Un bonifico fu schermato dalla società di lobbying

Una società di lobbying usata per schermare la donazione di una multinazionale. È quello che scrive Alberto Bianchi in un documento agli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Si tratta di una email inviata da Bianchi il 17 giugno 2015 a Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Luca Lotti. “Vi allego l’elenco dei donatori che penserei di pubblicare, con alcune note a commento”, scrive Bianchi, all’epoca presidente di Open. Nella lista ci sono tutte le società che hanno donato alla fondazione, dal luglio 2014 al 31 maggio 2015, cifre superiori ai 1.000 euro. Si va dai 100mila euro regalati dalla British American Tobacco ai 25mila euro di Corporacion America Italia, tanto per fare degli esempi. Tutte donazioni che in effetti furono in seguito pubblicate sul sito di Open. Tra queste c’era anche quella della FB & Associati Srl, società di lobbying fondata e presieduta da Fabio Bistoncini, sedi in Italia e a Bruxelles, un fatturato che l’anno scorso è arrivato a 5,2 milioni di euro. L’11 dicembre del 2014 FB & Associati ha donato 20 mila euro alla Fondazione Open.

Quei soldi, però, arrivavano in realtà da Nexive, all’epoca primo operatore postale privato in Italia, parte del gruppo multinazionale olandese PostNL. A rivelare il trucco è lo stesso Bianchi nell’allegato inviato a Boschi, Carrai e Lotti. A fianco all’appunto sui 20mila euro donati da FB & Associati, Bianchi annota infatti: “È una società di lobbying, l’ordinante è Nexive, che ha fatto il bonifico usando detta società”. Insomma, la FB & Associati sarebbe stata usata per nascondere l’identità del reale donatore, Nexive, oggi parte del gruppo Poste Italiane, all’epoca operatore privato guidato da Luca Palermo, il manager che oggi amministra Fiera Milano. Alle domande inviate dal Fatto, FB & Associati non ha risposto. Di certo la società non ha donato soldi solo ad Open. Sempre nel 2014, quando Renzi era premier e segretario del Pd, ha regalato 15mila euro al Partito democratico. Due anni più tardi, con al governo la coalizione formata da Lega e M5S, ha fatto un bonifico da 2mila euro alla Più Voci, l’associazione fondata dal tesoriere del Carroccio, Giulio Centemero.

Mps e gli altri: tutti i “consigli” sui nomi nei cda

L’avvocato Alberto Bianchi (nonché ex consigliere del cda Enel) è una figura chiave per leggere il “renzismo”. Si sobbarca l’impegno di far nascere e prosperare la fondazione Open, che sorregge l’ascesa di Matteo Renzi fino a Palazzo Chigi. E scalata la vetta, si muove – in particolare con Luca Lotti – come suggeritore di fiducia per nomine, emendamenti, faccende varie ed eventuali. “Se è in discussione il decreto Terremoto – scrive a Lotti nell’ottobre 2016 – ricordati quella norma per la viabilità… sarebbe il contenitore giusto”. “Domani te ne parlo”, replica Lotti. I due sono osmotici: 1.485 messaggi telefonici dal 7 ottobre 2016 al 23 maggio 2019.

Non tutte le segnalazioni vanno a buon fine. “La Camera ha approvato un emendamento per cui il presidente della nuova Equitalia è un magistrato Corte conti. C’è già un nome?”, scrive Bianchi nel novembre 2016. “No”, risponde Lotti. L’avvocato gliene suggerisce uno che non avrà successo. Accadrà altre volte. In qualche caso sarà ascoltato. Ma è frenetico il susseguirsi di consultazioni. Spesso invocate dallo steso Lotti. I consigli sono tra i più svariati: “Luca, ci sono 300 mila balneari a cui si dovrebbe dare un segnale…”. “In settimana avranno ddl (disegno di legge, ndr) in Cdm (Consiglio dei ministri, ndr), risponde Lotti. E ancora: “Perché non li convochi a Roma e fai un po’ di show?”, scrive Bianchi poco prima di inviargli il contatto del presidente asso balneari di Confindustria, Fabrizio Licordari (che già ad agosto, peraltro, aveva incontrato Renzi al quale aveva consegnato una nota, perché era in ballo il rinnovo delle concessioni).

Il 14 novembre 2017, Bianchi scrive: “Gira voce che stamani alla Camera già fanno un giro d’orizzonte sui laici dei consigli di presidenza di Cina (probabilmente intende Consiglio, ndr) Stato e Corte dei conti. C’è un’accelerazione?”. “In parte sì” risponde Lotti. E Bianchi: “Quindi i nomi ti servono ora o a gennaio?”. Lotti: “Ora”, “Entro oggi ti mando”, conclude Bianchi. Tra i nomi segnalati, l’unico che sarà nominato – ma è indicato dal Senato, come componente laico, un anno dopo, nel settembre 2018 – è Salvatore Sica.

