“Ho 4 prove contro i pm”: i buchi nella difesa di Renzi

Renzi dice di avere in mano un poker di prove che ha squadernato al Senato dove era atteso dalla Giunta per le immunità. Che lo ha voluto sentire dopo che il leader di Italia Viva – indagato per concorso in finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta su Fondazione Open – aveva trasmesso a più riprese il suo memoriale alla presidente Casellati. Perché si attivi con ogni mezzo per preservare le sue prerogative parlamentari, che sarebbero state violate dai pm di Firenze: sono loro, ancora una volta, i principali bersagli di Renzi, che li aveva messi sotto processo già durante la Leopolda nel weekend appena concluso. Ora, in Senato, ai suoi colleghi ha detto di aver portato “quattro prove schiaccianti” che li inchiodano alle loro responsabilità.

Quali? Gli sms inviati e ricevuti quando era già stato nominato senatore, poi le email scambiate con l’amico Marco Carrai che intende come corrispondenza violata e il solito estratto del conto corrente, anch’esso agli atti dell’indagine e che “copre fino al 2020, quindi quando ero già parlamentare”. Renzi ha parlato in tutto più di un’ora, ma hanno parlato anche alcuni membri della Giunta: alcuni per appoggiare le sue tesi, come Simone Pillon della Lega, altri per contestare la sua ricostruzione. Il più duro è stato Pietro Grasso di LeU, che gli ha detto più o meno così: “Mi risulta che sia laureato in Giurisprudenza: com’è che non capisce cosa prescrive l’articolo 68 della Costituzione sulle guarentigie per i parlamentari?”. Per l’ex magistrato, infatti, Renzi “fraintende” la norma. L’obbligo per i pm di rivolgersi alla Camera di appartenenza del parlamentare copre la fase che riguarda i giudici, non quella delle indagini. “Altrimenti torneremmo all’autorizzazione a procedere di antica memoria che non c’è più” ha detto Grasso. Ma Renzi ha insistito, elencando quelle che lui ritiene essere “prove schiaccianti” di una presunta violazione da parte dei pm. Ecco cosa ha detto e come stanno le cose.

1. Volo per gli usa Nel suo discorso Renzi ha fatto riferimento ai messaggi scambiati con l’imprenditore Vincenzo Manes (non indagato) a giugno 2018. In quei messaggi i due parlano di un volo che Renzi stava cercando per andare a Washington. A un certo punto Renzi scrive a Manes: “Stiamo prendendo un volo privato come fondazione, non abbiamo alternative, temo”. Volo che alla fine pagherà la Fondazione Open al costo di 134.900 euro. Sebbene per Renzi questi messaggi siano la prova di una violazione da parte dei magistrati, in realtà sono stati captati dal cellulare di Manes, non soggetto a guarentigie parlamentari. E i pm li hanno depositati per dimostrare come il volo per Washington sia stato pagato dalla Open e quindi per sostenere l’accusa, ossia che alcuni dei contributi volontari incassati dalla Fondazione siano stati utilizzati per “sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti, Boschi e della corrente renziana”. Su questi messaggi la relatrice forzista della Giunta ha chiesto di portare il caso davanti alla Corte costituzionale.

2. Email con CarraiQuanto alle email scambiate con Carrai, Renzi già nel memoriale spedito al Senato aveva fatto riferimento a quelle riguardanti la sua società di consulenza (ora chiusa), Digistart e il contratto, poi non concluso con una società dell’armatore Onorato. Quest’ultimo, non indagato, è tra i finanziatori di Open per 300mila euro in due anni: nel 2015 vengono versati alla Fondazione 50mila euro da Onorato personalmente e 100mila da Moby. Stessa cosa nel 2016.

3. Conto corrente Renzi ieri è tornato sulla questione dell’estratto del suo conto corrente. In realtà di questa documentazione si fa riferimento in un’informativa della Gdf del 10 giugno 2020. Scrive la Finanza: “Tra gli allegati alla segnalazione per operazioni sospette risulta accluso l’estratto, dal 14 giugno 2018 al 13 marzo 2020, del conto corrente (…) Bnl – filiale Senato Roma, intestato a Matteo Renzi”. E aggiungono: “Dalla disamina dell’estratto conto si rilevano: in avere per complessivi 2.644.142,48 euro”.

4. Whatsapp privati L’ex premier lamenta l’acquisizione anche di una serie di messaggi privati, inviati e ricevuti quando era già stato nominato senatore, ossia dopo il marzo 2018. Su questo i pm hanno già risposto ai suoi legali: l’utilizzazione dei dati processuali in questione è stata operata non già nei confronti di Renzi, ma di un altro indagato, che non essendo parlamentare non poteva invocare le garanzie riconosciute agli eletti.

