle persone fisiche si presenta molto “regressivo” nei confronti di una platea di contribuenti dalla quale si è sottratta da tempo, aggrappata alla flat tax, la gran parte dei lavoratori autonomi. Per i restanti, soprattutto dipendenti e pensionati, il tavolo politico riunito ieri al Mef ha ridisegnato un’imposta a 4 scaglioni contro i 5 attuali che lascia gran parte dei contribuenti Irpef a bocca asciutta e non affronta la questione ancora aperta della progressività e dell’equità del prelievo.

Per il primo scaglione, fino a 15mila euro di imponibile, rimane tutto come prima, con l’aliquota corrispondente fissa al 23%. Il prelievo comincia a diminuire dal secondo scaglione, tra i 15 e i 28mila euro, dove l’aliquota passa dal 27 al 25%. Un ulteriore sconto dal 38 al 35%, viene praticato sull’aliquota dello scaglione compreso tra 28 e 55mila euro, per poi impennarsi al 43% per tutti i redditi superiori. Scompare dall’attuale tabella l’aliquota al 41%, che tassava l’eccedenza degli imponibili tra 55mila e 75mila euro. I vantaggi si concentrano nel segmento medio-alto. A conti fatti si va dai pochi euro di riduzione fiscale a beneficio di chi guadagna poco oltre il tetto dei 15mila ai 260 euro l’anno per chi dichiara 28mila euro, fino ai 1.070 per un reddito dichiarato di 55mila euro e i 670 euro per i contribuenti che superano il vecchio limite di scaglione dei 75mila euro. Dalla riunione sarebbe anche emersa l’intenzione di riassorbire il bonus per le buste paga nelle detrazioni e di rivedere la sostanziosa batteria di spese fiscali che determina oggi aliquote marginali effettive molto più alte delle aliquote medie. Ma i fondi a disposizione – si parla di un quarto sul tesoretto Irpef – sarebbero comunque molto distanti dai 20 miliardi necessari per un vero riequilibrio. Un accordo politico sarebbe stato raggiunto per una riduzione dell’Irap, che dovrebbe riguardare solo le 850mila persone fisiche e le ditte individuali.

Il tavolo del Mef non è stato dei più tranquilli. Il ministro Franco ha presentato varie ipotesi e il confronto si è incentrato in particolare su due soluzioni. La prima, alla quale si è opposto il centrodestra ma con una Lega possibilista, puntava l’intera posta sulla riduzione del cuneo fiscale, estendendo la validità del bonus Renzi oltre l’attuale limite di reddito. L’altra è quella che ha prevalso, con la revisione dello schema delle aliquote e che verrà ora sottoposta a Mario Draghi.

Industriali e sindacati sono uniti nel criticare il provvedimento annunciato. Secondo Confindustria “la soluzione raggiunta non dà certezze che tali benefici potranno essere mantenuti nelle annualità future, non dà risposta a poveri e incapienti, limita l’intervento sull’Irap alle persone fisiche senza migliorare la competitività delle imprese, non interviene a favore di giovani e donne”. Per la Uil, invece, “il taglio delle tasse previsto dalla manovra deve essere realizzato attraverso un aumento delle detrazioni per lavoratori dipendenti e pensionati”. “L’ipotesi che circola in queste ore di una revisione delle aliquote e degli scaglioni Irpef non risponde a questa esigenza”, ha dichiarato il segretario confederale Domenico Proietti.

“Il governo ci ha ignorati, sul Rdc vince il pregiudizio”

È un cortocircuito imbarazzante. O forse solo l’epilogo atteso della guerra ideologica al Reddito di cittadinanza. Fatto sta che il governo ha nominato una commissione di massimi esperti della materia per migliorare la misura, ma le proposte del comitato – nominato a marzo dal ministro Andrea Orlando e presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno – sono state ignorate dall’esecutivo, che anzi nel ddl Bilancio è andato in direzione opposta: “Siamo rimasti sconcertati quando abbiamo visto il testo – spiega Saraceno –. Abbiamo espresso tutto il nostro disagio al ministro”.

Cos’è successo?

