Manovra, i 5S sono pronti al “blitz”

Ieri sera fonti dem e grilline sostenevano che alla fine l’intesa dovrebbe arrivare entro l’ultima data utile, stamattina, con tre relatori alla manovra di Bilancio, di cui uno del M5S. Dovrebbe, condizionale d’obbligo. Perché il martedì dei giallorosa a Palazzo Madama ha confermato quanto ci sia ancora da lavorare per rendere Pd e 5Stelle – assieme a LeU – qualcosa di simile a una vera coalizione.

E si può partire da una scena, ieri pomeriggio. Quella del presidente della commissione Bilancio, il grillino Daniele Pesco, che dopo la vana riunione con gli altri capigruppo giallorosa descrive lo stato delle cose con un sorriso stanco: “Sui relatori alla manovra è ancora stallo, sì. Decido cosa fare entro domattina”. Traduzione: entro la riunione dell’ufficio di presidenza della commissione, fissata per le 9.30 di oggi, il 5Stelle Pesco dovrà decidere se forzare politicamente, auto-nominandosi unico relatore alla legge di Bilancio. E sarebbe uno strappo innanzitutto con i dem, che anche ieri hanno fatto muro alla richiesta del M5S di indicare Pesco come terzo relatore, assieme a uno del centrosinistra (Vasco Errani) e a un nome del centrodestra. Inutile, la riunione a Palazzo Madama dei capigruppo di Pd, Movimento e LeU assieme a Pesco ed Errani. “L’incontro è servito solo a confermare la proprie posizioni” sostenevano ieri fonti parlamentari dem. Il Pd ha continuato a spingere per avere Errani come unico relatore per tutto il centrosinistra, M5S compreso. “Anche perché – ricordano i dem – il Movimento ha già Pesco come presidente di commissione e Laura Castelli come viceministra all’Economia che seguiranno i lavori”. Ma la capogruppo grillina Maria Domenica Castellone ha ridetto no: “In Parlamento siamo la forza politica di maggioranza relativa e nella manovra ci sono misure sulle quali la nostra attenzione è particolarmente alta, a partire dal Reddito di cittadinanza e dal superbonus”. Ergo, i 5Stelle temono imboscate. “Alcuni dem hanno presentato emendamenti contro il decreto dignità” sibilava ieri un veterano del Movimento. Non solo.

Nella riunione pare sia riemersa anche la ferita della Rai, per cui il M5S rimasto a secco di nomine incolpa anche il Pd. Di certo i dem hanno rimandato la palla nel campo grillino: “Vedremo se faranno un ragionamento che salvaguardi gli equilibri della maggioranza”. Un nodo, l’ennesimo, anche per Conte, che in conferenza stampa ha provato a stemperare: “Sui relatori c’è un confronto in atto che mi pare sereno. Da parte del Movimento non c’è alcun veto nei confronti di Errani, che stimiamo”. Ma l’ex premier precisa: “Non c’è stato alcun patto che il Movimento potrebbe violare”. Le trattative con il Pd sono proseguite fino a tarda sera. Oggi, il responso.

Matteo d’Arabia reclama l’immunità per la Casta

Un assaggio lo ha dato sabato pomeriggio dal palco della Leopolda. Ma, dopo la trasferta di ieri a Dubai per l’ ennesima conferenza, sarà oggi in Giunta per le immunità del Senato che Matteo Renzi sferrerà l’attacco più duro nei confronti dei pm di Firenze rei di averlo indagato, insieme agli altri membri del Giglio Magico, per concorso in finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta Open. Dopo aver accusato i magistrati fiorentini di aver cercato più lui “che Matteo Messina Denaro”, oggi davanti ai commissari che sono chiamati a valutare il suo caso, il senatore di Scandicci dirà che i pm hanno “violato la legge e la Costituzione” utilizzando e depositando agli atti dell’inchiesta una conversazione Whatsapp con l’imprenditore Vincenzo Manes (non indagato) del giugno 2018, quando era già parlamentare. In quella conversazione i due parlavano di un volo che l’ex premier avrebbe dovuto prendere per Washington e che alla fine sarà pagato dalla Open.

