Spiagge, nuove regole nella legge di Bilancio: trattativa con la Lega per tutelare i “piccoli”

Il governo non aspetterà il 2022 per regolare il settore delle concessioni balneari. Dopo la sentenza del Consiglio di Stato del 9 novembre che ha imposto il ritorno alla libera concorrenza delle spiagge dal 1º gennaio 2024, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dato mandato ai suoi consiglieri Francesco Giavazzi e Marco D’Alberti di scrivere una norma da inserire nel maxi-emendamento alla legge di Bilancio in discussione al Senato. Obiettivo: intervenire prima per far sì che, come hanno stabilito i giudici amministrativi, il settore delle spiagge sia aperto alle regole della concorrenza. E stoppare la procedura d’infrazione che l’Unione europea ha aperto contro l’Italia nel dicembre 2020. Una questione politicamente molto delicata visto che la Lega di Matteo Salvini si è subito schierata a favore della proroga e contro la direttiva europea Bolkestein che chiede il ritorno alla libera concorrenza. “Spiagge e mercati italiani non sono in svendita – era stata la reazione stizzita del leader della Lega dopo la sentenza del Consiglio di Stato – i burocrati di Bruxelles si rassegnino”. Così, dopo un’interlocuzione con il ministro leghista Massimo Garavaglia e con Claudio Durigon, i tecnici di Palazzo Chigi si sono messi a scrivere la norma. Un testo ancora non c’è ma arriverà nelle prossime ore. Il principio che ispirerà l’emendamento però è chiaro: tutelare i piccoli imprenditori balneari che non potrebbero nulla di fronte a grandi gruppi in grado di avere la meglio sul mercato. La norma quindi dovrebbe favorire le imprese familiari con pochi dipendenti e terrà conto degli investimenti fatti dall’azienda negli ultimi anni. Bisognerà capire se andrà anche a vantaggio del Papeete Beach tanto caro a Salvini e di proprietà dell’europarlamentare leghista Massimo Casanova. Quale sarà, alla fine, il meccanismo tecnico per premiare le piccole imprese non è ancora chiaro ma la direzione è segnata. Una soluzione di compromesso che potrebbe accontentare la Lega e Forza Italia mentre il M5S vorrebbe andare verso una liberalizzazione totale del settore. La partita delle spiagge ha creato anche una spaccatura all’interno del Carroccio, già vista nelle ultime settimane: il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, era favorevole alla liberalizzazione delle spiagge, Salvini fortemente contrario.

In Germania si seleziona chi dev’essere curato e chi no

Dopo aver letto i dati delle nuove infezioni, il ministro tedesco della Sanità, Jens Spahn, è stato tragico: “Entro la fine di questo inverno in Germania saranno tutti vaccinati, guariti o morti”. Le terapie intensive non riescono più a gestire i ricoveri. Già dalla scorsa settimana alcuni malati della Baviera vengono inviati in Tirolo. In Sassonia, dove l’incidenza tocca punte di mille infetti ogni 100mila abitanti, il governo del Land sta preparando gli ospedali ad agire in modalità d’emergenza. Erik Bodendieck, presidente dell’Ordine regionale dei medici, ha detto che i presidi sanitari opereranno in “situazione di triage”: verranno selezionati i pazienti in base alle possibilità di riuscita nelle cure. La settimana scorsa il governo federale ha approvato una serie di misure per fronteggiare la quarta ondata: non verrà esteso lo stato di emergenza che scade questa settimana.

Angela Merkel lascerà la cancelleria tra poche settimane, forse meno di due. Davanti al direttivo della Cdu, il suo partito, ha detto che le misure anti-Covid “non sono sufficienti”. Le restrizioni in atto colpiscono i non vaccinati, ma Merkel è convinta che “non basta neanche la regola 2G (vaccinati o guariti)” per la gestione della vita sociale. In Germania il tasso di vaccinazione è tra i più bassi di tutta l’Europa, solo il 68% della popolazione ha ricevuto due dosi. Dopo Baviera e Sassonia il confinamento per i non vaccinati sembra concreto in molte regioni. Ma a Berlino si parla con insistenza di obbligo vaccinale, anche se sarebbe una misura duramente criticata dalla popolazione. E il ministro Spahn avverte: “Come ministro uscente dico che se la maggioranza che si sta formando ci chiede di preparare un apposito disegno di legge noi lo faremo”. Il picco della curva potrebbe arrivare la prima settimana di dicembre, proprio nei giorni in cui Olaf Scholz diventerà cancelliere.

