Meb alla Leopolda “balla con le stelle” e Nobili fa la 4×100

Ho appena terminato un lungo confronto con il direttore di questo giornale, Marco Travaglio, durante il quale ho cercato di convincerlo in merito alla inusitata bellezza del progetto renziano. È vero, in passato sono forse stato troppo critico con Renzi e i suoi statisti, ma non è mai tardi per cambiare idea. Purtroppo Travaglio resta ottusamente ancorato alle sue convinzioni, ma la verità è che l’ultima Leopolda mi ha esaltato tantissimo. Mi ha regalato emozioni autentiche, mi ha aperto la mente: mi ha mostrato la Via. Qualcuno di voi mi dirà che sto sbagliando, che ormai Renzi non ha elettori e che anche alla Leopolda c’erano forse più giornalisti che spettatori. Siete nel torto, accecati dall’ira e dall’odio. E intendo ora dimostrarvelo.

Matteo Renzi. Fisicamente performante come un Dio greco, a dispetto di una tendenza estetica generale incline al tracollo (ostentato). Sicuro di sé come Tatarusanu nelle uscite, mai vendicativo e sempre lucido, con una capacità oratoria prossima a quella di un lemure rauco e con una propensione (auto)ironica al cui confronto Tremori è Troisi. Renzi mi è parso un mix tra Churchill, De Gasperi, Don Sturzo, Mick Jagger e il Gengio della Rassinata. Idolo assoluto.

Maria Elena Boschi. Abilissima nel camuffare la sua natura di ferocissima e vendicativissima “zarina” (decaduta) della politica italiana, ha mostrato alla Leopolda il suo volto più tenero e addirittura lacrimevole, fornendo persino un apprezzabile remake interpretativo del pianto antico della signora Fornero. La Boschi ci ha ricordato quanto ella abbia sofferto per gli odiosi attacchi di hater e media, dimenticandosi – del tutto involontariamente, s’intende – di quanto abbiano sofferto alcuni giornalisti per le efferate ritorsioni renziane durante l’era 2014/2016. E soprattutto di quanto abbia sofferto l’Italia tutta per averla avuta ministra.

Teresa Bellanova. Semplicemente eroica nel gettare il cuore oltre l’ostacolo fino a difendere a spada tratta l’aspetto più eticamente oscuro di Renzi, ovvero la sua disinvoltura nel prender soldi dalla diversamente democratica Arabia Saudita. C’è, nella Bellanova, un fervore quasi religioso nel parlare di Renzi. Neanche Brosio, forse, esibisce un tale afflato nel raccontar di Medjugorje. C’mon Teresa!

Ivan Scalfarotto. Dopo avere meritoriamente passato buona parte della sua vita politica a cercare di ottenere più diritti civili per le minoranze meno tutelate, è parso di colpo trasformarsi in Bruto nei confronti di quel ddl Zan che è morto anche (anzitutto?) per colpa sua. Ora, però, Renzi ci dice che i renziani presenteranno una proposta di legge concepita proprio da Scalfarotto. Era proprio quello che noi tutti attendevamo, per avere la certezza definitiva che – per un bel pezzo – omosessuali e transessuali non verranno calcolati di pezza.

Luciano Nobili. Mai domo nel raccattar figuracce mediatiche, fino al parossismo raggiunto con Report e le interrogazioni parlamentari sul “sentito dire”, ieri lo si è rivisto in tivù bello tonico (?), con la solita facciona rubizza e la solita vocina da overdose di elio nelle corde vocali. Ha detto che Italia Viva sta bene e che Letta non sarà mai così bischero da inseguire i moribondi 5 Stelle invece dei fortissimi italovivi. Come sempre Nobili ha poche idee e confuse: infatti è renziano.

Concludendo. Il futuro è segnato: Bellanova al Quirinale, Renzi a Palazzo Chigi, Scalfarotto titolare in Davis al posto di Berrettini, Boschi a Ballando con le stelle e Luciano Nobili staffettista nella 4×100. Ci attendono giorni d’estasi e gloria!

 

Le mamme degli anni 60, i traumi post-pandemia e i problemi con il bagno

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Da anni evito accuratamente di leggere la cronaca nera. Non guardo i tg per lo stesso motivo: voglio scegliere io da cosa essere turbato, perché una schifezza che ti entra nel cervello resta lì. È una questione di ecologia mentale. Cosa posso farci io se qualcuno ammazza un parente e poi si uccide, a parte non dormirci la notte e ricavarne l’impressione che il mondo può essere brutto? Lo so già, come so che l’omicidio è una china scivolosa. Ammazzi qualcuno, e in men che non si dica butti le cartacce per strada.

L’altro giorno, in giro per Roma, mi scappava da pisciare ed ero allo stremo. Finalmente ecco un bar, ma sono senza mascherina. Per fortuna ne vedo una per terra, così faccio quello che avrebbe fatto chiunque: la raccolgo, me la metto ed entro.

