Nella televisione italiana c’è un prima e un dopo Vermicino, e c’è un prima e un dopo Avetrana; la morte di Alfredino traccia il solco del dolore in diretta, ma è la scomparsa della quindicenne Sarah Scazzi a trasformare quel dolore in spettacolo h24. L’efficacia della docu-serie Sarah. La ragazza di Avetrana, da ieri su Sky Atlantic, sta prima di tutto nella scelta della vocazione documentaristica; 11 anni dopo, è il momento di dare ordine non solo al caso ma soprattutto alla sua narrazione, da quell’agosto 2010 in cui, giorno dopo giorno, collegamento dopo collegamento, primo piano dopo primo piano, i media hanno abbandonato il ruolo di mediatori per diventare attori, protagonisti, cinici padroni del campo. Da Avetrana in poi, la cronaca nera è diventata l’alibi per frugare nelle vite private, specie nelle vite dei più deboli, e trasformare l’etere nell’inquisizione degli opinionisti.
Certo, la vicenda in sé sembra fatta apposta per confermare che la vita la sa sempre più lunga dell’arte, che un personaggio come Michele Misseri, “zio Michele”, non l’avrebbe immaginato nemmeno Pirandello in società con Stephen King. Ci voleva un gran sangue freddo per ricostruire questo doppio binario. Da una parte, il lento sfogliarsi della corolla di tenebre: la sparizione della ragazzina, le indagini, il ritrovamento del corpo, i continui colpi di scena processuali: dall’altra, l’accendersi dei riflettori, dei microfoni, degli inviati, dei salotti. La docu-serie prodotta da Groenlandia, tratta dal libro di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, scritta con Matteo Billi e Christian Letruria per la regia dello stesso Letruria, si mantiene in equilibrio tra i due altoforni. E ci lascia con la sensazione che il dopo Avetrana non si sia mai concluso, che le tragedie di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Chiara Poggi ricominciano daccapo ogni volta che la narrazione della cronaca nera si fa show dell’orrore, gettando vittime e carnefici nella fossa comune degli ascolti televisivi.