Finto attentato a Scopelliti: “Il Comune pagò il sospettato”

“Nell’anno 2004, mese di novembre, tre o quattro giorni prima che l’onorevole Berlusconi arrivasse a Reggio, un appartenente al Sismi decideva di simulare un attentato al sindaco di allora Giuseppe Scopelliti”. Il pentito Antonino Parisi ha appuntato le confidenze, ricevute in carcere da un altro detenuto, su alcuni fogli consegnati nel 2013 al procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Da qui parte l’informativa della Dia, depositata nei giorni scorsi nel processo d’appello “’ndrangheta stragista” che vede imputati il boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Il resto del lavoro lo ha fatto la Dda guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Lombardo, che è andata oltre quei pochi fogli, riuscendo oggi ad aprire uno squarcio su uno dei misteri della città dello Stretto: il finto attentato all’ex sindaco e governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti. Come è già emerso nel processo “Gotha”, il tritolo trovato nei bagni di palazzo San Giorgio è stata una messinscena in cui un ruolo fondamentale è stato svolto dal Sismi che, con tre informative firmate dallo 007 Marco Mancini, fece rinvenire l’ordigno senza innesco.

Il procuratore Lombardo ha affidato l’indagine alla Dia, che ha riesumato pure una relazione di servizio indirizzata all’allora dirigente della Squadra mobile, Salvatore Arena, dall’allora commissario Francesco Oliveri. Una nota “il cui contenuto – si legge – sembrerebbe non essere mai stato portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria”. Il condizionale è d’obbligo in una vicenda dai contorni poco chiari. Una storia in cui i servizi segreti hanno gestito tutto, decidendo finanche quello che la polizia doveva riferire ai pm. Nelle carte, infatti, si parla di gruppo di soggetti “collegati alla ’ndrangheta, che ottenevano informazioni da soggetti corrotti dei servizi”.

Nella relazione del commissario Oliveri compare una fonte fiduciaria secondo cui l’operazione del tritolo a palazzo San Giorgio “potrebbe essere stata organizzata da tale Schirinzi Giuseppe, persona molto vicina al sindaco, al fine di fargli recuperare considerazione politica negli ultimi tempi molto scemata”.

“Secondo la citata fonte – è scritto sempre nella relazione di servizio – lo Schirinzi sarebbe stato in grado di organizzare l’attività in argomento, in quanto vicino ad ambienti dell’estrema destra”.

Maestro massone della loggia denominata “Zephyria”, l’avvocato Schirinzi è cresciuto nelle file di “Avanguardia nazionale”. Fondatore pure della “Lega Sud Italia”, è stato un elemento di spicco dell’estrema destra reggina ai tempi della rivolta. Assieme ad Aldo Pardo, infatti, aveva piazzato l’ordigno alla questura di Reggio Calabria nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1969.

Dai riscontri eseguiti dalla Dia si tratta dello stesso Schirinzi che, dopo il finto attentato a palazzo San Giorgio, dal 2004 al 2006 ha organizzato tutte le edizioni “Regata di Ulisse”, una manifestazione per la quale, in tre anni, la giunta Scopelliti ha deliberato “somme per un totale di 700 mila euro”.

Il sospetto degli investigatori è che quei soldi siano collegati al tritolo trovato nel 2004 quando le operazioni furono gestite dal questore Vincenzo Speranza, oggi defunto. Lo stesso che poi, nel 2011, è stato nominato Commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria, proprio quando Scopelliti è stato eletto presidente della Regione.

Nell’informativa della Dia c’è pure la relazione dell’artificiere Giovanni Sergi, uno dei massimi esperti di esplosivi in Italia, secondo cui quel tritolo proveniva dalla famosa “Laura C”, la nave affondata nel 1941 al largo della costa reggina e l’attentato di palazzo San Giorgio “non rientrerebbe nel consueto modus operandi della criminalità organizzata”.

C’era pure l’artificiere Sergi quel giorno del 2004 quando sulle scale d’ingresso del palazzo del comune, secondo quanto ha riferito, “il dottore Speranza in modo frettoloso mi accompagnò al piano rialzato del palazzo, e personalmente, lo stesso questore mi disse di entrare nel bagno ove vi era un ordigno esplosivo. Rimasi sorpreso della presenza di appartenenti al Centro Sisde” di Reggio.