Il 15 novembre 2017, Lotti chiede lumi su Mps: “Abbiamo dei nomi da suggerire per il cda di Mps ?”. 20 novembre: “Mi mandi via whatsapp i cv per Mps. Subito”. “Il tempo di averli” risponde Bianchi. Dei nomi inviati da Bianchi, nel futuro cda di Mps, non si trova traccia. Ma pochi giorni dopo le nomine, effettuate il 18 dicembre 2017, Bianchi chiede: “Quindi dei nostri 3 o 4?”. “5” risponde Lotti “gli altri sono miei”. “S, M e chi altri?” chiede Bianchi. Lotti gli invia delle iniziali: “NM, MS e un altro”. “E AR com’è?” chiede Bianchi. “Nostro”, risponde Lotti, “ma non lo posso dire. Altro nostro ma per altri versi e giri è RL”. Nel cda nominato il 18 dicembre a Siena, in quota alla lista presentata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, troviamo consiglieri che riportano le stesse iniziali indicate da Lotti: Nicola Maione, Michele Santoro, Angelo Riccaboni. E quando la consigliera Giuseppina Capaldo nel luglio 2018 si dimette da Mps (va in Tim) Lotti scrive: “La Capaldo nel cda di Tim è la tua amica?”. “Non ho per amici persone che mi lasciano sconcertati – risponde Bianchi – e a cui ho detto chiaro quello che penso. Ricevendone risposte anche ridicole. Comunque è lei, nel caso servisse”. E Lotti: “Cazzo, ma l’abbiamo messa in Mps noi”. Bianchi: “Non mi dire cose che so”. “Noi – precisa poi Lotti – intendo il governo con Padoan”.

Novembre 2017, Lotti scrive: “Mercoledì voto per Cdc (corte dei conti, ndr). Chi abbiamo?”. Bianchi fornisce all’istante due nomi (mai designati). Bianchi e Lotti discutono di nomine al Consiglio di Stato, Consob, Csm, ma che di MotoGp e della sponsorizzazione di Enel per la Dorna, in vista dei Gran premi formula elettrica. A proposito di elettricità: il 13 giugno Bianchi scrive: “C’è un’accelerata su Autorità Energia. Te ne occupi? Se uno va al Pd o no. Se va bene la Poletti o no. Gira ancora un’ipotesi Tiscar, a Enel va bene, anche se non così bene come Poletti”. “Ok”, risponde Lotti. Pochi giorni dopo Clara Poletti entra nel collegio dell’Autorità che regola le attività nei settori dell’energia, rifiuti e acqua.

Bianchi, “ministro ombra” del giglio magico

C’era una volta il Governo Gentiloni. Per capire come si muovevano nel mondo degli appalti pubblici i renziani quando a Palazzo Chigi c’era Gentiloni (autorevole candidato al Quirinale gradito a Renzi) è utile leggere un appunto dattiloscritto nella seconda metà del 2017 dall’avvocato Alberto Bianchi, 67 anni, per l’allora ministro Luca Lotti, 39 anni. Fonti vicine all’ex ministro sostengono che non abbia ricevuto questo appunto, certo è difficile dimenticare uno scritto così imbarazzante. L’allora ministro dello sport con delega al Cipe riceveva istruzioni dall’avvocato amico su questioni che valevano centinaia di milioni per clienti di Bianchi, talvolta finanziatori della Fondazione Open della quale Bianchi era presidente e Lotti consigliere.

L’appunto di Bianchi è stato sequestrato nell’ambito dell’indagine per finanziamento illecito che vede indagati – per altri fatti – Bianchi, Lotti e anche Renzi. Al di là della sua rilevanza penale tutta da dimostrare, l’appunto di Bianchi a Lotti merita di essere letto per capire il rapporto tra ‘Giglio magico’, imprese pubbliche e società private. Il grassetto è riprodotto dal testo originale.

“1-TOTO/ANAS”.

“Trovi qui allegato – scrive Bianchi – il testo dell’emendamento relativo alle Autostrade A24/A25 che mi dice Toto essere frutto di un’intesa tra loro e Armani (Gianni Vittorio allora amministratore delegato di Anas, non indagato, ndr) e quindi andrebbe bene sia a Toto che ad Anas”.

Per la vicenda delle norme a la carte per la Toto Costruzioni Alfonso Toto, Bianchi e Lotti sono indagati per corruzione. Tutti si dichiarano estranei ma quel che colpisce in questo appunto, è il tono: a Bianchi non basta l’emendamento ad aziendam ma, in vista della riunione tra il numero uno di Anas Armani e Lotti, intima al ministro quel che deve dire: “Però se Armani, il 10 ottobre, dovesse dirti che con Toto è tutto a posto, NON E’ VERO. La soluzione dei rapporti tra Toto e Anas DEVE ESSERE COMPLESSIVA e quindi includere non solo l’emendamento relativo alle A24/A25 ma anche alla questione delle riserve di La Spezia. Per le quali abbiamo nei giorni scorsi notificato un atto di citazione che ri-
chiede complessivi euro 97.922.663,32. Sono riserve oggetto di una procedura ex art. 240 Codice Contratti Pubblici conclusasi senza esito per il mancato accordo dei componenti della Commissione. Toto ha un’aspettativa di riconoscimento di queste riserve di 50.000.000.

Inoltre, è in gioco una perizia di variante, sempre a La Spezia, (…)

Quindi, per riassumere, andrebbe detto a Armani che non è pensabile di dare soluzione (nel senso dell’emendamento) ai problemi delle autostrade A24/A25 se non si da anche soluzioni ai problemi di La Spezia, con
il riconoscimento di 50.000.000 a Toto e con una perizia di variante fatta per bene
”.

