Sarah e la fossa degli ascolti tv

Nella televisione italiana c’è un prima e un dopo Vermicino, e c’è un prima e un dopo Avetrana; la morte di Alfredino traccia il solco del dolore in diretta, ma è la scomparsa della quindicenne Sarah Scazzi a trasformare quel dolore in spettacolo h24. L’efficacia della docu-serie Sarah. La ragazza di Avetrana, da ieri su Sky Atlantic, sta prima di tutto nella scelta della vocazione documentaristica; 11 anni dopo, è il momento di dare ordine non solo al caso ma soprattutto alla sua narrazione, da quell’agosto 2010 in cui, giorno dopo giorno, collegamento dopo collegamento, primo piano dopo primo piano, i media hanno abbandonato il ruolo di mediatori per diventare attori, protagonisti, cinici padroni del campo. Da Avetrana in poi, la cronaca nera è diventata l’alibi per frugare nelle vite private, specie nelle vite dei più deboli, e trasformare l’etere nell’inquisizione degli opinionisti.
Certo, la vicenda in sé sembra fatta apposta per confermare che la vita la sa sempre più lunga dell’arte, che un personaggio come Michele Misseri, “zio Michele”, non l’avrebbe immaginato nemmeno Pirandello in società con Stephen King. Ci voleva un gran sangue freddo per ricostruire questo doppio binario. Da una parte, il lento sfogliarsi della corolla di tenebre: la sparizione della ragazzina, le indagini, il ritrovamento del corpo, i continui colpi di scena processuali: dall’altra, l’accendersi dei riflettori, dei microfoni, degli inviati, dei salotti. La docu-serie prodotta da Groenlandia, tratta dal libro di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, scritta con Matteo Billi e Christian Letruria per la regia dello stesso Letruria, si mantiene in equilibrio tra i due altoforni. E ci lascia con la sensazione che il dopo Avetrana non si sia mai concluso, che le tragedie di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Chiara Poggi ricominciano daccapo ogni volta che la narrazione della cronaca nera si fa show dell’orrore, gettando vittime e carnefici nella fossa comune degli ascolti televisivi.

 

“Cazz… ti sei flippato il cervello”: Altavilla è un manager debole

Avevamo cominciato a sospettarlo dopo aver ascoltato la registrazione del discorso, pieno zeppo di insulti e parolacce rivolte ai propri dirigenti, con cui il presidente di Ita Airways, Alfredo Altavilla, annunciava loro di aver deciso di licenziare la metà dei 1.077 dipendenti provenienti da Alitalia al termine dei 4 mesi di prova. Poi, quando ieri ci è arrivata una lettera con cui la compagnia ci chiedeva di non pubblicare la notizia perché il piano di rilancio “necessita del massimo supporto possibile di tutti, compresi gli organi di stampa”, il sospetto è diventato certezza: Alfredo Altavilla è totalmente inadeguato per il suo ruolo.

Non solo perché pensare di cacciare, indipendentemente dai risultati e dalle capacità dimostrate, chi pur di lavorare ha accettato di non farsi applicare il contratto nazionale di lavoro è cosa da padrone delle ferriere. A dimostrare l’inadeguatezza di Altavilla è anche il turpiloquio da lui usato nel corso del comitato direttivo del 1° ottobre e la reazione epistolare di Ita alle nostre richieste di chiarimenti. Una missiva in cui le volgarità del presidente vengono definite “espressioni utilizzate per richiamare l’attenzione dei presenti, adatte a quello specifico contesto e non certo alla diffusione presso il pubblico”.