Come molte mamme degli anni 60, anche la mia mi insegnò a controllare la minzione mettendomi a cavalcioni del bidet, aprendo il rubinetto, e lodandomi quando finalmente pisciavo. Condizionamento operante di Skinner: la conseguenza piacevole di un comportamento (le lodi materne alla comparsa della mia pisciatina) induce il soggetto a ripetere il comportamento. Indovinate adesso cosa mi succede ogni volta che passo dalle parti della Fontana di Trevi.

La pandemia ha cambiato tante cose e le sue ripercussioni sulla nostra psicologia saranno materia di studio per chissà quanto. Sono tornato a teatro dopo due anni. Recitavano Ibsen. E così ho scoperto che adesso una tragedia mi lascia insoddisfatto, se non massacra un’intera compagnia teatrale.

Quello che ci spaventa, spesso ci attrae. Quello che ci attrae, spesso ci spaventa. Ci attrae perché ci spaventa? Ci spaventa perché ci attrae? Nel ’700, Burke riassunse queste considerazioni analizzando la differenza fra Bello e Sublime. Il Bello si limita all’armonico (proporzioni, perfezione); il Sublime è la bellezza che si fa minacciosa, tanto è grande. A. era sublime. Quando ripenso a lei, che adesso non c’è più (linfoma), ricordo la volta che eravamo nella sua cucina, io seduto al tavolo, e lei in piedi dietro di me che allunga le braccia per accarezzarmi il petto, le poppe di cachemire soffici sulla mia nuca, appena suo marito si assenta un attimo per andare in bagno. E l’anno prima, al ristorante dopo uno spettacolo, lei di fronte a me, che non discosta la scarpa al mio piedino, un piedino insistente, tanta è la voglia che mi ha fatto venire, e a un certo punto lei allunga la mano sotto il tavolo come per raccogliere il tovagliolo caduto a terra, e invece stringe con dolcezza la mia scarpa, che diventa il mio cazzo, e la scosta con un sorriso, mentre il marito accanto a lei sta conversando con me del più e del meno, e io ho un’erezione di quelle che rimpiango.

 

Povero Matteo, l’algoritmo s’è scordato persino di lui

La petulanza con cui Matteo Renzi continua a dileggiare Giuseppe Conte, o il gruppo dirigente del Pd, dovrebbe chiamare in causa la psicologia. Un’ossessione reiterata che, per essere sostenuta ha bisogno di nutrirsi di ricostruzioni fasulle, ben oltre i limiti del negazionismo. L’ultima punta a minimizzare il ruolo che Conte, e con lui il resto della delegazione italiana a Bruxelles, in primisil sottosegretario Vincenzo Amendola, ebbero nello strappare le risorse del Pnrr. “Un’incredibile mole di denari”, ammette Renzi, che però “non è un merito del governo che ha fatto la trattativa”, ma di “un algoritmo” che avrebbe assegnato automaticamente le risorse.

Le cose sono un po’ più serie perché la Ue ha deciso di distribuire i fondi sulla base, come scrive il documento ufficiale, di “variabili strutturali come la popolazione, ma anche variabili contingenti come la perdita di Prodotto interno lordo legato alla pandemia”. L’Italia e la Spagna sono state avvantaggiate anche perché la Ue, Germania in testa, temevano una recessione nel sud dell’Europa.

Facendo battute sugli algoritmi si fa finta di dimenticare la tensione del vertice di Bruxelles del 17-21 luglio 2020 in cui i 750 miliardi complessivi di prestiti e sostegni furono salutati come una sorta di miracolo. Solo all’inizio del summit, infatti, il consigliere di Angela Merkel, Lars Feld, diceva che “realisticamente ci si accorderà sui 500 miliardi”. E ancora che nel rush finale, come scriveva Repubblica, non il Fatto, “grazie a uno spostamento delle poste all’interno del Next Generation Eu, l’Italia limita i danni e perde 3,8 miliardi di aiuti diretti” e “guadagna invece 38 miliardi di prestiti”. Infatti, al rientro in Italia Conte veniva subito subissato di complimenti da chiunque, Confindustria compresa. E, almeno per un giorno, perfino da Renzi (“Conte è stato bravo”). Poi il buontempone tornò a invitare il governo “a riflettere attentamente sul Mes”. Come gli ultimi giapponesi. O gli ultimi Mohicani (chiedendo scusa ai Mohicani).

Quegli intrecci tra giornali e finanza di cui nessuno parla

Merita di essere ripreso l’articolo pubblicato ieri da Tag43, diretto da Paolo Madron, con solide relazioni nel mondo finanziario milanese. Lo merita perché aiuta a mettere in fila una serie di legami e connessioni che nella vicenda Tim hanno il loro ruolo.

Il contesto è quello che emerge anche da quanto scritto dal Fatto ieri, e cioè un ruolo attivo dell’Ad Luigi Gubitosi nell’invocare l’aiuto del fondo Kkr per stoppare l’iniziativa Vivendi che punta a farlo fuori. Una iniziativa che al momento sembra abbia poche chance di riuscita anche se in serata Vivendi ha voluto far sapere che se il prezzo dell’offerta fosse portato a un euro allora si potrebbe fare.

