Basta con i minuetti, Draghi vuole il Colle e verrà accontentato

Come avrete notato, siamo in quella fase che precede l’elezione del presidente della Repubblica, rubricabile sotto il titolo “Fantaquirinale”. E non solo per le fantasie del povero Silvio, che davvero ci crede. Così tanto che ha perfino cambiato idea sul Reddito di cittadinanza, da “un disastro che spingerà molti a non cercare lavoro, e molti che lavorano a lasciarlo” (2018) a giusta misura di aiuto alla povertà: “Gli importi che sono finiti a dei furbi che non ne avevano diritto sono davvero poca cosa rispetto alle situazioni di povertà che il reddito è andato finalmente a contrastare” (l’altro giorno). Qualcuno pensa che il Berlusca ce la possa fare, noi no: le sette vite che aveva, politicamente parlando, le ha consumate tutte. Detto ciò, nel totonomi che infuria in queste settimane non c’è nulla di strano: è sempre accaduto. Gentiloni, Amato, Casini (e il resto a seguire, compreso il rinnovato protagonismo di Mario Monti): tutto serve a tenere sottocoperta le manovre vere.

La partita è attorno a due nomi, e purtroppo si consuma a danno delle regole, in entrambi i casi. Il primo è quello di Sergio Mattarella, che non sa più come fare a dire che non intende concedere il bis. Ieri (momento distopico) i senatori del Pd Luigi Zanda e Dario Parrini, hanno annunciato la presentazione di una proposta di riforma della Costituzione in cui si esplicita il divieto di rielezione. Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato dem, ha spiegato la ratio della norma: “Se vogliamo agire seriamente dopo ciò che ha detto Mattarella, questa proposta di riforma dobbiamo presentarla ora, perché se lo facessimo dopo sembrerebbe di voler colpire il futuro nuovo capo dello Stato”. In verità, ci informa Il Corriere della Sera, “la speranza (inconfessata) del Nazareno, è anche quella di lasciarsi una porticina aperta. Per un bis di Mattarella, il secondo e ultimo doppio mandato della Repubblica, in caso di emergenza”.

E quale sarà l’emergenza? Metti caso che l’emergenza si ripresenti proprio sotto forma di emergenza (sanitaria) in gennaio, i partiti potrebbero andare in ginocchio sui ceci da Mattarella per chiedergli di restare. In via “emergenziale” appunto, magari con un lockdown in corso. Potrebbe il capo dello Stato sottrarsi? Mica per altri sette anni, giusto il tempo per traghettare il Paese alla scadenza della legislatura e – cosa più importante – consentire a Mario Draghi di terminare il suo mandato per traslocare al Colle. L’attuale premier, dicono i ben informati, lo desidera molto. E la sparata del ministro Giorgetti sul “semipresidenzialismo de facto” risponde proprio ai desiderata di Draghi, che a 74 anni potrebbe chiudere in bellezza un cursus honorum di tutto rispetto. Fino a poche settimane fa si pensava di aggirare l’ostacolo mettendo a Palazzo Chigi un “uomo di Draghi” per consentire a Draghi medesimo di coronare il sogno del Colle. Poi si è capito che per tenere insieme le forze politiche di maggioranza, che saranno sempre più nervose in vista della scadenza elettorale, una controfigura non basterà. Dunque torniamo sempre al punto di partenza: servirà un numero di magia per accontentare tutti, cioè Draghi e i partiti, che vogliono scongiurare elezioni anticipate. Le quali, in caso di un improvviso nervosismo del premier, sarebbero in suo pugno (perfino più di ora). Se Draghi minaccia di andarsene, loro sono fritti. Ora tutto questo scenario dovrebbe suggerire a lor signori una cosa che predichiamo da tempo: la politica personalistica (cioè che si basa esclusivamente sulla figura di un singolo) è assai pericolosa. Era vero per il vecchio B., per l’ormai defunto Matteo ed è vero anche per il più rispettabile Draghi. Alla fine troveranno un trucco, ma sarà sempre a discapito delle regole. Che a furia di essere forzate, non serviranno più a niente, lasciando il campo libero a ogni scorribanda…

 

Cari capitalisti, in biologia solo il cancro ha crescita illimitata

L’articolo più attuale della nostra Costituzione è il 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Sancisce due principi: la libertà del singolo è tutelata, fino a quando non lede i diritti sociali e umani. Ma i fatti ci dicono che la realtà, e sicuramente la percezione che ne abbiamo, va da un’altra parte.

