Il nobile “Er Moviola” e le sue supercazzole sognando il Quirinale

Paolo Gentiloni – pronto anche lui a bruciare nella giostra del Quirinale, candidato nientemeno che da Matteo Renzi in piena battaglia con le guardie, i magistrati e con se stesso – è figura di altissimo profilo, impreziosito dall’antica nobiltà dei conti Silveri di Filottrano, Cingoli e Tolentino, che è roba di remoto Stato Pontificio. E siccome parla da quei secoli lassù, quel che dice arriva dopo un po’, come capita con i collegamenti dallo Spazio, dando modo agli esegeti che lo ascoltano di interpretare il verbo scandito in pensieri profondi, ancorché vestiti di ingannevole semplicità, tipo: “Bisogna lavorare tutti insieme e tenere sotto controllo il debito”. Oppure: “Non si può risolvere localmente problemi globali”. E persino: “È tempo di curare le ferite, ma anche di investire sul futuro”. Pensieri in realtà palindromi che vanno bene sempre, a favore di Giuseppe Conte, oppure contro, oggi dalla parte di Mario Draghi, domani vedremo.

Concetti di così dondolante eloquio – pronunciati in quarant’anni di carriera, da deputato, da ministro, da presidente del Consiglio, da Commissario europeo – da suggerire ai perfidi romani il soprannome che gli calza come un guanto, “Er Moviola”, a dirne l’identità, il carattere, ma anche la persistenza nel paesaggio politico. Nome che il suo amico Ermete Realacci, compagno di ambientalismo e di torneo al circolo del tennis, perfezionò, chiamandolo “Estintore”, per via del fumo che quando vuole sprigiona la sua sintassi agevolando il sonno: “Capace di metterci anche mezz’ora per dire che uno è cretino”.

Lui è tutt’altro. Sebbene la sua radice politica, ai tempi del liceo Tasso, sia tra le peggiori, il Movimento lavoratori per il socialismo, che non erano affatto lavoratori, ma atletici stalinisti di conio milanese, Università Statale e Bocconi, primi anni Settanta, che passeranno in un amen dalle chiavi inglesi ai garofani del socialismo meneghino, specializzandosi nella gestione di concerti e discoteche.

Dall’ecologismo all’incontro della vita: Rutelli

Paolo, che è pur sempre nato nella bambagia liberal, anno 1954, se ne accorge per tempo. Molla l’eskimo per il loden, i Camperos per le Clark. Entra nell’area romana del Manifesto, poi del Pdup, il partito di unità proletaria. Che nonostante le apparenze nominali si addice di più al suo status di nobile con palazzina di famiglia a due passi dal Quirinale e castello a Tolentino, dove i suoi avi riscuotevano le tasse per il papa re, affamando i cafoni. Dopo la laurea in Scienze politiche, vuol fare il giornalista politico. Entra nella redazione di Pace e guerra, settimanale di esteri appena fondato da Luciana Castellina e Michelangelo Notarianni.

Poi Nuova ecologia, il mensile di Lega Ambiente che dirigerà dal 1984 al ’92, fino all’incontro della vita con Francesco Rutelli. Il quale si era lasciato alle spalle l’ingombro di Marco Pannella, padre padrone del Partito radicale che stava trasformando nella sua setta transnazionale, per intraprendere l’avventura arcobaleno di sindaco di Roma. Siamo alla celebre disfida con Gianfranco Fini per il Campidoglio, anno 1993, con Berlusconi Silvio che nella pertinente scenografia dei prosciutti dell’Euromercato di Casalecchio di Reno, fa il suo ingresso in politica, dichiarando che se fosse stato romano avrebbe votato per l’ex missino che si era appena risciacquato la fiamma a Fiuggi.