Secondo Renzi quella chat è stata acquisita in maniera illegittima: “I pm hanno violato l’articolo 68 della Costituzione e la legge di attuazione 140 del 2003” dirà oggi il leader di Iv riferendosi alle due norme secondo cui il parlamentare non può essere sottoposto a intercettazione o corrispondenza senza una autorizzazione della Camera di appartenenza. Proprio sulle corrispondenze, però, i pm di Firenze avevano già risposto ai legali di Renzi, che avevano chiesto al magistrato Luca Turco di “astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa in base all’articolo 68 della Costituzione”. La procura però aveva dichiarato il non luogo a provvedere perché l’utilizzo di quei dati era stato operato nei confronti di un altro indagato non parlamentare. La relatrice del “caso Renzi”, l’avvocato forzista Fiammetta Modena, sulla chat con Manes ha preso le difese del senatore di Scandicci proponendo alla giunta di votare sulla possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale.

Ma Renzi non si fermerà qui: in Giunta spiegherà che lui non sta chiedendo “un privilegio” per se stesso, tant’è che “se in aula si dovesse arrivare a votare, io voterò contro i miei interessi”. Ma soprattutto si ergerà a paladino delle prerogative dei parlamentari: “Qui è in gioco un principio – sarà il cuore della sua arringa – quello della tutela delle guarentigie di un senatore che non può essere violato per il volere di un pm”. Insomma, Renzi punterà sullo spirito di solidarietà dei colleghi senatori che saranno chiamati a votare sul suo caso. Rivendicherà e difenderà il privilegio della Casta. Un modo per dire che oggi è capitato a lui, un giorno potrebbe succedere a qualcuno di loro. Il senatore si concentrerà anche sull’estratto conto depositato in un’informativa della Finanza e pubblicato, in parte, dal Fatto, che secondo lui è stato acquisito in maniera illegittima. Ma per la Giunta è tutto regolare perché, secondo la giurisprudenza, su questo aspetto i parlamentari non hanno tutele specifiche.

Dopo la sua arringa Renzi risponderà alle domande dei commissari, alcuni dei quali (come Pietro Grasso) contrari al conflitto di attribuzione alla Consulta. Poi la relatrice Modena stabilirà i tempi della discussione e del voto. In Giunta il centrodestra più i renziani hanno la maggioranza con 12 voti su 23. Quando si dovrà decidere, l’aiuto di Lega e FI sarà fondamentale.

Antonio con 2 cappelli (Inpgi e Chigi) fa i regali pure all’élite dei giornalisti

Quando il premier Mario Draghi e il suo “Governo dei Migliori” hanno confermato in Senato il maxi-regalo del salvataggio delle “pensioni d’oro” e di altri privilegi dell’élite più pagata e influente dei giornalisti dipendenti iscritti al fondo privatizzato Inpgi 1 al collasso, tanti beneficiati hanno esultato per quella che appare una stangata ai contribuenti. Ma ora vivono in tensione perché alcune intercettazioni stanno facendo traballare il capo di gabinetto del premier, Antonio Funiciello, che è anche consigliere d’amministrazione dell’Inpgi ed è visto tra i giornalisti come centrale nel salvataggio in corso. Funiciello avrebbe fatto capire a Draghi l’utilità di aiutare l’élite della categoria – una minoranza rispetto ai giovani con stipendi bassi e alla massa dei precari (sfruttata e ghettizzata nel penalizzante Inpgi 2) – e anche gli editori (con 350 milioni). Se saltasse, che fine farebbero questi regali?