Il nostro profilo neuroendocrino è lo stesso di ventimila anni fa, quando eravamo raccoglitori e cacciatori, e quindi la nostra reazione neuroendocrina (cioè la risposta allo stress) è la stessa sia di fronte a un leone che ci insegue, sia di fronte della percezione di una situazione analoga. Qui dobbiamo introdurre due concetti complessi: Pnei, ovvero la Psico-neuro-endocrino-immunologia e l’Epigenetica. La prima significa che il nostro corpo (soma) e la nostra mente (psiche) non sono due entità separate (l’errore di Cartesio), bensì strettamente interconnesse. L’Epigenetica, invece, mostra che il nostro Dna, che governa la capacità di adattarci ai mutamenti ambientali (altrimenti detta “evoluzione), è influenzato e modulato dall’ambiente stesso e dalla percezione che ne abbiamo. Pnei ed Epigenetica sono diventate, negli ultimi dieci anni, la chiave interpretativa delle Scienze della vita, mettendo in soffitta il metodo riduzionista e organicista. In soldoni: è sbagliato partire dalla malattia per ripristinare la salute. Dobbiamo chiarirci il concetto di salute, cioè i determinanti della salute (benessere fisico, psichico e sociale) per evitare la malattia, che è la rottura dell’equilibrio Pnei-Epigenetico. Concentrarsi sugli effetti, perdendo di vista le cause della malattia, equivale a infilarsi in un cul de sac. Anche perché i costi salgono in modo vertiginoso e insostenibile. Vale per la salute umana, ma pure ambientale.

I sacerdoti della finanza (ne abbiamo uno a capo del governo), che sostengono in modo fideistico il concetto di crescita senza limiti, non possono o non riescono a capire che in biologia l’unica situazione di “crescita senza limiti” è il cancro: cresce fino ad ammazzare l’ospite. Guarda caso è proprio ciò che sta succedendo. Il modello di sviluppo turbo-capitalista, puntando sulla crescita infinita, sta ammazzando il pianeta e, con esso, larga parte di quanto sul pianeta si è evoluto in milioni di anni. Quello che si percepisce è l’aumento delle disuguaglianze. Ma la domanda è: disuguali rispetto a cosa? La biodiversità è la base delle società libere e aperte. L’Italia, in questo, è una delle nazioni più bio-diversificate al mondo. Non a caso è stata teatro, nei millenni, di almeno due fasi cruciali nella storia delle società aperte: la Roma repubblicana (che ci ha lasciato il diritto romano) e l’epoca dei Comuni (XII-XIII secolo). Il problema, dunque, sta proprio nel fatto che l’iniziativa economica privata (che ha come religione la crescita infinita) si svolge “in contrasto con l’utilità sociale (cioè del “Comune”) e la conseguenza di questa modalità “reca danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Che fare? Un consiglio che ci viene dalla Pnei: ricollegare la psiche al soma, la mente al corpo. Ricominciare a fidarci delle percezioni, che sono istintive, ma sono anche l’esito di milioni di anni di evoluzione, cioè di adattamento all’ambiente. In pratica: a quelli che continuano a parlarci di “mano invisibile del mercato”, spiegare che abbiamo capito molto bene che si tratta del “ditone visibilissimo della finanza”, che ci dà la percezione di essere dall’urologo per una visita prostatica, se maschi, o durante una vista ostetrico-ginecologica, se femmine. Peccato che la realtà ci dica che non ci troviamo in un ambulatorio medico. E, in aggiunta, non c’è stato alcun consenso informato.