Le riserve sono domande di maggiori compensi da parte dell’appaltatore (Toto) verso il committente (Anas) e vanno sollevate in corso d’opera. In sostanza Toto voleva più soldi di quanto pattuito e la perizia di variante serviva per mettere il timbro di Anas sulle pretese. In vista dell’incontro di Lotti con Armani annota la Guardia di Finanza che “l’avv. Bianchi (legale di Toto) stia suggerendo all’On. Luca Lotti cosa ‘andrebbe detto a Armani’”.

A questo punto va ricordato che Bianchi è indagato perché nell’agosto 2016 avrebbe preso da “Toto costruzioni generali Spa” 800 mila euro a fronte di “una prestazione professionale fittizia”. Di questa somma Bianchi secondo i pm ha girato poi a Open 200mila euro e altri 200mila euro al ‘Comitato Nazionale per il Si’”, per il referendum perso da Renzi nel 2016. Inoltre, per l’accusa, Alfonso Toto avrebbe promesso a Bianchi il “2% di quanto ricavato, a seguito di attività professionale (…) dai contenziosi/trattative con Anas” sulle “riserve presentate in relazione all’appalto variante strada statale Aurelia La Spezia; essendo previsto il versamento dell’importo, in tutto od in parte, alla Fondazione Open”. Bianchi è indagato anche perché si adoperava “affinché le disposizioni normative in favore del gruppo Toto venissero approvate”.

Saranno i magistrati a stabilire se queste accuse siano fondate o meno. L’appunto di Bianchi prosegue poi al punto 5 con un appalto di un’altra società privata. In questo caso il cliente di Bianchi è il gruppo Maire-Tecnimont, un colosso che fattura 2 miliardi di euro ed è quotato in borsa. I pm non contestano nulla ma la storia merita di essere raccontata perché fa capire come Bianchi curava gli interessi privati del suo cliente. Anche Tecnimont vuole più soldi per le riserve relative all’appalto siciliano del raddoppio della ferrovia a Cefalù. La stazione appaltante è pubblica: RFI, Rete Ferroviaria Italiana, gruppo FS. L’amministratore delegato di RFI era Maurizio Gentile, l’Ad di FS era Renato Mazzoncini (non indagati, ndr), entrambi nominati dal Governo Renzi. Bianchi allora era in contatto con l’ad di Maire Tecnimont, Gianni Bardazzi (non indagato, ndr) e Lotti si interessava della questione.

Il 14 settembre 2017 Lotti scrive a Bianchi via whatsapp: “Con Bardazzi sei a un punto morto?”

Bianchi replica: “Morto(…)” e Lotti non ci sta: “Morto non va bene però”.

Bianchi concorda: “Non va bene per niente. Domattina vedo Mazz”. Cioé Mazzoncini di FS.

E Lotti rilancia: “Spiegagli bene la cosa però”. Probabilmente i due non sortiscono l’effetto voluto perché nell’appunto a Lotti, l’avvocato Bianchi scrive al punto 5: “TECNIMONT/RFI. La vicenda sta diventando surreale. Da RFI nessuno si è fatto vivo con me, malgrado io avessi sollecitato anche Mazzoncini. Con Bardazzi a questo punto ci siamo dati un termine al 20 ottobre perché se arriva da RFI una proposta seria, proviamo quella strada, altrimenti iniziamo il contenzioso, che tuttavia per il gruppo Tecnimont significa un appostamento di bilancio più grave e pesante che se l’orizzonte fosse quello di una transazione. Ti ricordo che l’ammontare complessivo delle riserve è di oltre 360 mio (milioni, ndr) e Bardazzi vorrebbe chiudere a 130. Tu ne hai parlato con Mazzoncini e Gentile?”. Fonti vicine a Lotti sostengono di non ricordare nulla. Bianchi fa sapere al Fattoche le riserve da Tecnimont furono cedute a una società terza e che non si occupò della cessione. Di certo il 17 marzo 2018 Bianchi scrive: “Tecn (Tecnimont, ndr) ha iscritto riserve nei confronti di RFI per lavori (ormai conclusi) a Cefalù per oltre 360 milioni. Per incarico professionale ricevuto sono stati avviati contatti con RFI che hanno consentito di avviare una procedura giudiziale di accertamento tecnico preventivo (…) Tecn. (Tecnimont, ndr) si è già dichiarata disponibile a chiudere a 130 milioni, RFI no. Una somma inferiore a 60 non potrebbe comunque essere accettata da Tecn …”. Abbiamo chiesto a Bardazzi di Tecnimont un commento, senza successo.

Il datore di lavoro può tenersi il certificato: tanti saluti alla privacy

L’arte di ignorare il Garante della Privacy include da qualche ora una nuova abilità grazie alla conversione in legge del decreto sull’obbligo di Green pass nei luoghi di lavoro. Il testo è arrivato in Parlamento, c’è stato un poco fraintendibile parere del Garante, Pasquale Stanzione, che diceva che quello specifico emendamento violava logica e soprattutto regolamenti, ma non è servito a nulla.

