Se la popolazione mondiale sale ancora, addio transizione

La conferenza COP26 ha prodotto pochi risultati concreti, anche se è incoraggiante che tutti gli Stati si siano impegnati a formulare programmi e renderne pubblici periodicamente i risultati. L’obiettivo di contenere il riscaldamento della Terra entro l’1,5 C° appare sempre più elusivo. Per raggiungerlo occorrerebbe ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e azzerarle entro il 2050, tagli che paiono oggi irraggiungibili. La variazione dell’emissione di CO2 dipende da tre fattori: l’aumento del Pil, la variazione dell’intensità di energia (rapporto energia/Pil) e la quota di energia che verrà prodotta senza emissione di CO2.

L’Onu prevede per i prossimi 30 anni ancora un forte aumento della popolazione mondiale, da 7,6 a 9,8 miliardi. La popolazione crescerà del 13% in Asia e raddoppierà nell’Africa subsahariana mentre resterà stabile nel totale di Europa e Nord America. Se il reddito pro capite continuerà a crescere col trend attuale il Pil reale potrebbe aumentare (dal 2016 al 2050) di circa 4 volte nell’Africa subsahariana, 3,6 volte in Asia e 1,7 volte nei paesi Ocse (secondo uno studio di Pwc). L’incremento nella domanda di energia sarà inferiore, a seconda del livello di reddito di ogni paese. L’intensità di energia è più elevata nelle fasi iniziali della crescita e più bassa nei paesi evoluti anche per il maggior peso del settore servizi. Tuttavia la domanda di energia continua a crescere col reddito e se il Pil aumentasse come indicato sopra da qui al 2050 la domanda di energia potrebbe forse anche raddoppiare. Per contenere l’aumento della CO2 l’energia prodotta da rinnovabili dovrebbe non solo sostituire quella prodotta oggi da combustibili fossili (circa l’80%) ma coprire anche la maggior domanda dei prossimi 30 anni. Una prospettiva che appare assai poco realistica.

Europa e Nord America hanno le maggiori possibilità di ridurre le emissioni di CO2 perché il Pil e la domanda di energia aumenteranno relativamente poco e l’opinione pubblica sembra disposta a sostenere i costi della transizione ecologica, ma nel resto del mondo la situazione è ben diversa. Sussidiare auto elettriche o fotovoltaico può essere elettoralmente premiante in Europa o negli Usa ma influirà poco sulle prospettive del pianeta.

Gli aumenti più rilevanti di popolazione e di Pil si verificheranno in paesi (India, Nigeria, Pakistan, Bangladesh, Indonesia etc) che hanno oggi un reddito pro capite basso, una forte domanda di energia per la crescita e pochissime risorse da dedicare alla sostituzione di combustibili fossili con più costose energie rinnovabili. In molti di questi paesi, India in primis, il ciclo del carbone da lavoro a milioni di persone: rinunciarvi comporterebbe costi che non sono in grado di sostenere, anche perché la loro opinione pubblica non percepisce l’urgenza di farsi carico di oneri per la salute del pianeta.

I Paesi in via di sviluppo, rilevando che l’attuale livello di inquinamento è stato causato dai paesi “ricchi” e chiedono ingenti trasferimenti per finanziare una crescita basata su energie meno inquinanti, ma questi difficilmente troveranno consenso elettorale nei Paesi “ricchi”. La Cina, oggi il maggior inquinatore, è un caso particolare perché ha la forza politica per gestire i costi dell’uscita dal carbone e potrebbe mantenere i suoi impegni, sia pure su un arco di tempo assai più lungo di quanto richiesto per l’obiettivo dell’1,5%. Pechino può anche trarre beneficio dalla transizione ecologica, essendo il maggior produttore di batterie e pannelli fotovoltaici.

Lo sviluppo di energie rinnovabili dipende anche dalla convenienza economica. Per questo è importante che i paesi industriali incentivino innovazioni tecnologiche atte a ridurne i costi. Resta da chiederci se sia comunque fattibile l’enorme aumento di energia da rinnovabili che sarebbe richiesto per l’obiettivo dell’1,5%. Il fotovoltaico è limitato dalle superfici disponibili e crea problemi ambientali come l’eolico. Lo sviluppo di questi settori richiede l’estrazione e lavorazione di materie prime che inquinano l’aria e l’ambiente, in particolare per la produzione di batterie. Lo smaltimento di pannelli e batterie esausti porrà problemi di cui oggi non si parla. Al netto di nuove tecnologie, resta il nucleare che però è mal visto nella maggior parte dei paesi che potrebbero svilupparlo.

Insomma la prospettiva è che nei prossimi decenni l’energia divenga sempre più scarsa e costosa e la qualità dell’aria continui a deteriorarsi: se allarghiamo la considerazione anche ai crescenti problemi di carenze idriche e di molti minerali si è indotti a chiederci se l’ulteriore crescita della popolazione mondiale, con l’attuale tenore di consumi, sia compatibile con la salute del pianeta.

E al Brennero il tunnel slitta al 2032 (almeno)

Arriviamo a Fortezza, incastonata tra le Dolomiti, e seguiamo lo sciame di operai che s’infila nel tunnel. Nel ventre delle Alpi, c’è un formicaio di cunicoli, binari e tubi di ventilazione. Nel punto di scavo, la temperatura sale, il rumore aumenta e l’aria si fa pesante. Serena, una talpa di metallo lunga 300 metri, è la fresa che scava 10 metri di roccia al giorno. La Galleria è il cuore della nuova linea ferroviaria che un giorno collegherà Monaco a Verona e la parte centrale del corridoio TEN-T Scan-Med che va da Helsinki a La Valletta. L’Ue lo finanzia fino al 50% dei costi, il resto sarà ripartito equamente tra Austria e Italia: solo che doveva essere pronto nel 2016, ora si parla del 2032 e costerà in tutto 10 miliardi (di cui 1,2 a carico dell’Ue). “Io spero che qui i lavori non finiscano mai”, dice Nino, siciliano che con gli straordinari prende 3.200 euro al mese e li manda alla famiglia. “Una paga così in Sicilia me la sogno”.