 

Certi ‘riformatori’ sanno che la mafia non è vinta?

“Un diritto penale liberale non confisca proprietà, aziende a cittadini ancora innocenti o addirittura assolti” e “non può contenere nel suo ordinamento una norma che si chiama ergastolo ostativo”. Espressioni che le cronache di questi giorni hanno attribuito a un autorevole commentatore nel corso di un convegno organizzato a Firenze da un partito politico.

Si tratta di prese di posizioni sempre più frequenti contro i cardini della regolamentazione antimafia, che si inseriscono nel solco di un progressivo processo di erosione degli strumenti introdotti nella nostra legislazione. Le misure di prevenzione patrimoniali – che la proposta di legge n. 3059, presentata il 26 aprile alla Camera dei deputati, di fatto vanificherebbe ove dovesse divenire legge – e la disciplina che impedisce ai mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia di tornare in libertà, fruendo dei benefici della liberazione condizionale, delle misure alternative, dell’accesso al lavoro esterno e ai permessi premio, hanno consentito di ottenere gran parte dei successi ottenuti nell’azione di contrasto al crimine mafioso. A fronte dei dubbi di incostituzionalità del vigente regime dell’ergastolo manifestati dalla Corte costituzionale, il Parlamento fatica a trovare una convergenza da parte di tutte le forze politiche per introdurre una nuova rigorosa regolamentazione. E tutto avviene nel silenzio, insieme alla convinzione di molti per cui, essendo stata la “Cosa Nostra corleonese” sconfitta, si possa fronteggiare il fenomeno della criminalità organizzata con una legislazione più blanda, che non necessiti più nemmeno del regime del “carcere duro” di cui all’art. 41-bis.

Perciò, credo sia utile ricordare la realtà criminale esistente nel nostro Paese, ove albergano plurime strutture mafiose estremamente pericolose, fra le quali, la ’ndrangheta che ha saputo colonizzare il Centro-Nord d’Italia. La mafia dei corleonesi è stata certamente ridimensionata, con le catture dei latitanti e le condanne degli esponenti più rappresentativi. I numerosi collaboratori di giustizia ne hanno minato la credibilità e intaccato il suo patrimonio più importante, vale a dire l’affidabilità verso l’esterno. Tuttavia, uno dei più autorevoli stragisti, il corleonese Matteo Messina Denaro, continua la propria latitanza, mostrando di disporre di una rete di protezione impenetrabile. Le collaborazioni all’interno della compagine corleonese si sono inaridite e i condannati accarezzano da qualche anno la possibilità di riottenere permessi e la libertà per riprendere il potere.

È la ferocia delle gesta dei corleonesi che ha rappresentato l’elemento di traino per giungere al varo della normativa che oggi si vorrebbe cancellare. Il germe della loro scellerata violenza prese le mosse nel 1977, con il progetto di uccisione di Giuseppe Di Cristina, il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta, ed esplose nei primi anni 80 che videro l’eliminazione fisica o l’emarginazione dei propri rivali. Una lunga scia di sangue con migliaia di vittime e l’abbattimento di numerosissimi esponenti delle istituzioni: il 20.08.’77 il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo; il 9.03.’79 il segretario regionale della Dc Michele Reina; il 21.07.’79 il dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano; il 25.09.’79 il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di polizia Lenin Mancuso; il 6.01.’80 il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella; il 3.05.’80 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile; il 6.08.’80 il procuratore di Palermo Gaetano Costa; il 30.04.’82 il segretario regionale Pci, Pio La Torre; il 3.09.’82 il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Solo dopo quest’ultima strage venne approvata la legge La Torre-Rognoni che introduceva le misure di prevenzione patrimoniali (che oggi si criticano), che hanno previsto la possibilità di sequestrare e confiscare i beni, anche solo sulla base di un giudizio di pericolosità sociale, senza che prima sia intervenuta una sentenza penale di condanna. E per giungere alla normativa sull’ergastolo ostativo la mattanza corleonese dovette continuare per tutti gli anni 80 sino agli inizi dei ’90, con le uccisioni, fra gli altri, dei giudici Alberto Giacomelli, Antonino Saetta (e del figlio disabile Stefano), Rosario Livatino e Giovanni Falcone, che concepì quella regolamentazione, introdotta nel 1991, poi affinata dopo la strage di Capaci nel 1992.