Vince Rutelli. Con tutta la sua nidiata di portaborse al seguito, Gentiloni, il più preparato, è il manager della campagna, poi il portavoce, poi l’assessore al Giubileo, forse per via delle sue benemerenze pontificie, di sicuro per la pazienza. Con Rutelli si inventa la Margherita che ha radici sempre più moderate e petali cattolici. Fiorisce in Parlamento, deputato nell’anno 2001. Ministro al giro successivo, 2006, secondo governo Prodi, dicastero delle Comunicazioni. Dove prepara una legge di riordino delle tv che prevede una rete in meno alla Rai, la chiusura di Rete 4, abusiva da anni, un tetto alla pubblicità. Berlusconi, Gianni Letta e Fedele Confalonieri scendono in battaglia in nome della democrazia e del fatturato: “È un progetto criminale. Un atto di banditismo”. Ci penserà l’eterno Clemente Mastella a mandare all’aria l’intero governo della sinistra, guadagnandosi abbastanza punteggio da traslocare felicemente a destra.

Riassorbito dall’ombra, prova a candidarsi alle primarie per correre da sindaco, anno 2013, immaginando di avere alle spalle il Partito democratico che pure ha fondato e il suo nuovo nume tutelare, Matteo Renzi. Ma gli manca il carisma in battaglia, gli manca il quid, e dunque arriva terzo su tre candidati, dietro a Ignazio Marino e David Sassoli. È la sua fine?

Neanche per idea: il meglio arriva nel momento più cupo. Appena buttato giù dal cavallo di Palazzo Chigi il povero Enrico Letta, Renzi si intesta il nuovo governo e lo chiama al dicastero degli Esteri, visto che almeno parla tre lingue, sa di geopolitica e specialmente di galateo diplomatico. Dichiara: “La Russia e la Cina non sono minacce. Piuttosto delle sfide”. Con gli Usa “una piena convergenza di vedute”. In quanto all’Europa “deve diventare sempre più protagonista”. Assunto.

Gli Esteri, i cocci di Renzi e il premierato Lexotan

Quando Renzi va a sbattere con il referendum, Mattarella affida i cocci proprio a lui, “Er Moviola”, raccomandandogli di spargere un po’ di Lexotan sulle fibrillazioni del Paese. Lui si succhia le labbra e dice: “Sono qui per aiutare il dialogo”. È la cosa che gli riesce meglio: sopire, troncare, salvare le banche, peggiorare la legge elettorale con il Rosatellum, sopportare la vigilanza di Maria Elena Boschi, la Mata Hari che Renzi ha imposto come sottosegretario a Palazzo Chigi. E infine guidare alle elezioni del 2018 un’Italia non proprio riconoscente, visto il trionfo dei 5Stelle. Conte premier lo spedisce a Bruxelles, Commissario all’Economia. E lui (non proprio riconoscente) ne spara una a settimana: Conte non si fida del Mes, il fondo salva-Stati? “L’Italia dal Mes trarrebbe un sicuro vantaggio”. Conte ottiene i 209 miliardi del Next Generation Eu? “L’Italia deve preparare per tempo i piani. Anzi siamo già in ritardo”. Così in ritardo che appena insediato Draghi, l’Italia torna virtuosa: “Ora abbiamo le carte in regola”. “Con Draghi guideremo la rinascita europea”. “Draghi vuol dire fiducia”. Sembra uno spot, invece è Gentiloni. Assunto.

Il racconto del nostro impegno con Trama di Terre oggi alle 12 sul sito fattoquotidiano.it

La Fondazione Il Fatto Quotidiano racconta oggi 25 novembre il suo impegno contro la violenza sulle donne: alle 12, in diretta sulla nostra pagina Fb e sul nostro sito Cinzia Monteverdi, presidente e Ad di Seif e della Fondazione, Maddalena Oliva, vicedirettrice del Fatto, e Martina Castigliani del fattoquotidiano.it e del comitato di indirizzo della Fondazione.

 

La lezione di Yvette: “Ti vogliono invisibile, ma se reagisci sei visibile”

“Io non faccio spettacolo. Se volete il racconto degli schiaffi e delle botte che ho ricevuto, se siete qui per sentire una donna che piange e si lamenta, io mi rifiuto di rispondere”. Oggi, 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, Yvette Samnick accetta di parlare, ma a una sola condizione: che si vada oltre le ipocrisie e si metta al centro del discorso il suo percorso di rinascita. Perché chi vive la sua stessa situazione sappia che “c’è una via d’uscita” dalla violenza e perché le istituzioni si rendano conto di quanto ancora si sentono sole le donne che denunciano in Italia.