In pratica, mentre si discute di come si farà a distinguere greenpass normali dai super green pass e di come adattare la verifica alle certificazioni estere, per legge con l’obiettivo di velocizzare lo svolgimento dei controlli a inizio giornata i datori di lavoro potranno raccogliere i green pass cartacei dei loro dipendenti e conservarli fino alla scadenza senza dover quotidianamente controllarli. In un parere molto dettagliato, però, il Garante aveva precisato punto per punto perché questa pratica non fosse in linea con la logica, tantomeno con i regolamenti europei.

Il primo rilievo riguarda il fatto che in questo modo, in caso di positività, non si possa operare in nessun modo sull’eventuale registrazione di questa positività sul green pass (il codice è dinamico) o comunque sulla sua scadenza (a meno che non ci sia qualcuno che controlli i fogli ogni giorno). Ma soprattutto, rileva il garante, “la prevista legittimazione della conservazione (di copia) delle certificazioni verdi contrasta con il Regolamento (Ue) 2021/953 il quale, nel sancire un quadro di garanzie omogenee, anche sotto il profilo della protezione dati, per l’utilizzo delle certificazioni verdi in ambito europeo, dispone che ‘Laddove il certificato venga utilizzato per scopi non medici, i dati personali ai quali viene effettuato l’accesso durante il processo di verifica non devono essere conservati, secondo le disposizioni del presente regolamento”. In sostanza, se la app di verifica è stata ideata proprio per fare in modo che i dati dei green pass letti non restino nel dispositivo, è un controsenso che qualcuno ne possa tenere una mazzetta sulla scrivania. Tanto più mentre ci si chiede come sia possibile che siano finiti online migliaia di certificazioni verdi esistenti e attive.

Il garante rileva poi una cosa molto interessante: il divieto serve a garantire la riservatezza non solo dei dati sulla condizione clinica del soggetto (in relazione alle certificazioni da avvenuta guarigione) “ma anche delle scelte da ciascuno compiute in ordine alla profilassi vaccinale. Dal dato relativo alla scadenza della certificazione può, infatti, agevolmente evincersi anche il presupposto di rilascio della stessa, ciascuno dei quali (tampone, guarigione, vaccinazione) determina un diverso periodo di validità del green pass. In tal modo, dunque, una scelta come quella sulla vaccinazione – così fortemente legata alle intime convinzioni della persona – verrebbe privata delle necessarie garanzie di riservatezza, con effetti potenzialmente pregiudizievoli in ordine all’autodeterminazione individuale (in ordine all’esigenza di evitare possibili discriminazioni in ragione della scelta vaccinale)”.

Un pregiudizio che sul lavoro diventa ancora più grave visto che il consenso (a cedere i dati) “in ambito lavorativo non può, infatti, ritenersi un idoneo presupposto di liceità, in ragione dell’asimmetria che caratterizza il rapporto lavorativo stesso”. Infine, la conservazione dei certificati: “Imporrebbe l’adozione di misure tecniche e organizzative adeguate al grado di rischio connesso al trattamento, con un non trascurabile incremento degli oneri (anche per la finanza pubblica, relativamente al settore pubblico)”. Misure che nessuno finora ha in alcun modo predisposto.

In 7 Regioni avviato 1 letto su 10 previsti in terapia intensiva

Con la quarta ondata, una eventuale impennata dei ricoveri in terapia intensiva troverebbe molte regioni impreparate. Regioni come la Campania, la Puglia, la Calabria, l’Umbria, la Sardegna e il Molise, che secondo i dati di Agenas, nemmeno con i posti letto attivabili in caso di emergenza raggiungerebbero quel tetto minimo di 14 ogni 100 mila abitanti indicato dal decreto Rilancio. Ieri il Fatto ha dato voce alla preoccupazione degli anestesisti rianimatori per il rischio di un nuovo intasamento, come è accaduto nel 2020. Eppure sulla carta le condizioni per evitarlo c’erano già dal maggio scorso, quando fu approvato il decreto, con uno stanziamento di oltre 1,4 miliardi per la riorganizzazione ospedaliera, dei quali più di 606 per adeguare la dotazione delle terapie intensive. Per creare, cioè, 3.591 nuovi posti strutturali e portarli complessivamente a 9.044, numero, peraltro, sul quale oggi si calcola la percentuale di occupazione che determina le zone gialle o arancioni, nonostante i posti effettivi siano meno. Come ha certificato la Corte dei Conti il maggio scorso, con il rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, le Regioni, tutte insieme, finora ne hanno attivati 922.