Perciò è fondamentale tenere presente i prezzi che sono stati pagati per non essere costretti a rivivere quel tragico passato. Nel quadro di disorientamento che il Paese oggi sta vivendo si esige un impegno quotidiano e serio da parte della magistratura per non dare il fianco a posizioni di attacco sempre più frequenti.

 

Il mantello dell’invisibile, la fame improvvisa in volo e una luna di formaggini

E ora, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che la Rai non mi fa fare dal 2001 perché sono criminoso e invece Gigi Marzullo no”, Arrangiate fresche.

IL FAMOSO ASTROFISICO Isaia Lurking, autore del celebre saggio Nessuno ha mai finito di leggerlo anche se è piuttosto breve, ieri pomeriggio ha scosso il mondo scientifico dalle fondamenta con l’asserzione sconvolgente che la luna non è fatta di formaggio. “Per anni” ha detto Lurking con la sua vocetta adenoidale, gli occhi penetranti dello stesso azzurro pallido che ha il denim trattato con la candeggina, “gli scienziati hanno creduto che la luna fosse fatta di formaggio. Ma ora, grazie alle mie ricerche, possiamo affermare senza ombra di dubbio che la luna è fatta di miliardi di piccole lampadine, più piccole del nucleo di un atomo, che Dio accende ogni notte poco prima di andare a letto”. Il professor Lurking, che ha 98 anni, indossava un vecchio, disgustoso soprabito di tweed bucherellato dalle tarme, color bruco schiacciato; e da vicino esalava la fiatella di chi mangia le cose sbagliate. Chi lo conosce (la sua portinaia) lo definisce “una persona molto gentile”, che è quello che si dice di solito di qualcuno su cui non riesci a immaginare cos’altro poter dire, o non vuoi dire di peggio. A voi piacerebbe che il vostro epitaffio dicesse: “Qui giace X, era molto gentile”? Io no. Preferirei morire.

Dialogo interessantedagli atti di un processo.

GIUDICE: “Signor Bernardi, vuole spiegarci perché ritenne che mangiare 37 persone del volo AF 567 fosse l’unica cosa da fare?”.

BERNARDI: “Chi non c’era non può capire. Quando stai cercando di sopravvivere non pensi a quello che è giusto o sbagliato. Giusto o sbagliato sono solo parole, quando ti guardi intorno e vedi solo morte. L’unica cosa che senti è questa fame per la vita. Lei cosa avrebbe fatto?”.

GIUDICE: “Non stiamo parlando di un incidente aereo sulle Ande, signor Bernardi. Stiamo parlando di un ritardo. Lei è l’unico sopravvissuto di un ritardo al decollo di 20 minuti”.

BERNARDI: “20 minuti che non dimenticherò mai”.

A Reggio Emilia, la città che secondo Newsweek ha gli asili più belli del mondo, e le suore più provocanti, hanno aperto un asilo notturno: in pratica, un albergo per bambini. A differenza degli alberghi per adulti, in questo, quando un bambino chiede una coperta per la notte, gli danno una coperta per la notte.

Un ricercatore dell’Università di Tokyoha creato un abito che rende invisibile chi lo indossa: un balzo tecnologico che, se sviluppato, potrebbe condurre a un sovraffollamento dei bagni femminili nei licei. Il professor Sununu Taki, designer dell’abito, riconosce che la tecnologia è ancora nel suo “stadio embrionale” e richiede macchinari difficili da usare, per cui sarebbe troppo costosa per il consumatore medio. In più, non è che ti renda proprio invisibile. “A dirla tutta, fate come se non ne avessi neanche parlato”, ha concluso Taki.