“A differenza della linea storica, tortuosa e ripida, il tunnel garantirà ai treni un percorso pianeggiante, privo di curve e più breve” spiega Giorgio Malucelli, ingegnere e vicedirettore del cantiere di Mules. Un potenziamento in termini di velocità, peso e lunghezza dei treni, che permetterà di raggiungere la velocità di 250 km/h: il tratto Fortezza- Innsbruck lo si farà in 25 minuti invece di 80. L’obiettivo principale, però, è trasferire sul treno gran parte dei 50 milioni di tonnellate di merci che ogni anno transitano dalle Alpi, di cui il 71% su strada e solo il 29% su rotaia. “I camion inquinano la zona e intasano la strada”, dice Ezio Facchin, assessore alla mobilità del Comune di Trento. Siamo sempre allo stesso discorso, da quando è partito il mega progetto Brennero all’inizio degli anni 2000: “Ci vuole una politica che scoraggi l’autotrasporto, come l’aumento del pedaggio dell’autostrada del Brennero, tra i più bassi in Italia, e del gasolio, molto basso in Austria”, dice Riccardo Della Sbarba, consigliere verde della provincia di Bolzano, e invece oggi – aggiunge Thomas Klapfer, sindaco di Fortezza – “i tir che partono dalla Lombardia per raggiungere le zone industriali tedesche, invece di passare dalla Svizzera, allungano il tragitto passando dal Brennero: costa meno che caricarle sulle ferrovie svizzere”.

La Corte dei Conti Ue è scettica sull’opera come su altri corridoi europei: “I fondi europei non saranno così efficaci come potrebbero essere”, dice un revisore, perché le tratte di accesso in Germania e in Italia non sono ancora in costruzione (il collegamento da Monaco al confine austriaco è in fase di progettazione e non sarà completato fino al 2040). I revisori europei hanno anche rivelato che il tunnel di base del Brennero non è stato sottoposto ad alcuna “analisi costi-benefici”.

Insomma gli italiani e gli austriaci stanno spendendo circa 8 miliardi di euro per il tunnel più lungo del mondo senza che nessuno sappia davvero se ne varrà la pena. Senza il completamento delle tratte di accesso, i treni viaggeranno ad alta velocità solo sotto il Brennero. “Senza un sostegno politico al trasporto ferroviario, la galleria resterà una cattedrale nel deserto”, dice Della Sbarba.

Sud da Medioevo, ma il governo mette miliardi sull’Alta velocità

Ci sono luci e ombre quando si guarda allo sviluppo dei treni in Italia. Siamo citati in Europa per aver aperto alla concorrenza nell’alta velocità e portato ogni giorni 170 mila utenti a usarla (nel 2019). Ma all’estero non sanno che l’AV è costata 42 miliardi, il doppio per km di Francia e Germania, mentre i fondi al servizio ferroviario regionale venivano tagliati del 21,5% tra 2009 e 2019 e l’offerta degli Intercity ridotta del 16,9 % lasciando il Sud in una situazione da quasi Medioevo, con tante regioni ancora con un binario unico, treni vecchi, spesso spinti dal diesel.

L’Av ha portato benefici. Sui treni veloci di Trenitalia si è passati dai 6,5 milioni di passeggeri del 2008 ai 40 milioni nel 2019, e quelli di Italo da 4,5 milioni nel 2012 a 17,5 milioni nel 2018. Ma dei 1.280 km di linea veloce, nessuno è al Sud.

Ora i soldi stanno arrivando. Il Pnrr ha già stanziato 24 miliardi per le ferrovie, di cui il 60% (14,8 mld) all’Alta Velocità e 4 alle tratte regionali (16,3%). Poi si è aggiunto il Fondo complementare al Pnrr con 10,4 miliardi (quasi tutti per tratte Av). La manovra prevede di spendere 16 miliardi fino al 2035 per velocizzare la linea Adriatica (5 mld) e per migliorare la rete. “Con questi investimenti si ridurrà del 38% il coefficiente di Gini sulla disuguaglianza nell’accesso alle infrastrutture ferroviarie”, spiega il ministro Enrico Giovannini: “Abbiamo un ritardo tra Nord e Sud fortissimo che il Pnrr conta di eliminare o assottigliare”.

Ma perché cominciare con l’Alta velocità, a cui il Pnrr destina più della metà dei fondi? I piani del ministero prevedono di percorrere la linea Napoli-Bari in 2 ore rispetto alle attuali 3 ore e 30 minuti, la Palermo-Catania in 2 ore rispetto alle attuali 3 ore e ridurre di 80 minuti la Salerno-Reggio Calabria. Proprio la Salerno-Reggio pare a molti esperti l’opera più inutile: 445 km, 22,8 miliardi di budget, primi lotti ultimati nel 2030. Rfi, responsabile della rete, vuole metterci pure il trasporto merci: “Questo comporta un raddoppio dei costi di costruzione, per la realizzazione di gallerie, ponti e curve ad ampio raggio, in grado di far transitare anche i merci che pesano oltre mille tonnellate. Peccato che sull’AV italiana non passi neppure un convoglio di questo tipo” spiega Francesco Russo, docente di Ingegneria dei Trasporti all’Università Mediterranea di Reggio Calabria e portavoce di un gruppo di docenti siciliani e calabresi che in un documento ha proposto di puntare sì sull’AV fino a Reggio Calabria, ma usando una tecnologia più leggera e passando dalla costa, così da dimezzare i costi. “Le risorse risparmiate potrebbero servire per modernizzare i porti di Augusta e Gioia Tauro, creare le smart road e puntare sull’AV tra Catania e Palermo, dove oggi si viaggia a non più di 100 km/h”.

Ogni giorno sulla linea Tirrenica Sud ci sono solo 10 treni tra Roma e Reggio Calabria, il più veloce dei quali impiega quasi 5 ore, “ma la scarsità dell’offerta non dipende dalla linea, che è a doppio binario e viaggia quasi tutta a oltre 180 km/h – aggiunge Paolo Beria del Politecnico di Milano – per migliorare la tratta non serve l’AV. Basterebbe aumentare il servizio”. Un altro problema, dice Edoardo Zanchini di Legambiente, “è che più ci si allontana dai grandi centri, meno passeggeri si avranno e minore sarà la redditività socio-economica. Ed essendo un settore a mercato, le compagnie ferroviarie vanno dove c’è guadagno: si rischia di avere la linea AV nel Sud pronta, ma vuota”. Giovannini non è d’accordo e ricorda che nessuno credeva all’aumento della domanda sulla Milano-Roma e ora due terzi dei passeggeri non usa più l’aereo: “E poi al Sud l’investimento sarà anche sulle reti regionali – dice il ministro – Il Pnrr non basta, lo so. Per questo sto incontrando i presidenti delle Regioni per convincerli a dirottare parte del Fondo di coesione verso i treni”.