Per questo, nel malaugurato caso (per noi contribuenti) in cui il governo scelga di mantenere Altavilla al suo posto, ci sentiamo di dargli un paio di consigli. Il primo è un corso di buona educazione. Utilizzare termini del tipo “cazzo ti sei flippato il cervello”, non “prendetemi per il culo perché vi spiumo tutti quanti” o “le priorità, puttana troia, le devo scegliere io, porca puttana, non le devi scegliere tu, cazzo” non è segno di leadership, ma solo di un’estrema insicurezza che sfocia nell’autoritarismo. Cioè nell’esatto contrario di quello di cui ha bisogno la nostra nuova compagnia di bandiera. Sia perché chi è leader sa fare squadra e basa la sua forza sull’autorevolezza e non sul terrore. Sia perché chi sa davvero gestire le situazioni di crisi non umilia pubblicamente i propri collaboratori. Se non altro perché, se è dotato di un minimo di intelligenza (cosa di cui, per quanto riguarda Altavilla, cominciamo francamente a dubitare), sa che il rischio di rivalsa da parte dei sottoposti è altissimo.

Il secondo consiglio è qualche buona lettura. A partire da Democrazia in America di Alexis de Tocqueville, un testo in cui viene tra l’altro magistralmente illustrato perché una stampa libera, che pubblica tutte le notizie, sia indispensabile e utile per i cittadini. Compresi, aggiungiamo noi, quelli che con le loro tasse finanziano Ita, ci viaggiano, ci lavorano e persino (non si sa quanto meritatamente) la dirigono.

In una democrazia che si definisce ancora liberale come la nostra, il modo migliore per “dare il massimo di supporto possibile” a un’azienda di proprietà degli italiani non è nascondere sotto al tappeto gli errori che vengono eventualmente commessi e non raccontare le ingiustizie. Ma è fare esattamente il contrario: nella speranza che qualcuno ponga rimedio agli sbagli non solo del passato, ma pure del presente.

Altavilla è stato a lungo il braccio destro in Fca di Sergio Marchionne. Per diventare un manager come lui non è però necessario che ne scimmiotti l’arroganza. Sarebbe invece un bene (questo sì, per tutti) che ne ricordasse le capacità di lavoro, quelle strategiche e di visione. Perché se Altavilla resterà al suo posto non saranno gli insulti e i licenziamenti indiscriminati a rilanciare (o meglio a salvare) Ita, ma una sobria e compassata fatica di ogni giorno.

 

B. al Quirinale. È lo spettacolo d’arte varia di un uomo innamorato di sé

Nell’eterno giorno della marmotta che viviamo, scandito dalle stesse parole di sempre, da “Non abbassare la guardia” (Covid) a “No allo spezzatino” (Tim), la battaglia per il Quirinale porta una ventata di spumeggiante novità, che metterà d’accordo fini scacchisti e rudi amanti della lotta nel fango. Insomma, c’è una scadenza, bisognerà prima o poi fare dei nomi, tessere, cucire, uscire allo scoperto, imbastire agguati nell’ombra, bruciare avversari, mentire. Che meraviglia. E poi, tutto in diretta, l’atto finale. Prepariamoci.

Su tutti svetta Silvio Nostro, uno che ci crede sempre al di là della logica, che non molla nemmeno davanti all’evidenza, insomma che punta al Quirinale senza se e senza ma (e senza dirlo per scaramanzia anche se lo sanno tutti). Ha mandato, pare, una brochure a tutti parlamentari, una specie di opuscolo con le sue gesta da statista, discorsi alti, diciamo così, non le barzellette. Poi, grandiosa, l’uscita sul Reddito di Cittadinanza, che dice un po’ le cose come stanno e spezza la narrazione ossessiva del “reddito di delinquenza” (cfr. Renzi) che “diseduca alla sofferenza” (cfr, sia Renzi che Salvini), o che è “come il metadone” (cfr, Meloni). Insomma, commovente Silvio in cerca di sponde per salire al Colle, ma di una cosa bisogna dargli atto: pochi come lui sanno l’importanza del mercato interno, dello stimolo ai consumi, della necessità di avere gente felice che fa la spesa, e cinque-sette milioni di poveri non gli piacciono di certo.