Secondo Tag43, però, e secondo quanto il Fatto ha ricostruito, ci sarebbe proprio la struttura di comunicazione di Tim dietro alla modalità di uscita della notizia della manifestazione di interesse di Kkr. E quindi Carlo Nardello, Chief Strategy, Business Development & Transformation Officer del Gruppo di telecomunicazioni, Simone Cantagallo, vicepresidente esecutivo e addetto alla comunicazione che, a sua volta, è anche compagno di Costanza Esclapon de Villeneuve, responsabile della comunicazione delle aziende in cui è stato dirigente Gubitosi da Wind ad Alitalia alla Rai.

In tema di nozze, poi, va anche detto che l’autore dell’articolo del Corriere della Sera che ha dato la notizia dell’interessamento di Kkr, quindi dello scoop, è Federico De Rosa, coniuge di Maria Laura Sisti, partner e responsabile dell’ufficio di Milano della Esclapon, che comunque si chiamava prima CsC Vision, società fondata proprio da Nardello. E così il cerchio si chiude mirabilmente.

Un giornalista, ovviamente, riceve le notizie da chiunque e il suo compito è pubblicarle. E nel caso in oggetto non c’è nulla da dire sul Corriere e sui colleghi che lì lavorano. Ma la girandola di nomi e i loro intrecci aiuta a capire come si possono costruire delle iniziative finanziarie e mediatiche allo stesso tempo e, forse, dovrebbero far riflettere anche la Consob, perché se il convulso scambio di informazioni avvenuto tra venerdì e domenica fosse stato utilizzato anche da possibili investitori, questi ieri avrebbero contato solo profitti visto il balzo avuto da Tim.

I carnefici di un gioiello: chi ha ucciso Tim

È vero che la Storia è maestra, ma non ha scolari. Però quella di Telecom impressiona. Nel 1989, il fondo di private equity Kholberg Kravis Roberts & C. (Kkr) acquisì il gruppo RJR Nabisco per la mostruosa cifra di 31 miliardi di dollari. A oggi rimane una delle più grandi operazioni di Leverage buyout della storia. Il termine era noto da anni per indicare le operazioni di acquisto a debito scaricandolo poi sulle società acquistate, ma in Italia tutti finsero di non conoscerlo fino al disastro Telecom dieci anni dopo. La storia fu immortalata dal romanzo Barbari alle porte, la caduta di RJR Nabisco scritto dai giornalisti investigativi Bryan Burrough e John Helyar. L’Ad di Nabisco, F. Ross Johnson, per evitare di dover rispondere agli azionisti di una gestione fallimentare e farsi cacciare, decide di acquistare tutte le azioni Nabisco. Il fondatore e capo di Kkr, Henry Kravis, fiuta l’affare e parte una guerra stellare al rialzo delle azioni che si conclude con la vittoria dei “barbari” di Kkr. Johnson era noto per sprechi ed eccessi di lusso. L’arrivo dei barbari, che lo liquidarono a peso d’oro, fu quindi visto con favore. Due anni dopo, con l’azienda schiacciata dall’enorme debito contratto per la scalata, Kkr vendette le sue quote e la Nabisco nel ’99 finirà in uno spezzatino disastroso.

Il precedente illumina la triste storia di Tim, oggi vittima dell’ennesimo scontro di potere. I vertici sono stati sfiduciati dal primo azionista Vivendi e di fatto anche dal secondo, la Cassa Depositi e Prestiti. In soccorso dell’Ad Luigi Gubitosi è arrivato Kkr, che poco prima di un cda, fissato per venerdì, in cui Gubitosi rischia il posto, ha presentato una “manifestazione di interesse non vincolante e non indicativa” per comprarsi Tim con 11 miliardi e avviare uno “spezzatino” delle attività per estrarre un presunto valore oggi non riconosciuto dal mercato. Per quegli strani giri di potere dei disastri finanziari, a decidere la partita a Palazzo Chigi c’è una delle figure chiave delle privatizzazioni degli anni 90: Mario Draghi.

Il disastro di Tim nasce nel 1997. L’Italia deve entrare nell’euro, ha bisogno di soldi. A gestire la madre di tutte le privatizzazioni c’è Romano Prodi a Palazzo Chigi, Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, dove Draghi è direttore generale. All’epoca, Tim era un gioiello, una delle migliori aziende di Tlc al mondo con tecnologie all’avanguardia. Esisteva la lottizzazione dei partiti ed esistevano le ruberie, ma le aziende pubbliche tutelavano la ricerca, davano servizi e non profitti, che per i boiardi di Stato erano l’ultimo dei pensieri. Il 23 gennaio, i vertici della Telecom statale Biagio Agnes ed Ernesto Pascale vengono convocati al Tesoro da Draghi che gli chiede di dimettersi per favorire l’operazione. L’ordine arriva da Prodi, appoggiato dall’azionista di maggioranza del governo, Massimo D’Alema. “Mi dispiaceva che una persona che aveva servito per così tanti anni il Paese si trovasse davanti solo una porta dell’ascensore”, dirà Draghi di Agnes. La privatizzazione è un disastro. Lo Stato incassa 26 mila miliardi di lire (13 mld di euro), ma invece di conservare il controllo si affida alla soluzione penosa del “nocciolo duro”, un salottino finanziario (Generali, Comit, Credit, Mps, ecc.) che con il 6% delle azioni deve garantire la stabilità. Finisce che Fiat comanda con lo 0,6% delle azioni. “Vennero a profanare Telecom perché non ci capivano niente e mi misero a fianco delle persone assurde”, ha detto l’allora Ad di Tim, Vito Gamberale. Umberto Agnelli impone alla presidenza l’ex Fiat Gian Mario Rossingolo, cacciato dopo soli dieci mesi e una sfilza di flop.

