“In fuga verso il voto. Non vorrei che il Paese ci scoppiasse in mano”

Mario Draghi è il più bravo di tutti o solo il più scaltro? Il più competente o solo il più potente? Le risposte di Vincenzo Visco, l’inflessibile ministro delle Finanze dei governi di centrosinistra e perciò molto combattuto (e odiato) dalla destra, contengono sia buoni e cattivi pensieri.

“Sgombriamo il campo da un dubbio: Mario Draghi è il più bravo di tutti. Conosce la politica, perché l’ha molto frequentata, ed ha l’esperienza necessaria per gestirne i suoi vizi”.

È il migliore dunque.

Sì, ma non basterebbero le sue capacità se non godesse anche di un trattamento di favore, diciamo così, dei partiti. A Giuseppe Conte non gliene facevano passare una, anzi creavano gli incidenti, alimentavano polemiche, ogni sorta di ostacolo.

Conosce la battuta di Rino Formica?

E certo! “Non potendo contare su una maggioranza Draghi si accontenta dell’unanimità”. È perfetta. L’unanimità gli consente di prendere decisioni che un governo politico non sarebbe riuscito mai ad approvare.

Esempio?

Il green pass. Io penso che Arcuri fosse anche più bravo di Figliuolo, ma mai l’opposizione avrebbe accettato uno strumento di filtro sociale così invasivo. Provi a immaginare cosa avrebbero fatto i governatori del nord, provi solo a pensare quante piazze Salvini e Meloni avrebbero chiamato a raccolta contro la “dittatura sanitaria”. Magari con il libretto della Costituzione in mano.

In effetti con Conte i governatori erano spesso i più contrari a irrigidire i vincoli anti Covid. Oggi sono quelli che spingono di più per restaurare la fermezza.

Perciò Draghi è fortunato.

Mario Monti l’ha però criticato: la finanziaria è all’acqua di rose, del fisco non parla, le riforme languono. Come se non usasse il suo potere, o non avesse più forza, oppure più voglia.

L’uomo è scaltro e ha esperienza. Sa che la sua maggioranza è divisa su tutto, ne prende atto e sceglie l’immobilismo tattico.

Ha lottizzato la Rai come tutti gli altri però. Poteva almeno sottrarsi.

Spero che non abbia perso la voglia di stare a palazzo Chigi.

Infatti si dice che stia preparando la campagna elettorale per il Quirinale. Lei tifa per lui?

Capisco che a nessuno piace governare un Parlamento sbrindellato che ha una voglia matta di dividersi e contarsi. Ma solo lui può dare un po’ di ordine per iniziare almeno a preparare il terreno alla transizione ecologica che non è affatto una passeggiata. È una rivoluzione che costerà lacrime e sangue, non so se l’hanno capito.

E cos’altro dovrebbero capire i partiti?

Il paradosso del Pil che si impenna e del lavoro che si riduce. Lasciare fare al mercato significa lasciare fare ai più forti. Rinunciare a una fiscalità più equa significa rilanciare le diseguaglianze.

Lei era giudicato un sanguisuga: più tasse per tutti.

Più tasse per i ricchi piuttosto. E meno per i poveri. Ma come è possibile che il Reddito di cittadinanza, in media 500 euro, faccia concorrenza – secondo quel che raccontano gli imprenditori – al lavoro stabile? Vuol dire che è remunerato pochissimo e ci stiamo avviando a una frattura sociale ancora più eclatante di quella attesa e prevedibile.

Draghi non sembra preoccuparsene molto.

Intuisce che la sua maggioranza non tiene se mette mano alla riforma fiscale.

Ma se sta fermo che senso ha avercelo?

Senza di lui ci sarebbe il caos.

Pensa che la massoneria c’entri qualcosa nella liquidazione del governo Conte?

Penso di sì, anzi credo che la massoneria abbia fatto da regia (occulta naturalmente).

Lei è un uomo di sinistra. Ma la sua parte politica non batte ciglio nemmeno contro l’ipotesi, che sembra molto lontana ma forse non lo è, che Silvio Berlusconi, l’avversario di sempre, possa divenire presidente della Repubblica.

E come, non lo so?

Lo sa, ma non c’è alito non dico di protesta ma almeno di stupore.

Ricordi che metà Italia l’ha adorato ed è andato al governo per l’avversione che questo Paese nutre nei nostri confronti. Un’avversione antropologica prima che politica. Comunque non credo che Berlusconi salirà al Colle. Se dovesse servirle un pronostico, eccolo.