Funiciello era emerso a Palazzo Chigi con Matteo Renzi premier del Pd. Ha fatto carriera con il successore Paolo “er moviola” Gentiloni, accanto al portavoce Filippo Sensi, altro ex renziano. Proprio Sensi, da deputato Pd, ha promosso un furbesco emendamento, che ha rinviato di sei mesi il commissariamento dell’Inpgi 1. Altrimenti – con perdite di oltre 200 milioni l’anno – poteva scattare il ricalcolo al ribasso delle “pensioni d’oro”. Invece ora si punta a scaricare il “buco” nel calderone della legge di Bilancio, tra tanti altri regali a lobby, imprese e partiti. Draghi e il fidato ministro dell’Economia, Daniele Franco, ispirati da Funiciello, vorrebbero accollare l’Inpgi 1 al sistema pubblico Inps: facendo pagare ai cittadini tutte le “pensioni d’oro” gonfiate con parametri privilegiati. Non ci sarebbe un ricalcolo al ribasso in base ai contributi realmente versati.

Gentiloni, ora commissario Ue per gli Affari economici, come i suoi predecessori dovrebbe richiamare Roma a contenere la spesa pensionistica: quindi, dovrebbe contestare gli esborsi per salvare i privilegi dell’Inpgi1. Potrebbe anche far verificare all’Antitrust Ue se sono regolari questi aiuti di Stato agli iscritti a un fondo privato e agli editori. O aiuterà i sodali Sensi e Funiciello?

La stangata ai comuni cittadini fu ideata negli anni 90. Lo Stato imponeva tagli per garantire le pensioni future. Gli iscritti all’Inpgi pretesero la privatizzazione per mantenere “rendite d’oro” e tanti privilegi (contributi più bassi e rivalutazione più alta rispetto all’Inps, pensioni anticipate per cinquantenni, generosi sussidi ai disoccupati, mutui a tassi ridotti, ecc.). Alla lunga non era sostenibile. In caso di insolvenza, lo Stato avrebbe garantito solo la pensione sociale minima. Chi faceva notare l’alto rischio, si vedeva sussurrare la futura stangata: “Incassiamo il massimo, se poi va male pagherà lo Stato, abbiamo l’asso nella manica”. Era un antico “inciucio” dell’ordine di categoria (avallato dal sindacato Fnsi), che legittimava come “giornalisti professionisti” tanti politici di mestiere di centro, destra e sinistra, dopo un periodo nei loro organi di partito (finanziati dallo Stato). Questi poi, da parlamentari o eurodeputati, maturavano una “pensione d’oro” con contributi figurativi gratuiti, aggiuntiva al noto vitalizio. In caso di crac, non avrebbero appoggiato il salvataggio a spese dello Stato? L’attivismo di Sensi ha fatto ipotizzare che sia nell’Inpgi anche Gentiloni (per un periodo in una testatina di ambientalisti). Il Fatto glielo ha chiesto e il Commissario Ue ha risposto “no comment”.

Draghi, da quando privatizzava società pubbliche, non è ostile al fatto che i profitti si privatizzano, mentre le perdite toccano allo Stato: cioè il principio della stangata in corso. Tanti giornali lo aiutano, pubblicando poco o nulla. Non hanno chiarito nemmeno che nell’Inpgi 1 – oltre a veri giornalisti e a politici di mestiere – compaiono portaborse, asserviti, lottizzati, faccendieri, direttori con perdite di copie record e decimatori di redazioni, residenti in paradisi fiscali, soggetti risultati a libro paga di imprese, banche o enti (perfino servizi segreti). Perché devono avere pensioni più ricche dei comuni cittadini? Dovrebbe spiegarlo Draghi.

Silenzio di Draghi su Funiciello, Rai-man delle marchette Open

Antonio Funiciello, il potentissimo capo di gabinetto di Mario Draghi, per il momento resta al suo posto. Da Palazzo Chigi non si muove foglia, nonostante dalle carte dell’inchiesta Open emerga come tra il 2016 e il 2017 Funiciello, non indagato e ai tempi nello staff di Paolo Gentiloni, si sia fatto carico delle istanze di alcuni colossi privati – il gruppo delle autostrade Toto e la British American Tobacco – condizionando il destino politico di due emendamenti molto delicati per le società.

A domanda diretta del Fatto su eventuali reazioni del premier, lo staff di Draghi glissa: “Nessun commento”.

Eppure i motivi di imbarazzo non sono pochi, a prescindere dal fatto che Funiciello, reduce dall’attivismo durante la partita delle nomine Rai, non sia accusato di alcun reato.