“Persi 4 mesi, ora abbiamo troppe persone scoperte senza richiamo”

Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova, servono chiusure solo per i non vaccinati?

La trasmissione del virus è alimentata dai non vaccinati e da quelli a cui è scaduto il vaccino. Questi ultimi aumentano con il passare del tempo. Il Super green pass va nella giusta direzione, ma non so quanto sia efficace.

È pensato per incentivare le terze dosi.

Sì, ma non so quanto funzionerà e come si declina questa cosa in pratica.

Ci spieghi.

Il Green pass, quello tradizionale, che si rinnova ogni 6-9 mesi di fatto tra 2-3 mesi lascerà scoperte decine di milioni di persone. Il grosso della trasmissione avverrà nei prossimi 3-4 mesi, il problema quindi ci sarà a gennaio e febbraio quando i vaccinati tra aprile e luglio saranno poco protetti. Il punto è che bisognerebbe, già oggi, fare le terze dosi con la stessa intensità con cui le abbiamo fatte ad aprile e giugno. Il Super green pass aiuterà, ma di fatto arriveremo in ritardo.

Diamo qualche dato.

Tra aprile e luglio abbiamo vaccinato fino a 500 mila persone al giorno e raggiunto un livello di immunizzazioni che finora ci ha protetto. Ora dovremmo rifarlo nello stesso arco di tempo. Invece la terza dose va a rilento e nel frattempo la diffusione del virus ci ha superati. Di nuovo.

Cosa si doveva fare?

Programmare la terza dose tra giugno e luglio. Allora, invece, si parlava di immunità di gregge a settembre.

Da un lato c’è Londra: 40 mila casi al giorno e l’idea di convivere col virus. Dall’altro l’Austria: chiusure settoriali, che non hanno evitato il lockdown. Il Super green pass è la giusta terza via?

Sicuramente abbassa la trasmissione, ma tutte le misure di prevenzione dovevano essere adottate prima. Oggi (ieri, ndr) abbiamo quasi 14mila casi. I non vaccinati sono un problema, ma non il principale. Da un punto di vista numerico lo sono di più i vaccinati che hanno perso la protezione. In Irlanda, 5 milioni di abitanti, oggi ci sono 4mila casi. Rapportati all’Italia sono 54mila casi al giorno e gli irlandesi sono quasi tutti vaccinati. Il guaio è aver ignorato ciò che succedeva in Israele a giugno: lì già c’erano 10mila casi ed era il paese più vaccinato al mondo.

C’è chi dice: “Impariamo a convivere col virus”.

Significa mettere in campo una serie di esperti in grado di capire cosa accade nel mondo e adattare questa osservazione alla situazione italiana. Cosa che non abbiamo mai fatto. E se non fai nulla ti becchi 200 morti al giorno per 4 o 5 mesi.

La prima cosa da fare?

Mascherine obbligatorie su tutti i mezzi pubblici. Altro che green pass e tampone. Serve il controllo sociale, perché chi sale sul bus senza protezione viene subito individuato e redarguito dalle altre persone. Solo quello funziona.

“Super green pass? Fosse per me avremmo già l’obbligo vaccinale”

Luca Lorini, direttore della Terapia intensiva del Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Hanno un’utilità le chiusure rivolte solo ai non vaccinati?

Premetto: non so più quanto sia utile parlare ai “no vax”. Davvero. Glielo abbiamo detto in tutti i modi: illustrando i dati, mostrando le bare che venivano portate via a decine come qui da noi. Non è servito. Ora bisogna convincere i sì-vax e i sì green pass a fare la terza dose il prima possibile. Perché chi non si vaccina contribuisce a portarci alla situazione in cui eravamo: contagi alti e ospedali pieni.

C’è chi dice che così si crea “contrasto sociale”.

No, non è un dispetto ai no-vax. Ma è giusto che quella parte di mondo finora si è comportato secondo le indicazioni della scienza, che hanno portato risultati, possa continuare a restare aperto.

Da un lato abbiamo il “modello Londra”: 40 mila casi al giorno e l’idea di convivere con il virus. Dall’altro l’Austria: chiusure settorializzate, che non hanno evitato il lockdown.