E allora Draghi?

Però poi al governo sarebbe il caos. Non vorrei che ci scoppiasse in mano il Paese.

Le ‘marchette’ alle lobby dal fedelissimo di Draghi

“Ventre a terra” per il gruppo Toto, lancia in resta per la Bat. I pm di Firenze l’han già chiusa da un pezzo, ma da qualche giorno i riflessi dell’inchiesta su Open si proiettano su Palazzo Chigi. Le luci investono l’ufficio del capo di Gabinetto di Mario Draghi, Antonio Funiciello, tra le cui mani passano dossier delicatissimi, nomine Rai comprese.

Perché Funiciello? Benché non indagato, dalle carte sono emersi i messaggi che scambiava coi protagonisti dei due filoni dell’inchiesta fiorentina dove balena l’ipotesi di corruzione: da una parte il manager della British American Tobacco Gianluca Ansalone, dall’altra il patron delle concessioni autostradali Alfonso Toto, entrambi interessati al destino di emendamenti sensibili per le società, entrambi munifici finanziatori di Open. Funiciello all’epoca era a capo dello staff di Gentiloni, già presidente del Comitato “Basta un sì”. Non ha risposto alle nostre domande, tuttavia l’impegno profuso verso le istanze degli imprenditori, per come emerge dalle carte, pone a Chigi un tema d’opportunità. Ecco perché.

Tra il 2014 e il 2017 Bat ha versato 170 mila euro nelle casse di Open. Gli investigatori si concentrano sull’ultimo finanziamento, pari a 20 mila euro, perché successivo di una manciata di giorni all’affossamento finale di un emendamento che – aumentando le accise – avrebbe danneggiato la società. Quando la faccenda entra nel vivo, il cellulare di Funiciello si illumina più volte. L’8 novembre 2017, il manager Ansalone gli manda via Whatsapp accorati appelli e un “appunto” su quell’emendamento. “Ok, cerco di capire”, risponde l’altro. E poi ancora: “Benissimo. Sono già all’opera, complicato però”. Ci vuole un mese intero per “disinnescare la bomba”, come scriverà Ansalone a Bianchi ancora il 14 dicembre 2017, aggiungendo: “Poi ci prepariamo per la campagna elettorale”.

Cinque giorni dopo, l’emendamento viene accantonato, parte una girandola di ringraziamenti che oltre a Luca Lotti include Funiciello. “Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo. Ti voglio ringraziare per il tuo ascolto e il supporto”, scrive il manager di Bat. Il 19 dicembre la “bomba” è un ricordo. Due giorni dopo, Bat versa sul conto della Fondazione 20 mila euro.

Anche la (auto)strada è lastricata di buoni emendamenti. Funiciello torna nelle carte per via delle concomitanti pressioni esercitate dal gruppo Toto per mandare in porto un emendamento in commissione Bilancio che aumenta di 58 milioni la spesa prevista per il 2018 per interventi di messa in sicurezza sulle autostrade abruzzesi A24 e A25. Il 17 dicembre Toto manda un messaggio all’ex presidente della Regione e senatore Luciano D’Alfonso per chiarire di chi siano i meriti. Sostiene d’aver condiviso il testo con Funiciello, che “ha lavorato ventre a terra avendo compreso la drammaticità della nostra infrastruttura abruzzese”.

Per gli inquirenti, il capo di gabinetto di Draghi avrebbe avuto un ruolo nell’approvazione, ma senza ricevere utilità in cambio, diversamente da altri. Il giro dei soldi non è poi tanto largo. Bianchi, ex presidente di Open, ad agosto 2016 riceve da Toto, per una prestazione professionale che i pm ritengono “fittizia”, 800 mila euro: 200 mila li gira alla Fondazione, il 9 novembre versa altrettanto al “Comitato per il Sì”, di cui Funiciello era presidente, in forma di prestito infruttifero. Agli atti ci sono anche rimborsi (viaggi-pernottamenti) che la Open sostiene per la sua attività di rappresentanza del comitato renziano. Funicello, ribadiamo, non è indagato. Al momento della nomina Draghi non conosceva l’attivismo del suo capo di gabinetto nei dossier citati e di cui da giorni però si parla sui quotidiani. Che di certo il premier ora avrà letto.