Allarme terapie intensive 3mila posti non esistono

“Siamo in piena quarta ondata. Con queste cifre e con questa tendenza preoccupante, che cade nel periodo autunnale e invernale, nel giro di un mese il sistema delle terapie intensive rischia l’intasamento”, avverte Antonino Giarratano, presidente della Siaarti, la società scientifica degli anestesisti rianimatori. E preme sulle vaccinazioni, in particolare le terze dosi per i più fragili ma anche quelle antinfluenzali: “Molti degli 8.000 pazienti cronici riacutizzati che muoiono ogni anno di influenza – spiega Giarratano – passano per le terapie intensive, creando un picco tra novembre e gennaio che c’è sempre stato. Un soggetto fragile anche per un raffreddore rischia la terapia intensiva. Poi ci sono i politraumi, specie stradali, perché oggi è tutto aperto. A differenza dell’autunno-inverno scorso abbiamo anche il ‘non Covid’. Con il Covid l’effetto somma diventa devastante”. Anzi, si dovrebbe recuperare anche un gran numero di interventi chirurgici saltati per il Covid.

Oggi ci sono 549 pazienti Covid in terapia intensiva, potrebbero raddoppiare in un mese, ma sarebbero sempre meno dei 4.000 della prima ondata o dei 3.800 della seconda. “Ma mille ricoveri – chiarisce Giarratano – impegnano duemila posti, perché la terapia intensiva una volta che è Covid non si può utilizzare per altri. Sette pazienti possono occupare un reparto di 16 letti. Chiediamo che si faccia qualcosa oggi perché abbia effetto prima di Natale”.

Sul sito dell’Agenas, l’agenzia del ministero della Salute per i servizi sanitari regionali, si legge che in Italia abbiamo 9.044 letti di terapia intensiva. Ovvero 15,2 ogni 100 mila abitanti, più dei 14 indicati dal decreto rilancio dopo che la prima ondata ci aveva sorpreso con appena 5.100 letti, cioè 8,5 per 100 mila. I 9.044 posti, però, sono solo “attivabili in caso d’emergenza”, come nel 2020 quando trasformarono unità coronariche e sale operatorie in rianimazioni e la gente moriva a casa di infarto e di ictus. Secondo il rapporto della Corte dei conti sulla finanza pubblica, su 3.500 nuovi letti di terapia intensiva previsti (prima entro il 2022 e ora entro il 2026), le Regioni ne hanno attivati 922 al maggio 2021. “Non ci risultano grandi aumenti ulteriori”, osserva Alessandro Vergallo, presidente del sindacato degli anestesisti rianimatori Aaeroi-Emac. Ma comunque non ci sarebbe personale specializzato a sufficienza.

Le percentuali di occupazione dei reparti, però, quelle che determinano zone gialle e zone arancioni, si calcolano sui 9.044. “Abbiamo sempre chiesto di calcolarle sui posti veri”, ricorda Vergallo. Il 20% che porta all’arancione (la gialla è poca cosa) corrisponderebbe, su scala nazionale, a 1.800 ricoveri. Cioè un disastro. Molise, Calabria, Umbria, Puglia, Sardegna e Campania sono sotto i 14/100 mila anche considerando i posti “attivabili”. Secondo fonti qualificate solo Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Lazio e Toscana hanno terapie intensive sufficienti per un’eventuale impennata Covid.

A Vergallo non dispiacerebbe calcolare i ricoveri sugli abitanti, come in Germania. Giarratano invece ipotizza chiusure nelle zone con meno vaccinati. “Il 20% – ragiona Vergallo – era il limite che anche noi ritenevamo il massimo tollerabile per poter curare Covid e non Covid, tenuto conto che al raggiungimento del 20% la percentuale continua a salire per altre due settimane. Con il passare dei mesi, però, a parità di occupazione dei letti causa Covid, aumentano i ritardi per le patologie non Covid. Il 20% Covid sarà sempre meno sostenibile”. Figuriamoci, poi, se calcolato su letti che non esistono.

Medici e infermieri non vaccinati sospesi: uno su 5 fa ricorso

Iprimi di settembre gli operatori sanitari che non si erano ancora vaccinati, nonostante l’obbligo per la categoria previsto dal decreto legge 44, erano il 2,1% del totale, concentrati soprattutto in Sicilia, Emilia-Romagna, Puglia, Friuli-Venezia Giulia. Medici, infermieri. Poi psicologi, fisioterapisti, tecnici di radiologia, operatori sociosanitari. Professionisti per i quali è praticamente scontato, ormai, che scatterà l’obbligo di fare anche la terza dose, il cosiddetto booster.

Obbligo finora non previsto che il governo sembra ormai fermamente intenzionato a introdurre. Ma quanti sono oggi gli irriducibili, coloro che nonostante le sospensioni decise dalle aziende sanitarie e dagli ordini professionali di appartenenza continuano a opporsi al vaccino? I medici sanzionati erano all’inizio 2.365. Poi quasi il 26%, di fronte alla prospettiva di perdere lavoro e stipendio, di non poter più esercitare la professione, ha fatto dietrofront. Sono rimasti in 1.767 (su un totale, va detto, di 468 mila). Numeri ai quali vanno aggiunti quelli relativi agli infermieri. Ne sono stati sospesi 3.800, come confermato dalla Fnopi, la federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. Anche tra loro ci sono state retromarce. Prima, infatti, erano di più. Poi uno su quattro ha cambiato idea.