Il riferimento è ai 23 miliardi del Fondo di coesione e a parte degli 83 miliardi di fondi strutturali 2021-2027. Da fare c’è parecchio, come ricorda Legambiente nel rapporto Pendolaria: “Tra Napoli e Bari non esistono treni diretti, tra Cosenza e Crotone serve un cambio e 2 ore e 40 minuti per 115 km, mentre le corse dei regionali in Sicilia sono 493 al giorno contro le 2.300 della Lombardia, 4,6 volte in meno con solo metà della popolazione”.

*Investigate Europe

La guerra tra società statali che non fanno più servizio pubblico

L’Agenzia ferroviaria europea (ERA) cerca dal 2004 di ridurre le differenze tecniche tra i vari sistemi ferroviari. Quando sono arrivati a Valenciennes, gli ingegneri hanno contato 14.312 differenze tecniche in Europa, oggi ce ne sono “solo” 868. Col 4° pacchetto ferroviario, l’ERA ha il potere di sanzionare uno Stato che si opponga all’armonizzazione dei treni: “Abbiamo almeno un dente per mordere, prima neanche quello”, dice il direttore, Josef Doppelbauer.

Investire nei treni europei, però, per gli Stati non è una priorità. La Polonia ha appena comprato locomotive che non possono funzionare nei paesi vicini; la nuova flotta ICE 4 della Deutsche Bahn ha un solo sistema di alimentazione e i treni possono circolare solo in Austria, Germania e Svizzera; i danesi hanno richiesto locomotive solo per il loro territorio e quello tedesco, impedendo alla Svezia di far correre un treno da Stoccolma alla Germania. Poi ci sono i problemi legati alla concorrenza: l’Italia è un esempio virtuoso, il primo paese ad averla permessa nell’alta velocità. Il tandem Trenitalia-Italo, al nord, funziona: nel 2018 i passeggeri della tratta Milano-Roma erano quasi 4 volte di più del 2008 (3,6 milioni rispetto a 1 milione) e due terzi dei passeggeri preferiscono il treno all’aereo. Lo stesso non può dirsi della Francia, dove la potente SNCF cerca di impedire l’accesso ai competitor stranieri fin dai tempi dell’Eurostar sulla Manica, off limits per i tedeschi.

Ora, però, le leggi Ue impongono di aprire il mercato, così la Spagna ha deciso di rompere il muro di omertà che lega le compagnie, criticando apertamente Parigi: “Abbiamo tutto il diritto di rivendicare apertura e interoperabilità della rete, nonostante la resistenza francese”, ha dichiarato la viceministra dei Trasporti Isabel Pardo de Vera il 16 novembre, dopo che il suo governo aveva inviato lettere alle autorità francesi e alla Commissione Ue per denunciare il non rispetto francese delle regole di concorrenza. La società pubblica spagnola Renfe è in effetti assai irritata perché da tempo cerca di avere l’autorizzazione a portare i suoi treni da Lione a Montpellier e Marsiglia e così collegarsi alla Spagna: lamenta problemi di accesso alle informazioni sulle specifiche tecniche, in mano a due filiali di SNCF, Eurailtest e Cim, che a detta degli spagnoli rallentano il processo. Anche la società di costruzione dei treni, Talgo, aspetta da quasi 5 anni il semaforo verde per far circolare i suoi “Avril” in Francia. Da maggio, però, una filiale di SNCF, Ouigo, è presente in Spagna.

Ne sa qualcosa anche Trenitalia, che dovrebbe portare i suoi Frecciarossa 1000 nella tratta Parigi- Lione fino a Milano e, da dicembre, sostituire Thello, chiusa perché non redditizia. Ma per entrare nelle regina delle tratte, la Parigi-Lione, la società italiana ha dovuto superare ostacoli tecnici a ripetizione, tanto che il Ceo di Trenitalia France, Roberto Rinaudo, a ottobre è sbottato: “Per utilizzare qui la nostra flotta dovevamo dotare i convogli di uno strumento specifico di sicurezza francese, fabbricato solo da Alstom, che in quel momento però ha smesso di produrlo e tutto lo stock era stato acquistato da SNCF. Ci abbiamo messo tre anni e mezzo per arrivare al risultato. Il governo ha uno spirito europeo, ma con SNCF è stato difficile”. In risposta all’ingresso di Trenitalia in Francia, la low cost di SNCF ha peraltro appena annunciato che abbasserà i biglietti del Milano-Parigi a 10 euro.

Anche i costi di accesso alla rete francese, tra i più alti d’Europa, sono un problema. La tratta Parigi- Lione costa tra 26 e 39€ euro a treno/km, mentre sulla Roma-Milano siamo intorno ai 6-8€ a treno/km. Abbiamo chiesto alla Commissione europea se sta mettendo ordine a questa giungla dei costi nelle reti ferroviarie: “Stiamo studiando il problema”, ci è stato risposto.

E intanto le tratte meno competitive vengono cancellate. È successo da poco con la Lisbona-Madrid: solo 150 mila passeggeri all’anno e addio a un collegamento storico, oggi per i 600 km di distanza tra le due capitali ci vogliono 11 ore con tre cambi in treno e solo 5 ore in auto. Il governo portoghese ha provato a far approvare a livello europeo un concetto di “servizio pubblico crossborder”, per aprire la strada a sussidi pubblici nelle tratte meno commerciali, ma utili per i consumatori. Ma al Consiglio di giugno, la Germania ha semplicemente cancellato il paragrafo…

E la Lisbona-Madrid intanto non c’è più…

La battagliaindustriale e commerciale sulle tratte che promettono guadagni (come la Parigi-Lione) è accesa, ma nel frattempo collegamenti ferroviari storici tra i Paesi europei vengono cancellati perché poco redditizi: è il caso della Lisbona-Madrid, due città distanti solo 600 km tra le quali oggi ci si muove solo in aereo o su strada. La proposta del Portogallo di considerarlo un servizio pubblico transfrontaliero (e quindi sovvenzionabile) è stata bloccata dalla Germania

Il “treno europeo” è fallito, oggi è anche peggio di vent’anni fa

C’era aria di festa il 2 settembre alla stazione Santa Apolonia di Lisbona. Il primo treno europeo, “Connecting Europe Express”, stava per partire dal Paese più a ovest dell’Ue per cominciare un tour promozionale attraverso 27 capitali europee e celebrare così il 2021, “anno europeo del treno”. “La ferrovia è il futuro dell’Ue, il nostro modo per frenare il cambiamento climatico e costruire trasporti a zero emissioni”, diceva la commissaria ai Trasporti Adina Vălean, senza sapere, forse, che proprio la capitale portoghese è sconnessa in treno, oggi, dal resto d’Europa.