 

Whirlpool, il governo diserta il tavolo al Mise

Al nuovo round del Mise sulla lunghissima vertenza della Whirlpool di Napoli di ieri pomeriggio, dove si attendevano aggiornamenti sul consorzio che si dovrebbe presentare il prossimo 15 dicembre, i ministri Giorgetti e Orlando (impegnati in quelle ore nel Cdm) e i sottosegretari ministeriali non si sono presentati scatenando l’ira dei sindacati che si trovavano al tavolo e degli operai fuori dal ministero in sit-in che hanno così deciso di andare a Palazzo Chigi e Montecitorio. “Non abbiamo fretta, ormai non c’è più niente da perdere”, hanno spiegato. Fim, Fiom e Uilm alla notizia che i ministri non si sarebbero presentati hanno comunicato di restare al Mise a oltranza.

Il “modello Genova”: l’uomo del mega piano è passato a Webuild

È possibile predisporre per conto dello Stato appalti per quasi due miliardi e poi candidarsi ad aggiudicarseli? Sì, basta usare il “modello Genova”, nuovo paradigma per le grandi opere pubbliche italiane. Ed è quello che sta succedendo proprio nella città ligure con Webuild e il manager Marco Rettighieri.

Andiamo con ordine. Il disastro del Morandi ha avuto ricadute gravi per la viabilità terrestre, ma assai meno per il traffico del porto, come ha certificato un mese fa la Corte dei Conti. Eppure il presidente dell’Autorità portuale, Paolo Signorini, fedelissimo del governatore Giovanni Toti, insieme a quest’ultimo, al commissario per la ricostruzione e sindaco Marco Bucci e all’allora viceministro alle infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, nel 2018 ha ottenuto nel “decreto Genova” 200 milioni per un piano straordinario di “investimenti urgenti” per fronteggiare l’emergenza, da attuarsi con le stesse disposizioni speciali usate per il ponte Morandi. Cioè con un commissario con poteri in deroga ad ogni norma compreso l’obbligo di fare le gare.

Il piano fu redatto nel gennaio 2019. I due progetti maggiori, da 300 milioni l’uno (su un totale di un miliardo), erano quelli per “l’ampliamento e trasformazione del sito produttivo di Fincantieri” (cosiddetto “ribaltamento a mare”) e per la nuova “diga foranea”. A coordinare il piano fu chiamato, al costo di 180mila euro l’anno, Marco Rettighieri, ex general manager di Expo e tuttora presidente di Cociv, il general contractor del Terzo Valico, il cui azionista di controllo è il colosso Webuild, l’ex Salini-Impregilo. In pochi mesi i costi per le due opere sono lievitati rispettivamente a 700 e 950 milioni. La manovra 2020 ha stanziato 480 milioni per il “ribaltamento”, intestandoli formalmente alla messa in sicurezza di due torrenti per evitare problemi di aiuti di Stato per Fincantieri, che gestisce il cantiere navale e insieme a Webuild ha ottenuto senza gara la ricostruzione del ponte Morandi. Per la diga sono arrivati nei mesi scorsi 650 milioni fra fondi ministeriali e regionali, mentre il regime del “modello Genova” è diventato il paradigma del Pnrr e il grimaldello per abbattere senza passare dal Parlamento il Codice degli Appalti con i decreti “semplificazione” del 2020 e 2021. L’esecuzione del Piano non ha però brillato per celerità. Per questo, invocando l’emergenza, Signorini e Bucci si sono detti costretti a ricorrere ad appalti “integrati”, cioè unendo progettazione definitiva a quella esecutiva, facendo saltare la separazione dei controlli e soprattutto a usare la procedura negoziata invece delle gare, per affidare sia il ribaltamento che la diga. Non solo. Malgrado avesse già fatto la verifica del progetto, hanno affidato le direzioni lavori a Rina (già all’opera sul ponte), innescando un ricorso al Tar pendente. E, stando a un documento del Consiglio Superiore dei lavori pubblici visionato dal Fatto, sono arrivati perfino ad avviare “un’interlocuzione con il ministro per la Transizione Ecologica (Roberto Cingolani, a lungo alla guida del genovese Iit, ndr) affinché venga disposta l’esclusione” della diga dalla Valutazione di Impatto Ambientale. Contattato dal Fatto, il Mite non ha voluto commentare.