In tutto, quindi, tra medici e infermieri, le sospensioni oggi riguardano 5.567 operatori. Ma non tutti hanno presentato ricorso al Tar della regione di appartenenza. Anzi. Poco più di un migliaio ha scelto di opporsi alla sospensione rivolgendosi ai giudici amministrativi. In pratica circa uno su cinque, a fronte degli oltre tremila ricorsi inoltrati complessivamente da tutti i lavoratori della sanità che rifiutano la vaccinazione. Del resto, finora, nessun giudice ha accolto le loro istanze. C’è chi, come il Tar della Liguria, respingendo il ricorso di oltre 400 sanitari, ha stabilito che a pronunciarsi deve essere il giudice ordinario. Chi, come quello della Sardegna, ha detto che deve prevalere la tutela della salute pubblica. Poi è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato, che respingendo l’appello presentato da alcuni medici, paramedici, farmacisti del Friuli-Venezia Giulia, ha decretato che l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario è legittimo. Sentenza del 20 ottobre.

“La storia ci insegna che l’obbligo vaccinale non è affatto una novità, ora dovremo fare tutti una riflessione sull’opportunità di rendere obbligatorio per tutti il vaccino contro il Covid”, dice Giovanni Leoni, vicepresidente della Fnomceo, la Federazione degli ordini dei medici. Non pochi tra i medici che si sono visti respingere il ricorso o che hanno rinunciato in partenza a ricorrere al Tar adesso se ne stanno andando. Lasciano l’Italia, cercano di trovare un’altra collocazione all’estero, in Paesi dove non vige l’obbligo per i sanitari. “Molti vanno in Bulgaria o in Albania”, spiega Vitto Claut, che in Friuli-Venezia Giulia assiste un medico e un infermiere che dopo aver perso la loro battaglia davanti al Tar si sono rivolti al Consiglio di Stato. Poi, questa storia ha anche l’altra faccia della medaglia: ospedali che restano sguarniti. Proprio come quello di Pordenone, dove l’azienda sanitaria è stata costretta a chiudere dei reparti. Perché qui dei sanitari no vax, tra medici, infermieri, oss, se ne contano ben 421.

Le Regioni insistono: limitazioni ai No vax. Draghi pronto a cedere

Quando alle 18 il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, mandato da Mario Draghi, incontra i governatori a Palazzo Chigi, la decisione è già quasi presa, anche se ufficialmente il premier sta ancora “riflettendo”: nel nuovo decreto, che sarà approvato mercoledì sera o al più tardi giovedì, dovrebbe arrivare la stretta per i cittadini non vaccinati. Quello che viene chiamato il “Super Green pass”. La logica è quella del doppio binario: uno per i cittadini vaccinati e/o guariti, uno per chi invece ha preferito non immunizzarsi. Il governo si prende ancora qualche ora, ma a questo punto le ulteriori misure sono ritenute inevitabili. “Perdere tempo significa mettere a rischio i prossimi mesi” spiega un ministro. La decisione dovrebbe arrivare già nella cabina di regia di domani e poi nel Cdm di giovedì anche se prima ci sarà un nuovo confronto con le Regioni. Il meccanismo allo studio dei tecnici di Palazzo Chigi prevederà che, quando scatteranno le fasce arancioni e rosse, i vaccinati saranno premiati rispetto agli altri: chi non è immunizzato non potrà più accedere a bar, ristoranti, palestre, cinema, teatri dove il rischio contagi è più alto. Il tampone non basterà più, servirà solo per lavorare.

È stata questa la richiesta dei presidenti di Regione rappresentati dal leghista Massimiliano Fedriga e questa è l’intenzione del governo. Escludendo quelli di Fratelli d’Italia, i governatori sono stati compatti nel chiedere restrizioni solo per i non vaccinati: l’appello è arrivato soprattutto da Attilio Fontana (Lombardia) e Giovanni Toti (Liguria). La stretta arriverà con ogni probabilità subito, anche se potrebbe essere rimandata di una settimana. Il premier è piuttosto scettico su nuove restrizioni, ma i contagi continuano ad aumentare e quel che accade nel resto d’Europa è un monito.

Durante la riunione con i governatori il ministro della Salute Roberto Speranza, coadiuvato dalla titolare degli Affari Regionali Mariastella Gelmini, ha anche annunciato che la terza dose sarà somministrata dopo 5 mesi dopo il via libera dell’Aifa. “La dose di richiamo è cruciale per proteggere meglio noi e chi ci sta accanto. Vacciniamoci tutti per essere più forti”, ha scritto Speranza in un post su Facebook. Inoltre il governo ha già deciso di estendere il booster di vaccino per gli over 18 a partire dal prossimo 15 dicembre. Nel decreto di giovedì sarà introdotto l’obbligo della terza dose per il personale sanitario e la validità del Green pass sarà ridotta da 12 a 9 mesi. Nel prossimo futuro, l’obbligo di terza dose potrebbe essere esteso anche al personale scolastico. Mentre le Regioni vorrebbero anche ridurre nuovamente la capienza degli stadi.