Da Uggetti a De Luca La norma salva tutti

L’antipatia per la legge Severino è tra i valori di una parte del Pd da ben prima che gli esuli di Italia Viva promuovessero il referendum per abolirla. E quello contro l’abuso d’ufficio è uno storico cavallo di battaglia, in particolare, di uno dei più noti amministratori del partito, Vincenzo De Luca. Riavvolgiamo il nastro ad aprile 2016, quasi un’era geologica fa. Matteo Renzi era ancora premier, De Luca già presidente della Regione Campania (all’epoca era pure lui renziano); i due colloquiavano amabilmente in una diretta Facebook di “Matteo risponde”, un format della propaganda dell’ex segretario dem in vista del referendum costituzionale, che di lì a pochi mesi avrebbe dissipato tutte le sue fortune.

De Luca pochi mesi prima era stato assolto in appello dal reato di abuso d’ufficio. Ma quando aveva vinto le elezioni campane, il 31 maggio 2015, lo aveva fatto da condannato in primo grado (e “impresentabile” secondo la Commissione antimafia guidata da Rosy Bindi). Quindi era stato immediatamente sospeso per 18 mesi, ai sensi della legge Severino. Nella diretta con Renzi, successiva all’assoluzione, De Luca si sfoga e lancia la sua proposta: cambiare la Severino e cancellare l’odioso reato. “Oggi in Italia – dice il governatore – un funzionario pubblico che viene condannato in primo grado per abuso d’ufficio è rovinato. Voi pensate che in queste condizioni prenderà mai una decisione? Ma quando mai. Serve rispetto per gli amministratori pubblici che prendono decisioni, altrimenti l’Italia resterà un Paese paralizzato. Per certi versi la legge Severino è sacrosanta, per altri è sconcertante. Un povero cristo di amministratore locale viene rovinato a vita”.

D’altra parte De Luca è probabilmente l’unico politico italiano che è stato sospeso due volte dalla Severino, da due cariche diverse: nel gennaio del 2015 era stato colpito dalla stessa norma anche da sindaco di Salerno (ma restò al suo posto grazie a un ricorso al Tar che congelò la sospensione). Si comprende quindi tanto astio verso l’abuso d’ufficio e la legge che porta il nome dell’ex ministra montiana.

Il ritorno di fiamma contro la Severino e contro il reato più odiato da sindaci e governatori è di questi giorni, complice la condanna – con relativa sospensione – del sindaco di Reggio Calabria, pure lui del Pd, Giuseppe Falcomatà, condannato a un anno e 4 mesi per le irregolarità nelle procedure di affidamento del Grand Hotel Miramare. Ma l’elenco degli amministratori colpiti è lungo e ha alimentato nel tempo le crociate anti Severino anche e soprattutto a sinistra. Pure l’ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha conosciuto l’onta di essere sospeso dalla sua carica, e anche lui per una condanna per abuso d’ufficio (15 mesi per l’inchiesta “Why Not” che conduceva da pm a Catanzaro). Ma come De Luca, De Magistris è riuscito ad aggirare la sospensione, ottenendone il congelamento grazie a un ricorso al Tar della Campania. Anche il sindaco di centrodestra di Catania, Salvo Pogliese, si è affidato a un tribunale per bloccare la Severino. La condanna per le “spese pazze” all’Assemblea regionale siciliana ha prodotto una sospensione di 4 mesi, dal 23 luglio al 5 dicembre 2020, poi Pogliese ha fatto ricorso al Tribunale civile di Catania, che ha trasmesso gli atti della richiesta di annullamento della Severino alla Corte costituzionale. La Consulta deve ancora pronunciarsi (a breve).

Un altro caso da manuale per i coreuti del garantismo è quello dell’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, che non ha nemmeno aspettato che si compiessero gli effetti della Severino: si è dimesso dall’incarico (e si è autosospeso dal Pd) dopo l’arresto per turbativa d’asta per le presunte irregolarità nella gara per due piscine comunali. Uggetti è stato assolto in appello – nonostante le motivazioni dei giudici abbiano confermato, di fatto, che la gara fosse truccata – e il suo caso è diventato rilevante per la penitenza pubblica del 5Stelle Luigi Di Maio: “Sull’arresto dell’ex sindaco di Lodi ho contribuito a esacerbare il clima. Mi scuso”.

La lista dei “severinati” è lunga: c’è il leader autonomista valdostano Augusto Rollandin. Nel 2019, quando era consigliere regionale, è stato condannato in primo grado a 4 anni e mezzo per corruzione (un reato per cui sarebbe sospeso anche con la Severino “light” proposta dal Pd). A settembre è stato assolto in appello (mentre a luglio è stato condannato dalla Corte dei Conti a pagare 2,4 milioni di euro per i finanziamenti al Casinò di Saint Vincent). Anche l’ex sindaco Psi di Eboli, Massimo Cariello, è stato sospeso dal Comune dopo l’arresto del 9 ottobre 2020 (pochi giorni dopo il clamoroso 80% con cui aveva vinto le elezioni). Cariello è stato condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi per corruzione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La sospensione è in agguato per un altro sindaco italiano: Cateno De Luca, primo cittadino di Messina, in questi giorni sta chiedendo a gran voce la “revisione della legge Severino”. Ne è particolarmente interessato: entro fine anno è attesa la sentenza di primo grado per il processo Caf-Fenapi, dove è imputato per evasione fiscale. Severino incombe. Per ora.