Abbiamo consegnato le nostre proposte prima della manovra. Orlando le ha portate sul tavolo del Cdm. Evidentemente lì si è trovato isolato, anche dai colleghi 5Stelle. È chiaro che l’obiettivo di questi ultimi era di incassare il rifinanziamento della misura, ottenuto quello hanno accettato tutte le revisioni in manovra, alcune delle quali inutilmente punitive o insensate.

Per esempio?

Prima si perdeva il sussidio dopo la terza offerta di lavoro rifiutata, adesso dopo la seconda. Può essere accettabile. Ma non è accettabile né realistico che si definisca come congrua una offerta di lavoro – anche temporaneo e a basso salario- anche a centinaia di chilometri di distanza. È una grida manzoniana. Lei ce lo vede un imprenditore veneto che va a cercare un beneficiario del Rdc siciliano? Già 80 km o 100 minuti di distanza (validi per la prima offerta), possono essere eccessivi per chi ha carichi familiari.

A cosa rispondono queste misure?

Alla narrazione dei ‘divanisti’, dei poveri come nullafacenti che non vogliono lavorare, che però è smentita dai dati. Nessun esperto della materia avanzerebbe proposte simili. In più il governo non ha fatto l’unica cosa che corrispondeva a una nostra richiesta, cioè ridurre l’aliquota marginale, che è altissima e disincentiva la ricerca di lavoro. Oggi per ogni euro in più che un beneficiario guadagna come retribuzione, perde prima 80 centesimi e poi un euro di assegno. Draghi l’aveva perfino annunciata in conferenza stampa, poi l’ha tolta. Che almeno ci spieghi il perché.

Pensavate che le vostre proposte sarebbero state accolte?

Almeno in parte sì. Ci avevano perfino chiesto un articolato di legge. Non è il nostro mestiere, ma lo abbiamo fatto. Il nostro rapporto è uscito dopo il Cdm sulla manovra ma le proposte le avevano ricevute in tempo. Quando abbiamo visto il testo della legge di Bilancio ci siamo chiesti ‘ma noi cosa ci stiamo a fare qui?’. Il ministro ci ha detto che spera di ottenere alcune modifiche in Parlamento, ma i tempi sono strettissimi.

Avete proposto dieci modifiche al Rdc.

Premessa: è una misura fondamentale, ma ha bisogno di una revisione dei difetti di costruzione, il più importante dei quali è la “scala di equivalenza” che penalizza all’accesso, non solo nell’ammontare, le famiglie numerose e con minori. La nostra proposta di modifica riduce un poco la soglia massima e rende più equa la misura ampliando la platea. Proponiamo anche di ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza per gli stranieri, inutilmente penalizzante. E ancora: parametrare la quota per l’affitto in base al numero dei componenti del nucleo; eliminare l’assurda regola di dover spendere tutti i soldi nel mese; considerare spendibile, quindi come reddito, parte del patrimonio mobiliare; aprire alla possibilità di offerte di contratti anche di breve durata, eccetera.

Nessuna presa in considerazione…

No. Per quella sugli stranieri ci è stato perfino detto che era “improponibile” per motivi politici e che si preferisce aspettare che sia l’Ue a risolvere il problema sanzionandoci. La modifica alla scala di equivalenza ha spaventato i 5Stelle, che si oppongono a ogni riduzione dell’importo base, anche se ciò produce esclusioni e iniquità. Conte ha detto con soddisfazione ‘abbiamo riformato il Rdc’. Purtroppo ha prevalso la retorica dei ‘divanisti’ di cui sono rimasti vittima anche loro fin dal 2019, quando hanno accettato di trasformare una misura anti-povertà in uno strumento prevalentemente di politica attiva del lavoro. A parlare di divano, di percettori da controllare pure nelle spese, è stato anche Di Maio.

Lei ha difeso i navigator, che però il governo ha deciso di non rinnovare: perderanno il posto a fine anno.

Pensare che potessero risolvere tutti i problemi della mancanza di politiche attive del lavoro è stato ingenuo, ma ora buttare via la loro esperienza e professionalità acquisita sul campo non ha senso. Potrebbero essere molto utili – previa valutazione del lavoro svolto – per potenziare i Centri per l’impiego.