A maggio 2021 Rettighieri si è dimesso improvvisamente da responsabile del Piano. Un mese dopo, ha scoperto il Fatto, Webuild ha costituito Webuild Italia, chiamando a presiederla proprio Rettighieri e candidandola – è emerso all’apertura delle buste per la negoziazione – all’appalto senza gara per il ribaltamento del cantiere di Fincantieri (400 milioni), peraltro in consorzio con la stessa Fincantieri, potenziale duplice beneficiaria (da esecutrice e concessionaria) del mega appalto. Quanto basta per rispedire al mittente la busta? Manco per idea.

L’Autorità portuale nel verbale scrive che Rettighieri non esercitava “poteri di natura autoritativa o negoziale” che “potessero incidere sulle procedure di affidamento degli appalti”, limitandosi ad invitare Webuild a dettagliare le procedure promesse per “escludere qualsiasi contributo, partecipazione, intervento di Rettighieri nello studio e predisposizione dell’offerta”. In attesa delle buste per la diga (30 dicembre) il cerchio (magico) del modello Genova è quasi chiuso.

Insulti e minacce di Mr. Ita, ma i sindacati restano muti

Il presidente di Ita, Alfredo Altavilla, parla di licenziamenti indiscriminati e insulta i più stretti collaboratori. Ma a quanto pare va bene così o comunque la cosa non desta troppa preoccupazione. Dopo che il Fatto ha dato conto dei contenuti dell’audio di una riunione del comitato direttivo dell’azienda, in cui il manager parla della volontà di licenziare al termine dei 4 mesi di prova la metà dei 1077 dipendenti provenienti dalla Alitalia, le bocche restano cucite o socchiuse. La Fit Cisl si schiera addirittura in difesa del manager. La Uilt non commenta, la Filt Cgil tace. Curioso, visto che tra i propositi di Altavilla ci sarebbe quello di ridurre la sindacalizzazione della forza lavoro.

Nessun commento dal ministero del Tesoro che possiede il 100% di Ita Airways, nata dalle ceneri di Alitalia, e ne designa i vertici. Il governo peraltro ha sinora negato al Parlamento l’accesso ai documenti in cui sono contenute le richieste della Commissione Ue sull’operazione Ita. I sindacati, come detto, sono molto “abbottonati” a eccezione dell’Usb. La Uilt sceglie il “no comment” mentre dalla Filt Cgil non giunge nessuna risposta. La Fit Cisl arriva a spendersi a favore di Altavilla: “A noi – replicano – non risulta che tratti male i lavoratori, anche perché non è lui che tratta direttamente con loro, ma il middle management”. Quello che invece ci risulta è che non siamo ancora riusciti a definire un contratto aziendale e quindi auspichiamo la riattivazione della trattativa interrotta a suo tempo”. L’estrema prudenza dei sindacati si spiega evidentemente con la volontà di non disturbare le trattative in corso con l’azienda. Solo l’Usb si espone: “Il presidente Altavilla è fuori controllo, non può restare un minuto di più. Siamo di fronte a un comportamento intollerabile”.

Dal fronte politico, il deputato di Liberi e Uguali, Stefano Fassina, annuncia una nuova interrogazione parlamentare: “Il presidente di Ita Airways è inadeguato a un grande vettore nazionale. Disapplica Ccnl e art. 2112 del codice civile ed elimina lavoratori iscritti a sindacati. Governo prenda atto”. Sempre da LeU, anche Nicola Fratoianni rimarca l’inadeguatezza del manager “dimostrata sinora dai fatti, dal disprezzo nei confronti dei lavoratori e delle loro famiglie e a cui si aggiunge un linguaggio del tutto fuori luogo”. Il senatore di Fratelli d’Italia, Massimo Ruspandini, responsabile nazionale Trasporti di Fratelli d’Italia, scrive in una nota: “Trovo preoccupanti e pericolose le parole del manager di Ita”.