Ne mancano, cioè, 2.669. E ben sette non hanno realizzato nemmeno il 10% dei nuovi posti letto programmati. Certo, se prima avevano tempo fino al 2022, oggi hanno più margine, dato che dovranno farlo entro il 2026. Ed è vero che di mezzo ci sono state, seconda e terza ondata. Condizioni che però valevano per tutti. Nonostante questo i risultati sono stati ben diversi. In Piemonte erano previsti 299 posti, ne sono stati attivati solo il 6,7%. La Lombardia ne prevede 585, è ferma a 47 (8%). Il Friuli-Venezia Giulia dovrebbe averne 55 in più, ne ha creati 2 (3,6%); la Sicilia ne ha programmati 301, ma ne ha resi operativi 10 (in percentuale il 3,3%). Ci sono poi Basilicata, Molise e Valle d’Aosta che sono a zero. La prima doveva realizzarne 31, il Molise 14, la Valle D’Aosta 10. Molise e Basilicata avevano anche chiesto al governo di aumentare la dotazione finanziaria. Anzi, di raddoppiarla. Dalla Regione Piemonte spiegano di aver presentato il piano all’inizio di luglio dello scorso anno. Ma di aver ricevuto “il via libera dall’allora commissario all’emergenza Domenico Arcuri solo il 9 ottobre, tre mesi dopo”. Dicono che poi ci si è messa anche la burocrazia. E che la struttura commissariale non ha facilitato le cose, centralizzando sia la scelta delle aziende a cui appaltare i lavori sia le procedure per poterlo fare. “Poi è arrivata la seconda ondata e in quelle condizioni non si poteva più intervenire – spiegano ancora dalla giunta piemontese –. Nel frattempo però abbiamo investito 15 milioni di nostre risorse per acquistare le attrezzature per 160 posti di terapia intensiva e 120 di semi intensiva”.

Tutti posti letto non strutturali, però. Dalle altre Regioni interpellate dal Fatto solo silenzio. Eppure, nonostante le regole fossero per tutte le stesse, alcune hanno corso. Lo ha fatto l’Emilia-Romagna, che ha realizzato quasi l’80% dei posti letto previsti. Ancora di più la Provincia di Bolzano. Erano programmati 40 posti. In maggio c’erano già tutti.

Tamponi solo per lavoro e viaggi. Ristoranti e svaghi per già vaccinati o guariti

Il pacchetto, almeno per come l’ha concepito Roberto Speranza, che sembra aver convinto Mario Draghi, prevede innanzitutto il Super green pass o “2G” alla tedesca: solo vaccinati e guariti (geimpft o genesen) al ristorante, al cinema, allo stadio, in piscine e palestre e tutto ciò che è ritenuto superfluo, in prospettiva anche per i turisti attesi in Italia dopo che ieri gli Usa hanno sconsigliato i viaggi in Germania. Col tampone si potrà lavorare, prendere un treno ad alta velocità o un aereo e poi basta. Casa e lavoro, come in lockdown. L’hanno fatto in Austria per poi passare a lockdown locali ma per tutti; l’ha fatto il governo uscente in Germania e chissà se sarà sufficiente o almeno ridurrà un po’ i contagi che viaggiano anche sulle gambe dei vaccinati.

Draghi si è convinto ad agire subito, il Consiglio dei ministri potrebbe decidere domani, se non oggi stesso dopo la cabina di regia convocata per le 11, visto che domani c’è Emmanuel Macron a Roma. Il decreto potrebbe entrare in vigore lunedì 29 novembre. Per tutte le Regioni, cioè anche nella zona bianca che oggi vale ovunque (ma Friuli-Venezia Giulia e Bolzano potrebbero passare al giallo): di questo ancora si discute. Molte regioni vorrebbero il Super green pass solo con il giallo, se non con l’arancione, ma così, secondo i tecnici della Salute, sarebbe inefficace.

Nel pacchetto c’è poi la riduzione della durata del pass verosimilmente a 9 mesi, su cui dovrà esprimersi anche il Cts. Ci sono infine l’estensione alla terza dose dell’obbligo vaccinale previsto al momento solo per il personale sanitario e l’ipotesi di applicarlo anche a quello scolastico – quasi tutto già vaccinato, però – e alle forze dell’ordine e alle forze armate, dove invece ci sono forti resistenze al vaccino e si rischiano contraccolpi. L’obiettivo è ridurre l’indice di trasmissibilità Rt che sembra essersi stabilizzato ma a 1,2, sopra la soglia epidemica di 1, rallentando i contagi che in un mese rischiano di complicare la vita agli ospedali. Senz’altro aumenterà la pressione sui non vaccinati e su chi deve fare le terze dosi, che sono in aumento e saranno progressivamente estese a tutti dai 18 anni in su (ora si fanno dai 40) ma non da subito.

Se Draghi può contare su M5S, FI e Pd, la Lega vorrebbe evitare nuove restrizioni sia pure limitate ai soli non vaccinati, anche per non lasciarli a Fratelli d’Italia. Così questa mattina il premier telefonerà a Matteo Salvini e lo metterà di fronte al fatto quasi compiuto: “Bisogna fare qualche sacrificio per evitare di chiudere sotto Natale”. Il leader della Lega non potrà opporsi anche perché ormai è stato messo in minoranza dai suoi governatori del Nord – a partire da Fedriga, Fontana e Zaia – che sono stati i primi a chiedere al governo di intervenire. Lunedì pomeriggio, Salvini aveva incontrato Zaia e Fontana e dalla riunione era uscito un approccio pragmatico: evitare “chiusure e paure” ma “lavorando a soluzioni di buonsenso”. Lo stesso ieri mattina quando il leader della Lega ha riunito i suoi presidenti di Regione. È rimasto colpito dalla compattezza con cui gli hanno spiegato che, al Nord, commercianti e imprenditori chiedono “di non chiudere più”. E dunque serve una stretta solo per i non immunizzati, ma non in zona bianca. Salvini non si è opposto: “Si lavora insieme con il governo – recita la nota di ieri – con buonsenso per evitare chiusure, eccessive complicazioni per gli italiani e messaggi allarmistici. L’obiettivo, oltre alla massima attenzione per la tutela della salute, è salvaguardare la stagione turistica invernale”. Salvini ha chiesto solo che non venga esteso l’obbligo del pass agli under 12, ma questa misura non è all’ordine del giorno. “Prima si decide, meglio è per dare certezze al mondo economico” dice Fedriga.