Samnick è operatrice interculturale di genere e antiviolenza dell’associazione Trama di Terre, l’onlus insieme alla quale la Fondazione del Fatto Quotidiano ha lanciato borse di autonomia per le donne sopravvissute alla violenza. È nata in Camerun e in Italia è arrivata con una borsa di studio per l’Università degli Studi della Calabria ad Arcavacata di Rende, dove si è laureata in Scienze politiche. Lì ha conosciuto il suo ex compagno: si è innamorata, ma poco dopo la gravidanza sono iniziate le violenze fisiche e psicologiche. “Le dinamiche della violenza in un rapporto affettivo – dice – iniziano dal primo giorno, dal primo secondo che incontri l’uomo maltrattante. Sono segnali impercettibili. Quando penso alla mia storia, so che sono iniziati fin dall’inizio e io non ero attenta”. Finché Yvette non è riuscita ad andarsene e denunciare. “Io l’ho fatto, ma sono passati quattro anni e il processo per maltrattamenti, violenza assistita e odio razziale è ancora in corso. Come fa una donna a ricominciare?”.

Ma non è solo la lentezza della giustizia a spaventare. “Quando ho cambiato residenza, nonostante l’affido esclusivo del figlio, il Comune voleva comunicare al mio ex il mio nuovo indirizzo”, rivela. “Lo Stato prima mi dice di denunciare e poi dà le chiavi di casa mia all’uomo maltrattante, che se vuole viene e mi ammazza. Io ho reagito, ma a quante altre è successo?”. Per questo, dice, è urgente che si mettano in campo meccanismi di protezione subito dopo la denuncia e i centri antiviolenza sono fondamentali.

Reagire e rendersi visibili quando ti vogliono invisibile: questa è la battaglia di Yvette Samnick che nel 2019 ha pubblicato il libro Perché ti amo, con la sua storia. Oggi lavora con le donne migranti e assieme a loro lotta contro gli stereotipi che le descrivono “incapaci di parlare, ridotte a cose e con corpi iper sessualizzati”: “Noi abbiamo voce. Non la chiediamo, la rivendichiamo”.

L’intervista a Yvette Samnick oggi su ilfattoquotidiano.it

Oltre la giornata per le donne, possiamo fare tante cose in più

Per me che non sono una giornalista, scrivere un pezzo per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è particolarmente difficile. Non ho mai amato le giornate contro le violenze o a favore di cose belle. Perché penso che tutte le giornate dovrebbero essere contro le ingiustizie e a favore di ciò che è giusto festeggiare. Però alla fine è importante che ci siano giornate come questa, perché tengono le menti accese e possono essere di grande aiuto soprattutto nelle scuole, là dove ci sono i piccoli che domani saranno adulti. I processi educativi e culturali richiedono tempo e dedizione, ma sono fondamentalmente l’unica salvezza per sperare di avere un giorno persone migliori.

Faccio fatica a essere lucida quando praticamente ogni giorno leggo di brutali femminicidi, spesso peraltro accompagnati da violenze sui bambini. Talmente è alta la ferocia sulla donna che le si uccidono anche i figli. A volte vengono uccisi “soltanto” i figli, ma anche quelli alla fine sono femminicidi. Perché se uccidi i figli a una madre hai ammazzato anche lei; anzi, la tieni in vita con una tortura addosso che non finirà mai. La strage di Sassuolo accaduta nei giorni scorsi va al di là di ogni immaginazione. Due donne e due bambini, uno di cinque anni e l’altro di due: tutti accoltellati, e purtroppo mi viene da pensare “meno male che si è ucciso anche lui”. Mi dispiace, certamente non sarà un approccio cristiano il mio, ma quante volte leggendo queste notizie viene da pensare che queste bestiacce hanno perlomeno, talvolta, il coraggio di ammazzarsi e quante volte viene da domandarsi “ma perché non si ammazzano, senza uccidere nessuno se non se stessi?”.