Guardi, Singapore ha scelto di non curare più i no-vax. Noi non possiamo arrivare a questo, ma dobbiamo guardare ai dati. Gli inglesi in questi due anni hanno fatto tutto e il contrario di tutto e ora guardi come sono messi. Noi, dopo un primo momento di difficoltà, grazie al vaccino siamo tra i Paesi messi meglio. Ora la sfida è fare in modo che chi ha esaurito la spinta anticorpale faccia la terza dose. Non esistono vaccini dall’efficacia eterna. Per ora sappiamo che quello anti-Covid dopo 6 mesi bisogna rifarlo. Non dimenticando che nel 10-15% dei casi non risponde. Quindi, anche se immunizzati, non dobbiamo considerarci inattaccabili e ma restare accorti come abbiamo imparato a fare.

Buona parte della destra è contro, ma anche figure come il filosofo Massimo Cacciari che dice: “Bisogna imparare a convivere col virus”. Ha senso?

Lo abbiano detto noi per primi. Ma tutti devono vaccinarsi. Ormai dovremmo averlo capito: i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi. È come l’airbag: lei comprerebbe un’auto che non ce l’ha?

Data la crescita dei casi servirà un altro lockdown?

Sono favorevole a misure anche più drastiche del Super green pass. Bisogna rendere obbligatorio il vaccino. Ci si ammala dalle 10 alle 20 volte in meno e si finisce in ospedale dalle 20 alle 50 volte in meno.

Lo salviamo il Natale, come dice Draghi?

Io salverei anche la Pasqua. Dobbiamo avere uno sguardo che vada molto più in là. Gli altri Paesi hanno imparato dall’Italia quando eravamo avanti di un mese. Oggi Inghilterra, Olanda e Germania sono in ginocchio. Non possiamo far finta di non vederlo. Perché da noi dovrebbe essere diverso tra un mese o due?

Ema: sì a vaccini per under 12. Israele pensa ai bimbi 0-5 anni

L’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, ha dato ieri il tanto atteso via libera al vaccino Pfizer-BionTech per i bambini dai 5 agli 11 anni. L’Aifa, l’Agenzia italiana, si esprimerà tra l’1 e il 3 dicembre. Per i bimbi la dose del vaccino sarà un terzo rispetto a quella per gli over 12 e sarà somministrata sempre con due iniezioni a distanza di tre settimane. L’efficacia evidenziata dai trial su quasi duemila bambini, si è mostrata superiore al 90%, mentre gli effetti collaterali sono stati generalmente lievi o moderati come stanchezza, mal di testa, febbre, ma – sottolineano molti esperti – il numero dei soggetti testati potrebbe essere troppo limitato per avere contezza dell’impatto delle reazioni avverse quali le miocarditi gravi, per esempio.

I contagi nella fascia d’età scolare, fino ai 19 anni, a partire dall’11 novembre scorso sono aumentati, poiché il virus si muove e si moltiplica laddove trova “spazio”. E questo è avvenuto soprattutto tra i bambini tra i 6 e gli 11 anni, dove si osserva circa il 50% dei casi attuali. Un’impennata che si deve a più fattori, come spiega Rocco Russo, della Società italiana di pediatria: “Prima di tutto, per i bambini di questa età è molto difficile rispettare le più comuni norme di sicurezza e di prevenzione”. Va ricordato che raramente nei bambini l’infezione evolve nella malattia grave. Dall’inizio dell’epidemia, in totale sono stati più di 808 mila gli under 19 contagiati. Le ospedalizzazioni sono state solo l’1% sul totale, i ricoveri in intensiva si sono fermati a 251 (0,03%), il tasso di letalità è risultato inferiore allo 0,01% (tra i 60-69enni è il 10,4%, il 40,1% tra over 80).

I casi più frequenti, tra gli under 19 in Italia, sono nei bimbi dai 6 agli 11 anni (241.739 contagi, dei quali solo 1.407 hanno necessitato di ricovero e 36 di cure intensive). Molti i Paesi che hanno preferito, per il momento almeno, non procedere alla vaccinazione pediatrica. Va speditissimo invece Israele che ieri ha comunicato di star valutando di vaccinare anche neonati e bambini fino ai 5 anni.