Il segretario inoltre non punterà i piedi anche perché non gli conviene politicamente: a gennaio vuole che Draghi salga al Quirinale e quindi non creerà problemi. Sulla stessa linea sembra Giorgia Meloni, contraria al green pass e quindi anche al Super green pass ma quasi silente, semmai concentrata sui divieti di manifestare: “Se non si è con il governo non si può manifestare” ha detto ieri la leader di FdI. I suoi governatori Marsilio (Abruzzo) e Acquaroli (Marche) hanno fatto una timida resistenza. Anche lei, come Salvini, è una delle principali grandi elettrici di Draghi: vuole mandarlo al Colle per andare a votare il prima possibile. Pandemia permettendo.

Ora e sempre preferenza

B.mente sempre quando parla sul serio e dice la verità solo quando scherza. Invece bin Rignan (un B. che non ce l’ha fatta), totalmente sprovvisto di umorismo, è incapace di scherzare: mente sempre quando parla sul serio e dice la verità solo quando è sovrappensiero. Gli è capitato domenica alla Leopolda, fra una balla e l’altra su Open. Stava piagnucolando perché, nel Pd, “nessuno” ha solidarizzato con lui, povero indagato, “a parte Irene Tinagli” (nessuno, appunto), “che non ci deve niente” perché non fu candidata da lui nel 2018 (era deputata uscente di Scelta Civica), ma da Zingaretti nel 2019 a Bruxelles. Invece “chi è stato eletto nelle liste fatte da noi” è reo di “silenzio vigliacco”. Il pizzino in perfetto stile Dell’Utri è per tutti i parlamentari del Pd nominati da lui grazie a quella colossale porcheria chiamata Rosatellum, uscita dai laboratori renziani e approvata nel 2017 da Pd, FI e Lega (contrari M5S, FdI e SI). Quella che scippa il diritto di scelta agli elettori e consegna i tre quarti dei parlamentari (la quota proporzionale) ai segretari di partito grazie alle liste bloccate, come con gl’incostituzionali Porcellum e Italicum. Il risultato è quello descritto, in un lampo involontario di sincerità, dall’Innominabile: l’asservimento totale dei nominati a chi li ha messi lì.

Se i pidini non solidarizzano con lui è solo perché ha traslocato altrove e non sarà lui a fare le liste delle prossime elezioni. Altrimenti si starebbero stracciando tutti le vesti per l’indagine a suo carico. La solidarietà gli è giunta, in compenso, dalla quarantina di disperati di Iv (che sperano nella ricandidatura, anzi nella ri-nomina). Ma anche da forzisti e leghisti (con Giornale, Foglio e Libero al seguito): un po’ per colleganza fra indagati, un po’ perché contano sui voti di Iv per il Colle. Il fatto che l’aspirante ago (anzi ego) della bilancia, che ormai sfugge ai radar dei sondaggi e delle urne, continui a contare qualcosa in Parlamento si deve soltanto a quel Porcellum bis chiamato Rosatellum: che lo rende proprietario di una pattuglia di nominati pronti a seguirlo ovunque, anche al macello dell’irrilevanza post-Conticidio, perché sarà lui a decidere se qualcuno di loro tornerà lì o dovrà cercarsi un lavoro. Difficile tornarci con Iv, condannata all’estinzione dalla soglia del 3%. Più probabile un trasloco di pochi fedelissimi in Forza Italia, o come diavolo si chiamerà il prossimo centrino. Ora Conte invoca riforme istituzionali a partire dalla “sfiducia costruttiva” contro le crisi al buio (specialità di bin Rignan). Buona idea, ma basterebbe una norma ordinaria che, se non riscrive la legge elettorale, ripristini almeno la preferenza. Se i parlamentari li scegliamo noi e non più lorsignori, è la volta che ci liberiamo del pelo superfluo.

“Le mie arterie gonfie per il tuo solo amore”: le muse di Apollinaire, libertine e alcoliche

Renzo Paris, con quel cognome che fatalmente richiama la Ville Lumière, torna in libreria rindossando la toga del francesista. Dopo una fortunata serie di volumi biografici (l’ultimo consacrato ad Amelia Rosselli), l’autore di Celano con Maggio dolce maggio, edito da Ponte alle Grazie, aggiunge un altro titolo alla sua bibliografia su Guillaume Apollinaire (ha curato, tra gli altri, Gli amori, antologia di versi per gli Oscar Mondadori, e raccontato i 38 anni di vita del poeta in La banda Apollinaire).