Via la Severino: scudo per i sindaci condannati

La legge Severino così com’è non va bene per il Pd. Che infatti ha presentato una proposta per cancellare gli articoli 8 e 11 del decreto legislativo del 2012 che rendono obbligatoria la sospensione dalla carica per sindaci, governatori, assessori che abbiano subito una condanna in primo grado. A meno che non si tratti di reati gravi. Una scelta di campo piuttosto forte, che va ad attaccare un caposaldo degli ultimi anni, nella direzione di allentare le maglie della giustizia, piuttosto che di stringerle. Il testo porta le firme di molti parlamentari di spicco dem: i primi firmatari al Senato sono Dario Parrini, presidente della Commissione Affari costituzionali, Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile giustizia del partito, Franco Mirabelli, vicepresidente dem e capogruppo in commissione Giustizia; e alla Camera Andrea Giorgis, coordinatore del comitato riforme istituzionali del partito, e i capigruppo in commissione Giustizia e Affari costituzionali Alfredo Bazoli e Stefano Ceccanti. La decisione però arriva direttamente dal segretario, Enrico Letta, che – non a caso – proprio ieri riuniva gli amministratori locali Pd nella sede del partito.

Spiegano al Nazareno che si è voluto andare incontro a una precisa richiesta dei sindaci e che se ne stava discutendo già da tempo. In realtà il testo arriva subito dopo la sospensione del primo cittadino di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà (che nel settembre 2020 ha vinto le elezioni alla guida di una coalizione di centrosinistra) appena condannato a 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio per l’affidamento di palazzo Miramare a un’associazione guidata da un imprenditore che gli avrebbe concesso i suoi locali per la campagna elettorale.

“Sulla base della casistica degli ultimi anni è emerso un problema oggettivo di bilanciamento tra lotta all’illegalità da una parte e salvaguardia dell’efficienza e della stabilità delle amministrazioni dall’altra”, si legge nel testo. “In particolare appaiono problematiche, salvo che per i delitti di particolare allarme sociale, le disposizioni di cui agli articoli 8 e 11 del predetto decreto legislativo n. 235 del 2012 che prevedono la sospensione di amministratori regionali e locali a seguito di sentenze non definitive e dunque suscettibili di cambiamento nel corso dell’iter processuale”. Si parla di opportunità di “un nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione”. Restano fuori dalla proposta di riforma i reati dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 (concussione, corruzione, terrorismo, associazione di stampo mafioso, ecc.) con l’eccezione dell’articolo 314, primo comma del codice penale, ovvero il peculato. Reato, quest’ultimo, nel quale spesso inciampano gli amministratori locali.

Da notare che tra i reati gravi non è prevista la turbativa d’asta: reato per il quale era stato condannato in primo grado e poi assolto in Appello Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi.

Fare il sindaco non conviene, spiegano dal Pd: si guadagna troppo poco, si corrono troppi rischi, magari si perdono dei privilegi. In qualche modo, evidentemente, tutto questo deve essere compensato. Magari chiudendo pure un occhio, quando occorre. Senza contare che il Pd ha appena vinto le elezioni a Roma, Napoli, Torino, Bologna, Milano.

Va detto che questa proposta tende a portare indietro le lancette della giustizia a prima del 1990: è di quell’anno la legge 55, “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale” in cui si stabiliva la sospensione anche per gli amministratori locali condannati con “sentenza di primo grado, confermata in appello, a una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo”.

La Severino di certo ha rappresentato un passo in più. E i tentativi di modifica del testo vanno avanti praticamente da quando è stata approvata. Ma c’è un’altra questione tutta politica. Tra i 6 quesiti dei Radicali sulla giustizia ce n’è uno per abrogarla completamente. A firmarlo sono stati molti esponenti dem. Alcuni di spicco, come Goffredo Bettini, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, il senatore Gianni Pittella, ex socialista, l’europarlamentare Massimo Smeriglio, un fido di Bettini, il deputato Luciano Pizzetti (ex sottosegretario nei governo Renzi e Gentiloni). Il tentativo è anche quello di evitare di farsi scavalcare dai Radicali sui temi della giustizia. “Non appare convincente il quesito di abrogazione totale promosso da Radicali Italiani”, si legge nel testo. Secondo Ceccanti “i parlamentari del Pd hanno ritenuto doveroso presentare un progetto di legge in materia per isolare le sole norme relative alla sospensione per sentenze non definitive”. Al netto di tutte queste spiegazioni, c’è una questione politica che appare centrale: la forza del cosiddetto “partito dei sindaci” nel Pd, fondamentale perché Letta possa guidare il partito.