Palazzo Chigi in questa fase della pandemia è su una linea meno rigorista sia di quella del ministero della Salute, che del Cts. Tanto è vero che sulla proroga dello stato di emergenza non ha ancora deciso. Va detto che il picco dei contagi è atteso tra dicembre e gennaio, con circa 35 mila casi a Natale. Tanto che si ricomincia a parlare di festività piene di restrizioni. Per quel che riguarda il versante politico, la fase fa registrare una somma di debolezze. Draghi per arrivare al Quirinale deve ottenere i voti di tutti i partiti e questo pesa anche nella gestione dell’emergenza. Matteo Salvini si trova più allineato ai governatori. Ieri ha visto Zaia e Fontana e hanno concordato la linea: “Evitare chiusure e paure” ma sì “a soluzioni di buonsenso”. Un’apertura. Su un punto il leghista è fermo: niente Green pass obbligatorio per i bambini sotto i 12 anni. Questa mattina lo dirà ai governatori in videoconferenza. In generale, il governo arranca visto che l’avvicinarsi del voto per il Quirinale moltiplica segnali, avvertimenti, ricatti.

Alto Adige Coprifuoco 20.00-5 bar, ristoranti chiusi alle 18

Nella penisola, però, c’è già chi comincia a chiudere. In Alto Adige, con l’ordinanza del governatore Arno Kompatscher, chiudono le discoteche e tornano le mascherine all’aperto, sui mezzi pubblici va indossata la Ffp2. Nei comuni “rossi” bar e ristoranti devono chiudere alle 18 e scatta il coprifuoco dalle 20 alle 5 del mattino. Chiudono anche teatri e cinema e sono sospese le prove. Obbligo Ffp2 nei negozi.

Una domanda a Draghi

Spiace disturbare il premier Draghi, che ha già il suo daffare. Ma quella che gli sottoponiamo non è una vicenda minore, anche se forse gli è sfuggita perchè la grande stampa – al solito – non ha scritto una riga. Riguarda il suo capo di gabinetto Antonio Funiciello, da lui nominato il 12 aprile con un atto che lo richiamava a perseguire “unicamente finalità di interesse generale”. Draghi allora non poteva sapere ciò che è poi emerso dagli atti dell’inchiesta Open, in cui Funiciello è ripetutamente citato nelle sue precedenti vesti di turborenziano e capo di gabinetto del premier Paolo Gentiloni (2016-’18). Carte che dimostrano come il Funiciello interpretasse le “finalità di interesse generale” a cui era ed è tenuto: come finalità di interesse privato per favorire, nella legge di Bilancio del 2017, due lobby – British American Tobacco e gruppo Toto – che finanziavano Open. Il pr di Bat Gianluca Ansalone lo attivò per far cancellare, prima al Senato poi alla Camera, un emendamento che aumentava le tasse sulle sigarette. Funiciello obbedì, informandolo via via dei progressi: “Ok, cerco di capire”, “Sono già all’opera, complicato però”, “Non ancora chiusa, ma bene”, “In via di rassicurazione”. A missione compiuta, il lobbista lo ringraziò sia per la sparizione dell’emendamento al Senato (“Un grazie non formale per aver condiviso merito e contenuto delle nostre preoccupazioni. Abbiamo evitato una cosa molto pericolosa”) sia alla Camera (“Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo. Ti voglio ringraziare sinceramente per il tuo ascolto e il supporto”).

Lo stesso avvenne con Alfonso Toto, ceo del gruppo autostradale abruzzese e concessionario dello Stato, che si scrisse un emendamento, poi lo fece presentare e approvare dagli amici renziani: un aiutino da decine di milioni che passò – scrive la Gdf – per l’“interessamento di Boschi, attivata da D’Alfonso, e del capo gabinetto… Funiciello”. Toto scrisse a D’Alfonso com’era andata: “Sono stato da Funiciello e Canalini (la segretaria, ndr) che hanno lavorato ventre a terra avendo compreso la drammaticità della ns infrastruttura”. Essendo ben nota la sua correttezza, siamo certi che mai Draghi, se avesse saputo queste cose quando un amico (Gentiloni?) gli segnalò Funiciello, l’avrebbe scelto come capo di gabinetto. Ma ora le sa e il Fatto gli domanda se quelle marchette siano compatibili con le “finalità di interesse generale” che gli aveva prescritto. Per ruoli e condotte meno rilevanti, ha già meritoriamente rimosso o degradato personaggi imbarazzanti come Durigon, Tabacci, Farina e De Pasquale. Quando dirà e farà qualcosa su Funiciello?