Ma sia: nella partita complicatissima del Quirinale, che investe la partita complicatissima del governo, che riguarda la partita complicatissima dei futuri assetti politici, la mission di Berlusconi – portare Berlusconi a fare il capo dello Stato – è l’unica cosa chiara. E infatti tutti hanno letto l’apertura di Silvio sul Reddito di Cittadinanza come un dar di gomito ai Cinquestelle, un’operazione simpatia, cosa che Silvio tenta in qualche modo anche con il Pd, mentre Renzi si vanta che farà tutto lui e “siamo l’ago della bilancia”, Salvini e Meloni sostengono Berlusconi, a parole e con l’atteggiamento di fare un favore al vecchio padrone.

Quel che ci si presenta davanti, insomma, è lo spettacolo d’arte varia di un uomo innamorato di sé, che vuole abbastanza incongruamente coronare il suo sogno di padre della patria. Mi aspetto da un momento all’altro Silvio at work su molti fronti, alle manifestazioni per l’acqua pubblica, o a quelle per Fiume italiana, per l’aborto, contro l’aborto, fa lo stesso, purché gli venga accreditata la patente di uomo retto e super partes. Non male per uno che ha diviso il Paese per trent’anni, e fa tenerezza sentire i giovani epigoni che tuonano da un palco contro la magistratura con gli stessi argomenti e motivazioni che usava lui, passivo-aggressivo. Il giorno della marmotta, appunto.

Il bello, deve ancora venire, questo è certo, nel vortice di nomi bruciati, candidature civetta, ballon d’essai. Non proprio uno spettacolo edificante, con minacce incrociate, anche divertenti, tipo Letta che dice a Renzi che se si schiera con le destre sul Quirinale tra loro è finita (ah, perché? Non è ancora finita? Cosa serve ancora?). In tutto il bailamme politico e parapolitico che ci attende, insomma, le motivazioni di Silvio, la pura ambizione personale, un riconoscimento finale alla sua opera, un risarcimento per le ingiustizie subite (eh?) sembra la più cristallina, a suo modo epica: l’ultima battaglia di uno che sì, il Paese l’ha cambiato eccome, rendendolo, ahinoi, quello che vediamo.

 

Renzi, la cattiva politica sul piano etico e politico

Suona quasi eccentrico ragionare intorno a Renzi e al renzismo in chiave politica. Egli stesso ci mette del suo nel concentrare l’attenzione sulle questioni giudiziarie che riguardano lui e la sua cerchia. Ne ha fatto il cuore della sua Leopolda, un bunker dal quale il Nostro, confortato dai seguaci, ha dato sfogo al suo rancore verso magistrati e Pd. Ciononostante, volonterosamente, ci proviamo a metterla sul piano politico. Del resto, si pensi alla sua linea di difesa: i finanziamenti alla Fondazione Open non sarebbero soggetti alla disciplina che regola i contributi ai partiti in quanto tale Fondazione non sarebbe un partito o un’articolazione di partito. Prendiamola per buona. Anche se, osserviamo incidentalmente (lo hanno fatto molti: tra i tanti ricordo Cantone, all’epoca alla guida dell’Autorità anticorruzione, nominato da Renzi stesso), si pone l’esigenza di una disciplina più stringente che inibisca l’aggiramento del problema grazie appunto alla opacità delle Fondazioni. Ma, ripeto, accediamo pure alla tesi renziana. La quale tuttavia non può spingersi sino a negare che Open finanziasse la sua attività politica. Sarebbe negare la palmare evidenza. Come pretendere che si creda che Ruby è la nipote di Mubarak.

Domando: sul piano politico non è un’aggravante la circostanza che l’allora segretario in carica del Pd (e premier), mentre si tagliava il finanziamento pubblico ai partiti costretti perciò a ridurre drasticamente i costi e a licenziare il personale, reperiva fondi attraverso una Fondazione altra dal suo partito? Che Renzi abbia ridotto il “più partito dei partiti”, ovvero il Pd, a partito personale è cosa arcinota. Il cosiddetto Pdr. Durante l’intero mandato di segretario, sino al suo ultimo atto: quello di scegliersi nominalmente pressoché tutti i parlamentari del Pd tuttora in carica. Con due conseguenze che ancora il Pd sconta e delle quali invece lui si avvantaggia: la pattuglia di parlamentari transfughi che ha sottratto al Pd e che oggi danno corpo (si fa per dire) al suo “partito”; l’ipoteca che egli tuttora esercita sui gruppi parlamentari del Pd con i quali il povero Letta deve fare i conti. Segretario a sovranità limitata da gruppi selezionati su altre prospettive politiche e legami personali. Ove qualcuno ancora occhieggia a Renzi e altri la pensano come lui. Persino nel vertice stretto del partito e dei gruppi.