Infatti, le misure per andare incontro ai primi cittadini rappresentano un vero e proprio pacchetto. Nella manovra si aumenta l’indennità dei sindaci: questione alla quale ha lavorato in prima persona Parrini. E poi, c’è il tentativo di stop all’abuso d’ufficio, spinto dal presidente dell’Anci, nonché sindaco di Bari, Antonio Decaro. Si pensa anche a una proposta di legge che intervenga sui reati di omissione: per essere valutati tali, l’idea è che ci debba essere una colpa provata.

Va detto che per far approvare una proposta di legge serve una maggioranza. Il Pd è pronto a far convergere i voti del centrodestra, spera in quelli dei Cinque Stelle. Ai quali però chiede un’abiura totale della loro ragion d’essere.

Il brutto segnale dall’Ue: “Adesso la spesa corrente andrà tagliata”

È un segnale: piccolo, a suo modo gentile, ma inequivocabile. Col parere con cui in sostanza dà un primo via libera alla manovra finanziaria dell’Italia, la Commissione Ue segnala che la ricreazione sta per finire: dalla legge di Bilancio del prossimo autunno si tornerà in qualche modo allo status quo ante Covid. Cos’ha detto Bruxelles? Questo: l’Italia deve “preservare la sostenibilità di bilancio nel medio termine”. E ancora: dato il rimbalzo in atto del Pil, Roma “è invitata a rivedere regolarmente l’utilizzo, l’efficacia e l’adeguatezza delle misure di sostegno all’economia”. E infine: la Commissione rivolge all’Italia “la raccomandazione” di “limitare la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale”: glielo raccomanda perché la manovra presentata da Mario Draghi “non prevede che questo sia assicurato in misura sufficiente”. Non fosse chiaro, il vicepresidente Valdis Dombrovskis, frontman dei falchi, ha spiegato che “non possiamo dare per scontato l’attuale contesto di bassi tassi di interesse” (cioè una politica accomodante della Bce) e dunque bisogna iniziare a rientrare nei ranghi. Com’è noto il Patto di Stabilità è in parte sospeso fino a tutto il 2022: si parla oggi per l’anno prossimo. A Roma si spera molto nella riforma dei vincoli europei, ma l’assegnazione ai liberali tedeschi (probabilmente al leader Christian Lindner) del ministero delle Finanze nel prossimo governo è un altro brutto segnale.

La Lega si piega a Draghi e digerisce il super-pass

A fine giornata, in casa Lega, il sentimento prevalente è quello dello “spaesamento”. Dopo mesi in cui Matteo Salvini si è detto contrario al green pass e ha invocato la libertà di scelta di non vaccinarsi, ieri sera il Carroccio ha detto “sì” a un provvedimento che rinchiude in casa i cittadini non immunizzati. Anche in zona bianca. Si chiama “Super green pass” ma per Salvini è una “ghettizzazione”. A cui ha dovuto dire sì, schiacciato dal peso dei suoi governatori e dal voto per il Quirinale che incombe: il leghista vuole issare Draghi al Colle e non può aprire un caso politico. Così, alla fine, in Consiglio dei ministri arriva anche il “sì” leghista. Sofferto, dopo una giornata di trattative frenetiche e di una telefonata con il premier Mario Draghi subito prima del Cdm. “Non so se ci partecipiamo” minaccia Salvini. “È un provvedimento troppo importante che richiede unità” la risposta del premier. E alla fine i tre ministri leghisti si presentano a Palazzo Chigi e si piegano.

L’unico contentino portato a casa dalla Lega è che il decreto scadrà il 15 gennaio invece che il 31: le misure valgono solo per le festività natalizie. Non ci sarà obbligo di vaccino negli hotel e i tempi dei tamponi non sono stati tagliati. Per il resto, da via Bellerio la definiscono “una Caporetto”. Tant’è che per tutta la mattina l’idea era quella di non partecipare al Cdm. Perché se la richiesta dei governatori del Nord – e l’accordo con Salvini – era quella di chiudere per i non vaccinati dalla zona gialla o arancione, tra martedì sera e ieri mattina il ministro della Salute Roberto Speranza ha convinto Draghi (piuttosto scettico) a inasprire le misure anche per la zona bianca. E allora, di buon mattino, Salvini riunisce i suoi in videoconferenza e trova una truppa furiosa: ci sono Giorgetti, Fedriga, i capigruppo Molinari e Romeo e il suo vice Fontana. Il ministro dello Sviluppo Economico si sfoga: “Io non ci vado in cabina di regia”. Alla riunione coi capidelegazione la Lega manda il sottosegretario al Mef, Federico Freni, che esprime “una riserva politica” sulla norma. Fedriga, però, fa il pontiere tra Draghi e Salvini: “Non possiamo non votare il decreto” dice al segretario. E alla fine Giorgetti e i ministri dicono sì. Non senza manifestare dissenso. Durante il Cdm il titolare del Mise si scontra con la ministra degli Affari regionali Mariastella Gelmini. Giorgetti si dice “perplesso” per l’estensione del pass anche in zona bianca, ma la forzista gli risponde a brutto muso: “Sono stati i governatori, anche quelli della Lega, come la Lombardia, a chiederlo. Solo quelli di FdI erano contrari”.