In manovra invece si apre alle agenzie private del lavoro.

Le agenzie non si occupano di figure così fragili e con qualifiche basse come i beneficiari del Rdc. Se va bene, faranno una scrematura lasciando ai Cpi le persone con i profili più difficili che sono la gran parte dei cosiddetti ‘occupabili’.

Perché c’è così tanto odio verso il Rdc?

Mi occupo di povertà da 37 anni e in Italia ho sempre trovato ostilità ideologica trasversale nei confronti di misure di reddito minimo. Siamo stati gli ultimi in Europa a introdurlo, in alcuni Paesi come Francia e Germania le hanno introdotte governi di centrodestra, mentre da noi i partiti gridano alla “nullafacenza”. La sinistra ci ha messo tempo a capire che queste misure non sono in antitesi con le politiche del lavoro.

Draghi aveva detto di condividere la misura.

È vero, ma purtroppo anche lui sembra avallare la narrazione negativa sui beneficiari senza entrare nel merito dei dati. È questo che mi colpisce.

Il vostro lavoro non è concluso, ma cosa farete se nessuna delle vostre proposte dovesse essere accolta?

Abbiamo ancora un compito da svolgere, in base alla legge che ci istituisce: la messa a punto di una ricerca sull’impatto delle misure non monetarie del Rdc. Poi, certo, se nulla di ciò che proponiamo passerà, faremo le nostre valutazioni.

Salvini digerisce tutto, anche i suoi proclami

Stare dietro alle giravolte di Matteo Salvini è un mestiere usurante, di quelli che garantiscono la pensione in anticipo da tanto che ci si è spaccati la schiena. In tema Green Pass, poi, il leader della Lega ha mostrato il meglio della sua frenesia dialettica, con quella atavica incapacità di usare un po’ di prudenza nei giudizi anche solo per evitare di finire sbugiardato nel giro di poche settimane.

E allora, nei giorni in cui la Lega dà il via libera al Super Green Pass, è utile ricordare quanto diceva Matteo sulla versione Normal del certificato, battezzato il 18 luglio come una “cazzata pazzesca” che porta solo a “un casino totale”. In origine, siamo appunto in estate, Salvini è sicuro di potercela fare, è certo di poter cavalcare la battaglia contro le restrizioni: “Qualcuno vorrebbe imporre il Green Pass anche per prendere il cappuccino al bar: follia”. Ancora: “Vaccino, tampone o Green Pass (sic) per entrare in bar e ristoranti? Non scherziamo” (14 luglio). Figurarsi se poi ci possono essere limitazioni nel rientro a scuola: “Nell’incontro con Draghi questa mattina ho ribadito l’importanza del ritorno a scuola senza discriminazioni né obbligo vaccinale per studenti e insegnanti” (28 luglio). A fine agosto, il nostro ci spiega che “la soluzione sono i test salivari gratuiti”, mica il Green Pass.

Anche perché “gli italiani stanno dando grande prova di buon senso, imporre il Green Pass a tutto il mondo del lavoro non è possibile” (10 settembre), “non possiamo rovinare la vita a chi non si è vaccinato” (14 settembre).

E guai a sospettare che si tratti di un fanatismo ideologico: “Sono stato accusato di essere No Green Pass, ma a Londra non c’è, a Copenghen non c’è e nemmeno a Berlino, eppure non ci sono cadaveri accatastati per strada” (30 settembre). E infatti il Consiglio dei ministri, inclusi i ministri leghisti, approvano il Green Pass obbligatorio dal 15 ottobre per tutti i lavoratori pubblici e privati. Salvini è nella prima fase dell’elaborazione del lutto, quella della negazione: “Mi rifiuto di pensare che da domani milioni di lavoratori siano fantasmi senza lavoro e senza stipendio” (14 ottobre). Poi passa alla rabbia: “Escludere dal mondo del lavoro milioni di italiani non è corretto, non mi sembra giusto” (15 ottobre). Ed ecco la contrattazione: “Spero che quest’obbligo decada il prima possibile” (16 ottobre).