Anche peggio di B. Iv vuole disarmare persino l’Antimafia

Da una parte c’è il dialogo con Marcello Dell’Utri, che ha scontato una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, per provare a issare Silvio Berlusconi al Quirinale e mettere in piedi un’alleanza elettorale con Forza Italia a Palermo e in Sicilia. Dall’altra l’attacco a due strumenti fondamentali della lotta alla criminalità organizzata: la confisca dei beni e l’ergastolo. Durante la Leopolda di Matteo Renzi, caratterizzata dalla guerra ai pm di Firenze, la lotta antimafia degli ultimi anni è stata pesantemente messa in discussione.

A pensarci è stato sabato pomeriggio Alessandro Barbano, condirettore del Corriere dello Sport e già vicedirettore del Mattino, noto per le sue posizioni iper-garantiste. Chiamato sul palco ha fatto una lunga requisitoria sul rapporto tra media, politica e giustizia attaccando l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo (“Per lui sono tutti presunti colpevoli tranne lui”) prima di azzardare: “La giustizia è la più potente macchina di dolore umano non giustificabile presente in questo Paese”. Poi ha concluso sull’antimafia: “Stiamo attenti a pensare che sotto l’ombrello della legalità dell’antimafia ci sia tutto il bene del mondo. Stiamo attenti perché dentro la retorica dell’antimafia lo stato d’eccezione, il diritto dei cattivi, si è insinuato nella democrazia ed è diventato la regola. Un diritto penale liberale non confisca proprietà, aziende a cittadini innocenti o addirittura assolti”. Alle sue spalle Matteo Renzi annuiva. Applausi dalla platea. Nemmeno Berlusconi era mai arrivato a tanto. Un attacco alla legge Rognoni/La Torre del 1982 che introdusse, oltre al nuovo reato di associazione mafiosa, anche il sequestro e la confisca dei beni ai mafiosi non si era mai visto. La legge è stata aggiornata più volte fino al 1996 quando fu permesso il riutilizzo “sociale” dei beni. Ma i governi Berlusconi non si sono mai sognati di provare a smontarla. Al massimo, nella Finanziaria del 2008, fu introdotta una norma che permetteva la vendita all’asta di 3 mila immobili confiscati alle mafie. E quindi potenzialmente riacquistabili dai prestanome dei boss.

Sabato alla Leopolda però è arrivato anche un secondo attacco di Barbano alla legislazione antimafia: “Un diritto penale liberale non può contenere una norma che si chiama ergastolo ostativo e che impedisce che si conceda il beneficio della liberazione anticipata dopo trent’anni e qualunque premialità, a meno che non hai collaborato attivamente con il pm”. Dopo le due sentenze della Consulta che hanno sdoganato i permessi premio e dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo sulla libertà condizionata, giovedì alla Camera è stato approvato un testo base col voto di tutti i partiti (tranne Fd’I) che prevede paletti molto rigidi per avere benefici. Una legge che però non piace a Iv e Fi che presenteranno emendamenti a raffica. Tant’è che Barbano ha definito l’ergastolo ostativo “un punto di barbarie piantato nell’ordinamento”. Per modificare questi due strumenti, il giornalista ha auspicato “una lunga e radicale riforma della giustizia”. Grandi applausi e stretta di mano con Renzi. Anche l’ex pm Carlo Nordio non ha risparmiato accuse all’antimafia mettendo nel mirino Nino Di Matteo che oggi siede al Csm e un giorno, secondo lui, potrebbe decidere sul futuro dei giudici di Appello di Palermo che avrebbero “sgretolato la sua inchiesta sulla Trattativa”. Anche per Nordio, la platea della Leopolda si è spellata le mani.