Terze dosi al palo: 170mila al giorno di media, ma ne servono 600 mila

Archiviato il purtroppo fallimentare “effetto green pass” estivo (mercoledì prime dosi al minimo, poco oltre le 10 mila, i no-vax sono ancora il 15,70% della popolazione over 12 e di questo passo il 90% dei vaccinati auspicato dal generale Figliuolo si raggiungerebbe ad aprile), l’obiettivo si sposta sull’“effetto super green pass”, o meglio, sull’“effetto nove mesi”, la durata ridotta del certificato che dovrebbe spingere i già immunizzati a completare (forse) il ciclo con una terza dose.

Già, perché – come ormai noto da tempo – c’è un problema non indifferente con la protezione del vaccino dopo sei mesi. Sulla base delle ultime elaborazioni dei dati dell’Iss emerge che, nella fascia 60-79 anni (a quanto risulta la più vulnerabile in tema) l’efficacia di protezione dal contagio della doppia dose (che invece rimane elevata per la protezione dagli effetti gravi della malattia) si riduce al 39,6% dopo 180 giorni. Dato molto basso anche per la fascia 30-49 (41,9%), mentre per i 12-39enni (59%) e gli ultraottantenni (61%) le cose vanno un po’ meglio. La media è comunque del 50%: efficacia dimezzata. La difesa dagli effetti gravi della malattia resta invece a livelli alti anche dopo sei mesi (82,1% in media).

La partita decisiva quindi, è diventata quella delle terze dosi, che però – al momento – vanno un po’ a rilento. Alla data del 24 novembre risulta che siano state somministrati 4.673.047 richiami, di cui 763.960 aggiuntivi (pari al 90,26% della platea interessata) e 3.909.087 dosi booster (appena il 30,72% degli aventi diritto) con una media mobile a 7 giorni che sfiora le 170 mila al giorno. Il ritmo aumenta di giorno in giorno. Ma resta ancora al di sotto delle 250 mila unità. L’altroieri sono state oltre 247 mila, il 15 novembre furono 158 mila.

“Le terze dosi sono in netto ritardo – sottolinea il monitoraggio settimanale indipendente della Fondazione Gimbe –. Per coprire le persone chiamate a fare la terza dose entro il 31 dicembre, ovvero 22,6 milioni, il ritmo dovrebbe salire a 600.000 somministrazioni al giorno”. E cominciano ad arrivare storie paradossali, come i milanesi spediti a Lecco poiché hanno chiuso gli hub vaccinale. Piuttosto che sobbarcarsi il viaggio molti rinunciano.

Numeri complessivi ancora modesti se si considera che questa seconda tappa della campagna vaccinale è iniziata più di due mesi fa, il 20 settembre. La popolazione over 60 raggiunta con la dose richiamo – ma il booster è destinato anche al personale sanitario e agli operatori delle Rsa – fino a questo momento è inferiore a un terzo del totale. Come sempre con grandi differenze territoriali. Con il booster, il Molise ha già vaccinato oltre il 43% della platea. Seguito dal Piemonte (35,58%) e dalla Toscana, che supera il 32%. Ma ben dodici regioni, in coda, sono sotto la media nazionale. E ancora una volta sono la Sicilia e la Calabria a collocarsi agli ultimi posti: tra gli over 60 in Calabria non ha fatto il richiamo nemmeno il 16% della platea, percentuale che arriva a sfiorare il 17 in Sicilia. Indietro anche il Friuli-Venezia Giulia (siamo al 19%) e la Basilicata (21,44). Andamento che cambia radicalmente se si prende in considerazione, invece, la dose aggiuntiva, riservata alle persone fragili come gli immunodepressi. La media nazionale, come detto, supera il 90%. In questo caso a essere in prima fila sono Campania, Sicilia e Piemonte. Sotto il dato medio, invece, anche la Lombardia, che ha raggiunto il 61,59% della platea. Tutte le regioni sono comunque più avanti se ci riferisce al booster comprendendo anche i lavoratori della sanità e gli operatori delle Rsa. La quota di popolazione vaccinale che ha fatto la somministrazione a livello nazionale è quasi del 32%.