La rabbia mi porta a pensare e a dire cose sconvenienti. Perché la violenza non si combatte e non si vince con la rabbia. Allora in questa giornata ho deciso di pensare veramente “rosa” e a tutte quelle iniziative che mirano a migliorare le cose e danno supporto alle tante associazioni che svolgono un lavoro importantissimo per aiutare le donne che fuggono dalle violenze tra le mura domestiche, spesso anche per retaggi culturali e religiosi come nel caso Saman. Noi, con la Fondazione Umanitaria il Fatto Quotidiano, partita da pochissimo, per iniziare stiamo aiutando Trama di terre, un’associazione di Imola che si occupa proprio di aiutare le donne in fuga per salvarsi e per cercare faticosamente di ricominciare a vivere con le proprie ambizioni, i propri sogni e soprattutto senza più paura.

In sole due settimane, grazie a tutti coloro che ci hanno sostenuti, abbiamo già raggiunto ottimi risultati e potremo presto consegnare il denaro raccolto per aiutare donne che devono rifarsi una vita da sole, in mezzo a tante difficoltà, comprese quelle economiche.

Questi aiuti, che abbiamo chiamato “borse di autonomia”, possono sembrare poca cosa rispetto ai bisogni complessivi degli innumerevoli casi che gridano aiuto. Ma è comunque una grande soddisfazione che ci fa sentire persone giuste e rende un po’ più leggero quel senso di impotenza che proviamo quando leggiamo notizie terribili e ci viene da dire “quanto avrei voluto esser lì in quel preciso momento per aiutare quella donna, per aiutare quella madre e i suoi figli”. Queste iniziative devono moltiplicarsi, perché sono anche un modo per incoraggiare quelle donne che non hanno neppure il coraggio di scappare per tempo perché si sentono umiliate e sole. Noi faremo di tutto perchè trovino la forza per denunciare e scappare, sapendo che qualcuno le aiuterà.

Manica, affonda imbarcazione con i migranti: 31 morti

A bordo dell’imbarcazione affondata ieri nel Canale della Manica c’erano almeno 50 migranti partiti dalla costa francese per raggiungere il Regno Unito, hanno riferito le autorità di Calais: almeno 31 sarebbero morti. Il 19 novembre le forze di sicurezza francesi avevano lanciato l’allarme sul moltiplicarsi dei rischiosi tentativi di attraversamento dello Stretto. Negli ultimi mesi il flusso è raddoppiato. Dall’inizio dell’anno, sono oltre 31mila i migranti che hanno lasciato la costa francese, solo 7.800 sono stati tratti in salvo, oltre 23mila profughi sono invece riusciti ad arrivare in Gran Bretagna quest’anno, rendono noto fonti del governo britannico che accusano la Francia di non riuscire a controllare la situazione. “La Manica si sta trasformando in un cimitero a cielo aperto, come il Mediterraneo” è l’allarme lanciato dalle ong dopo la tragedia.