Sipario Leopolda: Renzi lancia Faraone e altri veleni sui pm

Sotto l’inchiesta Open niente. Quando non è alimentata dal combustibile dell’odio per la magistratura, della Leopolda rimane davvero poco. Nessuna sorpresa, zeru tituli per i giornalisti, se non l’annuncio della candidatura di Davide Faraone come sindaco di Palermo. “Non è il frutto di un accordicchio”, dice Renzi. Sottinteso: non c’è un patto con Forza Italia. Difficile a credersi, vista la recente frequentazione enogastronomica dell’ex premier con Gianfranco Micciché, pupillo di Marcello Dell’Utri e tenutario delle fortune berlusconiane in Sicilia. Se la prospettiva politica per uscire dall’angolo è una candidatura kamikaze a Palermo, tra svariati mesi, il finale è davvero deludente. Renzi en passant annuncia la data delle elezioni politiche: “Si vota a giugno 2022”. Chissà se ci crede davvero o è solo una minaccia per i parlamentari in fuga di Italia Viva. Il mondo è diviso a metà: “Da una parte la destra sovranista di Salvini e Meloni, dall’altra il populismo di Conte e Taverna”. Il Pd viene attaccato da tre giorni: sono “vigliacchi”, “ipocriti”, non gli hanno espresso solidarietà per Open, stanno riaprendo le porte a Bersani e D’Alema. In mezzo a tutti questi populismi c’è lui, che si paragona all’Enrico V di Shakespeare (“Noi pochi, noi felici, noi banda di fratelli”). Il centro di cui parla è più una categoria dello spirito (“Lo spazio dove si vincono le elezioni in tutto il mondo”) che un progetto politico: anche perché Carlo Calenda si è tenuto ben lontano da qualsiasi associazione con la Leopolda. Nel vuoto di Renzi, ieri la platea si è scaldata per Maria Elena Boschi.

Lacrime di Meb. Il discorso dell’ex ministra è una fotocopia di quello renziano del giorno prima. Lei contro tutti: “Sono stata massacrata”. Rancore, ricordi e il solito ritornello: “Le fake news noi le abbiamo subite, dalla Bestia di Luca Morisi e da quella di Rocco Casalino”. Gli schermi della Leopolda mostrano il fotomontaggio della Boschi in perizoma al Quirinale nel giorno del giuramento. Un falso ridicolo che circolò in rete da mano anonima – partì da un utente olandese – non riconducibile a nessuna propaganda di partito. “Mi chiamavano Maria Etruria”, ma “la stampa sapeva la verità”. Non cita però Ferruccio De Bortoli, che scrisse della sua proposta all’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, di valutare l’acquisizione della banca del padre (Pierluigi Boschi è stato vicepresidente di Etruria). Meb annunciò urbi et orbi una querela per diffamazione all’ex direttore del Corriere. Poi per sette mesi tacque. In extremis, scaduti i termini per l’azione penale, firmò una citazione civile. Ieri – tra le tante menzogne che dice di aver subito – si è dimenticata quest’episodio. Alla fine del discorso era commossa.

Il cane di carrai. Cosa resterà di quest’undicesima Leopolda? Qualche uscita spettacolare di Renzi. Come la battuta sul cane di Marco Carrai: una bestia “antipatica, forse grillina”. Il quadrupede, finito nelle carte di Open, è stato citato come prova dell’inutilità delle conversazioni rese pubbliche dai pm di Firenze. La lettura degli atti giudiziari di Renzi è selettiva. Come il suo garantismo: alterno. Nell’intervista concessa al Tg2 durante la kermesse, Renzi ha sfidato in duello televisivo “quelli che hanno preso le mazzette sui banchi a rotelle, sulle mascherine, sui ventilatori cinesi”. Non esiste nessuna inchiesta sui banchi a rotelle, ovviamente. Né alcuna prova di mazzette: l’indagine sulle mascherine che riguarda Domenico Arcuri, per adesso ha prodotto la richiesta d’archiviazione dell’ex commissario al Covid.

“roba da seghe”. Resteranno (meno) nella memoria i ragazzi della “generazione Ventotene”, attivisti ventenni della scuola di politica renziana, convocati sul palco accanto al leader per rinfrescare l’ambiente (parecchio grigio, anagraficamente, specie in platea). Belle facce, ma non proprio giganti del pensiero politico: non hanno detto praticamente una parola, se non di elogio del capo. Ma hanno annuito benissimo. Resteranno le magliette ironiche del merchandising (non ufficiale) del gruppo Facebook “Società aperta”: un Renzi “santino” con gli occhiali da sole e la scritta: “Trust the plan, bischero” (fidati del piano). O quella (in foto) con l’Air Force Renzi e l’intercettazione nelle carte di Open: “Roba da seghe”. Potrebbe essere l’ultima Leopolda: se davvero si voterà l’anno prossimo e se Iv dovesse restare fuori dal Parlamento, senza i contributi pubblici ai gruppi, chi pagherebbe tutto questo ben di Dio?

Stacchetti. Domenica, stizzito con la regia che sbagliava sempre i tempi degli intermezzi musicali tra un ospite e un altro, Renzi è sbottato: “Ragazzi, gli stacchetti! Lo stacchetto è il punto fondamentale della Leopolda!”. La ricorderemo così: uno stacchetto lungo undici anni.