L’operazione di marketing, attentamente studiata dalla Commissione, si è rivelata un boomerang. È vero che il treno consuma solo l’1,5-2% delle emissioni nocive dei trasporti (il 29% del totale di CO2) contro il 71% della strada (12% aerei e 14% navi) e il Green Deal chiede ai trasporti di abbattere il 90% di CO2 entro il 2050, ma un treno europeo capace di sostituire aereo e auto, oggi non esiste. Per attraversare 33 frontiere, lo “Europe Express” ha dovuto cambiare 55 locomotive e altrettanti macchinisti, accumulando ritardi in ogni stazione: quando dopo 36 giorni il treno della speranza è entrato nella Gare de l’Est, a Parigi, nessuno aveva più voglia di sorridere.

“La rete ferroviaria europea è un patchwork inefficace”, scrive la Corte dei Conti Ue attestando la mancanza di coordinamento tra Stati e aziende. “In realtà non c’è mai stata un’età d’oro delle ferrovie – dice Jon Worth, attivista, esperto di treni – la situazione è stata sempre brutta”. Solo che vent’anni fa c’erano 6.000 km in più di ferrovie, esistevano treni notturni per lunghe distanze, molte capitali europee erano collegate tra loro: oggi bisogna addossarsi cambi e costi altissimi per viaggiare in treno. I dati sono desolanti: solo il 6% dei passeggeri e il 18% delle merci viaggiano su rotaia. Secondo Greenpeace, delle 150 rotte aeree europee più trafficate, solo 50 sono collegate dal treno.

“A parole è stata sostenuta la ferrovia”, dice Michael Cramer, presidente della Commissione Trasporti all’Europarlamento tra 2014 e 2017. Vent’anni fa, alla fine degli anni 90, Bruxelles lanciava il primo pacchetto ferroviario: dopo aerei, Tlc, energia e poste, si voleva creare un mercato unico dei treni e rompere con la logica dei monopoli. Intanto, la priorità politica era agevolare le auto e gli aerei.

Secondo i dati Ocse, rielaborati da Investigate Europe, tra il 2000 e il 2019 gli Stati membri più Regno Unito, Norvegia e Svizzera, hanno speso 843 miliardi di euro per le infrastrutture ferroviarie e 1.341 miliardi per quelle stradali. Ci sono delle eccezioni, come l’Alta velocità in Italia, costata da sola 42 miliardi, il doppio di Francia o Germania. Ma anche qui la strada ha ricevuto di più: 123 miliardi contro 105 per il treno. E poi a differenza delle linee aeree – aperte alla concorrenza low cost o privatizzate – “c’era un consenso tra gli Stati a non attaccare i monopoli delle società ferroviarie”, racconta Jean-Arnold Vinois, capo Unità Treni alla Commissione tra il 2000 e il 2006. Regnava “una mentalità da fortezza”, aggiunge il britannico Neil Kinnock, all’epoca commissario ai Trasporti. Il sistema ferroviario “dopo la seconda guerra mondiale rappresentava il dna di uno Stato, nessuno voleva rinunciarvi”, dice Karel Vinck, primo coordinatore del sistema ERTMS. Quando da Bruxelles è arrivato il via libera alla liberalizzazione, i colossi hanno solo cambiato casacca. I grandi paesi – Germania, Francia, Italia – hanno creato delle holding al cui interno ci sono sia l’infrastruttura che l’operatore dei treni (in Italia RFI e Trenitalia sotto il cappello di FS), nello stesso gruppo e sempre in mano pubblica, ma con una mentalità privata, per cui le rotte meno commerciali sono state via via cancellate.

Anche l’industria, concentrata nella francese Alstom e nella tedesca Siemens, ha aiutato: “Ai due lati della frontiera franco-tedesca, gli ingegneri sono collusi con le compagnie ferroviarie e proteggono i propri mercati con regole tecniche specifiche, vendute come necessarie per la sicurezza”, spiega Vinois. Molte fonti hanno confermato che tra Parigi e Berlino esisteva un “patto di non-agressione”, confermato con esempi concreti anche da Hans Leister, capo della filiale tedesca di Sncf, Keolis: “Le compagnie ferroviarie non attaccherebbero i mercati nazionali dell’altro”. Ancora oggi i treni tedeschi non circolano in territorio francese e viceversa.

Al momento dell’apertura del mercato c’erano 23 sistemi ferroviari diversi in Europa. L’agenzia ferroviaria europea (ERA), doveva abbattere gli ostacoli tecnici, ma dopo quasi vent’anni di regolamenti, avvertimenti e raccomandazioni, l’ERA scrive nel suo ultimo report annuale: “Nell’ultimo decennio non si sono fatti passi avanti nell’interoperabilità dei treni”. “Le aziende non pensano in termini europei”, ammette il direttore dell’ERA, Josef Doppelbauer: “Quando sollevo la questione qui in Francia, sento dire: dobbiamo concentrarci sull’altro 95% del nostro business, quello nazionale”.