Il disastro avviene nel 1999 con la scalata di Roberto Colaninno attraverso la Olivetti. D’Alema da Palazzo Chigi benedice la “coraggiosa razza padana”, anche se di coraggioso non c’è niente perché non ci mettono soldi. L’ad di Tim, Franco Bernabè, prova a impedire la scalata ma il leader diessino impone al Tesoro di non ostacolare l’operazione. In un burrascoso vertice a Chigi, Draghi pretende che glielo si metta per iscritto. Colaninno e compagnia spendono 30 miliardi, condannando a morte Olivetti mentre il debito di Tim schizza.

Solo due anni dopo la scalata, Colaninno lascia il campo a Marco Tronchetti Provera. Pirelli e compagnia decidono di scalare Telecom passando – tramite la holding Olimpia – per la Olivetti che controlla Tim. In questo modo, con 5,3 miliardi, si prendono un’azienda che quotava in Borsa quasi 70 miliardi. Attraverso il sistema di scatole cinesi, Tronchetti Provera ha guidato Telecom avendo personalmente meno dell’1% del capitale, mentre alla Pirelli l’avventura è costata cara. I debiti di Olivetti vengono fusi con la controllata Tim, e nel 2005 quelli “netti” ammontavano a 39 miliardi. È il leverage buyout, bellezza! Con un simile indebitamento, Tim si è avvitata. Nel 1999 fatturava 27 miliardi di euro, oggi 15; aveva 8 miliardi di debiti netti, oggi 17; è passata da 120 mila a 40 mila dipendenti; gli investimenti sono rimasti fermi. Nel 2007 Tronchetti vende alla cordata formata da Mediobanca, Generali e Intesa, che richiamano Bernabè, costretto ad ammettere che l’azienda “è stata spolpata”.

Da allora è stata una girandola di avvicendamenti finché non si è provato a regalare il colosso in crisi alla spagnola Telefonica, anche qui senza grandi successi. Poi è arrivata la Vivendi di Vincent Bollorè, che ha speso 4 miliardi per prendersi il 23,9% (oggi per oltre metà bruciati) e ingaggiato uno scontro col governo che ha schierato Cdp per aiutare il fondo Usa Elliott a mettere in minoranza i francesi. Sul Fatto, Giorgio Meletti ha calcolato che in poco più di 20 anni Tim ha speso in stipendi e buonuscite ai suoi manager 2-300 milioni. Una sfilza di nomi che fa quasi sorridere se non fosse che sono stati persi 80 mila posti di lavoro: Colaninno, Enrico Bondi, Tronchetti Provera, Riccardo Ruggiero, Carlo Buora, Franco Bernabè, Marco Patuano, Giuseppe Recchi, Amos Ghenis, Arnaud de Puyfontaine, Fulvio Conti e Gubitosi.

La liberalizzazione della telefonia ha ridotto le tariffe privando gli operatori delle risorse per gli investimenti. Se si aggiunge, come con Tim, un debito monstre, la frittata è fatta. È per questo che non era mai avvenuta prima di allora una scalata ostile a un gestore telefonico, peraltro privatizzato con tutta la rete.

Oggi il colosso perde ricavi e si teme una terza revisione dei profitti (profit waring) dopo le due lanciate da Gubitosi da marzo. Con Kkr l’ipotesi originale sarebbe uno “spezzatino” che parta separando la rete Tim dai servizi per darla (con debito ed esuberi annessi) allo Stato per il tramite di Cdp. È, in sostanza, il “piano Rovati” consegnato ai tempi del governo Prodi-2 alla Tim gestione Pirelli, che gridò all’esproprio. Quindici anni dopo, siamo ancora lì, con Vivendi disponibile a trattare, ma senza che nessuno riesca a spiegare perché ora si potrebbe fare.

Boom del titolo. Ma i sindacati sono in allarme

Nonostante il “no” di Vivendi (primo azionista con il 23,75%) e il silenzio di Cassa depositi e prestiti (secondo col 9,81%), Piazza Affari sembra credere all’offerta di Kkr su Tim, per ora solo una “manifestazione d’interesse non vincolante”. Ieri in Borsa il titolo ha segnato un rialzo del 30,25% a 45,1 centesimi, avvicinandosi ai 50,5 offerti dal fondo Usa, con un premio del 46% sulla chiusura di venerdì. Mentre la finanza fa i suoi conti, la politica si schiera e i sindacati richiamano il governo sul futuro di 49mila dipendenti (40mila in Italia), già alle prese con una situazione difficile.