Ma mi faccia il piacere

Brrr. “’A gennaio Supermario si dimette…’. Ed è panico” (Dubbio, 11.11). Stiamo già tremando.

Si porta avanti. “Al processo Open mi difenderò in ogni udienza” (Matteo Renzi, senatore Iv, indagato per i finanziamenti illeciti a Open, 20.11). Praticamente s’è già rinviato a giudizio da solo.

Berlusgrillo. “Stima e rispetto per Conte sul piano personale… Il reddito di cittadinanza? Gli importi che sono finiti a dei furbi che non ne avevano diritto sono davvero poca cosa rispetto alle situazioni di povertà che il reddito è andato finalmente a contrastare” (Silvio Berlusconi, Tempo, 21.11). Si attende ad horas l’elogio della legge Spazzacorrotti.

Renzusconi. “I grillini hanno fatto il reddito di criminalità, io da capo del governo ho creato un milione e 300 mila posti di lavoro” (Matteo Renzi, Ottoemezzo, La7, 12.11). Ma soprattutto uno: il suo.

La famiglia Addams. “Sono indagato dallo stesso pm che ha arrestato mia madre e mio padre e indagato mia sorella e mio cognato” (Renzi alla Leopolda, 20.11). Però il gatto pare sia incensurato.

La vispa Teresa. “Renzi fa bene a volare a Riad. In Iv non c’è nessun dissenso. Il senatore è nel mirino perchè è un leader che conta” (Teresa Bellanova, viceministra Iv dei Trasporti, Domani, 17.11). I soldi.

Meli imbavaglio io. “Avete sostenuto la riforma Cartabia, ma come dimostra la vicenda Open le notizie escono lo stesso” (Maria Teresa Meli intervista la Boschi, Corriere della sera, 15.11). Giusto: aboliamo i giornalisti, tanto lei non rischia niente.

Sansonetta e Romeo. “Il pm Woodcock ha querelato il Riformista, giornale edito da Alfredo Romeo, mentre è in corso un processo contro Romeo nel quale lui è pm: è incompatibile” (Piero Sansonetti, 18.11). Funziona così: l’imputato Romeo fonda un giornale che diffama il suo pm; il suo pm lo querela; dunque l’incompatibile non è il giornale dell’imputato, ma il pm.

The Genius/1. “Il timore nei partiti: governo al capolinea se Draghi non va al Colle” (Stefano Cappellini, Repubblica, 12-11). Se ci va, invece, pure.

The Genius/2. “La quarta ondata rilancia il tandem Draghi-Mattarella. Si ragiona di confermare l’attuale assetto per evitare l’instabilità politica col ritorno dei contagi” (Repubblica, 18.11). Parola del giornale che 1 anno fa, in piena seconda ondata, tifava crisi di governo per creare l’instabilità politica col ritorno dei contagi.

Rosatellum. “Abbiamo bisogno di dare un messaggio semplice, mettere insieme riformisti e liberali: i ‘Draghetti’” (Ettore Rosato, presidente Iv, 13.11). Levategli il Rosato.

I due amuleti. “Se Travaglio non si arrabbia, forza Italia! Stasera gioca l’Italia, possiamo dirlo ‘forza Italia’!?” (Renzi, Ottoemezzo, 12.11).“Italia-Svizzera? “Stasera vinciamo” (Matteo Salvini, segretario Lega, Adnkronos, 12.11). Risultato: 1-1 e Italia non qualificata ai Mondiali del 2022. Un altro paio di auguri così, ed è fatta.

L’ultima sfiga. “C’è un’ultima sfida, quella che riguarda il Colle… C’è un nome nel libro degli appunti di Renzi. Si parla di Paolo Gentiloni” (Corriere della sera, 20.11). Ben gli sta.

Berlusnordio. “I pm hanno un potere assoluto e insindacabile” (Carlo Nordio, ex pm, alla Leopolda, 20.11). Fortuna che poi vanno in pensione.

Berlusmerlo. “Non è la magistratura che dipende dalla poliitca, ma la politica che dipende dalla magistratura” (Francesco Merlo, Repubblica, 21.11). Cavaliere, è lei?

Campi. “Il campo largo deve andare da Renzi a Bersani e i 5S” (Graziano Delrio, senatore Pd, Repubblica, 20.11). Il famoso campo di Agramante.

Mai dire mai/1. “Mai mi piacerà una parte della destra” (Beppe Sala, sindaco di Milano, alla Leopolda, 20.11). A parte quella che nel 2009 lo nominò city manager della giunta Moratti (FI-Lega-An) e quella che lo applaude alla Leopolda.