Nel novembre 2017 la Bat, fedele finanziatrice di Open, contatta Funiciello attraverso il manager Gianluca Ansalone, preoccupato di “disinnescare la bomba”, ovvero un emendamento che aumenterebbe le accise sui prodotti del tabacco. “Cerco di capire”, risponde Funiciello. Quando l’emendamento salta, il manager di Bat scrive ancora al capo di gabinetto: “Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo. Ti voglio ringraziare per il tuo ascolto e il supporto”. Analogo è il caso di Toto, altro finanziatore di Open, che invece nel 2017 esulta per l’approvazione di un emendamento in commissione Bilancio che aumenta di 58 milioni la spesa per interventi di manutenzione. In un messaggio al senatore Luciano D’Alfonso, Alfonso Toto sostiene che Funiciello abbia lavorato “ventre a terra” per la causa, “avendo compreso la drammaticità della nostra infrastruttura”.

E poco cambia che i pm non ravvisino ipotesi di reato. Nei mesi scorsi, il governo ha già avuto a che fare con nomine inopportune che hanno provocato una forte indignazione nell’opinione pubblica, tale da portare alle dimissioni degli interessati. È il caso del sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, che voleva intitolare ad Arnaldo Mussolini il parco di Latina adesso dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. O di Bruno Tabacci, il quale ha rinunciato alle deleghe allo Spazio dopo che il figlio era stato assunto in Leonardo. Senza dimenticare la vicenda della spia “Betulla” Renato Farina, chiamato da Renato Brunetta al ministero della Pa e costretto a lasciare dopo che il Fatto ne aveva rivelato la nomina. Fino alla destituzione di Andrea De Pasquale, voluto da Dario Franceschini all’Archivio Centrale di Stato nonostante esplicite simpatie per Pino Rauti. Tutti cacciati per ragioni di impresentabilità non giudiziaria, ma politica e morale. Le stesse che per ora, nel caso Funiciello, Draghi non ritiene di dover commentare.

Montecitorio Ritorna il covid: sette deputati positivi al test

Torna il Coronavirus anche a Montecitorio: sette deputati sono risultati positivi al Covid negli ultimi giorni. Il ritorno di fiamma dei contagi arriva poco dopo il sospirato ritorno alla normalità della Camera, che aveva riaperto il Transatlantico appena due settimane fa. Si tratta, secondo fonti parlamentari, di casi riscontrati la scorsa settimana e che non erano quindi presenti in aula nelle sedute di lunedì e di ieri. La notizia dei nuovi contagi è stata data dal presidente Roberto Fico durante la conferenza dei capigruppo. Wanda Ferro di Fdi ha chiesto una “valutazione della situazione”. Da due settimane la Camera è tornata più o meno alla situazione pre-pandemia, liberando l’accesso alla zona di fronte all’Aula. La deputata di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro, ha chiesto alla presidenza “una valutazione della situazione” per decidere se intervenire di nuovo con misure di cautela simili a quelle che avevano portato alla chiusura del “corridoio dei passi perduti”. Fico ha risposto che “c’è un monitoraggio costante da parte degli enti preposti” e la “situazione Covid al momento è sotto controllo”.

Renzi, il piromane del Colle: Casini e Gentiloni “bruciati”

“La corrente dei renziani nel Pd non esisteva, ma se si vuol trovare un rapporto fra il contributo e la corrente, i due capi, uno nel partito, uno nel governo, erano Lorenzo Guerini e Paolo Gentiloni, che non avevano alcun rapporto economico con Open”. Sabato sera, Matteo Renzi alla Leopolda attacca a testa bassa l’inchiesta Open. E tira dentro il ministro della Difesa e il Commissario europeo agli Affari economici. Non esattamente un favore associarli a una vicenda come quella.