Di nuovo: concediamo che non vi siano illeciti, ma lo spaccato del quale siamo venuti a conoscenza lascia basiti. Spettacolo imbarazzante e indifendibile sul piano etico-politico. Sotto il profilo della trasparenza, della coerenza, della qualità delle relazioni – comprese quelle interne al Giglio Magico – condite da un linguaggio greve.

Un modo di fare politica disinvolto, spregiudicato, informato a sfrenata ambizione e brama di potere. Personale e di gruppo. Tanto più sconcertante in quanto praticato da giovani che si erano affacciati alla politica con il proposito di bonificarla e di rigenerarla, con il motto (e la pratica brutale) della rottamazione indistinta di una classe politica effettivamente consunta, ma che oggi quasi rimpiangiamo. Qualcuno non a torto ha sentenziato: “Troppo potere in pochi chilometri”. Ed effettivamente ne esce il ritratto di un ristretto manipolo di giovani di provincia proiettati d’improvviso ai vertici dello Stato ai quali il potere ha dato alla testa. Raccolto intorno a un capo che, ancora attivo in politica, sfrontatamente rivendica il diritto all’arricchimento personale, al modo di un “professionista a contratto” incurante di conflitti di interessi e “decenza” di chi lo ingaggia.

Ci sarebbero poi da considerare le eclatanti contraddizioni genuinamente politiche. Quelle riassunte plasticamente da Michele Serra, secondo il quale “Matteo d’Arabia è stato la più clamorosa svista di tutti i tempi nella storia della sinistra italiana”. Resta un mistero – e comunque una responsabilità di cui sono molti a dovere rispondere – come la quasi totalità del gruppo dirigente Pd, ma anche una parte cospicua di elettori e militanti, per un tempo non breve, abbia potuto dare credito a Renzi leader della sinistra. Per non parlare dell’esatto rovesciamento della sua visione sistemica: dal bipolarismo spinto sino al bipartitismo, al cespuglio mobile, che coltiva la mediocre ambizione di fare da ago della bilancia; dal “partito della nazione” all’affannoso tentativo di “emergere dal sottoscala dell’irrilevanza” (copyright di Repubblica, che fu il suo house organ). Né di qua né di là, un po’ di qua un po’ di là. Il trasformismo come divisa, l’interdizione come programma, la destabilizzazione come strategia. Trovo blasfema la pretesa assimilazione alla “flessibilità politica” di Moro.

 