Questo nuovo volumetto, che sta comodamente in una tasca, sembra rispondere a una pulsione divulgativa. È come se Paris, impartendo un’educazione al gusto, offrisse ai commensali-lettori, seduti alla tavola delle sue pagine, piccole porzioni per stuzzicare il palato. Sceglie di ritradurre – letteralmente e con l’edizione della Pléiade sottomano – una ventina di componimenti ispirato da un interrogativo: “Che cosa resterebbe di Apollinaire senza l’amore?”.

Messo da partelo sperimentalismo dei Calligrammi, ecco che Paris ripercorre i versi più elegiaci, sia pure nella convinzione che Apollinaire abbia “una voce sola”. Cinque Muse si contendono le pagine di Maggio dolce maggio, protagoniste della parabola sentimentale del padrino dei surrealisti. Ecco Annie, la governante (“E la mia vita per i tuoi occhi lentamente s’avvelena”); Marie, la pittrice (“Il mio destino oh Maria è di vivere ai vostri piedi”); Louise, la contessa libertina (“E tutte le mie arterie gonfie per il tuo solo amore”); Madeleine, l’insegnante di lettere (“Io sono l’alpinista delle tue montagne nevose”); Jacqueline, l’infermiera (“Viene e m’attira come il ferro la calamita”).

Paris, che in certe sue peregrinazioni romane torna nei luoghi di Apollinaire, nato nel 1880 nel cuore del rione Monti, scrive in una nota finale che il francese di Alcools è “uno dei pochi poeti che riesca a farci transitare a ritroso, dal secolo delle avanguardie all’eternità classica, ferocemente innamorato del futuro”. Come dargli torto davanti alla pienezza di vita di uno dei pigmalioni del cubismo: il trasferimento nella Parigi della Belle Époque, l’amicizia con Picasso, il fronte della Grande guerra, il carcere per l’accusa infondata di furto della Gioconda al Louvre, l’abuso di oppio e mescalina nei caffè di Montmartre, la morte precoce nel 1918 colpito dalla febbre spagnola. Una sintesi di vita e di arte che non si fa dimenticare perché, per prendere a prestito i suoi stessi versi da Il ponte Mirabeau, “i giorni se ne vanno io rimango”.

Guida turistica del terrore: il brivido allunga il viaggio

I luoghi hanno una memoria. Gli eventi e le vite che li hanno riempiti – felicemente o tragicamente, nel corso di anni o secoli – si imprimono sulle pareti lasciando aloni, si infilano negli stipiti delle porte che poi si aprono da sole, impregnano le assi dei pavimenti che scricchiolano nel silenzio della notte, riempiono gli angoli delle soffitte acquattandosi dove non arriva la luce: eccoli, i posti raccontati nell’Atlante dei luoghi infestati edito da Bompiani, ultimo arrivato nella collana di Atlanti Illustrati che conta tra gli altri l’Atlante dei luoghi misteriosi d’Italia, l’Atlante delle isole remote e l’Atlante dei luoghi maledetti. Una guida turistica del terrore, con tanto di coordinate geografiche: mancano solo i consigli su dove mangiare nei dintorni, ma sarebbero fuori luogo perché con questo atlante non si scoprono i piaceri di qualche Capitale europea, ma le leggende inquietanti nascoste dietro cinquanta posti sparpagliati nel mondo. Quindi o mettete una buona dose di coraggio in valigia o questo libro non fa per voi. Per esempio: c’è una casa sulla collina di Montecristo, in Australia, in cui ancora si aggira la presenza della prima proprietaria, morta da sola e in preda al delirio religioso. E c’è una cascata, in Colombia, maledetta dal sangue degli indios che vi trovarono la morte al tempo dei Conquistadores: proviamo a scoprire che fine ha fatto l’Hotel del Salto costruito su quella sponda nel 1923? E poi c’è una canonica, nel profondo nord della Svezia, tra i boschi e un piccolo cimitero, sotto il cui tetto si sono susseguite così tante morti e violenze da renderla tutt’oggi inabitabile per i vivi. Ci passereste una notte? (Chi vi scrive ci ha provato davvero, qualche anno fa. Esperienza sconsigliabile). Ad accompagnare i capitoli ci sono le tavole di Daria Petrilli, illustratrice elegante ed eterea, che più che disegnare il terrore lo suggerisce con trasparenze e leggere sovrapposizioni. Ai testi c’è invece Giulio D’Antona: sceneggiatore per Topolino, poi corrispondente da New York per varie testate, poi produttore di alcuni dei più acclamati standup comedians italiani e traduttore della scrittrice statunitense Fran Lebowitz (imperdibile su Netflix in Fate finta che sia una città). Da dove gli venga – o, meglio, dove la tenesse nascosta – questa enciclopedica conoscenza dell’orrore non lo sappiamo, ma quello che conta è che l’abbia condivisa. E che abbia deciso di non fermarsi: la prossima tappa sarà Roma, a suo dire piena di spettri. I turisti dell’inquietudine sono avvisati.