La storia del Sistema europeo di gestione del traffico ferroviario (ERTMS) è il perfetto esempio del protezionismo nazionale. Finanziato dal 2007 dalla Commissione con 4 miliardi di euro, ERTMS potrebbe assicurare un sistema tecnico unico dei treni, evitando alle locomotive di cambiare sistema quando cambiano Paese. Ma è un sistema in più rispetto a quelli esistenti, costa 250 mila euro a locomotiva e i 3 grossi player industriali – Alstom, Siemens e l’italiana Hitachi – ne hanno fabbricati 3 diversi. Ora l’Ue ha inserito nell’ultimo pacchetto ferroviario l’obbligo di adeguare tutti i treni con l’ERTMS entro il 2050, ma per molti paesi non è una priorità. Intanto l’Eurostar da Londra a Amsterdam cambia 9 sistemi di controllo e il Thalys, da Parigi a Colonia, 7 locomotive diverse. In più, ogni volta che si passa una frontiera, il macchinista deve cedere il posto a un collega locale perchè nei treni c’è l’obbligo di parlare la lingua del Paese.

Anche comprare un biglietto per viaggi lunghi è un’odissea: in aereo basta qualche clic e si trovano subito le migliori offerte, in treno no. E se anche esiste qualche sporadica piattaforma come “Trainline”, questa rimanda poi alle compagnie nazionali. Se si perde una coincidenza, si perde tutto, non c’è nessun accordo tra compagnie, né ci sarà mai visto che a maggio i governi Ue hanno annacquato il regolamento sui diritti dei passeggeri dei treni approvato dall’Europarlamento, che avrebbe obbligato le compagnie almeno a pubblicare orari e tariffe in modo non-discriminatorio e a prendersi carico dei biglietti transeuropei. Germania, Francia e Spagna si sono fermamente opposte e l’obbligo è scomparso.

C’è anche, però, chi sta investendo sui treni europei: la società pubblica austriaca OBB, nel 2016 ha comprato i vagoni letto alla tedesca DB, che nel frattempo aveva cancellato tutti i suoi notturni, e ora vanta 19 collegamenti notturni in Europa e un business crescente: nel 2019 OBB ha trasportato 1,5 milioni di passeggeri, il 10% in più dell’anno prima. L’attività ha generato un “leggero plus”, dice la compagnia, che non dichiara però quanto l’Austria la stia sovvenzionando. Ora però gli impegni del Green Deal premono sugli Stati: i sussidi “fossili” potrebbero passare alle tratte ferroviarie.

*Investigate Europe

Tim, asse Cpd-Vivendi Gubitosi verso l’uscita

Di battaglie di potere sulle spoglie di Tim ne sono state giocate tante dalla sua disastrosa privatizzazione ma in questi giorni si sono toccate vette surreali. L’epilogo sembra però scritto. L’amministratore delegato Luigi Gubitosi è stato sfiduciato dal primo azionista, la francese Vivendi (23,9%) e di fatto anche dal secondo, la pubblica Cassa depositi e prestiti (9,8%). Ormai si cercano i successori, per arrivare al cda convocato per il 26 novembre e sostituire anche il presidente Salvatore Rossi.

Detto dell’epilogo, lo svolgimento è penoso. Ieri si è tenuto un cda straordinario convocato in fretta da Rossi per esaminare una manifestazione di interesse del fondo Usa Kkr, un gigante in ottimi rapporti con Gubitosi che nell’agosto 2020 lo ha fatto entrare nel capitale di FiberCop, la società che ha l’ultimo miglio della rete Tim. L’offerta è arrivata con perfetto tempismo sabato, pochi giorni dopo che 11 consiglieri su 15 (con l’avallo del presidente di Cdp, Giovanni Gorno Tempni) e il collegio sindacale avevano scritto a Rossi per convocare un cda d’urgenza il 26 e dare il benservito a Gubitosi.

Gli sforzi del manager napoletano ex Wind, Rai e Alitalia sembrano vani. Kkr apre a una trattativa per un’Offerta pubblica di acquisto che valorizza Tim 11 miliardi (contro i 7 attuali), “non vincolante e indicativa” e vuole trattarla con Gubitosi. I consiglieri però non gli hanno dato mandato a trattare e non gli hanno fatto nominare gli advisor. Martedì all’ordine del giorno del cda dovrebbe aggiungersi la sfiducia. Se non lascia prima, la resa dei conti avverrà lì.

Gubitosi è al timone dal novembre 2018, alla fine di uno scontro che ha visto il fondo Usa Elliot in asse col governo – via Cdp – mettere in minoranza Vivendi. A marzo scorso una tregua tra gli azionisti ha permesso la sua riconferma. Da allora la situazione è precipitata. Il governo Draghi ha fermato la possibile fusione con Open Fiber per creare la società unica della rete e Gubitosi ha lanciato due profit warning, rivedendo al ribasso i profitti; i ricavi sono crollati (si stima oltre i 3 miliardi a fine 2021) e il titolo ha perso il 40% da novembre 2018. La fiducia si è rotta definitivamente dopo un vertice a Parigi tra Guibitosi e l’ad di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine (nel cda di Tim). Da allora i giornali si sono riempiti di rumors finanziari sulle mire di kkr.

Al netto delle miserie di potere, la situazione è drammatica. Perdere ricavi mentre il Pil cresce del 6% e alla vigilia dei grandi investimenti del Pnrr, al netto degli errori del management, significa che la crisi si sta avvitando. In ballo ci sono 40mila posti di lavoro. Ieri il governo ha annunciato un comitato di “esperti e ministri” per vigilare sulle possibili evoluzioni. Per Cdp e compagnia è l’ultima chiamata per fermare una deriva che dalla privatizzazione del 97 (Mario Draghi era al Tesoro) ha visto i privati distruggere un’azienda gioiello.

La sai l’ultima?

Londra-Zurigo C’è una puzza pestilenziale

di calzini in cabina, l’aereo torna indietro

Per dirottare un aereo a volte basta un fetore pestilenziale, una puzza di piedi insostenibile. È capitato sulla tratta Londra-Zurigo lo scorso 7 novembre: pochi minuti dopo i decollo si è sparso per tutta la cabina un odore di calzini bagnati davvero inconcepibile anche per gli standard igienici più rilassati. Preso atto dell’impossibilità di continuare il viaggio a causa del tanfo eccessivo, i piloti sono tornati all’areoporto di partenza. I passeggeri della Swiss International Airlines – scrive Today – non hanno avuto diritto nemmeno a un indennizzo: secondo la compagnia aerea si è trattato infatti di una “circostanza eccezionale” che non poteva essere evitata e non dà diritto a risarcimenti. Volo cancellato. Danno e beffa: gli sfortunati ospiti del volo che puzzava di calzini sporchi hanno dovuto passare una notte in albergo. Ora dovranno appellarsi alle norme europee, che “prevedono un indennizzo in caso di ritardo significativo, compreso fra 250 e 600 euro”.