Ci sarebbe bisogno di pubblicità distopiche sulle reti generaliste

Programmi distopici come Black Mirror e Squid Game hanno reso obsoleta la tv generalista fino al ridicolo, ma qualunque filmato in Internet ormai riesce a seppellirla (guardare Ballando con le stelle delude, quando in Rete puoi vedere roba come questa: bit.ly/3HSJEDE). Anche la creatività pubblicitaria, se paragonata alle novità distopiche, segna il passo. Le réclame continuano a essere più interessanti dei programmi tv, ma non ci vuole molto; e poi sono il prodotto di un branco di talenti (sondaggisti di mercato, psicologi, copywriter, art director, scenografi, direttori della fotografia, registi) che la stragrande maggioranza dei programmi tv si sogna, i soldi della produzione venendo dilapidati sulle star e sui format, invece che sui contenuti e sulla loro messa in piega. Dovendo riempire di spettacolo le 24 ore, e risparmiare il più possibile, i network si affidano allora ai talk di attualità: giornalisti da mane a sera, ma i giornalisti non sono artisti, e stuccano rapidamente. Chi potrebbe scrivere pubblicità e varietà innovativi, dunque, da anni preferisce vendere la sua inventiva a settori più divertenti e danarosi, come i videogame, i film, e i fumetti da cui vengono tratti videogame e film. Dagli albori, il lavoro sporco del marketing (commerciale e politico) è lo stesso: trasformare il pensiero del consumatore in riflesso condizionato (per uno spin doctor, Renzi non è diverso da una saponetta) (e Renzi lo ha dimostrato con orgoglio); ma oggi la pubblicità, a corto di fantasia e di committenti audaci, arranca. L’ultimo trend è il greenwashing: per rendere simpatica la merce, la sposano a tematiche sociali e green, anche se si tratta di una corporation petrolifera o di un politico reazionario (“Draghi è un grillino! Cingolani è un grillino! Mio figlio è un grillino!”). L’antagonismo artistico può opporsi a questa tirannia manipolatrice dirottando la pubblicità altrove: penso a quelli di Adbusters (bit.ly/3Hzcdpj). Insomma, ci sarebbe bisogno di pubblicità distopiche sulle tv generaliste, magari durante Sanremo. Tipo queste:

IPERMERCATO. “Tutta la nostra frutta viene leccata ogni mattina da Gianni”

GIOIELLO. “Simile al monile rinvenuto su dodici giovani assassinate di recente nei boschi della Lombardia”

BAGNOSCHIUMA. “Lavate via dal vostro corpo ogni traccia di sperma lasciata dal miglior amico di vostro marito”

MERENDINE. Un cadavere nella bara, sbocconcellando una merendina: “Se avessi anch’io tutti questi conservanti, sarei ancora vivo”

ORSETTO DI PELUCHE. “Ora anche col buco del piacere”

MOTOSEGA. “Nel nostro cuore lo sappiamo tutti che sono gli alberi i veri nemici”

COLTELLO ELETTRICO. “Liberate i vostri pollici”

CIBI ESOTICI. “Per gente cui sembra di non passare abbastanza tempo al cesso”

MUTANDE DA UOMO. “Perché un prete non può sposarsi?”

DOPOBARBA. “È questo che piace alle donne: uomini che profumano come lo zio che le ha molestate da piccole”

VACCINO. “Diteci voi cosa fa”.

 

Vespa flirta con B. “A mediaset sono gentili”

Natale è quel periodo dell’anno in cui si torna a parlare di Bruno Vespa. Primo, perché iniziano a fioccare le succose anticipazioni del suo libro-strenna, si moltiplicano imperdibili marchette dedicate all’ultima opera del Vespone, su giornali e canali Rai. Secondo, perché il decano di Porta a Porta in questo periodo dell’anno inizia a immalinconirsi e a meditare clamorosi addii. Vespa non si sente abbastanza considerato dalla sua Rai e allora iniziano i sussurri di tele-mercato che lo vorrebbero pronto a lasciare la tv pubblica per approdare a quella di Berlusconi. Si dice che ci sia una trattativa “segretissima” con Silvio in persona. Tanto segreta che ne scrivono i giornali. D’altra parte il nuovo amministratore delegato di Viale Mazzini, Carlo Fuortes, sta tagliando qualche privilegio (tipo le stanze personali) dei collaboratori esterni di lusso della Rai, in più ha piazzato a dirigere gli approfondimenti l’ex direttore del Tg3 Mario Orfeo, che da direttore generale fu protagonista di uno degli ultimi, faticosi rinnovi contrattuali di Vespa (gli diminuì il compenso di circa 300mila euro). Ecco il punto: il contratto. Le trattative con la Rai per Bruno sono sempre più spigolose. Lui mastica amaro e fa filtrare sofisticati pizzini alla stampa: “Finché mi trattano bene in Rai, resto”, ma “a Mediaset sono molto gentili”. La gentilezza è tanto importante.

