Conservava in un cassetto le candeline dei compleanni. Senza spezzarle. Non era necessario crescere troppo in fretta, soprattutto quando da ragazzo ti trovavi a sorpassare la Storia. Era accaduto per caso, nel ’66, i giorni degli scontri con i fascisti alla Sapienza occupata, la morte dello studente Paolo Rossi. Paolo era entrato nel bar Negresco, nell’aristocratico Quartiere Trieste, a Roma. E aveva sentito i commenti sprezzanti di questi due personaggi di fronte alle intraprese proto-pseudo rivoluzionarie di tanti ragazzi, gli stessi che in un giornale di stampo cattolico venivano individuati come “Figli di puttana”. Pietrangeli ci scrisse su Contessa, che sarebbe diventato l’inno profano del Sessantotto. Compagni dai campi e dalle officine.
Partecipò anche lui ai tumulti del Primo marzo, la scalinata di Architettura, giovani comunisti e fascisti schierati insieme, per l’ultima volta, di fronte alla polizia. Paolo, dopo, compose Valle Giulia in ricordo di quel giorno spartiacque. Durante il quale, nella concitazione degli eventi, era quasi rimasto in mutande (rosse): gli si erano strappati i pantaloni, ma aveva salvato una ragazza dalle manganellate dei celerini, a uno dei quali ruppe in testa un consistente pezzo di marmo.
Pietrangeli, il Comunista Coerente. Fino all’ultimo: ancora tre anni fa si era candidato con Potere al Popolo, senza guadagnarsi un seggio in Parlamento. Si era iscritto al Pci a 19 anni, nel ’64, e ne era uscito al tempo del sequestro Moro. Oggi lo piangono un po’ tutti, e quelli di Rifondazione sostengono che “chi ha compagni non muore mai”.
Paolo il cantautore (e che cose sopraffine, dal Vestito di Rossini a Era sui quarant’anni, ma anche l’ironia finto-piagnona di Ma per fortuna che c’è la Roma), che si trovava alle strette quando gli chiedevano come prendere Mio caro padrone domani ti sparo. E Paolo il regista: in tv nella tana del Cav, gli intimavano di non indossare abiti marroni e di tagliarsi la barba. Lui puntualmente disobbediva. Una vita dietro le immagini del Costanzo show (e con Maurizio sit-com interminabili come Orazio e Ovidio) o per la prima fase di Amici, quella in cui vedeva aspiranti star partire veramente dal nulla, senza il sostegno della discografia; più la saga defilippiana di C’è posta per te, il romanzone di un’Italia viscerale, ultrapop, avvolta nelle spirali delle faide familiari.
Paolo uomo di cinema, figlio di quell’Antonio Pietrangeli maestro del mestiere che si portava in casa Pasolini, Flaiano, Scola, mentre il ragazzino era al piano di sotto a strimpellare la chitarra. Antonio morì proprio nel ’68, tragicamente, la testa su uno scoglio durante un bagno in mare: fu lo strappo mai ricucito nell’anima di Paolo, che da allora restò aggrappato alle ultime parole del padre (“Ci vediamo più tardi, vai a riposarti, che sei tornato stanco dal concerto”). Antonio che sedeva con la moglie in ultima fila al primo recital del figlio, nell’angusto Beat 72, ma che si arrabbiava quando lo vedeva procrastinare gli studi (quattro anni di Legge, tre di Filosofia) senza mai conquistarsi una laurea con la scusa, sosteneva Paolo, “che il mondo stava per cambiare”. Allora perché non avventurarsi anche, da rampollo, nel sentiero genealogicamente noto del cinema?
Pietrangeli jr. aiuto del tirannico Visconti in Morte a Venezia, del chiassoso Fellini in Roma o con Andy Warhol prima di firmare la versione filmica del best-seller generazionale Porci con le ali. O nel ’74 il tagliente documentario sui missini Bianco o nero: si era infiltrato tra i neofascisti, e stavolta la barba se l’era tagliata, un paio di volte era stato necessario menar le mani, perché l’avevano scoperto. Fino al controverso I giorni cantati del ‘79, dove Paolo dirigeva Mariangela Melato, Giovanna Marini (sua compagna dei tempi gloriosi del Nuovo Canzoniere Italiano) e, in una piccola parte, Roberto Benigni. Più Francesco Guccini, che ora ricorda il collega per il Fatto: “Ero nella parte di me stesso, cantavo le mie canzoni, come Eskimo. Prendevo in giro Paolo, in modo bonario, dicendogli che Contessa era un po’ troppo retorica. Perché era vero: ma dai, ripetevo, la nobildonna e il generale, quando i fascisti pericolosi sono altri… E lui: ‘Ok ok, va bene’. Era il rischio che si correva con i brani a commento di certi periodi storici. Lo dicevo pure a Morandi per C’era un ragazzo che come me. Delle mie, era accaduto con Auschwitz, che nel ‘64 rinfocolò il dibattito sui lager. Ma io di vere canzoni politiche non ne ho scritte, eccezion fatta per La locomotiva, a emulazione di quelle anarchiche. Pietrangeli scriveva bene, era una brava persona, ha creduto sempre nelle proprie idee, anche quando sono diventate controvento. Le ha portate avanti, senza rinnegarle mai”.
Per questo, Paolo ha chiesto che in suo ricordo non si celebri un funerale, ma una festa. Sarà domani a Roma, alla Casa del Cinema, alle 15. Avrebbe voluto una banda musicale. E chissà se il vento fischierà le sue canzoni.