La lunga fase della depressione arriva fino ai giorni nostri. Il 21 ottobre Matteo protesta: “Come strumento di limitazione al lavoro, il Green Pass esiste solo in Italia. O stanno sbagliando tutti gli altri Paesi o c’è un eccesso qui”. A metà novembre sceglie la polemica stizzita: “Mi avevano spiegato che con vaccino e Green Pass era tutto a posto”.

Infine, inevitabile, arriva l’accettazione finale: la Lega si piega pure al Super Green Pass. Il che garantisce qualche ora di silenzio imbarazzato; poi, da domani, Salvini potrà riprendere le solite intemerate libertarie contro sé stesso.

Colle, Draghi inizia le consultazioni: tutti a rapporto da Mario

Alla fine, il tavolo sulla manovra tra i partiti proposto dal segretario del Pd, Enrico Letta, lo farà Mario Draghi, a Palazzo Chigi.

Ieri pomeriggio è stato varato un calendario di incontri con i partiti, in vista della legge di Bilancio, che assomiglia a delle vere e proprie consultazioni. Draghi, insieme al ministro dell’Economia Daniele Franco e al ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà, incontrerà la prossima settimana i capigruppo parlamentari – sia Camera sia Senato – e i capi delegazione delle forze politiche di maggioranza. Lunedì 29 inizierà il Movimento 5 Stelle, il 30 toccherà a Lega, FI, Pd. Il primo dicembre sarà la volta di Coraggio Italia, Italia Viva e LeU.

La decisione arriva il giorno dopo il varo del Super Green pass. Sull’emergenza Covid si è presa una decisione, il prossimo ostacolo è la manovra. Ci sono una serie di nodi da sciogliere, a partire dal fisco, sui quali i partiti hanno posizioni diverse. Ma soprattutto ormai tutti, compreso lo stesso premier, hanno la testa all’elezione del presidente della Repubblica. Draghi non solo non ha mai detto pubblicamente di essere indisponibile al Quirinale (che è già un segnale), ma anzi ha fatto filtrare che la sua permanenza a Palazzo Chigi non è scontata, anche se non sale al Colle. La sua maggioranza appare sempre più sfilacciata e il prossimo anno si preannuncia sempre più difficile.

Negli incontri della settimana prossima, dunque, Draghi avrà modo di vedere da vicino non i leader, ma i capigruppo in Parlamento. E dunque di cominciare a costruire le condizioni per la sua elezione. Perché se Letta e Giuseppe Conte, ma anche Giorgia Meloni e magari Matteo Salvini cominciano a considerare la sua candidatura inevitabile (chi per arrivare a elezioni, chi per reale mancanza di alternative, chi perché lo considera un competitor), la tenuta dei gruppi parlamentari resta la principale incognita. Senza contare che a Palazzo Chigi hanno messo a fuoco un’altra questione: se il premier dovesse trasferirsi al Quirinale, bisognerà lavorare a un altro governo. Per arrivare a fine legislatura o per portare il paese alle urne, da esecutivo sfiduciato.

Proprio ieri, comunque, il Cinque Stelle Stefano Patuanelli (ministro delle Politiche Agricole) ha dato voce a perplessità e preoccupazioni: Mario Draghi al Quirinale? “Nessuno ha la sfera di cristallo, quello che accadrà è difficile da prevedere, anche per la fluidità delle forze politiche, l’importanza di gruppi misti totalmente eterogenei: gestire quella fase sarà totalmente un’incognita”. Comunque vada, però, “io credo non si possa tornare al voto perché vi sono degli elementi di necessità che debbono per forza prevedere una continuità”.

Va notato anche che la convocazione degli incontri arriva dopo l’incontro di Letta con Draghi di mercoledì. Al Nazareno l’ipotesi che il premier vada al Quirinale non sembra così peregrina. Ma soprattutto le consultazioni sembrano “un metodo intelligente nelle modalità e nel timing”, perché “l’importante è stemperare le tensioni e concentrare l’attenzione del Parlamento e le forze politiche sul merito delle scelte da compiere”. Anche se – aggiungono – sarebbe stato meglio farlo prima.