Il grande ego dei centrini (con il bonus arroganza)

Ormai ribattezzato il Grande Ego, ancora prima di nascere il cosiddetto Grande Centro è diventato il piccolo ring dove Carlo Calenda e Matteo Renzi se le suonano di santa ragione. È soprattutto Calenda a menare, con il mitico “chissenefrega della Leopolda” esploso da Myrta Merlino e subito divenuto virale. Perché, bisogna ammetterlo, il terzo classificato nella corsa al Campidoglio è provvisto di una battuta che fa notizia là dove la logorroica maglia nera di tutti i sondaggi planetari sequestra i poveri leopoldini e parla, parla, parla per tre giorni ottenendo dai giornali, per sfinimento, soltanto qualche titolo moscio.

Simili per silhouette, entrambi brevilinei e afflitti da evidente eccesso di carboidrati che l’europariolino sembra accogliere con rassegnata gratitudine. Là dove l’indomito senatore di Scandicci combatte corricchiando intorno al condominio, agghindato come per la maratona di New York anche se, purtroppo, senza risultati apprezzabili. Quando fu distribuita l’arroganza a entrambi fu regalato un bonus che tuttavia Calenda espettora con malcelato disprezzo verso chiunque si scordi di lodarlo e che Renzi mastica scoprendo i canini nel conturbante sorrisetto. Non deve dunque sorprendere se tra le tante affinità i due coltivino soprattutto la convinzione di essere predestinati al comando assoluto, esercizio per sua natura indivisibile e incontestabile.

Se si tiene conto che nell’ipotetico centro o centrino in gestazione, stando alle fantasie onanistiche dei giornaloni, accanto ai leader di Italia Viva e Azione dovrebbe anche fare parte quel monumento alla modestia di Giovanni Toti (alla testa di un altro microrganismo: Cambiamo!) ben si comprende come nel nuovo soggetto politico i polli estrogenati sarebbero più grossi del pollaio. Senza contare che il favoleggiato centro esiste già ed è conservato in un’urna votiva nel mausoleo di Silvio Berlusconi ad Arcore.

Molecolari e antigenici: sì, no, di certo c’è il business

E ora arriva il “2G”, detto anche Super green pass. Il tampone non vale più. Bisogna convincere i renitenti al vaccino, sperando che basti o almeno sia utile. Eppure sono 20 mesi che ci tamponiamo. “Test test test”, proclamò il 16 marzo 2020 il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Era la notte buia della prima ondata di Covid-19 in Italia, il 18 sfileranno a Bergamo i carri militari con le bare, l’Europa cominciava a conoscere la pandemia. E in ritardo l’Oms si convinceva che bisognava cercare il virus anche sugli asintomatici, come non si era fatto perché mancavano, si diceva, informazioni chiare dalla Cina. Lo sosteneva Walter Ricciardi, rappresentante italiano nell’Oms che entrò in conflitto con Andrea Crisanti, il quale si era già scontrato con la Regione Veneto sull’opportunità di testare tutti i cinesi di ritorno. Poi i tamponi sono entrati nelle nostre vite. Specie gli antigenici rapidi, un grande business a fronte del rischio di falsi negativi, che arrivava al 20-30 per cento in barba ai dati di molti produttori. Test negli aeroporti, nelle scuole, nelle aziende. Alla fine dell’estate 2020, quando il virus riprese a circolare nonostante Bassetti, Zangrillo, Briatore, Salvini e i gestori delle discoteche, il Fatto sostenne il piano Crisanti per fare fino a 400 mila tamponi (molecolari) al giorno e rafforzare la sorveglianza sanitaria, ma ci si arriverà tardi. Mettendoci, dal gennaio 2021, anche gli antigenici, per quanto alla Salute non fossero convinti. Test test test, magari farlocchi ma meglio che niente. Li facciamo anche al Fatto, anche ora che siamo quasi tutti vaccinati. Con il Green passsono aumentati i vaccinati ma anche i tamponi, non quelli della sorveglianza ma quelli dei non vaccinati. Ora basta. Ora tutti vedono il 30% di falsi negativi, anche Ricciardi, per quanto ci siano test più affidabili. Via dal Green pass anche i molecolari, ultima àncora dei no vax. Ma senza obbligo di vaccino, per carità.