Telecom è da tempo sotto pressione per la guerra al ribasso sui prezzi della telefonia. Nella semestrale chiusa il 28 luglio, nonostante la crescita dei ricavi e il taglio di 3,7 miliardi di debiti a quota 17,4, il margine operativo lordo organico è calato del 3,7%. Secondo l’ultimo rapporto dell’area studi di Mediobanca sulle tlc, nel 2020 Telecom è restato sì il primo operatore italiano per fatturato, con un giro d’affari nazionale di circa 12 miliardi, ma in calo dell’8,4% sul 2019. Quanto al rapporto tra margine industriale e ricavi, Tim con il 13,4% era terza dietro a Wind Tre (17,4%) e BT Italia (16,6%). Dietro questa contrazione c’è la guerra dei prezzi della telefonia, che infuria su fisso, mobile e banda larga in tutta Europa e non risparmia l’Italia. Eurostat a settembre 2020 indicava che negli ultimi 10 anni i prezzi dei servizi Tlc fissi e mobili in Italia sono calati del 32,4% rispetto al -17,7% della media Ue. Secondo l’Autorità per le comunicazioni, la spesa in tlc dei consumatori italiani è scesa nel 2020 a 22,92 miliardi dai 26,27 del 2016 (-12,75%): nel mobile il calo è stato dell’8,2% nell’ultimo anno (-6,9% generale) e del 22,1% dal 2016. La concorrenza cresce: nei prossimi mesi il nuovo operatore Iliad entrerà anche nel mercato fisso, aumentando la pressione. Non mancano i rischi legali: Vodafone e Fastweb chiedono danni per 1,1 miliardi a Tim, dopo che l’Antitrust ha sanzionato per 116 milioni le sue pratiche anticoncorrenziali sulla banda ultralarga. Da qui la lettera con la quale la scorsa settimana i consiglieri hanno di fatto sfiduciato l’amministratore delegato Luigi Gubitosi per lo “stato di deterioramento dei conti” e la decisione di appoggiare Dazn nell’acquisto dei diritti tv della Serie A.

Il quadro non è dei migliori. Ne sa qualcosa Vivendi che deve fare i conti con il divario tra il valore d’acquisto della sua quota e il prezzo di Borsa di Tim: nel bilancio 2020, il 23,75% di Telecom Italia era contabilizzato dai francesi a 3,179 miliardi contro un valore di mercato di 1,374. A ottobre, secondo Credit Suisse, il valore di Borsa era sceso a 1,27 miliardi. Nel calcolo del valore della conglomerata francese, Tim è il quarto asset con il 7,3% del totale. Aderire all’Opa di Kkr costerebbe dunque al gruppo del tycoon francese Vincent Bolloré una perdita secca di 1,7 miliardi. Da qui il “no” all’offerta di Kkr che, a dire di Vivendi, “non riflette il reale valore di Tim” ed è “insufficiente”. La proposta potrebbe essere ritoccata all’insù, perché le ultime acquisizioni nel settore hanno pagato premi medi del 20%, mentre i 50,5 cent offerti sono solo il 7% in più rispetto al massimo dei corsi di Tim nel 2021.

Per esaminare la situazione, l’esecutivo Draghi potrebbe riunire a ore il “super comitato” di ministri ed esperti annunciato domenica. Dopodomani al Copasir il tema sarà sollevato nell’audizione del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Per i deputati M5S “la difesa degli interessi nazionali e dei livelli occupazionali devono essere la priorità”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, boccia “l’operazione finanziaria che rischia di portare allo spezzatino una realtà così importante”, mentre il dem Graziano Delrio chiede al governo di “difendere il diritto dei cittadini alla rete”. I sindacati sono in allarme: la riorganizzazione di Tim potrebbe costare oltre diecimila posti di lavoro. Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom chiedono che “il governo prenda una posizione urgente e chiara che preservi le infrastrutture del Paese”. Venerdì si svolgerà il cda che deciderà il futuro di Gubitosi.

Fu consulente nel caso della discarica ligure: indagato l’ex Pd oggi lobbista

Società riconducibili all’imprenditore napoletano Pietro Colucci, patron di “Waste”, hanno sostenuto con oltre 150mila euro il “Comitato Change” e il “Comitato Giovanni Toti Liguria”. Negli stessi anni, dalla Regione Liguria è passato l’allargamento delle due discariche gestite dal gruppo Colucci a Vado Ligure, Boscaccio e Bossarino. Su quelle donazioni la Procura di Genova indaga per finanziamento illecito. Ma c’è un altro flusso di denaro che interessa i pm, stavolta di Savona: 316mila euro pagati dalle società di Colucci a Massimo Zunino, ex deputato in tre legislature di Ds e Pd.