Inedito compagno Prévert: crudele, quasi felice

Era difficile incontrare Jacques Prévert senza la sua cigarette in bocca. “Il fumo non è un vizio – confessava sornione – ma un piacere”. Le volute del fumo, così fluttuanti e morbide che fortificavano la sua figura di eterno ragazzo un po’ timido, gli erano anche d’ispirazione per trovare le parole, anch’esse fluttuanti e morbide delle sue poesie eterne. Non è perciò difficile immaginare che sul grande tavolo da lavoro nel suo studio dietro il Moulin Rouge, zeppo di libri e con alle pareti disegni degli amici Miró e Picasso, i fogli vergati dalla sua grafia tondeggiante con poesie immortali come I ragazzi che si amano (che “si baciano in piedi/Contro le porte della notte”) o Questo amore (sì, quello “Bello come il giorno/ Cattivo come il tempo/ Quando il tempo è cattivo”) siano impregnati di piacere, di fumo, di vita. Del resto, non amava che lo si definisse poeta – posto che per lui ogni sognatore era di per sé un poeta – ma preferiva proclamarsi ironicamente un artigiano della parola che scriveva della vita per procurarsi e procurare piacere.

Prima, infatti, del grande poeta nazionale – il suo esordio con la silloge Parole, che lo aureola nell’immediato al successo popolare, risale al 1946 –, prima dunque che i suoi versi finissero sui muri delle città o in bigliettini dentro l’incarto di certi cioccolatini, Jacques si dedicò alla scrittura in modo totale già da giovane. Meno nota, almeno rispetto alle liriche o all’impegno nel cinema, è la produzione teatrale di Prévert. Ed esce oggi per le meritevoli Edizioni Primavera Piccole pièce, una raccolta di cinque testi inediti che si leggono in un unico piano sequenza come fossero cinque racconti perfetti. Il titolo occhieggia al fatto si tratti di teatro per ragazzi, ma basta leggere queste fulminanti e crudeli scene (nella luminosa traduzione di Gabriella Bosco) per ritrovare gli elementi che rendono Prévert così riconoscibile quale cantore d’amore, certo, ma anche di rabbia e disperazione.

Anarchico, anticlericale, maledetto alla maniera novecentesca, bohémien sui generis, nelle sue parole fu capace di cogliere la malora del suo tempo. Jacques, infatti, dopo l’avventura surrealista – quando cioè, negli anni Venti del secolo scorso frequenta André Breton, Raymond Queneau, Antonin Artaud ed entra a far parte della corrente dei surrealisti – ebbe un apprendistato civile e politico di stampo comunista, nel senso più letterale e alto del termine. Dopo un litigio con Breton, negli anni Trenta entra infatti nella compagnia teatrale “Gruppo d’Ottobre”, della Federazione del Teatro Operaio, che prendeva il nome dalla Rivoluzione d’ottobre in Russia. Una specie di antiteatro militante, di strada, che rifiutava il canone borghese e voleva mettere in scena la vita quotidiana degli ultimi, denunciare i mali sociali. Per loro e la loro urgenza scrive canzoni, come l’inno operaio Marche ou crève (tr. Marcia o crepa), testi quali La Pêche à la baleine contro il patriarcato o La Bataille de Fontenoy in cui esprime il suo antimilitarismo. Il Gruppo d’Ottobre, però, parlava anche ai più giovani, li educava al potere eversivo della parola. A questo indirizzo, dunque, sono dirette le pièce che troviamo raccolte nel volume che con la loro crudeltà, i paradossi, la magnifica distanza dal politicamente corretto si rivelano testi per tutti. Scorgiamo, allora, la lotta alla schiavitù dell’estetismo oggettivo in Il bel bambino, una fulminante scenetta in cui l’arrivo tanto atteso del figlio del Signor Ginocchio lascia tutti senza parole, quando a presentarsi è una creatura a due teste; per non parlare del rovesciamento, o per dirla in termini moderni “la fluidità”, dei ruoli e dei generi – caro a Shakespeare se non già a Euripide – di Un dramma a corte, che lampante tiene la climax pulp e si rivela solo nelle battute finali: mentre l’attenzione è tutta indirizzata al re che sta per essere assalito e ucciso dal popolo e la principessa Marina resta sempre silente e di spalle, il sovrano deve confessare un segreto alla sua erede: “Marina, troppo a lungo ho tenuto il gran segreto, ascolta l’atroce verità. Marina, tu non sei mia figlia. Tu sei mio figlio…”. La principessa si gira e rivela una folta barba nera.

Eppure, dietro animali, re, fantasmi e amanti le vite che racconta Prévert sono le stesse incontrate a Rue de Seine, sulle panchine delle Tuileries, nei bistrò, nelle squallide pensioni di Clichy, sui lungosenna, là dove albergano amore e miseria. Poi l’ironia corrosiva, il calembour brillante, trasformano questa umanità sradicata in poesie, sceneggiature (citiamo almeno Les enfants du paradis di Marcel Carné) e pièce teatrali. Perché ciò che Prévert ha sempre offerto, ciò in cui ha sempre creduto, è una via alla felicità. In una delle ultime interviste concesse prima di ritirarsi malato nel suo ultimo rifugio a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra nella bassa Normandia, Prévert disse circondato da un giardino fiorito: “Bisognerebbe sempre tentare di essere felici, non fosse altro che per dare l’esempio”.