La battuta di Grillo: “Conte specialista dei penultimatum”

La conferenza stampa sulle comunità energetiche e sul loro potenziamento imminente è passata ieri rapidamente in secondo piano: al palazzo dei Gruppi parlamentari a Roma l’attenzione è stata catalizzata dalle battute del fondatore del M5S, Beppe Grillo, in video collegamento. “Mi fa piacere che siamo qui con la stampa – ha detto Grillo sulle polemiche di questi giorni per le nomine Rai –: anche Conte non riesce a dare ultimatum, è lo specialista del penultimatum”. Una battuta, certo, ma anche l’ennesimo graffio del Garante per l’ex premier. A cui Conte replica con un po’ di imbarazzo: “Avevo detto (al Fatto, ndr) che con lui ci siamo confrontati su questo punto. Sul piano della comunicazione Grillo ha una visione non ortodossa, già in passato ha dimostrato di non essere legato molto alle apparizioni tv. Non c’è alcuna divergenza”. Poi prova ad alleggerire: “C’è la Rai in sala? Ho detto che non saremmo andati nei canali del servizio pubblico, ma non è che teniamo fuori la Rai…”.

Oltre questo sipario, ieri sedevano allo stesso tavolo sei esponenti del M5S, incluso il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, e in più il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Se si possa considerare il settimo resta mistero (benché non perda occasione per ribadire che è un tecnico senza partito). L’iniziativa presentata è positiva, il potenziamento delle comunità energetiche rinnovabili con cui è evidente che il M5S cerca di riconquistare parte della credibilità ambientale persa negli ultimi anni. “Dobbiamo riflettere sugli errori che abbiamo fatto – dice Grillo – ma siamo gli unici che possono fare questa transizione, perché non siamo coinvolti in niente, non abbiamo cointeressenze negli inceneritori e in nulla. Siamo dei dilettanti straordinari”. Poi parla di (e a) Cingolani: “Quando sento Cingolani mi sciocco, ho paura, perché quando parla dice ‘stiamo facendo una comunità in 5 Paesi, c’ho 1 miliardo di sovvenzioni dalla fondazione Rockefeller, coso mi dà 1 miliardo, quell’altro un altro miliardo, stiamo parlando con Musk di fare una centrale su Plutone”. La scienza, rileva Grillo in quella che è una evidente battaglia tra visionari, “dice una cosa, poi l’applicazione è un’altra cosa. È un processo lento”.

Così, la presentazione delle comunità energetiche – che, misura Cingolani, porterà lo sviluppo di 2 gigawatt di rinnovabili su 70 da realizzare entro il 2030 – assume un valore fortemente simbolico: ribadire, come fanno Conte e il ministro Patuanelli, che la questione ambientale è nel Dna dei pentastellati (“Oggi tutti parlano di transizione ecologica ma noi ne parlavamo già 15 anni fa” dice con realismo Patuanelli), indicare la via che potrebbe portare al 20% di risparmio in bolletta e alla decarbonizzazione, come fa il parlamentare Gianni Girotto, pilastro del M5S su questi temi, parlare di “comunità” e di rivoluzione dal basso. Poi però bastano poche domande e tutto torna al suo posto: il nucleare? Il gas? Conte dice che il M5S non le ritiene fonti energetiche da incentivare, non importa cosa dica la tassonomia Ue, mentre Cingolani, che specifica “di parlare solo per Cingolani”, la attende per capire quanto investire in ricerca e sviluppo su soluzioni come i mini reattori. Poi se ne va, in anticipo e di fretta. La conferenza è di fatto finita.

“Il voto per il Colle può essere un congresso per tutti i partiti”

L’appuntamento a cui lavora da mesi si terrà a Genova questo fine settimana, e la ministra per le Politiche giovanili, la 5Stelle Fabiana Dadone, ha la voce di chi non vede l’ora: “Sabato e domenica si terrà la Conferenza nazionale sulle droghe, ed erano 12 anni che non accadeva”. Ma tutto attorno si muovono tante altre partite, dal Quirinale alla rifondazione del Movimento. E Dadone ha voglia di parlarne.