Nel 2014, appena cessata la carica parlamentare, Zunino è nominato dal governo Renzi Ad di “Mistral Air”, compagnia aerea di Poste italiane. Subito dopo apre una “società di lobbying”, la “Nenets srl”, foraggiata in modo generoso dalle aziende di Colucci: 145.200 euro da “Waste Italia Spa”; 73.200 da “Ecosavona srl”; 97.600 Green Up srl. Per la Guardia di Finanza di Cairo Montenotte, coordinata dal procuratore Ubaldo Pelosi e dal pm Massimiliano Bolla, si tratta di fatture per operazioni inesistenti. E questo è uno dei reati contestati a Zunino. Con lui è indagato Flavio Raimondo, uomo di fiducia di Colucci, amministratore di “Ecosavona” e “Green up srl” (società che gestiscono le discariche del Boscaccio e di Bossarino). Raimondo è accusato di estorsione perché avrebbe costretto un imprenditore del settore trasformazione rifiuti, Claudio Busca, ex titolare della “Fg Riciclaggi” e “Ferrania Ecologia” (oggi acquisite dal gruppo Iren), a versare 35mila euro per continuare a conferire nel sito del Boscaccio. Parte di quei soldi, 10mila euro, per i pm erano destinati a Zunino.

L’ex deputato, difeso dall’avvocato Fausto Mazzitelli, sostiene sia tutto legittimo. Quelle consulenze, in ogni caso, potrebbero configurare un conflitto di interessi: Zunino è presidente di “Sat srl”, municipalizzata dell’hinterland savonese che conferisce rifiuti nelle discariche di Colucci; “Sat”, inoltre, è socia del gruppo Colucci, dopo l’acquisizione del 25% di quote della “Ecosavona”, possedute fino al 2018 dal Comune di Vado Ligure. La cogestione dei rifiuti con Colucci, peraltro, potrebbe aver arrecato al comune di Vado un danno da 4 milioni, assorbiti dalla crisi finanziaria di “Waste”, ipotesi su cui indaga la Corte dei Conti. Di recente Sat, in associazione alla multiutility “Iren”, ha presentato un’offerta per allargarsi alla raccolta dei rifiuti della città di Savona, mossa che la trasformerebbe in un colosso da 80 milioni di euro di fatturato. Le notizie sull’offerta sono state diffuse dagli amministratori di “Sat” a buste ancora aperte e i pm di Savona ora indagano anche per turbativa d’asta.

Zunino era stato nominato presidente di “Sat” nel 2018, con decreto firmato dal sindaco di Vado Ligure Monica Giuliano, rieletta nel 2019 con il Pd e passata con un colpo di scena a “Cambiamo”, il partito di Toti, sostenuto alle regionali del 2020. Il cda di “Sat” ha rinnovato la fiducia a Zunino anche dopo la notizia dell’avviso di garanzia. L’ex deputato è indagato anche per peculato: sotto la lente c’è un viaggio a Roma insieme a Giuliano, fatto pagare a “Sat”. Quel giorno, per gli inquirenti, Zunino ha partecipato a una riunione di ex parlamentari a difesa del vitalizio. Non è un mistero che Zunino e Giuliano siano molto vicini, al punto che sono in molti a chiedersi se l’ex parlamentare abbia avuto un ruolo nel passaggio della sindaca al centrodestra.

Energia, rifiuti, navi, sanità. Ecco chi ha finanziato Toti

“Non siamo a conoscenza diretta di alcuna indagine, né risultano indagati”. Così ieri lo staff di Giovanni Toti, governatore della Liguria e fondatore di Coraggio Italia, ha commentato gli articoli con cui Il Fatto Quotidiano e Domani hanno dato conto dell’acquisizione di documenti ordinata dalla Procura di Genova nei confronti di tre aziende – Moby di Vincenzo Onorato, Europam della famiglia Costantino, Waste Italia di Pietro Colucci – che negli ultimi anni hanno finanziato il Comitato Change e il Comitato Giovanni Toti Liguria. “I finanziamenti di cui si parla – ha ribadito lo staff di Toti – sono tutti regolarmente registrati nei termini di legge”. L’inchiesta della Procura di Genova per finanziamento illecito, come scritto ieri da Il Fatto, è al momento a carico di ignoti. Le acquisizioni di documenti effettuate dalla Guardia di finanza non mettono in dubbio il fatto che le donazioni siano state registrate nei bilanci dei comitati legati a Toti. L’obiettivo degli inquirenti è capire se quelle erogazioni liberali sono state approvate dai cda delle aziende: un passaggio indispensabile per evitare l’accusa di finanziamento illecito.

Dal 2016 al 2021 i due comitati hanno incassato da privati oltre 2 milioni di euro. Nella classifica dei maggiori finanziatori, le imprese a cui ha fatto visita la finanza nel marzo scorso stanno tutte sul podio. La più generosa è stata la famiglia Costantino, proprietaria di Europam e Black Oils, con 184.500 euro donati. Basato a Genova, il gruppo spazia dalle forniture di gas e luce alle pompe di benzina, con 250 impianti di rifornimento in Italia, buona parte dei quali in Liguria. Poco meno – circa 150 mila euro – è stato regalato da varie imprese che fanno capo a Pietro Colucci, imprenditore napoletano del settore rifiuti ed energia, che in Liguria gestisce due discariche recentemente ampliate grazie all’ok della regione. Medaglia di bronzo all’armatore Vincenzo Onorato, re dei traghetti italiani grazie al controllo di Moby, Tirrenia e Toremar: il suo contributo al Comitato Change è stato di 100mila euro. Ma la lista dei sostenitori economici del governatore ligure è molto più lunga. Il nome più noto è quello di Gianluigi Aponte. Patron del gruppo internazionale Msc, ha donato ai comitati di Toti 60mila euro: 10mila attraverso la società Agenzia Marittima Le Navi, gli altri 50mila mediante il Gruppo Messina, di cui Msc è co-proprietaria. A Genova Aponte ha molti interessi. Msc e Ignazio Messina hanno in concessione due terminal nel porto di Genova e uno a La Spezia. In più, l’anno scorso un’altra delle sue società, Gnv, ha ottenuto 1,2 milioni di euro dalla Regione per utilizzare, da metà marzo alla fine di aprile, un traghetto della compagnia come ospedale galleggiante per i positivi al Covid. Caso su cui c’è l’attenzione della Corte dei Conti.