Pur di attaccare Report, Faraone estrae la lettera di un anonimo

Altro violento attacco a Report da Italia Viva. Non solo sul modo di fare inchieste, ma anche citando lettere anonime. Sono quasi le 3 del pomeriggio ieri e in Vigilanza Rai, in audizione ci sono Carlo Fuortes e Marinella Soldi, quando prende la parola il renziano Davide Faraone. Il quale prima si lamenta per una troupe di Report che “mi è stata dietro tutto il tempo alla Leopolda”, poi attacca la trasmissione su come ha condotto certe inchieste, da una puntata sui vaccini in Regione Lombardia allo scoop sull’incontro tra Matteo Renzi e l’ex 007 Marco Mancini in un autogrill a Fiano Romano. Infine Faraone fa riferimento anche a una lettera anonima giunta in Vigilanza su alcuni comportamenti di Sigfrido Ranucci e presunti abusi in redazione. “Tutti abbiamo ricevuto quella email, a luglio, ma essendo anonima io l’ho cestinata”, sottolinea subito dopo il forzista Andrea Ruggieri. “Di questa cosa non so nulla, né mi è giunta alcuna notizia dall’audit della Rai”, specificherà poi Fuortes. “È un dossier basato su totali falsità. Sulla vicenda ho presentato una denuncia il 5 agosto scorso”, dirà più tardi Ranucci. Mentre Primo Di Nicola accusa Faraone di “caccia alle streghe” e di “tentativo di censura ai giornalisti di Report”. A tenere banco, poi, è anche il caso Open. “Possibile che con quello che sta venendo fuori su Simona Ercolani, la Rai non si ponga la questione sull’opportunità di lavorare con la sua società?”, chiedono gli esponenti di M5S. “C’è un’indagine in corso, spetta ai pm verificare i fatti”, la risposta della presidente Soldi.

Molto caldo, inoltre, il capitolo nomine: Fuortes ammette di aver avuto “interlocuzioni coi partiti” per la scelta dei direttori, cosa che a suo dire “rientra nell’autonomia e indipendenza dell’ad” e non viola alcuna legge, poi non smentisce di aver avuto rapporti con Palazzo Chigi. Confermato, infine, il taglio dell’edizione notturna dei tg regionali (“fa bassi ascolti”, dice l’ad). E l’ex direttore del Tg1 Giuseppe Carboni è rimasto senza stanza: dovrà cercarsi una collocazione in una sede Rai vicino a Viale Mazzini.

Ecco le manovre dei renziani per dare il seggio a Carbone

Le truppe cammellate renziane ci lavorano da settimane ventre a terra. Perché al Senato non c’è solo la possibilità di garantire l’immunità per l’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open che il leader di Italia Viva giura di non volere, ma che – sussurrano gli ex compagni del Pd – “otterrà a sua insaputa”. Potrebbe infatti compiersi anche un’altra magia a tutto beneficio dell’ex Rottamatore che ha convinto i suoi e pure i colleghi di centrodestra a ridare birra a una pratica data per morta e sepolta da due anni almeno. E che riguarda una sua vecchia conoscenza, anzi uno del Giglio Magico propriamente detto: Ernesto Carbone, quello dell’irridente “Ciaone” con cui salutò su twitter il mancato raggiungimento del quorum al referendum anti-trivelle del 2016.