Ma ancora una volta Sicilia, Calabria, Basilicata e Friuli-Venezia Giulia procedono al rallentatore. L’ondata, intanto, continua a montare ma – per ora – con una progressione abbastanza contenuta: ieri dati in lieve rialzo rispetto a mercoledì: 13.764 nuovi positivi (come a fine aprile), con un tasso di positività su quasi 650 mila tamponi del 2,2% e ancora 71 morti. Il totale sale a 133.486 decessi. Vittime che, secondo l’ultimo studio diffuso dell’Istituto Superiore di Sanità, tra gennaio e settembre avrebbero potuto essere 22 mila in più senza la campagna vaccinale, che ha altresì evitato 79 mila ricoveri e quasi 10 mila ammissioni nelle terapie intensive.

Dàgli all’untore

Come sempre, speriamo che le misure di Draghi funzionino. Ma, come un anno fa quelle di Conte su bar, ristoranti, cinema, teatri e palestre (che avevano almeno il pregio di valere per tutti), sembrano studiate solo per poter dire di aver fatto qualcosa. Dunque inutili o controproducenti. Perché concentrano tutto su un’arma non sanitaria ma politica, il Green pass (ora Super), anziché partire da dati scientifici. Il tracciamento è saltato, anche nei mesi di bonaccia: non si sa chi si contagia, dove e perché. E chi accusava la Azzolina di non fornire i dati sulla scuola (che invece forniva) tace su Bianchi che li nega persino a chi li chiede col Foia. Così, nel buio totale sulle cause della quarta ondata, si menano fendenti in aria contro il nemico più comodo: i No vax. Che sono solo una delle concause. Ma tornano utili per occultare il nulla del governo sul distanziamento nelle scuole (“un metro ove possibile”), sui mezzi pubblici, sui treni regionali e il folle smantellamento brunettiano dello smart working nella Pa.

La copertura vaccinale del 100% non esiste, nemmeno con l’obbligo: anzi, da quando l’Italia (unica in Europa) ha reso obbligatori i vaccini ai bambini, è finita sotto la media Ue, dietro i Paesi senz’obbligo. Infatti gli “esperti”, mettendo in conto un tot di No vax, vaticinavano l’immunità di gregge al 70%, poi all’80%. Ora siamo all’87% e si continua a strillare contro i No vax fino a espellerli dal consorzio civile. Come se il proibizionismo li inducesse a vaccinarsi (è l’opposto: dal flop del Green pass al super flop del Super Green pass). E come se fossero solo loro a contagiarsi e a contagiare. Per paura di delegittimare i vaccini (già peraltro screditati dai pareri cacofonici di premier, ministri ed “esperti” su Astrazeneca, sulla durata degli anticorpi e del Green pass), si arriva a screditare i tamponi – unico strumento per testare i contagi – e a negare ciò che è sotto gli occhi di tutti: non esiste una “pandemia dei No vax”. Esiste la pandemia, punto. E investe vaccinati e non vaccinati, anche se i primi rischiano molto meno la morte e l’intubazione. Non perché i vaccini non funzionino, ma perché “durano” molto meno del previsto. Ma questo si sa da maggio, con i 10mila contagi al giorno fra i “tutti vaccinati” di Israele. Eppure la terza dose parte solo ora. E pochi la fanno perché si continua a raccontare ai vaccinati che sono “immuni”. Una fake news “populista” confermata pure da Draghi: “Per i vaccinati sarà un Natale normale”. Con tanti saluti alle due armi primarie anti-Covid: distanziamento e mascherina, senza i quali il vaccinato a fine corsa è un potenziale untore proprio come il No vax. Con l’aggravante che non sa di esserlo, anzi pensa di non esserlo e abbassa la guardia.

“Cara Fanny, ti desidero. E poi no: sono pieno d’orrore e nervosismo”