 

India Matrimonio comunista: si sposa il signor Engels
e tra gli ospiti ci sono anche Marx, Lenin e Ho Chi Minh

Matrimonio rosso in Kerala, India: si sposa il signor Engels e tra gli ospiti della cerimonia ci sono anche Marx, Lenin e Ho Chi Minh. Non è una barzelletta da comitato centrale, è successo davvero, come spiega il Guardian: “La falce e il martello rimangono in voga in tutto il Kerala, dove il partito comunista ha governato per gran parte degli ultimi sei decenni, e nomi rivoluzionari come Stalin e Trotsky sono ancora popolari”. Nella fattispecie, “Engels e Lenin sono fratelli, mentre Marx e Ho Chi Minh sono i figli di un attivista del partito locale. Tutti e quattro gli uomini erano membri attivi del partito comunista, ma Marx è tornato in aereo dalla città iper-capitalista di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, appositamente per partecipare al matrimonio ad Athirappilly. L’India si è avvicinata all’Unione Sovietica durante la guerra fredda e nomi russi come Pravda non sono inconsueti, in particolare nel sud. L’attuale primo ministro del Tamil Nadu si chiama MK Stalin”.

 

Ferrara Lo spacciatore arrestato è positivo al Covid
e quindici carabinieri finiscono tutti in isolamento

Galoppano i dati sui contagi e il Covid non guarda in faccia a nessuno. L’arresto di uno spacciatore positivo al Coronavirus ha scatenato il panico in una caserma nel Ferrarese: sono finiti in quarantena tutti insieme ben 15 carabinieri. “Accade a Pontelagoscuro – scrive Repubblica Bologna –: un giovane di 27 anni, arrestato per droga, è risultato positivo al coronavirus dopo essere stato dimesso dall’ospedale Sant’Anna dove era stato ricoverato per l’espulsione di alcuni ovuli di cocaina che aveva ingerito. E così i carabinieri che hanno gestito l’operazione, che hanno avuto contatti con il ragazzo prima, durante e dopo l’arresto sono finiti in quarantena, in isolamento fiduciario, paralizzando, in parte, i servizi che dovevano svolgere. Si tratta di 15 militari”. Sono tutti negativi e asintomatici, ma la caserma si è svuotata la stesso, per almeno dieci giorni.

 

Genova Spettacolare manovra di un 91enne al volante:
ingrana la retromarcia e finisce in bilico sopra un’aiuola

Anziani alla guida: parliamone. Certe manovre dei conducenti in età senile non sono solo un pericolo per la salute pubblica, ma si trasformano in autentiche opere d’arte. È il caso della spettacolosa uscita da un parcheggio di un ardimentoso 91enne di Voltri, in provincia di Genova. Il vecchietto al volante ha ingranato la retromarcia con un’energia che rende onore al suo spirito e alla sua carta d’identità, ed è riuscito nel capolavoro balistico di far incastrare la sua panda gialla in posizione aerodinamica, in bilico sul recinto di un’aiuola pubblica, quasi sospesa a mezz’aria. “Nella manovra – scrive Genova Today – ha anche fatto filotto di segnali stradali: un palo verticale e un cartellone di ferro per la pubblicità; una volta in bilico sulla ringhiera l’anziano non ha potuto far altro che aspettare i soccorsi. Gli agenti della polizia locale hanno prima assistito il signore e in seguito eseguito i rilievi del caso. La polizia – disdetta – ha anche richiesto la visita per la revisione della sua patente”.

 

Brindisi Lascia l’auto in fiamme sul bordo della strada

per l’aeroporto e scappa via per non perdere il suo volo

Ci doveva tenere parecchio a quel viaggio, oppure ci teneva davvero poco a quella macchina. Fatto sta che un fuoriclasse di Galatina (Lecce) ha abbandonato la sua automobile in fiamme sul ciglio della strada per l’aeroporto di Brindisi, a 4 chilometri dalla destinazione, ed è corso via per non perdere il volo. “Sul posto si è recata una squadra dei vigili del fuoco, i carabinieri e il carro attrezzi della ditta Tarantini per la rimozione – scrive Brindisi Report –. Le fiamme, come spesso accade in questi casi, sono partite dal vano motore, stando alle informazioni raccolte il conducente ha fatto giusto in tempo a parcheggiare e prendere la valigia prima che il rogo avvolgesse completamente il veicolo. Non aveva tempo da perdere così dopo aver allertato i soccorsi ha trovato un passaggio per l’aeroporto lasciando l’auto bruciare. I carabinieri hanno dovuto occuparsi della chiamata al carro attrezzi per la rimozione del veicolo, lasciato a ridosso della carreggiata”.

 

Cina Lo youtuber bandito dai ristoranti “all you can eat”

perché mangia troppo: ha divorato 6 kg di cibo in una sera

Mister Kang non si fa parlare dietro. Se si siede al tavolo di un ristorante all you can eat, interpreta la norma alla regola: mangia tutto quello che può. E può mangiare davvero tanto, Mr. Kang, al punto che in certi locali non lo vogliono più vedere nemmeno in fotografia. “Ha mangiato 6 chili di cibo – scrive Libero – e per questo non è più un cliente gradito: uno youtuber cinese, in arte Mr Kang, è stato inserito nella lista nera di un ristorante all you can eat per aver mangiato troppo. Lo ha raccontato lui stesso durante un’intervista col canale televisivo cinese Hunan TV. Il locale da cui è stato letteralmente bandito si chiama Handadi Seafood BBQ Buffet e si trova a Changsha, in Cina. Secondo la ricostruzione della Bbc, l’uomo ha consumato 2 chili di spiedini di maiale durante il suo primo pasto. Poi, ancora affamato, è tornato nel locale e ha mangiato ben 4 chili di gamberi”. Il proprietario del ristorante non ha creduto alla sua impresa e l’ha accusato di aver nascosto il cibo nelle tasche dei pantaloni. E Mr Kang è diventato persona non grata.