Sotto Aponte, con 50mila euro, si piazza la Aep Costruzioni, azienda che ha già realizzato la prima storica Esselunga della Liguria, nel quartiere genovese di Albaro, e ad aprile di quest’anno ha ottenuto l’ok dalla giunta regionale al rilascio dell’autorizzazione per costruire in città il secondo ipermercato del gruppo milanese. A questo via libera è seguito tre mesi dopo anche da quello del Comune di Genova guidato da Marco Bucci, che ha approvato il progetto con una contestatissima variante urbanistica, riapprovata dopo un primo annullamento del Tar. Altri 35mila euro sono arrivati al Comitato Change nell’autunno del 2016 da due società del gruppo Gavio: Autoservice24 e Terminal San Giorgio Srl. Quest’ultima nel 2019 ha ottenuto, senza gara, la concessione a operare in uno scalo del porto di Genova per 13 anni, con l’impegno di investire oltre 20 milioni di euro. A finanziare i comitati legati a Toti è stata anche la Pellegrini Spa, gruppo della ristorazione aziendale. Il 21 luglio 2020 la società ha versato 30mila euro al Comitato Giovanni Toti Liguria. Due giorni più tardi ha annunciato l’acquisto della Industrial Food Mense, azienda che in Liguria fornisce diverse aziende a controllo pubblico. Tra gli sponsor di Toti, con 40mila euro erogati dalla Spinelli srl, c’è anche l’imprenditore portuale Aldo Spinelli, ex presidente del Genoa calcio e poi del Livorno. Con 30mila euro spicca il nome della San Lorenzo Spa, una delle società navali interessate al progetto Miglio Blu, a La Spezia: un investimento da 4 milioni di euro che prevede la creazione di un distretto nautico e una riqualificazione urbana. Diecimila euro di donazioni sono arrivati da Villa Montallegro Spa, realtà sanitaria privata che negli ultimi mesi ha partecipato alla campagna vaccinale ligure.

Come detto, Toti continua a ripetere che è tutto regolare. Intanto l’inchiesta della Procura di Genova va avanti e provoca reazioni. “L’uso di fondazioni e comitati per finanziare l’attività politica del Presidente e dei suoi fedelissimi – ha scritto ieri Luca Garibaldi, capogruppo in Regione Liguria del Partito democratico-Articolo Uno – è un tema che pone preoccupazione su potenziali conflitti di interesse. Sono necessari chiarimenti a livello politico”. Così Ferruccio Sansa, candidato governatore del centrosinistra alle ultime elezioni: “Sul conflitto di interessi chiediamo trasparenza e chiarezza, soprattutto in settori che hanno finanziato la campagna elettorale come la sanità privata e la grande distribuzione”.

Iv vuole il Sud (e inizia da Reggio)

In due giorni, Matteo Renzi ha lanciato l’opa di Italia Viva sul Sud Italia. Dalla Leopolda ha annunciato la candidatura del capogruppo di Iv in Senato, Davide Faraone, a sindaco di Palermo con l’appoggio – più o meno manifesto – di Gianfranco Miccichè e Totò Cuffaro. Nelle stesse ore, a Reggio Calabria, i renziani hanno ottenuto le chiavi della città dopo la sospensione del sindaco dem Giuseppe Falcomatà per la condanna in primo grado a un anno e 4 mesi: a guidarla sarà il suo vice Paolo Brunetti di Iv. Mosse che stanno provocando il caos nei partiti che sono stati tagliati fuori dalle due operazioni.

In Sicilia, Renzi ha spiegato che “non c’è un patto con Miccichè” sulla candidatura di Faraone, ma fonti di Forza Italia, pur non sbilanciandosi sull’operazione, spiegano che l’annuncio arriva un mese dopo l’ormai celebre cena a Firenze tra Renzi e Miccichè, con la benedizione di Marcello Dell’Utri, che ha portato alla nascita del gruppo unico “Forza Italia Viva” in Regione. Alla cena si è parlato anche della candidatura di Faraone, che piace a Totò Cuffaro. Quest’ultimo, dopo aver scontato una condanna a 7 anni per favoreggiamento alla mafia, è tornato in campo riesumando la Dc alle Comunali. La candidatura di Faraone, però, sta spaccando il centrodestra: Lega e FdI minacciano di rompere con i berlusconiani se dovessero accettare il nome del capogruppo di Italia Viva. Il segretario provinciale del Carroccio, Vincenzo Figuccia, lo ha detto chiaramente: “Faraone è una brutta copia di Orlando, con questa gente Palermo è divenuta una grande periferia di marginalità”. La rottura con Lega e FdI potrebbe dare il via alla prima alleanza strutturale tra Iv e FI. Ma la candidatura di Faraone sta provocando anche malumori tra i renziani in Sicilia: “Bisogna azzerare le candidature e discutere” ha detto il consigliere all’Ars, Edi Tamajo. Zittito subito dai compagni di partito: “Tamajo è mister caos”.