Perché una conferenza sulle droghe dopo 12 anni?

Serve per tirare le fila dopo tutti questi anni in cui non si è discusso del tema sotto molti punti di vista, dall’impatto sul sistema penitenziario alla presa in carico, dalle pratiche come la riduzione del danno al reinserimento sociale. Tutto ciò nonostante la legge preveda una Conferenza nazionale ogni tre anni. Serviva un segnale al mondo che gestisce questo fenomeno.

Cosa accade in Italia su questo fronte, in tempi di pandemia?

Durante il periodo più duro del Covid, il mercato delle droghe ha continuato a funzionare: semplicemente, si è comprato di più sul web. È preoccupante l’aumento del consumo di cocaina, ma anche delle cosiddette nuove sostanze psicoattive. Il sistema sanitario riesce ad affrontare il problema in termini di cura, ma bisognerebbe investire di più sulla prevenzione. Detto questo, quello che davvero manca è un percorso di reinserimento in società e nel lavoro per chi esce da tutto questo.

Quando Mario Draghi le ha dato la delega alle politiche antidroga, è stata attaccata dal centrodestra e da altri esponenti politici perché antiproibizionista. Lo è ancora? e Giuseppe Conte e il M5S sono sulla sua stessa linea?

La mia posizione resta quella che ho sottoscritto molti anni fa, e credo che anche il M5S abbia una posizione chiara, con testi di legge sottoscritti da molti parlamentari. Ciò premesso, con la Conferenza non voglio imporre la mia visione, ma solo analizzare l’impatto della normativa attuale sul fenomeno e poi fornire una relazione al Parlamento, per spingerlo a intervenire sui problemi. Penso innanzitutto alla questione delle carceri e della tossicodipendenza all’interno di esse. Non bisogna fare una polarizzazione tra proibizionisti e anti-proibizionisti, il tema è molto più largo.

Come si sta nel governo Draghi?

Ci sono delle difficoltà che nessuno nasconde rispetto alle differenze politiche con gli altri partiti. Si tenta di discutere, con un approccio costruttivo. Bisognava creare questo esecutivo per portare avanti il Pnrr.

Il premier deve restare a Palazzo Chigi o può traslocare al Colle?

Ha un profilo di indiscusso valore, ma è evidente la delicatezza della questione viste anche le possibili ricadute sul governo. Non penso alla semplice tenuta dell’esecutivo, ma all’attuazione dei progetti legati al Pnrr.

Stefano Patuanelli e Paola Taverna vorrebbero eleggere una donna.

Non ne faccio una questione di genere, il punto per me non è quello. L’importante è trovare una figura di altissimo livello.

I gruppi del M5S sono dilaniati. Come potranno tenere nel voto segreto sul Quirinale?

Il M5S non è mai stato tranquillo al suo interno. Ma quello dei gruppi instabili è un rischio per tutti i leader politici. Nelle precedenti votazioni per il Colle a saltare fu Romano Prodi, per un problema tutto interno al Pd. Ricordiamoci che con una legge voluta dal M5S è stato ridotto il numero dei parlamentari, e questo obiettivamente incide sulle dinamiche. C’è distanza tra tutti i gruppi e i loro leader. Di fatto, le votazioni sul Quirinale rischiano di essere un congresso per quasi tutti i segretari di partito.

Oggi Conte ha spiegato che il veto ai programmi Rai non è irreversibile, e Beppe Grillo ha subito ironizzato: “Giuseppe è specialista in penultimatum”. Duro, no?

È solo una battuta, e fa sorridere (sorride, ndr).

Dica la verità, si rischia il voto anticipato?

Può sempre accadere, tutto è possibile. Ma lo ripeto, il taglio dei parlamentari, di cui sono convintissima, peserà nei ragionamenti.