“È una bugia” replica stizzito il numero due del Carroccio. A quel punto interviene Draghi a fare da paciere. E il decreto passa all’unanimità. Giorgetti fa sapere di aver espresso “perplessità” ma di aver votato sì per “senso di responsabilità”, Fedriga è sulla stessa linea ma loda il governo (“bene le misure”). Da fuori Meloni spara: “Il Super green pass è discriminatorio”. In conferenza stampa Draghi dice che “non sono serviti sforzi” per far dire sì a Salvini, ma poi maramaldeggia: “Il lavoro di Fedriga è stato proficuo e convincente”.

Il rischio “due binari”: meno limiti per turisti che ai No Vax di casa

Si fa presto a dire super green pass, specie se di mezzo c’è il turismo. Come sappiamo, dal 6 dicembre gli italiani potranno entrare in bar e ristoranti al chiuso, palestre, impianti sportivi, cinema, teatri, discoteche, partecipare a spettacoli, feste e cerimonie pubbliche solo se in possesso del certificato “rafforzato” riservato esclusivamente a vaccinati e guariti. Ma come la mettiamo con gli stranieri, in particolare con i turisti delle ormai prossime festività natalizie?

A oggi per varcare le frontiere italiane e dell’Unione europea – ma anche per i viaggi da e verso Gran Bretagna, Usa, Canada, Giappone, Norvegia e altri Paesi – è richiesto il certificato digitale Ue Covid-19 che può essere rilasciato a chi ha completato il ciclo vaccinale, è guarito o è risultato negativo a un tampone. Il paradosso, dunque, è che dal 6 dicembre il turista straniero in possesso di Green pass europeo rilasciato dopo un tampone negativo, possa fare ciò che non è consentito agli italiani non vaccinati, cenare in un ristorante o visitare un museo con il solo esito negativo di un tampone. Difficile che a questo non si ponga in qualche modo rimedio, poiché significherebbe attribuire a cittadini non italiani maggiori diritti rispetto a cittadini italiani, ma il punto non è di immediata soluzione. Sul tavolo esiste un’altra opzione, estendere ai turisti stranieri gli stessi vincoli imposti agli italiani: a cena e al museo solo se vaccinati o guariti, niente tampone.

Questa sembra essere la soluzione prediletta dal ministro della Salute, Roberto Speranza, ma il rischio di un contraccolpo per un settore vitale per il Paese come quello del turismo è evidente: “Stiamo riflettendo sui provvedimenti da adottare sugli arrivi dall’estero – ha detto ieri il presidente del Consiglio, Mario Draghi – e comunque il nostro intento è dare certezze alla stagione turistica”.

Oggi la Commissione europea, intanto, dovrebbe presentare le nuove linee guida sui viaggi nell’Ue passando da un approccio basato sul Paese di provenienza a uno incentrato sul pass digitale valido: “Proprio in queste ore – ha detto Speranza – è in corso un confronto importante a livello europeo e ci viene comunicato che con tutta probabilità, nei prossimi giorni, ci sarà un aggiornamento delle regole e raccomandazioni di viaggio dell’Unione europea. Noi leggeremo con attenzione gli esiti di questo confronto e poi valuteremo se adeguare le nostre misure”. Sembra tuttavia che la Commissione Ue non intenda prevedere restrizioni per i viaggi dei non vaccinati, il che potrebbe creare qualche problema al super green pass italiano.

Le mappe dei contagi elaborate settimanalmente dal Centro europeo per la prevenzione ed il controllo (Ecdc), inoltre, terranno conto non solo dell’incidenza del contagio e del tasso di positività, ma anche di dati come le percentuali di vaccinazione. L’ultima mappa Ecdc colora di rosso scuro Grecia, Bulgaria, parte della Romania, Ungheria, Croazia, Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, parte della Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Irlanda, Islanda, la Germania sudorientale, il Belgio, i Paesi Bassi e parte della Francia del Ccentro del Sud. L’Italia (al momento quasi tutta in giallo tranne alcune province in rosso nel Nordest) è di fatto circondata. Altri Paesi si sono già mossi: la Germania ha imposto la quarantena per chi arriva dall’Austria. Entrano solo i vaccinati. I test non valgono più anche se ci sono eccezioni per i lavoratori transfrontalieri. In Francia chi arriva da Austria, Belgio e Germania dovrà essere in possesso di un test negativo fatto meno di 24 ore prima dell’ingresso. In Usa e Israele, infine, da settimane si entra solo se vaccinati.