Dunque, si tratta di uno di quei messaggi cifrati da cui bisogna partire per rileggere la storia del presunto lavoro del fu Rottamatore per portare Gentiloni al Colle. Ne dà notizia per primo Domani, poi Repubblica racconta di una cena a Bruxelles a casa del Commissario, in occasione della visita del leader di Iv. Raccontano che a far uscire la notizia di quest’incontro sia stato lo stesso Renzi. Anche questo, non certo un favore a Gentiloni: far trapelare un nome per il Quirinale con così largo anticipo è un modo sicuro se non per bruciarlo, almeno per indebolirlo. Dato non irrilevante: i rapporti tra i due erano sostanzialmente inesistenti da anni. Bisogna tornare alla fine del 2016, quando Renzi diede il suo assenso al nome di Gentiloni come premier, dopo essersi dimesso per la sconfitta al referendum costituzionale. Un attimo dopo cominciò a soffrirlo in quel ruolo: il presidente del Consiglio era davvero lui e questo a Renzi non andava giù. La rottura si consumò definitivamente quando Gentiloni decise di riconfermare Ignazio Visco a governatore di Bankitalia, nonostante l’opposizione dell’allora segretario del Pd, che lo aveva già indicato come responsabile delle crisi bancarie, almeno per omissione. Era l’autunno del 2017, nella bufera c’era il caso Banca Etruria, con le ingerenze di Maria Elena Boschi in favore dell’istituto del padre: anche su questo caso lavorava la Commissione di inchiesta sulle banche.

Con un passato come questo, difficile pensare che Renzi stia lavorando davvero per Gentiloni. Più facile che voglia bruciarlo. O che sia pronto a intestarsi l’operazione. In fondo, due facce della stessa medaglia. D’altra parte, un lavoro su Gentiloni al Colle era reale, prima ancora che ci mettesse il cappello il senatore di Scandicci. Con lui aveva pranzato anche Enrico Letta, lo scorso 11 novembre, in occasione del suo viaggio a Bruxelles. Gentiloni ci spera. E i suoi fedelissimi sono convinti che lo voterebbe almeno parte dei Cinque Stelle e che Draghi con lui al Quirinale resterebbe a Palazzo Chigi. Insomma, Renzi è salito sull’operazione in corso, sempre della serie “o ti incorono o ti brucio”.

Da notare che anche l’altro citato alla Leopolda, Guerini, è un quirinabile. Per indole e per curriculum (come ministro della Difesa è un candidato naturale). Per tornare alle vicende del 2017, con vista Colle, a capo della Commissione d’inchiesta sulle banche, il fu Rottamatore volle Pier Ferdinando Casini. Quello che da agosto viene considerato il suo vero candidato.

Dopo aver fatto credere a Miccichè di essere pronto a portare i voti di Italia Viva su Berlusconi, aver tirato nel mucchio Gentiloni, il prossimo sarà di nuovo Casini. Perché Giorgia Meloni e Matteo Salvini non possono accettare un candidato del Pd, e dunque il Commissario lo bloccheranno. A quel punto, Renzi potrebbe tirar fuori nuovamente Casini. Per eleggerlo? Come sopra, per bruciarlo o per incoronarlo. Raccontano che l’interessato sarebbe piuttosto nervoso rispetto all’idea di essere il candidato del fu Rottamatore. Perché il gioco di Renzi più che portare qualcuno al Colle sembra quello di destabilizzare il quadro, per risultare determinante. E alzare, con il suo potere di influenza, il suo “prezzo” da conferenziere e da lobbista.

Sempre che a un certo punto il gioco non gli scoppi in mano, con il centrodestra che lo abbandona al suo destino. O che, viceversa, non trovi un canale per lui davvero conveniente nel “vendersi” come il kingmaker del presidente. Per inciso, con l’elezione di Mattarella celebrò il “capolavoro” politico, salvo poi trovarsi un presidente con il quale non è mai andato d’accordo. E con la defenestrazione di Conte ha fatto da ariete di sfondamento per portare Mario Draghi a Palazzo Chigi. Salvo poi non incontrarlo mai.

