Si alza il sipario; l’attore lascia passare due o tre minuti in silenzio guardando il pubblico poi armeggia intorno al magnetofono. Dal magnetofono, tra i soliti sibili e rumori, appare e scompare una voce, quella dell’autore cioè la mia.
LA MIA VOCE – Mi chiamo Cesare Zavat… (tipici rumori del magnetofono).
L’ATTORE (chiude per un attimo il magnetofono) – Funziona. (Rimette in moto l’apparecchio).
LA MIA VOCE – Mi chiamo Cesare Zavattini, sono quasi vecchio, e faccio lo scrittore da tanto tempo. Il protagonista sono io. Ho bisogno di sapere se si ha il diritto di scrivere una poesia alla vigilia della guerra. Sarei venuto volentieri in persona a discorrerne con voi, qui sul palcoscenico, ma me ne manca il coraggio e il fiato. E devo servirmi del solito attore, pur essendo certo che il tempo degli intermediari e delle metafore è finito. Se qui si dirà cazzo, scusino le signore, sarò io, proprio io, e non questo o quel personaggio, ad assumerne la responsabilità…
Ho il diritto dunque di scrivere una poesia alla vigilia della guerra? Una volta pareva nell’aria questo diritto, nelle stesse cose. Oggi no, come un tam-tam, la domanda batte nelle nostre povere teste, anche nella mia, quante notti mi avvoltolo dentro il letto senza saper rispondere. Non so rispondere. Gli altri forse sanno. O fingono di sapere? Ma suppongo che siate già stanchi del mio accento un po’ dialettale, quindi per le note esigenze dello spettacolo mi sostituirà qualcuno che pronuncia correttamente “dópo”, e non “dòpo” come dico io (una breve risata). Non amo gli attori, nemmeno i grandi, quando dicono “dópo”, pur dovendo riconoscere che si esprimono secondo le regole, e io no. Passo la parola.
L’ATTORE (riprende ad armeggiare intorno al magnetofono) – Dal titolo dunque si deduce che, a mio avviso, la guerra è vicina. La guerra grande, s’intende. Credo che scoppi tra un paio di ore. Chi ama la precisione consulti un orologio. Anzi facciamone portare uno in scena (ad alta voce, verso le quinte): L’orologio! (Un inserviente porta un alto orologio stradale). Fra un paio d’ore, più o meno (ride). State facendo gli scongiuri. Riconoscete almeno che è possibile, e il possibile per la coscienza è come se fosse accaduto. A mio modesto avviso, dentro di noi è già matura. Dico noi, poiché nel mare delle differenze, c’è, malgrado tutto, una costante che ci accomuna e che chiameremo “la uomità”. Che brutto vocabolo. La costante della “uomità”! Non mi pare difficile dimostrarlo (dando un ordine verso le quinte). Passi un culo! (Subito una splendida ragazza attraversa la scena col culo scoperto, bello, bellissimo anzi, vi luccica sopra qualche favilla di strass). I nostri occhi si sono mossi tutti insieme, lo ammetterete, come fossero di un corpo unico. Proviamo le orecchie (fa un gesto e si ode immediatamente l’urlo di una sirena di guerra): sono effetti piuttosto vecchi, lo riconosco, tuttavia servono a rintracciare questa “uomità”. Da un punto di vista artistico, ci sono senza dubbio dei precedenti in proposito. D’altra parte, perché dovrei cercare un linguaggio nuovo quando da quello vecchio né io né voi non abbiamo ancora saputo trarre le giuste conseguenze?… La guerra è più vicina di quando hanno tirato su il sipario… Che cosa faccio io intanto che la guerra si avvicina? Voglio scrivere una poesia… Ho bisogno di entrare nelle cose, di fotterle, non di dirle. Sì, d’accordo, ci sono delle parole che scavano, come una vanga. D’accordo. Ma non ci basta più, evidentemente. Qualcuno sostiene che dobbiamo accontentarci degli strumenti che abbiamo; come per un gobbo la gobba, l’arte bisogna tenersela, anzi perfezionarl… Merda! Insomma che cosa voglio? Cambiare il mondo? Come si fa? Non lo so. Se c’è da sparare, sparo. Ma datemi un indirizzo preciso. C’è da sparare? Sono stanco di essere un artista, una rogna. Serve a qualche cosa l’arte? Non lo so. Forse è necessario che qualcuno si assuma intrepidamente il ruolo di chi non sa, di chi non capisce, e me l’assumo io. Sulla mia lapide scriveranno: non sapeva, non capiva. Non è una confessione questa… Ho il diritto di fare o no questa poesia? (il toc toc dell’orologio risalta) Mentre arriva? Arriva, sentite? Che cosa faccio? Mi chiudo in casa, non voglio vedere, e prego che mi si diano i mezzi non per vedere ma per raccontare che non ho voluto vedere! (Con disprezzo) Puah! (Riprende il gesso in mano). È mostruoso che si chieda che una cosa mostruosa come la guerra dobbiamo esecrarla con delle parole nuove. Non basta dire: la guerra è mostruosa. La guerra è mostruosa non significa niente, anzi… Bisogna essere nuovi (Riflette, poi scrive sulla lavagna: “la gu”… legge ad alta voce). La gu! Interrotto, il vocabolo è più impressionante che intero? Forse mi trovo sulla buona strada. Sono quasi soddisfatto. Da un punto di vista estetico o morale? O le due soddisfazioni si integrano e fanno una soddisfazione perfetta, la soddisfazione? Quella del cittadino e del letterato? (Si ode un improvviso colpo di rivoltella dietro le quinte. L’attore ha un leggero soprassalto, ma dopo tre o quattro secondi ride). È un accorgimento qualsiasi.