Ecco il “salva-Natale” dei Migliori: i non vaccinati si chiudano in casa

“Spero che questo sia un Natale normale”, ha detto il presidente Mario Draghi. Poi ha aggiunto: “Per i vaccinati spero sia un Natale normale”, ma naturalmente si augura “per tutti”, nel senso che tutti offriranno il braccio per immunizzarsi dal Covid-19. Dal 6 dicembre e (per ora) fino al 15 gennaio l’Italia entra in una fase che nessuno avrebbe immaginato, in cui i diritti, sia pure quelli non fondamentali, separeranno chi è vaccinato (o guarito dal Covid da meno di nove mesi e non più sei) e chi no, come già succede in Germania e in altri Paesi messi peggio del nostro.
Comincia l’epoca del “green pass rafforzato” per andare al ristorante e nei bar al chiuso, per accedere a cinema, teatri e stadi, feste e discoteche, cerimonie pubbliche. Non basterà più il tampone negativo. Anche in zona bianca. Così ha deciso il Consiglio dei ministri ieri, all’unanimità dopo che i leghisti hanno messo in minoranza il loro capo, Matteo Salvini. Per lavorare e prendere il treno o l’aereo, ma anche in palestre e piscine, rimarrà invece il green pass normale, che durerà nove mesi (non più dodici) dall’ultima dose, ma si potrà ancora avere per 72 o 48 ore con il tampone, rispettivamente molecolare o antigenico. L’obbligo di green pass (normale) viene esteso agli alberghi, agli spogliatoi per l’attività sportiva, ai treni regionali e al trasporto pubblico locale, dove prima non c’era e i controlli potranno essere solo a campione. Toccherà alle Prefetture, entro tre giorni, elaborare piani per i controlli, fin qui scarsi. Il presidente Draghi assicura che le forze dell’ordine “saranno impiegate in maniera totale, completa, piena”, ma non gli sfugge che hanno anche altro da fare.
Mentre le Regioni avrebbero voluto restrizioni per i non vaccinati solo in zona gialla (tra pochi giorni potrebbe toccare a Friuli-Venezia Giulia e provincia di Bolzano, ai confini con Paesi travolti dall’ondata in corso, ma prevede mascherine all’aperto e poco altro), il governo ha disposto che solo i non immunizzati subiranno le limitazioni (vere) previste nella zona arancione, alla quale si spera di non arrivare perché ci vogliono il 20% delle terapie intensive (peraltro calcolate su letti inesistenti per un terzo) e il 30% dei reparti ordinari occupati da pazienti Covid, cioè un vero e proprio disastro sanitario con interventi chirurgici rinviati e politraumatizzati stradali rimbalzati da un ospedale all’altro.
Altro capitolo, l’obbligo vaccinale. Dal 15 dicembre riguarderà anche la terza dose per il personale sanitario, unica categoria fin qui obbligata pena la sospensione da lavoro e stipendio. Ora però il governo lo estende al personale scolastico e a quello delle forze armate e di polizia. E si prepara ad accelerare sulla vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni, che non convince tutti gli esperti date le incertezze sul rapporto eventi avversi/rischio Covid, forse già dalla prossima settimana. Ci sarà anche un’apposita campagna informativa destinata alle famiglie.
L’obiettivo delle misure, illustrate in conferenza stampa da Draghi con i ministri Roberto Speranza (Salute) e Mariastella Gelmini (Affari regionali), è spingere a vaccinarsi i sette milioni di italiani sopra i 12 anni che non hanno fatto nemmeno una dose e accelerare le terze dosi, ora consentite dopo cinque (e non sei) mesi dalle seconde e già in aumento, destinate a tutti gli over 18 (fin qui sono previste solo per gli over 40). È chiaro che senza vaccini saremmo messi come e peggio della prima e della seconda ondata del 2020. Ma nessun esperto crede che il green pass rafforzato ridurrà in modo consistente i contagi, ieri sopra i 12 mila e in via di stabilizzazione ma con un indice di riproduzione del virus Rt di 1,2 che non lascia tranquilli, per quanto i vaccinati corrano molti meno rischidi malattia grave. Nel corso di un mese prenatalizio che genererà maggiori occasioni di incontro, i malati nelle aree mediche (ieri più 32: siamo a 4.629) e nelle rianimazioni (ieri più 13: il totale è 573) possono mettere in difficoltà gli ospedali. Si punta tutto sui vaccini, con il rischio di esasperare le tensioni nel Paese. Non basterà a liberarci dal Covid-19, speriamo che riduca un po’ i danni.