Caos elezioni, l’inviato Onu si dimette

Dopo un braccio di ferro durato mesi con i vertici dell’Onu, il diplomatico ed ex ministro degli Esteri slovacco, Jan Kubis, ha rassegnato le proprie dimissioni da inviato speciale per la Libia a un mese dalle prime elezioni a suffragio universale per il Paese nordafricano. Ma sono ormai in molti a ritenere che lo scrutinio del 24 dicembre non sia affatto certo, nonostante la spinta a favore di una trentina di Paesi, (Francia e Italia in testa). Le dimissioni di Kubis a nemmeno un anno dalla sua nomina sono un ulteriore segnale che non vi è unanimità all’interno delle Nazioni Unite sul processo di stabilizzazione della Libia. L’ormai ex inviato speciale riteneva che le consultazioni si dovessero effettivamente svolgere alla vigilia di Natale, mentre la vicesegretaria dell’Onu, Rosemary DiCarlo, incaricata di gestire tutti i dossier politici, ha cambiato idea a causa delle controversie irrisolte sulla nuova legge elettorale voluta dal presidente del Parlamento e candidato alle Presidenziali, Aquilah Saleh, ma respinte dal Senato, e sull’apertura a candidati estremamente divisivi come l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. La Commissione elettorale ha intanto annunciato di aver respinto la candidatura di Saif al Islam al-Gheddafi, figlio del dittatore. Accettate invece quelle di Haftar, del premier Abdel Dbeibah e del presidente del parlamento Aqila Saleh. Fonti locali hanno riferito di un raid dei miliziani fedeli ad Haftar nella base aerea di Tamenhent a Sabha. L’operazione sarebbe iniziata dopo la notizia del passaggio del capo di una potente tribù meridionale, Mabrouk Al-Sahban, dal campo di Haftar a quello del figlio di Gheddafi. Le pagine dei social fedeli a Gheddafi lo hanno confermato mentre i sostenitori di Haftar hanno affermato che il gruppo era guidato da Al-Sahban al quale è stato ordinato di arrestare il delfino del dittatore ucciso dieci anni fa. Un altro motivo per cui DiCarlo e Kubis sono arrivati ai ferri corti è stata la richiesta di quest’ultimo di continuare ad adempiere alla missione di “inviato speciale” per la Libia da Ginevra e non da Tripoli, dove il lavoro sul campo è svolto da un diplomatico scelto dall’Unione Africana. Va sottolineato che i leader africani, dallo scorso anno, hanno intensificato gli sforzi affinché l’inviato provenga dal continente anziché dall’Europa e, di conseguenza, stanno cercando nuovamente di rivendicare il posto dopo la partenza di Kubis. Ma il Segretario dell’Onu, Antonio Guterres, avrebbe proposto come successore il diplomatico britannico Nicholas Kay. Sono già cinque i predecessori di Kubis ad aver lasciato l’incarico prima della scadenza. Ieri Kubis ha confermato che le dimissioni sono effettive dal 10 dicembre, ma si è detto pronto a rimanere al suo posto fino alle elezioni legislative.

Coalizione: sì al governo, no al lockdown di Merkel

È stata Angela Merkel, con la sua richiesta alla nuova coalizione di governo di varare un lockdown, mettere fretta alle trattative. A due mesi dal voto, la Germania ha bisogno di un governo capace di fronteggiare la quarta ondata della pandemia. Lunedì, parlando al direttivo del suo partito, Merkel ha etichettato come “non sufficienti” le norme anti-Covid approvate dal Bundestag poche ore prima. La cancelliera avrebbe incontrato martedì i leader della coalizione Semaforo (rosso Spd, giallo Fdp e Verdi) per imporre un nuovo confinamento fino all’8 dicembre. Secondo indiscrezioni del quotidiano Bild i partiti avrebbero rifiutato e per scansare eventuali intoppi hanno deciso di uscire allo scoperto. Riemerso dopo giorni di silenzio, Olaf Scholz, leader dei socialdemocratici, ha presentato la coalizione e programma di governo, ma non l’esecutivo. “Il semaforo splende” ha esordito davanti alla platea di giornalisti, poi ha continuato raccontando la storia del primo semaforo di Berlino, installato in Postdamer Platz oltre cento anni fa. Prima di parlare della coalizione, il futuro cancelliere ha parlato per diversi minuti della situazione pandemica: “Il vaccino è la nostra via d’uscita”.