Quel rapporto sui precari che imbarazza “Repubblica”

Rientri lampo dalla maternità. Precari che lavorano in malattia. La domenica, a Pasqua e a Natale. Cronisti inseriti negli stessi turni dei colleghi garantiti e in funzioni difficilmente giustificabili di fronte a un giudice del lavoro. Soprattutto, un quadro di frammentazione e precariato davvero difficile da conciliare con le storiche battaglie per il lavoro (degli altri) portate avanti da Repubblica. Il giornale-partito di Scalfari, ma in parte anche dalla più blanda linea editoriale Gedi. Ecco perché, raccontano, quando il Comitato di redazione del giornale si è trovato in mano quelle dieci pagine, a qualcuno è scappato un commento poco sindacale: “Certo che se questa cosa finisse nelle mani sbagliate…”.

Di certo c’è che quel report, un censimento del precariato interno delle 9 redazioni locali, ora rischia di trasformarsi in un boomerang, e di essere esibito in tutte le cause di lavoro che verranno. C’è da dire che l’intento originario non era quello. In buonafede, i collaboratori storici del giornale avevano provato a organizzarsi. Un coordinamento che dice di parlare a nome di una novantina dei circa 140 precari di tutto il quotidiano. E che nel 2020 ripone nelle mani dei sindacalisti garantiti un dossier che assomiglia a una bomba a orologeria: il 54% delle redazioni locali di Repubblica è composto da collaboratori assimilabili dipendenti, sostiene il coordinamento. Sembrerebbe l’inizio di una riconquista dei diritti, e invece no: in due anni nel giornale cambiano tre Cdr, e il comitato dei precari non riesce a ottenere nemmeno un incontro con il direttore Maurizio Molinari. Anzi, dicono che nelle redazioni sia scattata una sorta di caccia ai ribelli: “Così sanno che non li assumeremo mai”. I cronisti, per ovvie ragioni, si erano sempre protetti dietro alla firma collettiva di “Coordinamento dei precari di Repubblica”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, a inizio novembre, sono stati alcuni “movimenti sospetti” in vista delle 27 assunzioni previste in virtù dei prepensionamenti: “Chiediamo con forza il rispetto dell’accordo che prevede di attingere prevalentemente dal bacino dei precari storici e chiediamo (come etica e logica imporrebbero) che non vengano considerati tali giornalisti over 35 provenienti da altre testate e contrattualizzati in data successiva all’accordo”. Questa lettera è stata diffusa da Professione reporter. Nel frattempo, quando è diventato chiaro che pochi di quei posti potrebbero essere riservati ai collaboratori, in cinque hanno avviato le prime cause. E potrebbe essere solo l’inizio.

“Metà dei lavoratori fuori!” Insulti e minacce di Mr. Ita

“Fra quattro mesi la metà li voglio fuori”: sono parole del presidente di Ita Airways, Alfredo Altavilla, pronunciate nel corso del comitato direttivo che si è riunito il 1º ottobre scorso di cui ilfattoquotidiano.it ha potuto ascoltare alcuni estratti. Siamo dunque a 15 giorni dal debutto della nuova compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia e il riferimento di Altavilla è ai 1.077 dipendenti assunti dalla ex compagnia. Il presidente vorrebbe contenere il travaso di personale dalla vecchia alla nuova società anche per abbassare il tasso di sindacalizzazione. Uno dei partecipanti all’incontro ricorda che “il livello di sindacalizzazione della cabina (il personale navigante, ndr) è elevatissimo (…) stiamo tenendo strette le maglie proprio per evitare infiltrazioni”. Secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, circa 8 assistenti di volo su 10 di Ita provengono da Alitalia. Più nel dettaglio Altavilla afferma: “Allora stabiliamo una regola. Se tutti questi 1.077 hanno quattro mesi di prova, fra quattro mesi la metà li voglio fuori. Semplice. Usate pure il meccanismo delle revolving doors che vi ho detto. Perché non vi preoccupate, a scanso di equivoci, dal 16 ottobre cominciamo il meccanismo delle revolving doors qua dentro”.