 

Germania L’uomo che perde la memoria ogni 6 ore
(ma è riuscito a innamorarsi e a diventare papà)

Il grande segreto per una storia d’amore? Dimenticarsi tutto, continuamente. È l’esperienza – mai termine meno appropriato – di Daniel Schmidt: un ragazzo tedesco che dopo un devastante incidente stradale vive ogni il suo personale giorno della marmotta quatto volte al dì. Ogni 6 ore perde la memoria e si dimentica tutto. Eppure è riuscito a innamorarsi e a diventare papà. “Daniel soffre ancora di amnesia anterograda”, scrive The Sun, nonostante un’intensa riabilitazione fisioterapica e gli esercizi di logopedia, “Riesce a ricordare le cose solo per sei ore e non ha una memoria a lungo termine, quindi deve prendere appunti dettagliati dei luoghi che ha visitato o delle persone che ha incontrato prima che svaniscano dalla sua mente”. Ha perso i ricordi ma ha trovato una compagna: nonostante le difficoltà – il bisogno di sentirsi o vedersi entro poche ore, ogni giorno, per evitare di dimenticarla completamente – Daniel si è innamorato di Katharina e i due hanno avuto un bambino.

Il re napoletano dei rifiuti che gestisce discariche liguri e dona 150 mila euro

Gli interessi sono nei rifiuti italiani. Le società sparse fra l’Italia e alcuni dei più noti paradisi fiscali, dal Lussemburgo, al Delaware fino al Regno Unito. Pietro Colucci, 61 anni, imprenditore napoletano, si definisce così: “Volto italiano della Green Economy”. Colucci è il patron del gruppo Waste (ex Kinexia), e uno dei maggiori finanziatori di Giovanni Toti, con oltre 150mila euro erogati attraverso varie società. Al tempo stesso, ha beneficiato negli ultimi anni di interventi della Regione Liguria che ne hanno favorito gli affari, in particolare con gli ampliamenti delle due discariche gestite nel Ponente della Liguria: i siti del Boscaccio, rifiuti solidi urbani, e di Bossarino, rifiuti speciali. Una fiducia che non è venuta a mancare nonostante la gestione del Boscaccio sia incappata in un’inchiesta per danni ambientali e in problemi finanziari che, secondo un’altra indagine della Corte dei Conti della Liguria, potrebbero aver provocato un danno alle finanze pubbliche.

L’ingresso in Liguria del gruppo Waste Italia risale al 2014. La gestione della discarica di Bossarino è al 100% del privato, mentre il Boscaccio è amministrata da una società pubblico-privata, la Ecosavona srl: il 75% controllate da società di Colucci, il 25% sono in mano al Comune di Vado Ligure. Nel 2018, però, il gruppo affronta una grave crisi di liquidità: la Waste Italia srl si ritrova con 274 milioni di euro di debiti e va in concordato preventivo, omologato dal tribunale di Milano un anno più tardi. “Nel concordato Ecosavona ha rinunciato ai suoi 8 milioni di euro di crediti verso Waste”. A denunciarlo, e a raccontarlo alla Guardia di Finanza di Savona, è un ex consigliere comunale d’opposizione di Vado Ligure, Roberto Cuneo, presidente provinciale di Italia Nostra. Le sue dichiarazioni hanno portato all’apertura di un’inchiesta della Corte dei Conti ligure, per sospetto danno erariale, coordinata dal procuratore Antonio Giuseppone e dal pm Marco Ferraro. “Waste ha ottenuto il controllo di quelle due discariche a debito, scaricando poi quei debiti sull’azienda comprata. Negli anni passati il Comune incassava 1 milione l’anno dalla gestione dei rifiuti. Dall’inizio di questa operazione ne ha persi quattro. La domanda è: perché l’amministrazione non ha chiesto i danni al privato?”.

Cosa succede a questo punto? Ecosavona cambia assetto societario: le quote private passano alla Green Luxco Sa, società anonima lussemburghese del gruppo Colucci; il Comune di Vado Ligure cede le sue azioni a Sat srl, municipalizzata dei rifiuti dell’hinterland di Savona. Mentre Bossarino passa alla Green up srl, altra azienda del gruppo Colucci.

Nonostante la crisi finanziaria di Waste, l’imprenditore continua quindi a gestire le discariche liguri attraverso altre società. Nel frattempo Colucci ha ottenuto due bei benefici: nel 2018 l’ampliamento di Bossarino, successivamente quello del Boscaccio, provvedimenti su cui ha voce in capitolo la Regione Liguria.

I finanziamenti del gruppo Waste (nell’articolo principale) non riguardano solo le donazioni al Comitato Change e al Comitato Giovanni Toti. Green Up, per esempio, è uno degli sponsor di Jetsky therapy, iniziativa di beneficenza dedicata allo sport e ai ragazzi disabili, a cui spesso partecipano lo stesso Toti e l’assessore alla Cultura Ilaria Cavo. Nel frattempo, il Comune di Vado Ligure vive un ribaltone clamoroso: la sindaca Monica Giuliano, eletta con il Pd, nel 2020 passa a Cambiamo. “È competente e abbiamo molte affinità”, dice di lei dice Toti.

Fondazione Change: la Gdf bussa ai finanziatori di Toti

Finanziamento illecito. È con questa ipotesi di reato che la Guardia di Finanza, su mandato della Procura di Genova, lo scorso marzo ha bussato alla porta di tre grandi gruppi industriali: Moby di Vincenzo Onorato, Europam della famiglia Costantino, Waste Italia di Pietro Colucci. I finanzieri del nucleo di polizia economica e finanziaria di Genova hanno chiesto alle aziende di fornire le delibere con cui negli anni scorsi i rispettivi consigli di amministrazione hanno autorizzato versamenti da decine di migliaia di euro a beneficio del Comitato Change e del Comitato Giovanni Toti Liguria, entrambi legati al presidente della Regione Liguria. L’ipotesi degli inquirenti è che le donazioni effettuate da queste aziende siano finanziamenti illeciti diretti a Toti, ex coordinatore di Forza Italia e oggi leader di Cambiamo, partito che conta 15 parlamentari tra Camera e Senato. L’inchiesta – coordinata dall’attuale procuratore capo di Genova, Francesco Pinto, e dal sostituto Luca Monteverde – nasce da una serie di segnalazioni di operazioni sospette inviate da varie banche alla Uif, l’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia.