Che vogliono i renziani? Vogliono fargli ottenere il seggio al Senato, che gli era sfuggito alle ultime Politiche e su cui ha fatto ricorso sebbene tardivamente. Nelle more Carbone è stato piazzato in Terna dove ha ottenuto uno strapuntino nel consiglio di amministrazione, ma ha pure ripreso a fare l’avvocato come hanno tra l’altro rivelato le carte dell’inchiesta Open: è lui (che non è indagato) a inoltrare l’accordo di riservatezza per un contratto poi non andato in porto tra la società di consulenza Digistart di Matteo Renzi e Marco Carrai, con l’armatore Vincenzo Onorato. Il Fatto Quotidiano ha raccontato in un articolo del 31 ottobre la vicenda della consulenza che Renzi ha peraltro allegato alla memoria che ha inviato alla Giunta di Palazzo Madama. Che ieri oltre che occuparsi di lui e dell’inchiesta Open, ha pure affrontato il ricorso presentato da Carbone per ottenere il seggio senatoriale sfumato a marzo 2018. A farne le spese sarebbe il senatore del Pd Daniele Manca, che per evitare il commissariamento del Comune di Imola si era dimesso da sindaco subito dopo aver approvato il bilancio, ma oltre i termini previsti dalla legge elettorale.

Circostanza su cui Renzi e i suoi insistono anche se non era stato un ostacolo: all’epoca fu proprio l’allora segretario del Pd a chiedere a Manca di candidarsi e in posizione di capolista per far da traino al partito in Emilia-Romagna colonizzato da esponenti del partito che nulla avevano a che fare con quella regione. Come Teresa Bellanova (piazzata in posizione numero 2) e appunto Ernesto Carbone (terzo in lista). Ma ora però tutto è dimenticato: il seggio serve per il fedelissimo e Manca è diventato un abusivo da liquidare con un carboniano “ciaone”. La giunta è rinviata al 30 novembre.

Soldi dal costruttore Parnasi alla Eyu: Bonifazi finisce a processo a Roma

Altri guai in casa Italia Viva. Ieri Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Pd poi passato nel partito di Matteo Renzi, è stato rinviato a giudizio per finanziamento illecito. Con lui finiranno a processo (per vicende diverse) altre undici persone, tra cui il tesoriere della Lega, Giulio Centemero (accusato di finanziamento illecito e pure di autoriciclaggio). Al centro dell’indagine della Procura di Roma i presunti flussi di denaro partiti dall’imprenditore Luca Parnasi e indirizzati alla politica. Per quanto riguarda Bonifazi, l’accusa dei pm riguarda due bonifici dalla Pentapigna Immobiliare srl (che era riconducibile a Parnasi) alla fondazione Eyu (poi chiusa). In totale la società ha emesso due bonifici: uno del 1º marzo 2018 di 100mila euro e un secondo per altri 50mila euro del 5 marzo dello stesso anno. I soldi, ufficialmente, furono erogati per l’acquisto di uno studio commissionato alla Eyu dal titolo “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”. Per i pm la ricerca era un modo per “camuffare” il contributo economico. Bonifazi in aula ha detto di aver “rappresentato a Parnasi, con una formula di stile, l’esistenza di un soggetto giuridico privato del tutto autonomo dal Pd” ma che forse l’imprenditore “aveva equivocato”. Non ha convinto il gip Marzano che ieri ha deciso per il rinvio a giudizio.

Per quanto riguarda Giulio Centemero, al centro delle accuse ci sono due bonifici da 125mila euro dalla Pentapigna srl alla onlus Più Voci: uno del dicembre 2015, l’altro del febbraio 2016. Anche in questo caso, per i pm si tratta di “contributi erogati (…) senza l’annotazione dell’erogazione quale ‘finanziamento a partito’ nel bilancio di esercizio”. La Procura è convinta che Più Voci fosse un’associazione “riconducibile alla Lega Nord quale sua diretta emanazione e comunque costituente una sua articolazione”. I 250 mila euro, secondo la ricostruzione dei pm, sono poi confluiti a Radio Padania: di qui l’accusa di autoriciclaggio. Accuse sempre respinte da Centemero.

Per altre vicende e con l’accusa di traffico di influenze illecite, ieri è stato rinviato a giudizio anche l’ex presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito. Il processo inizierà il 21 dicembre.