Mia adorata Fanny, ho scritto queste parole alla fine, in modo che nessuno potesse vederle. Vorrei tanto che tu trovassi il modo per procurarmi una pur minima felicità quando non ci sei. Ogni ora che passa il mio pensiero è sempre più fisso su di te. Qualunque altra cosa per me non ha sapore… Il fatto è che non posso lasciarti, ma non posso continuare di questo passo. Chi è in salute come te non può immaginare quali orrori passano per la mente a una persona con il mio carattere e il mio nervosismo. Su quale isola hanno intenzione di trasferirsi i tuoi amici. Sarei ben felice di andare là con te da solo, ma non in compagnia: le maldicenze e le gelosie dei nuovi coloni – gente che non ha nient’altro con cui distrarsi – sarebbero una cosa insopportabile… Se non posso vivere insieme a te, vivrò da solo… Nonostante questo, sono contrario a incontrarti. Non posso sopportare di essere abbagliato e poi tornare di nuovo nelle mie tenebre. Se ieri ci fossimo visti, ora sarei più infelice. Sembra così impossibile essere felice insieme a te! Bisognerebbe essere nati sotto una stella più fortunata della mia! Non ho speranze… A dire il vero, vorrei abbandonare tutto all’istante… vorrei morire. Il mondo bestiale a cui sorridi mi disgusta. Odio gli uomini… e ancor più le donne… Vorrei tanto che tu potessi infondere in me un po’ di fiducia nella natura umana. Non riesco affatto ad averne… la realtà è troppo brutale per me. Sono lieto che esista la tomba… Vorrei tanto stare fra le tue braccia pieno di fiducia o essere colpito da un fulmine. Che Dio ti benedica.

© 2021 Adelphi Edizioni, a cura di A. Gallenzi

Addio alla primogenita di Liala, Primavera: “Indossava il suo nome, era allegra e vulcanica”

È morta martedì, a 97 anni, Primavera Cambiasi, figlia maggiore della scrittrice Amalia Negretti Odescalchi, in arte Liala. Pubblichiamo qui il ricordo dell’amico e studioso Mauro della Porta Raffo.

Sono stato a casa di Liala – villa “La Cucciola”, a Varese – diverse volte. Il cancello era spalancato, mi aspettavano sempre… Ricordo quando, al telefono, Primavera Cambiasi mi disse: “Entri pure con la macchina. Con questo tempaccio è bene non fare neanche un metro a piedi”. Mi aprì Tarsilla (o, molto meglio, “Tilla” come la ribattezzò la “padrona” quando ne intese il nome per la prima volta infinite decine d’anni orsono e decise di prenderla con sé) e, dando una voce a Primavera, mi introdusse al salotto. Ancora una volta in ritardo sui tempi, ero a casa di Liala.

“La mamma…”, mi raccontava Primavera, e mentre la ascoltavo pensavo che mai prima un nome mi era apparso altrettanto rappresentativo del carattere della persona che, per così dire, lo “indossava”: era allegra, gioiosa, scoppiettante… un vulcano. Era la prima delle figlie di Liala, quella che (con Tilla) sorvegliava il focolare, che si adoperava perché il ricordo della madre non svanisse, che spesso ne parlava come se fosse ancora viva. Caratterialmente, lontana anni luce da lei. Mai, penso, a Gabriele D’Annunzio sarebbe venuto in mente, conoscendola, di definirla “Compagna di insolenza” così come fece con sua madre, al Vittoriale, nel loro unico e burrascoso incontro al volgere del quale, in una dedica che in tal modo anche recitava vergata al margine inferiore di una fotografia, il Vate diede a “Liala” Negretti Odescalchi Cambiasi il nome immaginifico che l’avrebbe da allora identificata.

Primavera mi parlava di Moneglia, di quando la madre, obbligata a vivere in quella cittadina di mare, per combattere la noia si era messa a scrivere e poi, un giorno, in treno per andare a Genova dal parrucchiere, aveva incontrato un amico di famiglia che conosceva per caso Arnoldo Mondadori… Così affrontò il grande editore: “Ho pronte la seconda e la terza parte di un romanzo. Se lei me lo pubblica, ne scriverò l’inizio”. Ed ecco, come d’incanto, Signorsì, il suo primo romanzo, uscito nel 1931. Lì, nello studio della “Cucciola” a Varese, c’era, incorniciato, il telegramma dell’editore: “Sono assai lieto comunicarle che la prima edizione del suo Signorsì è qui (a Verona, dove erano gli stabilimenti Mondadori, ndr) esaurita. Stop. Questa lieta accoglienza di pubblico sia di auspicio per le maggiori fortune del suo certo domani. Stop. Devotamente Mondadori”. Parole profetiche, perché Liala cominciò a volare, veramente, se ancora oggi, dopo novant’anni, i suoi romanzi possono contare su migliaia di lettori. E fu sempre Primavera a confessarmi che la mamma aveva lasciato due romanzi incompiuti, di cui poi ho contribuito alla pubblicazione postuma.