Montanelli, il conservatore che difendeva l’ambiente

Non ho mai provato alcuna simpatia per Indro Montanelli. Credetemi, dunque, quando vi dico che davvero giganteggia il Montanelli restituitoci da Gian Antonio Stella nel suo bellissimo Battaglie perse. Montanelli ambientalista rimosso (Solferino, pp. 220, 17 euro).

Stella rilegge da par suo le decine di articoli che lungo quasi cinquant’anni (dalla metà dei cinquanta al 2001) Montanelli dedicò alla difesa di ciò che la Costituzione chiama “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”: e il risultato è sorprendente. Lo è, certo, per le singole, sacrosante, battaglie: per Venezia, per l’Appia antica, per Cortina, per Monte Marcello a Portofino, per la Sardegna, per l’amatissima Milano. Battaglie tutte combattute dalla parte giusta, e pressoché tutte perdute: e oggi non c’è chi non veda quanto sarebbe infinitamente più bella e felice l’Italia se Montanelli le avesse invece vinte. Ma ancora di più colpiscono la lucidità, la lungimiranza e il coraggio con cui Montanelli si schiera costantemente dalla parte dell’interesse generale, contro gli egoismi privati.

Un’idea fortissima del bene comune che metteva Indro in rotta di collisione con la rapacissima borghesia italica che lo vezzeggiava come bandiera vivente dell’anticomunismo. Contro chi tagliava gli alberi in nome dello sviluppo economico: “Il verde non è un lusso. È un servizio pubblico, come le fognature e l’acqua, di primaria importanza per la salute e l’igiene dei cittadini”. Contro chi preferiva l’industria petrolifera all’agricoltura e al paesaggio: “Le attività tradizionali saranno spazzate via perché dove arriva il petrolio, tutto ne prende il sapore e l’odore. Mangeremo prosciutto e formaggio al petrolio, berremo latte al petrolio. E passi se il petrolio garantisse almeno la piena occupazione della manodopera locale. Ma nemmeno per idea. Altissimamente automatizzato, l’impianto, a detta degli stessi impresari, che ne magnificano i benefici, non darebbe lavoro che a 450 persone, togliendolo ai 1500 di cui sopra! Quanto agli utili, è chiaro che non resterebbero a Fornovo. Andrebbero agli imprenditori”.

Contro la religione della valorizzazione: “E in qualunque Paese civile a questa funzione di parco nazionale sarebbe stata adibita. Invece da Milano (su Punta Ala, ndr) calarono i ‘valorizzatori’ e cosa abbiano inteso fare lo hanno candidamente scritto nei dépliants pubblicitari per il lancio di questo ‘angolo di paradiso che si può comprare’ come essi stessi lo hanno definito, e che ci auguriamo che costi loro l’inferno”.

E, ancora, a spada tratta dalla parte delle soprintendenze, sempre così odiate dalla destra italica: “non sono rimasti che pochi eroi sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo. Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto a resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”. E perfino contro lo sfruttamento nordista del Mezzogiorno: “Ciò che finora abbiamo fatto è del colonialismo industriale, servito soltanto a distruggere quanto di buono c’era nel Sud, aggravandone i disagi e mettendone in crisi i ceti più produttivi a beneficio di quelli parassitar”.

“Resistere ai privati”: Montanelli è profondamente convinto della necessità di porre limiti alla proprietà privata in nome dell’interesse pubblico (oggi un Salvini o un Renzi gli darebbero del comunista). Montanelli sa che quella per i beni comuni è una battaglia di minoranza, eppure la combatte con passione: davvero come pochissimi altri del suo livello (Cederna, Bassani…). E anche se sa benissimo che l’opinione pubblica (la sua opinione pubblica, i lettori del suo Corriere) è su questo sordissima, Indro non tace: e critica ferocemente un modello di sviluppo che non può chiamarsi progresso se è distruttivo. È, di fatto, una critica alla crescita: quella che un grande conservatore del nostro tempo come Mario Draghi non ha capito ancora oggi.

Il rovello di cui non ci si libera, leggendo il libro, è che è stata una gigantesca occasione perduta: se la battaglia di Indro Montanelli fosse riuscita a fare della conservazione della forma del Paese la bandiera di una destra conservatrice, la sorte dell’ambiente italiano sarebbe stata assai diversa. Lo sappiamo, era proprio quella destra a mancare: perché la destra sudamericana, eternamente anti-antifascista, berlusconiana, sbracata e incivile che abbiamo avuto, e che oggi trionfa, si è sempre risolta in un’orgia di devastanti interessi privati. Ebbene, ora il potente faro acceso da Gian Antonio Stella svela che anche in quel deserto c’era una voce che gridava. Una voce che oggi possiamo tornare ad ascoltare.