 

Il “conte” comunista Pietrangeli. Figlio d’arte, ma ribelle

Conservava in un cassetto le candeline dei compleanni. Senza spezzarle. Non era necessario crescere troppo in fretta, soprattutto quando da ragazzo ti trovavi a sorpassare la Storia. Era accaduto per caso, nel ’66, i giorni degli scontri con i fascisti alla Sapienza occupata, la morte dello studente Paolo Rossi. Paolo era entrato nel bar Negresco, nell’aristocratico Quartiere Trieste, a Roma. E aveva sentito i commenti sprezzanti di questi due personaggi di fronte alle intraprese proto-pseudo rivoluzionarie di tanti ragazzi, gli stessi che in un giornale di stampo cattolico venivano individuati come “Figli di puttana”. Pietrangeli ci scrisse su Contessa, che sarebbe diventato l’inno profano del Sessantotto. Compagni dai campi e dalle officine.

Partecipò anche lui ai tumulti del Primo marzo, la scalinata di Architettura, giovani comunisti e fascisti schierati insieme, per l’ultima volta, di fronte alla polizia. Paolo, dopo, compose Valle Giulia in ricordo di quel giorno spartiacque. Durante il quale, nella concitazione degli eventi, era quasi rimasto in mutande (rosse): gli si erano strappati i pantaloni, ma aveva salvato una ragazza dalle manganellate dei celerini, a uno dei quali ruppe in testa un consistente pezzo di marmo.

Pietrangeli, il Comunista Coerente. Fino all’ultimo: ancora tre anni fa si era candidato con Potere al Popolo, senza guadagnarsi un seggio in Parlamento. Si era iscritto al Pci a 19 anni, nel ’64, e ne era uscito al tempo del sequestro Moro. Oggi lo piangono un po’ tutti, e quelli di Rifondazione sostengono che “chi ha compagni non muore mai”.

Paolo il cantautore (e che cose sopraffine, dal Vestito di Rossini a Era sui quarant’anni, ma anche l’ironia finto-piagnona di Ma per fortuna che c’è la Roma), che si trovava alle strette quando gli chiedevano come prendere Mio caro padrone domani ti sparo. E Paolo il regista: in tv nella tana del Cav, gli intimavano di non indossare abiti marroni e di tagliarsi la barba. Lui puntualmente disobbediva. Una vita dietro le immagini del Costanzo show (e con Maurizio sit-com interminabili come Orazio e Ovidio) o per la prima fase di Amici, quella in cui vedeva aspiranti star partire veramente dal nulla, senza il sostegno della discografia; più la saga defilippiana di C’è posta per te, il romanzone di un’Italia viscerale, ultrapop, avvolta nelle spirali delle faide familiari.

Paolo uomo di cinema, figlio di quell’Antonio Pietrangeli maestro del mestiere che si portava in casa Pasolini, Flaiano, Scola, mentre il ragazzino era al piano di sotto a strimpellare la chitarra. Antonio morì proprio nel ’68, tragicamente, la testa su uno scoglio durante un bagno in mare: fu lo strappo mai ricucito nell’anima di Paolo, che da allora restò aggrappato alle ultime parole del padre (“Ci vediamo più tardi, vai a riposarti, che sei tornato stanco dal concerto”). Antonio che sedeva con la moglie in ultima fila al primo recital del figlio, nell’angusto Beat 72, ma che si arrabbiava quando lo vedeva procrastinare gli studi (quattro anni di Legge, tre di Filosofia) senza mai conquistarsi una laurea con la scusa, sosteneva Paolo, “che il mondo stava per cambiare”. Allora perché non avventurarsi anche, da rampollo, nel sentiero genealogicamente noto del cinema?

Pietrangeli jr. aiuto del tirannico Visconti in Morte a Venezia, del chiassoso Fellini in Roma o con Andy Warhol prima di firmare la versione filmica del best-seller generazionale Porci con le ali. O nel ’74 il tagliente documentario sui missini Bianco o nero: si era infiltrato tra i neofascisti, e stavolta la barba se l’era tagliata, un paio di volte era stato necessario menar le mani, perché l’avevano scoperto. Fino al controverso I giorni cantati del ‘79, dove Paolo dirigeva Mariangela Melato, Giovanna Marini (sua compagna dei tempi gloriosi del Nuovo Canzoniere Italiano) e, in una piccola parte, Roberto Benigni. Più Francesco Guccini, che ora ricorda il collega per il Fatto: “Ero nella parte di me stesso, cantavo le mie canzoni, come Eskimo. Prendevo in giro Paolo, in modo bonario, dicendogli che Contessa era un po’ troppo retorica. Perché era vero: ma dai, ripetevo, la nobildonna e il generale, quando i fascisti pericolosi sono altri… E lui: ‘Ok ok, va bene’. Era il rischio che si correva con i brani a commento di certi periodi storici. Lo dicevo pure a Morandi per C’era un ragazzo che come me. Delle mie, era accaduto con Auschwitz, che nel ‘64 rinfocolò il dibattito sui lager. Ma io di vere canzoni politiche non ne ho scritte, eccezion fatta per La locomotiva, a emulazione di quelle anarchiche. Pietrangeli scriveva bene, era una brava persona, ha creduto sempre nelle proprie idee, anche quando sono diventate controvento. Le ha portate avanti, senza rinnegarle mai”.

Per questo, Paolo ha chiesto che in suo ricordo non si celebri un funerale, ma una festa. Sarà domani a Roma, alla Casa del Cinema, alle 15. Avrebbe voluto una banda musicale. E chissà se il vento fischierà le sue canzoni.