Nel frattempo uno scontro fratricida tra Iv e Pd si sta consumando al di là dello Stretto, a Reggio Calabria. Dopo la sospensione causa legge Severino, Falcomatà ha deciso che sarà Brunetti, renziano e assessore all’Ambiente, a prendere il suo posto e non il vicesindaco Antonino Perna. Questo mentre da Firenze Renzi attaccava a testa bassa il Pd parlando di “partito grillino”. Falcomatà inoltre non ha coinvolto il Nazareno. Uno smacco quasi imperdonabile per i dem, visto che proprio nelle stesse ore anche la città metropolitana è stata persa: la guida andrà al consigliere di Azione, Carmelo Versace. Dopo la mossa di Falcomatà, però, è arrivata la reazione del Pd: “Non puoi fare quello che vuoi – gli ha detto Francesco Boccia, responsabile Enti locali dem – Vedremo se sostenere ancora la tua giunta”.

Renzi è già a Dubai: parla del “governo del futuro”

Matteo Renzi non si ferma mai, almeno come conferenziere. Giusto il tempo di chiudere la Leopolda e appena prima di presentarsi in Giunta per le Immunità al Senato, dove parlerà dell’indagine su Open, l’ex premier è atteso oggi a Dubai per l’ennesima conferenza, proprio a due passi dai padiglioni dell’Expo.

Il titolo del panel è ambizioso: “Il governo del futuro. Una roadmap per la prosperità globale”. Nulla che spaventi il senatore semplice di Rignano, che stando al programma dovrebbe partecipare al dibattito in presenza. D’altra parte negli Emirati Arabi Renzi si muove ormai con disinvoltura: a marzo La Stampa pubblicò la notizia di un viaggio a Dubai da cui il senatore sarebbe tornato insieme all’amico Marco Carrai (Renzi ha annunciato querela nei confronti del quotidiano), mentre un mese fa Report ha svelato un viaggio negli Emirati risalente al novembre 2020. Adesso però il momento è ideale, visto il fiorire di eventi e l’alto afflusso di politici e imprenditori di tutto il mondo favorito proprio da Expo.

A invitare Renzi questa volta è il Gmis, acronimo di Global Manufacturing and Industrialisation Summit, una kermesse organizzata da Unido (l’agenzia dell’Onu che si occupa di Sviluppo industriale) e il governo degli Emirati, attraverso il Ministero dell’Industria e della tecnologia avanzata. A meno di imprevisti – un paio di settimane fa, al Global Baku Forum, il suo intervento era saltato all’ultimo minuto – Renzi parlerà questa mattina. Insieme a lui, il presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, Abdulla Shahid, e l’ex primo ministro francese, Dominique de Villepin, ormai da anni senza incarichi politici e dedito a conferenze in giro per il mondo.

Interpellato dal Fatto, lo staff del Gmis esclude che per Renzi siano previsti gettoni di presenza: “Non è nello spirito dell’evento, l’organizzazione si occupa solo di coprire le spese di viaggio e di alloggio a Dubai”. Ma la cornice garantisce comunque prestigio agli ospiti, che poi possono approfittare del parterre (ieri il Summit è stato inaugurato da John Kerry, inviato speciale per il clima del governo Usa ed ex candidato presidente dei Democratici) per fare rete con investitori, colleghi e analisti. Soprattutto in questi giorni cruciali per l’Italia, che tra oggi e domani nel proprio padiglione celebrerà lo “Sport Day” e il “National Day”, con una serie di eventi per promuovere personalità e aziende del nostro Paese. Alla presenza, tra gli altri, del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il cui staff conferma che per l’organizzazione della trasferta negli Emirati non c’è stato alcun contatto con Renzi, invitato in autonomia dal Summit. E infatti anche dagli uffici di Expo negano di aver notizie di eventuali tappe dell’ex premier tra i padiglioni. Un po di Italia c’è però tra i “partner” del Gmis: il sito della kermesse segnala la collaborazione con Farmindustria, l’associazione delle imprese del farmaco che fa riferimento a Confindustria. In questi giorni l’unione degli industriali è impegnatissima a Dubai e conferma che nelle prossime ore sarà siglata un’intesa con Gmis, negando invece ogni coinvolgimento nella scelta degli speaker, Renzi compreso, né di avere in programma incontri di suoi rappresentanti con l’ex premier. Il quale ieri, nella sua e-news, ha riproposto il solito mantra: “Continuerò a fare conferenze finché sarà consentito dalla legge. E, sinceramente, mi sfugge il motivo per il quale dovrebbe essere proibito”.