Dubai. L’emiro può spiare nemici e stampa: ma la moglie no

Spiare terroristi sì, spiare rivali interni sì, possibili nemici esterni, oppositori e giornalisti sì, ma la moglie no, decisamente no. Questa è la motivazione recondita con cui la NSO – la società israeliana che ha messo a punto lo spyware Pegasus (quello con cui veniva hackerato il dissidente saudita Kashoggi, poi ucciso nel consolato di Istanbul da una squadra di Ryad) – ha deciso di interrompere i rapporti con l’emiro Mohammed bin Rashid al-Maktoum. Perché il sovrano di Dubai lo stava usando per hackerare i telefoni della sua ex moglie – la principessa Haya, sorella del re giordano Abdallah – e di alcune persone a lei vicine. La principessa da oltre un anno è scappata dal regno dorato del Golfo per sfuggire alle ossessioni del marito e si è rifugiata con i 2 figli nella residenza londinese della famiglia Hussein. Al Makhtoum non è nuovo a questi exploit, un’altra sua figlia Latifa ha tentato di fuggire dalla segregazione familiare via mare, ma il suo yacht in acque internazionali è stato abbordato da una Special Unit che l’ha riportata alle sue prigioni nei palazzi di Dubai. L’Alta Corte d’Inghilterra ha accertato la veridicità della denuncia degli avvocati della principessa Haya all’Alta Corte di Inghilterra: lo sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, ha ordinato l’hacking. Tra gli legali spiati c’è anche Fiona Shackleton, deputata alla Camera dei Lord, e il team di sicurezza di Haya. La NSO – finita sulla Black List Usa per le vendite di questo spyware usato per violare WhatsApp – avvisata che il suo software era stato utilizzato in modo improprio per prendere di mira Haya ha subito attivato Cherie Blair, avvocato britannico di alto profilo assunto dalla NSO come consulente esterno sui diritti umani e moglie dell’ex premier Tony, per avvertire la principessa. Entro due ore, la società ha spento il sistema del cliente. La NSO sta cercando di modificare la sua immagine pubblica devastata dall’uso “improprio” del suo malware dai clienti che l’hanno acquistato, ma è un cammino molto lungo da percorrere.

 

“Total, basta versare dollari ai militari del genocidio”

Sono passati nove mesi dal colpo di stato in Myanmar. La repressione ha fatto più di 1.200 morti e 7.250 persone sono state arrestate, incriminate o condannate, secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici. Il mese scorso, la leader birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, 76 anni, è apparsa per la prima volta in tribunale. Il 12 novembre, il giornalista statunitense Danny Fenster, 37 anni, dichiarato colpevole di violazione della legge sull’immigrazione e incoraggiamento al dissenso, è stato condannato a 11 anni di prigione. Fenster, caporedattore della rivista Frontier Myanmar, era stato arrestato all’aeroporto di Yangon a maggio mentre cercava di lasciare il paese. Sarebbe dovuto ricomparire in tribunale il 16 novembre per altre due accuse, sedizione e terrorismo, per le quali rischiava l’ergastolo, ma l’ex ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, Bill Richardson, ha annunciato di aver ottenuto il suo rilascio. Lunedì Fenster era in viaggio per Stati Uniti. I giornalisti indipendenti vengono braccati e le poche informazioni che filtrano indicano che il Paese, colpito da una grave crisi economica e sanitaria, è scivolato nella guerra civile. Intanto, il Governo di unità nazionale birmano (NUG) in esilio, formatosi dopo il golpe del 1mo febbraio, sta organizzando la resistenza, tanto in Myanmar che all’estero. Il suo ministro per i Diritti umani, Aung Myo Min, è stato di recente a Parigi per incontrare dei rappresentanti del ministero degli Esteri francese e dei parlamentari, oltre che la comunità birmana residente in Francia. Il 55enne appartiene alla generazione del 1988 insorta contro un’altra dittatura militare. All’epoca studente, Aung Myo Min si era unito alla resistenza al confine con la Thailandia, come migliaia di giovani birmani. È a quel punto che ha cominciato a militare nel Fronte democratico degli studenti birmani. Trentatré anni dopo, Aung Myo Min, che era tornato in patria nel 2012, dove ha guidato l’ONG Equality Myanmar, è costretto a rivivere l’esperienza dell’esilio.

Qual è la sua missione come ministro dei Diritti umani nel governo birmano in esilio?

È una missione molto vasta. In primo luogo, il mio compito è di documentare i casi di violazione dei diritti umani perché venga fatta giustizia in futuro. Quindi, devo fare in modo che le prove raccolte vengano utilizzate a beneficio di azioni internazionali, in modo che la responsabilità degli autori venga un giorno riconosciuta. Infine, mi assicuro che i principi dei diritti umani vegano rispettati in tutte le politiche del NUG. Il nostro principale obiettivo è che vengano interrotte le forniture di armi al regime e bloccati tutti gli aiuti, le fonti di finanziamento e i commerci che arricchiscono e rafforzano il potere dei militari. Dobbiamo inoltre porre fine alla cultura dell’impunità in Myanmar. Prenderemo tutte le misure necessarie per portare i militari davanti a un tribunale internazionale indipendente.