Ogni 31 marzo – giorno del compleanno di Liala –, Primavera riceveva biglietti, lettere, telefonate, fiori come se la madre fosse ancora lì con lei. La scrittrice dorme dal 1995 in una cappella di marmo rosa, nel piccolo cimitero di Velate, a Varese. Oggi, dopo i funerali nella Chiesa della Brunella, la raggiungerà anche la sua amata Primavera.

Beatles, il canto del cigno: liti, eroina e “ferite aperte”

All’ora di pranzo George esce dal gruppo. “Mettete l’annuncio per un sostituto”, è la sfida di Harrison. Che sbatterà la porta invelenito: “Ci vediamo nei locali”. È venerdì 10 gennaio 1969, l’ora più buia dei Beatles. Harrison ha sopportato con pazienza da Hare Khrisna i diktat di McCartney, che gli imponeva persino l’intensità delle pennate per il prototipo di Get Back. In quello stadio il pezzo non è ancora il manifesto del ritorno dei Fab Four alle radici rock, ma una sferzata contro i fascisti di Powell, che vorrebbero i pachistani fuori dal Regno (solo dopo, per evitare accuse di razzismo, Paul eliminerà il verso incriminato).

Ci vorranno giorni per reintegrare il transfuga: due summit a casa sua, l’ipotesi di rimpiazzarlo con Eric Clapton, la soluzione trovata a patto di abbandonare il set cinematografico di Twickenham per rifugiarsi nell’edificio della loro Apple, con le apparecchiature di registrazione prelevate da Abbey Road. La crisi con George innesca pure un confronto tra Paul e John, che ignorano l’esistenza di un microfono dentro un vaso. Dice McCartney: “Tu sei sempre stato il capo, io il vice”. Lennon ribatte: “Non è vero. Siamo tutti colpevoli. C’è una ferita purulenta, non l’abbiamo fasciata”. Una cicatrice mai più richiusa, i Beatles quasi al passo d’addio: 52 anni dopo, il regista Peter Jackson (Il signore degli anelli) ha messo ordine, con zelo drammaturgico, nelle oltre 60 ore di pellicola girate allora dalla troupe di Michael Lindsay-Hogg per un documentario-candid. Jackson (“Mi sono sentito un agente della Cia”, ha sottolineato) doveva ricavarne un film, ma si è poi deciso per rimodulare l’opera su tre puntate in uscita da oggi su Disney+.

Le imperdibili Get Back Series, roba in gran parte inedita, almeno due ore e mezza a botta: meglio sarebbe stato, forse, un frazionamento più diluito. Come sia, questo scavo archeologico è una sconvolgente visita dentro la macchina del tempo per noi fan-voyeur. Il restauro di immagini e suoni garantisce anche il riordino filologico del mood di quelle settimane, grazie all’eliminazione dei rumori dietro i quali (come le chitarre strategicamente strimpellate) i quattro si rifugiavano quando i discorsi si facevano indiscreti.

I Beatles avevano una missione, ma nessuno aveva chiaro quale: disposero, per un mese, dei capannoni di Twickenham per provare e comporre canzoni in vista di un ipotetico speciale tv, di un disco e di un concerto. Da quel fiume di musica emersero Get Back, Let It be, The Long and Winding Road e altri capolavori finiti nei due album di fine corsa, Abbey road (settembre ’69), e il ripudiato Get Back che sarebbe uscito solo dopo lo scioglimento nel ’70.

Le Series ci portano in quel gennaio catartico, tra liti, dilemmi, scherzi, fatica, tensioni, l’inquietante onnipresenza di Yoko accanto a un John travolto dall’amore e dall’eroina (mentre deliziosamente discreta è Linda al fianco di Paul, determinato come un boss aziendale). I Beatles si rimpallano idee per un live tra le rovine romane in Africa, su una nave nel Mediterraneo o a Brighton. Alla fine, il 30 gennaio, saliranno sul tetto della Apple per suonare le novità, con i londinesi lì sotto e la polizia determinata a farli smettere. Vederli così giovani e spavaldi, ignari del futuro che sta per mangiarseli vivi, è qualcosa di struggente. Anzi, straziante.