Alla richiesta di un commento e/o contestualizzazione delle parole del presidente da parte de ilfattoquotidiano.it, Ita Airways non ha smentito le intenzioni di Altavilla, ma ha risposto: “Ci preme sottolineare come, alla luce del noto stile editoriale della testata per cui lei lavora, la suddetta pubblicazione recherebbe un danno in un momento delicato di rilancio di un’azienda strategica per il Paese; infatti, il piano di rilancio di Ita Airways, come noto, si presenta estremamente articolato e necessita del massimo supporto possibile da tutti compresi gli organi di stampa”.

La comunicazione di Ita prosegue: “Proprio in ragione della natura strettamente riservata del Comitato direttivo, è palese che le conversazioni all’interno del medesimo, incluse le eventuali indicazioni che il presidente può dare ai suoi più stretti collaboratori in quella sede si possono caratterizzare per modalità espressive inidonee a essere diffuse a terzi, essendo comprensibili unicamente in un quadro di operatività peraltro in questo caso collegata alla definizione di obiettivi aziendali (…) Obiettivi che vanno ben oltre il senso letterale delle espressioni utilizzate per richiamare l’attenzione dei presenti, adatte a quello specifico contesto e non certo alla diffusione presso il pubblico”.

Ita grazie a un’apposita deroga al codice civile introdotta dal governo Draghi, ha potuto assumere i dipendenti ex novo, senza continuità rispetto ad Alitalia. Si sono azzerate anzianità maturate e diritti come la tutela ex art 18. Partendo da zero, tutti i lavoratori affrontano il periodo di prova di 4 mesi. Chi non venisse confermato non potrebbe neppure beneficiare degli ammortizzatori sociali. La compagnia, controllata al 100% dallo Stato, ha inoltre scelto di non applicare il Contratto collettivo basandosi su un semplice regolamento aziendale.

Altavilla è stato indicato per la presidenza di Ita da Francesco Giavazzi, economista della Bocconi di Milano e consulente di Mario Draghi. Il manager non ha avuto precedenti incarichi nel settore. La sua carriera si è sviluppata in Fiat/Fca, sino a diventare uno dei più stretti collaboratori dell’ex amministratore delegato del gruppo Sergio Marchionne. Altavilla ha lasciato l’azienda automobilistica nel 2018 dopo aver mancato la nomina ad amministratore delegato per cui è stato preferito Michael Manley.

Il resto del dialogo tra Altavilla e i suoi collaboratori si concentra sui ritardi nel processo di selezione. I toni sono aspri. Altavilla si rivolge a uno dei partecipanti alla riunione affermando: “Ma che cazzo ti sei flippato il cervello?”. E ancora: “Tu lo sai bene che con i numeri non mi potete prender per il culo perché vi spiumo tutti quanti”. E in conclusione: “Ma queste priorità, puttana troia, le devo scegliere io, porca puttana, non le devi scegliere tu, cazzo. Chi cazzo ti ha dato questa autorità?”.

Secondo alcune indiscrezioni, in occasione dell’incontro con i sindacati dello scorso 23 agosto, Altavilla avrebbe disposto l’utilizzo di un “jammer”, strumento che blocca le comunicazioni degli smartphone. Fonti presenti all’incontro hanno confermato che durante la riunione le comunicazioni erano disturbate. Ita non è certo l’unica azienda in cui i vertici hanno il vezzo dell’arroganza nei confronti dei collaboratori. Essendo un’azienda completamente statale, i cui stipendi, compreso quello di Altavilla, sono al momento pagati da tutti noi, ci si potrebbe forse aspettare una maggiore attenzione al principio della dignità del lavoro come da Costituzione. Principio peraltro pienamente recepito nel codice etico di Ita, che recita: “Ita promuove il benessere organizzativo delle sue risorse, assicurando un ambiente sereno in cui i rapporti interpersonali siano improntati alla correttezza”.

Cari ricchi, la lotta di classe ormai l’avete stra-vinta voi

Cari ricchi, il mondo sta finendo o è già finito non per colpa dell’uomo in generale, ma per colpa vostra.

Ora avete abilmente nascosto le vostre colpe al punto che i poveri votano per voi. Avete portato i poveri a pensare che il loro nemico è quello più povero di loro: il povero arriva col gommone e non col Mercedes.