Rapsodie ungheresi

Per la serie “tutti ladri, nessun ladro”, grandi festeggiamenti a edicole unificate per la richiesta di rinvio a giudizio contro Piercamillo Davigo, accusato a Brescia insieme al pm milanese Paolo Storari di rivelazione di segreto per aver consegnato o comunicato ai vertici del Csm i verbali dell’avvocato Amara sulla presunta loggia Ungheria. Giornale: “Colpo finale ai giustizialisti”. Libero: “Caro Davigo, ora tocca a te. Da inquisitore a inquisito”. Foglio: “Processo alla malagiustizia”. Verità: “Contrappasso: chiesto il processo per Davigo”. Riformista: “Davigo è finito come i pifferi di montagna”, “È uno squarcio su Mani Pulite”. Il sillogismo del partito degli imputati è avvincente: Davigo è uno dei pm che scoperchiarono Tangentopoli; ora è imputato a Brescia (per la 27ª volta); dunque tutti i colpevoli di Tangentopoli erano innocenti. E ricorda quello di Montaigne: il salame fa bere; bere disseta; dunque il salame disseta. Ora, le eventuali colpe di Davigo non cancellerebbero quelle dei tangentari neppure se fosse stato scoperto a prendere tangenti. Ma il reato a lui contestato non c’entra nulla con soldi, interessi personali o altre condotte eticamente infamanti. Attiene a una sua doverosa denuncia in base all’interpretazione letterale di una circolare del Csm: quella per cui ai suoi membri non si può opporre il segreto.

È la primavera 2020: Storari confida Davigo che i vertici della Procura di Milano non indagano i personaggi accusati da Amara. Davigo si fa dare i verbali (a lui non si può opporre il segreto) e ne avvisa alcuni colleghi del Csm. A voce e non tutti, perché due sono accusati da Amara e non devono sapere delle indagini. Sta commettendo un reato? I colleghi del Csm ritengono di no, sennò lo denuncerebbero per non commetterne uno a propria volta (omessa denuncia del pubblico ufficiale). Neppure il vicepresidente Ermini, che corre ad avvertire il presidente Mattarella, senza che questi eccepisca nulla, poi distrugge i verbali avuti da Davigo (cioè la prova del possibile reato che, se fosse tale, lo renderebbe colpevole di favoreggiamento, oltreché di correità nella rivelazione di segreti al capo dello Stato). Anche Salvi, Pg di Cassazione e titolare dell’azione disciplinare, si guarda bene dall’avviarne una contro Davigo. Anzi, usa le sue informazioni per chiamare il procuratore di Milano e sollecitare le iscrizioni di cui Storari lamenta l’assenza. Al processo, quando Davigo chiamerà tutti a testimoniare, ci sarà da divertirsi. Intanto, oltreché del dito (Davigo), magari qualcuno magari si occuperà della luna (la loggia Ungheria). Sempreché i confratelli e le consorelle ungheresi, che nel frattempo continuano a far carriera, non siano arrivati al Quirinale.

Arata, il “Top crime” d’antan ambientato nel Regno sabaudo

Vive appartato nelle terre del Monferrato, a Terzo, alle porte di Acqui Terme. In questi anni ha scritto e pubblicato per una piccola casa editrice di Acqui, Impressioni Grafiche, tre romanzi storici notevoli, ambientati nel Piemonte e nella Liguria nei secoli XVII e XVIII, in cui la sapienza della macchina narrativa si coniuga perfettamente con la conoscenza della Storia. Ecco allora La torre e gli abissi. Un delitto nell’acquese seicentesco (2008), Di sale e di sangue (2010) e In una luce incerta (fresco di stampa), vicende fosche di delitti e di contrabbandieri di sale, di onesti podestà e di rapaci feudatari, di nobildonne colte e malinconiche e di donne sospettate di stregoneria, di militari sabaudi di religione protestante e di banditi.

Tre libri che spiccano per la capacità dell’autore di ricostruire minuziosamente gli scenari del passato, fino nella topografia, nella musica, nei sapori, e di farvi agire i suoi personaggi, quasi sempre esistiti realmente, senza tradire mai la Storia, ma non rinunciando a declinare intrecci appassionanti. Sono romanzi scritti come si deve scrivere un romanzo storico vero, insomma, nel solco dei maestri, e che niente hanno a che spartire con la narrativa pseudo-letteraria e pseudo-storica che va di moda, e che intasa le librerie con i Dante e Leonardo di turno. Semmai viene in mente, per Angelo Arata, il Leonardo Sciascia di Il Consiglio d’Egitto o Il resto di niente di Enzo Striano.

Eppure pochissimi si sono accorti della bravura di Angelo Arata, nato nel 1953, già docente in un istituto superiore di Acqui e medievista provetto. Nella recente fatica, In una luce incerta, avventura che si dispiega nell’estate del 1759, un ufficiale sabaudo indaga su crimini e misteri muovendosi nei pericolosi sentieri del Regno di Sardegna e della Repubblica di Genova. Nelle due opere precedenti le storie erano affondate tra gli ultimi anni del 1600, quando ancora il Monferrato non era stato sottratto al Duca di Mantova e incamerato dai Savoia, e poi il primo trentennio del 1700. Lì, a far da teatro, ci sono altre due indagini sul male, il cui emblema potrebbe essere il famoso verso di Eugenio Montale: “Spesso il male di vivere ho incontrato”.

Romanzi colti e di godibile lettura, nel contempo, che hanno come morale una frase di Pascal, citata da Arata: “Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarvi una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi”.