Non ha detto se intende introdurre l’obbligo vaccinale, ma ha reso chiaro che non solo la regola del 3G geimpft, genesen e getestet (vaccinato, curato, testato) è considerata superata, ma che anche il 2G, che esclude i non vaccinati, non sarà più lo standard. La vita pubblica in Germania sarà solo per i vaccinati e testati: “2G+ come voi in questa sala”. Sul palco alla sua sinistra c’erano i due leader dei Verdi: Annalena Baerbock e Robert Habeck. Quest’ultimo sarà vice cancelliere, carica condivisa con Christian Lindner che guida i liberali del Fdp. Le negoziazioni per la costituzione del governo in Germania solitamente durano mesi. E sono accompagnate da abbondanti interviste e retroscena sulla stampa tedesca. Non questa volta. I partiti hanno mantenuto un silenzio quasi da conclave. A oggi non sono stati ancora annunciati i ministeri, anche se da qualche giorno circola una lista informale. Sia verdi che liberali avranno cinque ministeri, mentre i socialdemocratici guideranno sette dicasteri. Ieri hanno presentato il loro programma, un documento dettagliato di oltre 170 pagine che dovrà essere votato dalle assemblee dei partiti. I Verdi saranno i primi, votazione online già da oggi. Poi giorno 4 toccherà all’Spd e infine il 5 i liberali daranno l’ultimo via libera. Nella settimana successiva verranno annunciati i ministri e Olaf Scholz si presenterà davanti al Bundestag. Il programma di governo è considerato come un contratto. Si farà riferimento a questo per i prossimi quattro anni.

Ogni forza politica può già dichiarare vittoria. I socialdemocratici si sono assicurati l’aumento del salario minino a 12 euro. I Verdi hanno ottenuto l’uscita dal carbone entro il 2030, otto anni prima da quanto voluto da Merkel, e pianificano che entro i prossimi due mandati del parlamento la Germania produrrà con rinnovabili l’80% del suo fabbisogno energetico. I liberali, la gamba più conservatrice della coalizione, hanno chiesto la reintroduzione del vincolo di bilancio dopo la sospensione per questi anni pandemici. Tra i punti accordati di sono politiche sociali e legate alle migrazioni. Verrà introdotto un sistema a punti per i lavoratori stranieri e verrà concessa la possibilità della doppia nazionalità dopo cinque anni. Questo è un punto importante per la numerosa comunità turca che comprende persone residenti in Germania da decenni. In programma c’è anche il voto per i sedicenni, la liberalizzazione della cannabis e la costruzione di 400 mila nuovi appartamenti all’anno.

“Non mi ucciderò, sono un codardo”

Il 9 luglio 2019, Jeffrey Epstein, il finanziere dei vip allora detenuto nel Metropolitan Correctional Center di Manhattan, in attesa di giudizio per sfruttamento della prostituzione, viene sottoposto a una valutazione del rischio di suicidio. La psicologa che lo segue scrive nei suoi appunti: “Epstein ha negato categoricamente ogni intenzione o piano suicida”. Nega anche di essere un predatore sessuale, e parla con fiducia della prossima udienza, dicendosi convinto che sarà presto rilasciato e commentando: “La vita è bella!”. “Era proiettato verso il futuro” commenta la terapeuta. Per precauzione resta, in teoria, un ‘osservato speciale’, quindi soggetto a protezione e sorveglianza specifiche; ma il 25 luglio, una settimana dopo che il giudice gli ha negato la libertà su cauzione su cui contava, viene ritrovato riverso sul pavimento della sua cella, con segni sul collo.

Le autorità carcerarie seguono sia la pista dell’aggressione sia quella del tentato suicidio. Ma Epstein nega di nuovo con decisione di voler morire: nelle settimane successive, apparentemente, riesce a convincere psicologi, guardie carcerarie e compagni di prigionia di non avere nessun intento autodistruttivo. A un certo punto dichiara: “Non ho nessun interesse a uccidermi. E poi sono un codardo, ho paura del dolore fisico”. Viene trovato morto, impiccato con le sue lenzuola, solo due settimane dopo, il 10 agosto. In carcere è rimasto 36 giorni. Sulla sua morte fioriranno tutta una serie di teorie alternative, ma il coroner non ha dubbi che si sia ammazzato. Epstein estremo manipolatore, fino all’ultimo istante? Se lo chiedono i quattro autori dello scoop del New York Times, che grazie a una Freedom of Information request andata a buon fine dopo un contenzioso legale con il Bureau of Prison, il dipartimento carcerario, hanno ottenuto 2.000 pagine di note, email, comunicazioni interne, registri dei visitatori, appunti di compagni di detenzione e del personale. È la cronaca della detenzione di Epstein, raccontata da chi, in quei giorni, gli era vicino, o era lì per proteggerlo da se stesso. E, per la prima volta, si sente il punto di vista dello stesso Epstein ormai al tramonto: i suoi rimpianti per il tempo delle feste con le celebrità di tutto il mondo, ora che tutto quello che, si legge in uno dei documenti, un profilo psicologico post mortem, formava la sua identità, cioè soldi, successo, fama, la rete esclusiva di conoscenze, era un ricordo confinato in una cella descritta come squallida e sporca, con la latrina rotta.