Una volta in occidente, e specialmente in Italia, c’erano partiti, persone, sindacati, c’erano tanti occhi che guardavano i vostri imbrogli e li denunciavano. Ma da un certo punto in poi, più o meno dai tempi di Tony Blair, avete vinto, non avete più trovato resistenze perché avete convinto quasi tutti che le ingiustizie sociali sono un problema trascurabile, il cuore di tutto è la crescita più che il dolore. Il punto è che quando si parla di crescita si omette di dire che a crescere è solo il vostro conto in banca.

Siete stati bravi, avete condotto la vostra lotta di classe e l’avete vinta con l’appoggio di chi vi dovrebbe combattere. Se la ricchezza non è male in quanto tale, neppure si può dire che sia bene in quanto tale. Ma veniamo ai giorni nostri, veniamo alla via tecnocratica che ora va di moda nelle nostre democrazie: quello che sta accadendo in questi giorni in Polonia dovrebbe aprire gli occhi su quello che è diventata l’Europa e su quello che intendiamo adesso per democrazia.

Lo so che ragionare in questo modo non crea consenso, sembra di parlare da una gabbia del Novecento, mentre voi ormai volate liberi e incontrastati nel cielo del nuovo secolo e vi inventate la transizione ecologica, date perfino l’idea che volete occuparvi dei destini del pianeta. Il punto è che molti di voi sono in buonafede, la ricchezza si è fusa con l’ignoranza, ora arrivate a pensare davvero di essere voi gli eroi del mondo, a voi spetta il compito di salvarlo questo mondo. Ma non andrà sempre così. A un certo punto avrete contestazioni più oneste e più convinte di quelle che avete adesso. C’è solo da sperare che quando i vostri inganni saranno pienamente svelati, ci sarà ancora tempo di stare al mondo in letizia e in amicizia. Voi avete portato nel mondo da tempo la terza guerra mondiale, ma non più tra gli Stati, la guerra ora è tra le persone. La guerra non si fa più con le bombe, le bombe semmai le usano i poveri, ora il vostro cannone si chiama crescita, si chiama consumi, si chiama progresso. Pasolini lo aveva ben capito e lo hanno capito in tanti anche adesso, ma ora chi parla deve confrontarsi col chiasso, non c’è bisogno che sia zittito, ogni contestazione è resa inerme dal diluvio in corso, un diluvio di gesti e di parole che nasconde la grande paralisi del mondo. Sì, questo è un mondo paralitico, cambia un’epoca ogni giorno, ma a muoversi sono solo le ombre, è la danza dell’irreale, mentre la realtà è ferma, è in necrosi.

Cari ricchi, pentitevi, perché la vostra ricchezza non solo fa male al mondo, ma anche a voi stessi. Siete molto malati, abbiate il coraggio di dirlo a chi vi guarda, a chi vorrebbe diventare come voi. Oggi, curiosamente, la rivoluzione può cominciare togliendo le barricate che avete costruito, abbassando la polvere che alzate in continuazione per impedire al chiarore di farci vedere come stanno le cose. Sappiatelo, il chiarore non è morto. E prima o poi verrà un tempo limpido e sarà un bene per tutti, anche per voi.

Antitrust multa Apple e Amazon per 200 mln

Maxi-sanzione da 200 milioni di euro dall’Antitrust ad Amazon e Apple al termine dell’istruttoria sulle restrizioni all’accesso nel marketplace Amazon.it. In pratica i due colossi, con un accordo stipulato nell’ottobre 2018, hanno vietato ai rivenditori ufficiali e non di prodotti Apple e Beats (che fa capo ad Apple) di utilizzare Amazon.it, permettendone la vendita solo ad Amazon e ad alcuni soggetti scelti singolarmente e in modo discriminatorio. Le sanzioni sono pari a 68,7 milioni di euro alle società del gruppo Amazon e 134,5 milioni alle società del gruppo Apple. I due big annunciano ricorso. Amazon parla di “sanzione ingiustificata e sproporzionata”, Apple assicura di non aver fatto “nulla di sbagliato”.