“Non volevo più cantare ‘Lella’ solo per rispettare le donne”

Il cravattaro. I romani l’hanno sempre creduto un usuraio. “Invece, nella mia immaginazione, il marito dell’uccisa vendeva davvero cravatte. Un ricco commerciante. Un giorno, in bus su via del Tritone, vidi l’insegna di quel negozio e mi venne l’ispirazione”, rivela Edoardo De Angelis. Non un fattaccio di cronaca, ma un “racconto popolare, un tributo a Pasolini o a Gadda. Non esisteva nessun signor Proietti tradito né, fortunatamente, un assassino della moglie”. Ma da mezzo secolo De Angelis convive con il fantasma di Lella, ammazzata da un amante abbandonato. A cantarla alla vigilia della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, dati delle breaking news alla mano (un femminicidio ogni tre giorni in Italia nel 2021), c’è da alzare la voce per le vere vittime della subumana bestialità, salvaguardando la suggestione di una narrazione musicale che tutti hanno intonato con noncuranza, dalle scolaresche in gita fino ai calciatori. “Né io né Stelio Gicca Palli, con me autore della ballata, aderimmo al punto di vista dell’assassino, anche se alcuni lo hanno pensato. Non poteva esservi connivenza o comprensione per un simile atto criminale”. Lella è il cuore di un lavoro discografico, con i proventi da destinarsi alla Casa delle Donne, che propone quattro versioni del brano: quello di De Angelis in un nuovo arrangiamento (“stavolta emerge l’amarezza della confessione”); una esecuzione corale con Cristicchi, Cammariere, Tosca, Antonella Ruggiero, Tosca, Ilaria Spada, Barbarossa, Marcoré, Locasciulli; un’attualizzazione del rapper Tommaso Piotta Zanello, infine un “sequel” della storia per mano di Vincenzo Donnamaria, dove il killer torna in scena dopo aver scontato la pena in carcere, perché il suo confidente aveva parlato con la polizia: “Cor core come un cencio ce sei annato/ Ma l’hai voluto di’ solo ar tenente/ Nun hai potuto di’ nun faccio gnente/ Trent’anni nun so’ pochi, nun se sfugge/ E l’ho voluti fa’ tutti d’un fiato/ Sapendo ch’era er minimo de legge …/Ma er debbito nun è che s’è sardato”, vuole il testo di “Lella 50”. Nel cd anche estratti letterari ad hoc, da Tolstoj a Kundera passando per PPP e Flaiano con le voci di Haber, Gioè, Benvenuti, Sena fino a Dacia Maraini che legge pagine del suo Corpo Felice. Il materiale di Lella per sempre verrà presentato domani sera al MAXXI di Roma con molti degli artisti coinvolti. “Siamo di fronte a una assuefazione al massacro delle donne”, riflette De Angelis. “Accadono quotidianamente cose inaccettabili, che non possono essere giustificate da disagi sociali o familiari”. Anche lui, nel rischio di essere frainteso, a un certo punto aveva preso le distanze dalla propria canzone. “Non me la sentivo di proporla dal vivo, ma il pubblico me la chiedeva. Così la facevo seguire da un altro mio pezzo, Non ammazzate Anna”. Eppure, in 50 anni, Lella è stata miccia per la consapevolezza collettiva più che ritornello da falò sulla spiaggia. Di avventure ne ha vissute, il personaggio, assieme a Edoardo & Stelio, ex-compagni di scuola che in quel 1971 si erano appena iscritti all’università. “Il debutto fu un disastro, in un locale di via Boncompagni gestito da un avvocato che abitava nel mio palazzo. Io e Gicca Palli eravamo dilettanti, non pensavamo a una carriera da cantautori. Però qualcuno ci notò per un provino alla RCA”. Arrivò subito il contratto. “Ci catapultarono dentro il Cantagiro-Cantamondo. Sin dalla prima tappa, a Montesano Terme, proponemmo Lella, con le chitarre un tono sotto all’orchestra… Ma la sfangammo, arrivando alla finale dei giovani. E lì”, ricorda De Angelis, “il colpo di scena. C’era la diretta tv, ma la Rai aveva deciso di censurarci. Fummo costretti, in extremis, a eseguire un’altra nostra cosa, di tutt’altro tenore, intitolata Eva. Tre mesi dopo, abbattuto il veto, la rilettura dei Vianella rese famosa Lella”. E i tempi leggendari del Folkstudio? “Al vernissage in via Garibaldi ci fu un applauso scrosciante del pubblico, che era scarso ma giudicante. Si alzò un ragazzo: ‘Ahò, ma che cazzo battete le mani? Non mi pare un pezzo abbastanza politico!’. Era Ernesto Bassignano”. Poi negli anni Ottanta: “Concerto a Formia, si riparte in auto verso sud. Ci ferma la stradale. L’agente mi fa aprire il bagagliaio, gli mostro l’astuccio con la chitarra. Lui estrae la penna dallo stivale: ‘È lei che canta Lella? Anch’io suono, mi scriva gli accordi sul libretto’. Non ci multò”.