Sotto la lente degli inquirenti – il fascicolo per ora è a carico di ignoti – sono finiti soprattutto i conti correnti del Comitato Change, fondato nel gennaio del 2016, sette mesi dopo l’elezione di Toti alla presidenza della Regione Liguria, e poi diventato Fondazione Change. Tra gli obiettivi di Change, si legge nell’atto costitutivo, c’è quello di “raccogliere i fondi necessari per il sostegno di attività politiche o comunque per il sostegno di attività, ovunque svolte da partiti politici, movimenti e liste politiche e dal già esistente comitato denominato ‘Giovanni Toti Liguria’, promuovendo il medesimo Comitato e sostenendone le iniziative”. Insomma, incassare donazioni private e metterle a disposizione dell’attività politica Toti è uno degli obiettivi di Change fin dalla sua nascita.

La Procura di Genova sospetta però che le cose non siano state fatte correttamente. Come nel caso della Fondazione Open, al centro dell’attenzione dei magistrati di Firenze perché considerata un’articolazione della corrente renziana del Pd, anche per Change si prospetta un’accusa simile (ma cambiano i protagonisti): essere un’emanazione diretta di Toti creata per incassare denaro privato. Un’accusa che il governatore ligure ha sempre respinto con forza. “Tutti i versamenti a Change superiori ai 500 euro sono regolarmente registrati alla Camera dei Deputati e da quando è entrata in vigore la legge anche sul sito”, ha ribadito più volte Toti a proposito dei soldi privati incassati da Change.

Le acquisizioni di documenti eseguite dai militari, guidati dal colonnello Andrea Fiducia, non mettono in dubbio questo. Puntano a un altro obiettivo: trovare prova del fatto che quelle donazioni siano state approvate dai cda delle varie aziende. Un atto indispensabile per evitare l’accusa di finanziamento illecito.

I bilanci pubblici dicono che dal 2016 al 2019 Change ha incassato in tutto 1,2 milioni di euro come donazioni da privati. A questi si aggiungono 883mila euro ricevuti tra il 2020 e il 2021 dal Comitato Giovanni Toti Liguria. Totale: oltre 2 milioni di euro, ottenuti in sei anni da vari imprenditori. Molti dei quali hanno interessi commerciali nella regione governata da Toti. È il caso delle tre aziende visitate a marzo dalla Gdf, notizia finora inedita.

Europam, della famiglia Costantino, è un gruppo energetico con base a Genova, che spazia dalle forniture di gas e luce alle pompe di benzina, con 250 impianti di rifornimento in Italia, buona parte dei quali in Liguria. Dal 2017 al 2020 il gruppo ha regalato ai comitati legati a Toti 184.500 euro. Altro grande finanziatore, è Pietro Colucci, imprenditore napoletano del settore rifiuti ed energia, gestore di due importanti discariche in regione (vedi articolo a fianco). Secondo Bankitalia società riferibili all’imprenditore avrebbero erogato almeno 150mila euro di donazioni. Colucci è stato costretto a consegnare tutti i documenti societari richiesti dalla Finanza, e così ha fatto anche il patron della Moby, Vincenzo Onorato. L’armatore campano, arrivato negli anni scorsi a dominare il mercato italiano dei traghetti grazie al contemporaneo controllo su Moby e il gruppo Tirrenia, il 22 maggio del 2019 ha donato 100mila euro al Comitato Change attraverso Moby. Una bella cifra per un’azienda vicina al fallimento. Un anno dopo quella donazione, Moby ha chiesto il concordato preventivo al tribunale di Milano proprio perché incapace di ripagare i propri debiti. Alla fine i giudici lombardi hanno dato l’ok, mentre nell’aprile scorso la procura meneghina ha aperto un fascicolo a scopo conoscitivo, senza indagati né ipotesi di reato, per verificare la regolarità di alcune donazioni fatte da Moby tra il 2015 e il 2020. A ricevere i regali di Onorato, infatti, non è stato solo il comitato vicino a Toti, ma tanti altri: 200mila euro alla Beppe Grillo Srl, 600mila alla Casaleggio Associati, 90mila al Pd, 10mila a Fratelli d’Italia, 200mila alla Fondazione Open.

Covid, scontri a Bruxellex: 35mila No Vax in piazza

Aumento di contagi ed ospedalizzati in Italia: con i quasi diecimila nuovi infetti di ieri, il tasso di positività non si sposta dal 2%, ma cifre così negative il ministero della Salute non le registrava dal 6 maggio scorso. Rimane “urgentissimo” e inderogabile il confronto con i membri del governo che chiedono i vertici delle Regioni italiane: quelle più colpite potrebbero in futuro cambiare colore. All’inizio di questa settimana i governatori discuteranno di nuove restrizioni con la ministra Gelmini e il sottosegretario Garofoli per un nuovo decreto che potrebbe arrivare già entro la notte di mercoledì prossimo. Da dicembre, quando le strade torneranno a riempirsi per le feste di Natale, potrebbe entrare in vigore un “super green pass”, mentre il certificato verde attuale potrebbe scadere dopo 9 mesi dalla data di inalazione del siero. Secondo le nuove regole, il tampone molecolare servirà per andare a lavoro, ma probabilmente non sarà valido per il trasporto pubblico. Sul tavolo non c’è la proposta di lockdown selettivo solo per i “no-vax”, nonostante alcuni governatori si siano detti favorevoli.

Ulteriori limitazioni sono necessarie, secondo il ministro della Salute Speranza, (che dà luce verde all’anticipo del richiamo della terza dose per alcune categorie di lavoratori), perché “la curva del contagio continua a salire nel nostro Paese e ancora di più nei Paesi europei vicini all’Italia”.

Nell’Unione sono giorni di fuoco e barricate per le limitazioni anti-Covid imposte dai governi. Ieri, contro le 35mila persone che hanno manifestato a Bruxelles, le forze dell’ordine hanno fatto ricorso a lacrimogeni e idranti per disperdere la folla. In Olanda, invece, per due giorni di fila si è ripetuta quella che il sindaco di Rotterdam, Ahmed Aboutaleb, ha chiamato “un’orgia di violenza”. Il bilancio è di oltre 40 arresti in tre province: record di manette l’hanno registrato all’Aja. Aumento pericoloso di infetti anche a Londra: 40mila nuovi casi, 3mila in più rispetto ai giorni scorsi.