“La mia vita è già passata”: le freddure del poeta Keats

“Il mondo viene definito da chi non capisce o è superstizioso come una valle di lacrime, da cui si verrà salvati grazie all’intervento arbitrario di Dio. Che ideuzza limitata e circoscritta! Chiamatelo invece la valle di formazione dell’anima e allora scoprirete a cosa serve il mondo. Ho detto formazione dell’anima distinguendo l’anima dall’intelletto. L’intelletto è presente in milioni di persone, ma non è anima finché non si acquista un’identità”, così scrive John Keats al fratello minore George e alla cognata Georgiana, rifiutando l’idea, da Sant’Agostino in poi, secondo cui per cancellare il peccato originale tocca battezzarsi. Urge invece “fare anima”, la poesia è il mezzo, cioè diventare se stessi, comprendersi, puntando a Verità e Bellezza.

La lettera, del febbraio 1819, si inserisce in un momento apice per Keats perché in quella stessa primavera germogliano i suoi capolavori Ode a Psiche, Ode a un usignolo e Ode all’urna greca. La valle dell’anima, da oggi in libreria per Adelphi con la cura di Alessandro Gallenzi, raccoglie la più ricca selezione di lettere di Keats, precisamente 153, mai pubblicata in italiano, ad abbracciare il lustro 1815-20, dalla prima scritta quando aveva vent’anni, un componimento per l’aspirante poeta George Felton Mathew, sino a quella spedita da Roma all’amico Charles Brown a tre mesi dalla morte per tisi, a cui confessa: “Ho la costante sensazione che la mia vita reale sia già passata e che stia vivendo un’esistenza postuma”.

Scritte di getto e con spontaneità, spesso non corrette, le lettere sono per Keats chiave per sganciarsi dalla forma poetica e concedersi l’espressione di idee ed emozioni da condividere con amici e affetti al sicuro da critiche esterne, spesso assai aspre specie verso la sua arte. “È come se il poeta solenne, classicheggiante, spesso anacronistico dell’Endimione, dell’Iperione e delle Odi scomparisse, trasformandosi in un ragazzo comune che conversa nella lingua viva del suo tempo e si lascia andare a giochi di parole, espressioni gergali, freddure e battute sconce”, spiega Gallenzi. Intervallate da citazioni, stralci di conversazioni e brani ricopiati da altri scrittori come Hazlitt, Burton e Shakespeare, per lui maestro supremo, le missive sono anche arricchite da sonetti, ballate, odi. In un alternarsi di toni e voci è ora filosofo in erba, poeta ambizioso, amico fedele, fratello premuroso, amante coinvolto e geloso (per T.S. Eliot quelle indirizzate a Fanny sono “le più importanti mai scritte da un poeta inglese”), e così l’epistolario si fa “autobiografia spirituale” da cui “emerge la figura di un giovane generoso, socievole, in continuo fermento e costante trasformazione, insoddisfatto e consapevole dei propri limiti, incessantemente alla ricerca del bello e della perfezione poetica”.

Le lettere sono principalmente destinate agli amici intellettuali come John Hamilton Reynolds e Percy Shelley, ai fratelli, alla sorella, “devi dirmi tutto quello che leggi, fossero anche sei pagine alla settimana… Dobbiamo conoscerci intimamente, in modo che io possa non solo, mentre cresci, amarti come la mia unica sorella, ma confidare in te come nella mia migliore amica”, alla “fulgida stella”, l’amata Fanny Brawne. Con lei visse un fidanzamento travagliato, doloroso e struggente ma non fu sempre sdolcinato come si suol credere. Si dimostrava infatti talvolta duro, come quando le scrive: “Non ho avuto il tempo o la libertà di pensare a te e forse è stato meglio così… Ora che sto andando a gonfie vele, preferirei continuare a veleggiare senza interruzioni per un altro paio di mesi”. Tradotto: non voglio essere disturbato. Di questa relazione tenuta segreta da Fanny per sessant’anni conosciamo solo la voce di lui perché le epistole che lei gli spedì furono bruciate dagli amici di Keats su sua richiesta. Lei invece le conservò tutta la vita. Sulla sua lapide Keats scelse “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua” come epitaffio, motteggio a chi pensava sarebbe stato dimenticato in fretta. Si sbagliava. Keats vive e questo volume, un tesoro, lo dimostra. D’altronde, “una cosa bella è una gioia per sempre”.