Qual è lo scopo della sua visita a Parigi?

Ho voluto incontrare i membri del governo francese perché il NUG venga finalmente riconosciuto come il governo legittimo del Myanmar. Siamo consapevoli che la questione è delicata, che la Francia non può decidere da sola e che qualsiasi decisione sarà presa di concerto con gli altri Stati europei. Ma poter discutere e avere incontri ufficiali come questo è importante per noi. L’essenziale è che non venga riconosciuto come legittimo il governo dei militari.

Che avrebbe detto ai rappresentanti di Total, azienda francese criticata per la sua presenza in Myanmar nel settore energetico, se avesse avuto la possibilità di incontrarli?

Total ha spiegato di voler versare alle associazioni che lavorano per i diritti umani in Myanmar l’equivalente delle tasse che l’azienda è tenuta a pagare alla giunta. Quando l’ho sentito, ho pensato che fosse un segnale positivo. Tuttavia, a guardare bene, mi sono accorto che la cifra costituiva solo un’infima parte di quanto Total guadagna dal giacimento offshore di Yadana che sfrutta. Mi fa pensare che si tratti più un’operazione di comunicazione dell’azienda per edulcorare la sua immagine che di un’azione reale per fare pressione sui militari. Allora chiediamo a Total di smettere di versare anche un solo dollaro alla giunta birmana, perché dare soldi a loro vuol dire sostenere genocidi e crimini contro l’umanità.

Che ruolo può svolgere la Cina nella crisi birmana?

La Cina è un vicino potente e molto influente per via della sua presenza commerciale in Myanmar. Siamo pronti ad avere relazioni diplomatiche con tutti i governi, purché dimostrino un impegno sincero nei confronti della democrazia e degli interessi del paese, e a discutere con loro per trovare l’alternativa migliore al governo brutale dei militari. È importante avere discussioni informali con la Cina. È quanto già stiamo facendo attraverso i parlamentari della Lega nazionale per la democrazia (Lnd, la formazione di Aung San Suu Kyi, ndr), che hanno istituito il Comitato di rappresentanza parlamentare. Stiamo cercando di rafforzare questo canale di comunicazione. Inoltre, la Cina ha buoni rapporti con l’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, che può trasmettere i nostri messaggi e le nostre idee a Pechino.

Siete soddisfatti della posizione assunta dall’Asean?

La decisione dell’Asean di non invitare il capo della giunta, Min Aung Hlaing, al suo vertice annuale di fine ottobre è stata per noi una svolta importante, perché fino a quel momento l’organizzazione regionale aveva portato avanti una politica di non ingerenza e, data la sua politica di impegno costruttivo con il Myanmar, aveva evitato di affrontare i temi delicati. È ormai chiaro che la questione del Myanmar non riguarda più gli affari interni ma assume una dimensione regionale. Questo ha delle conseguenze sugli altri paesi di frontiera, tanto che si parli di Covid-19 che di diritti umani e delle conseguenze delle loro violazioni. In qualità di organizzazione regionale, l’Asean deve fare di più per preservare la sicurezza e la stabilità della regione intervenendo su questi temi, nel modo più determinato possibile.

Il governo birmano sotto Aung San Suu Kyi è stato criticato molto per la sua gestione della questione dei Rohingya. Se ne sta occupando?

Certo. La questione dei Rohingya è sempre stata nel mio cuore perché mi batto da sempre per la difesa dei diritti umani. Quindi, quando sono stato nominato in questo governo, mi sono chiesto cosa avrei potuto fare per loro. Il primo testo su cui sto lavorando riguarda la politica nei confronti dei Rohingya. Ma non lo scriverò da solo. Sarà il risultato di una lunga serie di consultazioni, poiché si tratta di una questione che riguarda tutte le comunità. Il mio lavoro è di ascoltare, consultare tutte le parti interessate, per poter definire quali sono le soluzioni migliori. È una posizione senza precedenti, poiché il Nug riconosce tanto l’esistenza dei Rohingya quanto i crimini che hanno avuto luogo negli ultimi 20 anni. È importante definire le responsabilità per poter portare il caso davanti alla giustizia in futuro. È anche necessario abolire la legge del 1982 sulla cittadinanza, sulla base della quale i Rohingya non sono più stati riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici del Myanmar e sono diventati apolidi. È un testo discriminatorio. Ci impegniamo inoltre a fare tutto il necessario per mettere in atto alcune delle raccomandazioni emesse dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per raggiungere la pace nello stato del Rakhine, presentate nel 2017 nell’ambito della commissione consultiva sul Rakhine presieduta da Annan. Continuo a consultare i diversi gruppi di Rohingya all’interno del paese, nei campi di rifugiati e ovunque nel mondo. Il mio ministero ha del resto nominato un’attivista Rohingya, molto rispettato, Aung Kyaw Moe, all’interno del nostro comitato consultivo. Il suo ruolo è molto prezioso, ci consiglia e ci fornisce le linee guida per andare avanti in questo processo.