E lui era da solo con l’insonnia, la disidratazione, i malesseri e la crescente consapevolezza di non potere più sfuggire alla giustizia, dopo i patteggiamenti milionari degli anni precedenti, mentre fuori si accumulavano gli indizi a sfavore, cresceva l’attenzione mediatica e gli amici di un tempo iniziavano a prendere le distanze.

“La mancanza di rapporti interpersonali significativi, la perdita totale del suo status sia presso l’opinione pubblica sia fra i suoi conoscenti, e l’idea di finire i suoi giorni in carcere – continua la psicologa – hanno probabilmente contribuito al suicidio di Epstein”.

Resta il dubbio che la sua straordinaria capacità di manipolazione gli sia stata utile fino alla fine. I documenti esaminati dai reporter del quotidiano newyorchese chiariscono anche il contesto di quella prigionia, mettendo in luce errori e manchevolezze ai limiti del credibile. Nel file di accettazione è registrato come ‘uomo di colore’ e senza precedenti per reati sessuali, lui che era caucasico e aveva già scontato il carcere, nel 2008, per sfruttamento della prostituzione minorile. All’inizio nessuno sa chi sia, e viene messo nel braccio dei generici. Alcune telefonate risultano non regolarmente registrate o archiviate.

La notte del suicidio, Epstein mente alle guardie dicendo di voler chiamare la madre, morta nel 2004, e invece chiama la fidanzata del momento; viene lasciato solo, malgrado la ‘direttiva esplicita che gli fosse assegnato un compagno di cella’. Sono solo alcune delle irregolarità o negligenze che, dopo la morte, il procuratore generale William Barr aveva definito ‘una tempesta perfetta di errori”.

Il Bureau of Prisons non ha commentato, ma ha sottolineato come mantenere i carcerati in condizioni di sicurezza e umanità sia la sua priorità. Il Metropolitan Correctional Center, famigerato per le sue condizioni disastrate, è ancora temporaneamente chiuso.

È morto Ennio Doris, l’inventore di Mediolanum. B. : “Patriota”

Si è spento all’età di 81 anni Ennio Doris, fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum, tra i precursori assoluti del mondo del risparmio gestito. Doris è stato uno storico alleato, consigliere e partner d’affari di Silvio Berlusconi: la Fininvest ha raggiunto una quota del 30% di Mediolanum, passata anche attraverso la richiesta di congelamento da parte di Bankitalia per la perdita di requisiti di onorabilità dell’ex premier. “Ci ha lasciato Ennio Doris. Un grande uomo, un grande imprenditore, un grande patriota, un grande italiano”, ha detto Berlusconi.

Appello a Draghi: “2022 anno del volontariato”

“PresidenteDraghi, il prossimo 5 dicembre, giornata mondiale del volontariato, faccia un regalo a costo zero agli italiani e aderisca al nostro appello dichiarando il 2022 anno del volontariato”. È l’appello lanciato da Emanuele Alecci e Riccardo Bonacina, portavoce della Campagna per il riconoscimento del “volontariato” quale bene immateriale Unesco. “Con la recrudescenza della pandemia i volontari ci sono e ci saranno sempre a dare una mano al prossimo – prosegue la lettera –. Basti solo pensare all’assistenza all’interno dei centri vaccinali. Il dichiarare il 2022 anno del volontariato non comporta costi allo Stato. Non servono soldi. È solo porre al centro dell’attenzione il ruolo prezioso e insostituibile del volontariato”.