Mai dire mai/2. “Iv mai con Conte e Salvini” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Corriere della sera, 15.11). “Renzi: ‘Mai con Letta e M5S’” (Messaggero, 20.11). Infatti governano con M5S, Letta e Salvini.

Premi e cotillons. “Ama, soldi ai netturbini per non darsi malati” (Repubblica, 19.11). “Per i netturbini Ama la riduzione del tasso di malattia non è l’unico modo per accedere ai premi. Preciseremo l’accordo” (Roberto Gualtieri, sindaco Pd di Roma, Repubblica, 21.11). Quelli dell’Atac invece, per accedere ai premi, non solo dovranno andare a lavorare, ma anche astenersi dall’incendiare gli autobus.

Il titolo della settimana/1. “Lo strano salotto di Gruber, dove si processa Renzi ma non si chiede nulla a Gratteri” (Dubbio, 20.11). Perchè, anche lui prende soldi dai Benetton e da bin Salman?

Il titolo della settimana/2. “Spadafora: ‘Troppi errori, Conte è un leader debole che silenzia il dissenso’” (Repubblica, 19.11). Bei tempi, quelli delle espulsioni.

Il titolo della settimana/3. “Il viaggio di Cartabia negli Stati Uniti sullo sfondo della partita Quirinale” (Repubblica, 16.11). Ma non possono tenersela lì? Qualcosa da farle fare magari glielo trovano.

La Lodovini si perde a Tropea e Lo Cascio fa “The bad guy”

Dopo il successo planetario di The Father, Anthony Hopkins è tornato a recitare per Florian Zeller in The Son, trasposizione di un testo teatrale del regista e drammaturgo francese, sceneggiata come la precedente da Christopher Hampton e interpretata da Hugh Jackman, Laura Dern eVanessa Kirby.

Charlotte Gainsbourg e Matt Dillon saranno i protagonisti di An OceanApart, un dramma in costume di Frédéric Garson, ambientato tra Parigi e Chicago, sull’intensa relazione tra la filosofa Simone de Beauvoir e lo scrittore americano Nelson Algren, che durò dal 1947 al 1964 e fu per lo più basata su una serie di lettere.

Due leggende delle scene come Michael Caine e Glenda Jackson sono i protagonisti di The Great Escaper, un film di Oliver Parker ispirato da eventi reali che racconterà la fuga di 48 ore da una casa di cura del veterano Bernard Jordan per prendere parte al 70esimo anniversario dello sbarco delle truppe alleate in Normandia.

Valentina Lodovini e Francesco Scianna girano a Tropea Conversazioni con altre donne, una coproduzione italo-argentina targata 39 Films eMG producciones e diretta da Filippo Conz, in cui un uomo e una donna si incontrano a un matrimonio e scoprono di essere attratti l’uno dall’altra ma anche di essersi già conosciuti da giovani. Il film è il remake di Conversations with Other Women, in cui Hans Canosa ha diretto 15 anni fa Helena Bonham Carter e Aaron Eckhart.

“The Bad Guy” è il titolo di una nuova serie di Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana prodotta da Indigo per Amazon Prime Video con Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi protagonisti. Si tratta di una dark comedy che racconta le vicende di Nino Scotellaro, un pubblico ministero siciliano da sempre attivo nella lotta alla mafia che all’improvviso viene accusato di essere un affiliato di Cosa Nostra.

Le “Chansons” di Civello da Aznavour a Brel, passando per la serie tv di Imma Tataranni

Una bimba piccolissima, un padre giovane. E un’epifania che riemergerà molto dopo. “I miei si erano appena separati, avevo tre anni. Passavo l’estate con papà. Scendevamo in auto da Roma a Modica, sentendo a ripetizione una cassetta di Paoli. Intonavo quei pezzi finché lui non implorava di cambiare”. Chiara Civello non poteva rendersi conto delle sfumature di una ballata struggente come Col tempo sai, che Gino aveva chiesto in prestito alla maestà poetica di Leo Ferrè. “Non capivo quanta malinconia avesse dentro mio padre. Decenni più tardi, in studio, mi imbatto di nuovo nel brano, che avevo rimosso. Quei ricordi d’infanzia riaffiorano, d’improvviso. Tremando come una foglia, la incido. Una volta sola. La riproporrò nel tour che parte il 10 dicembre. L’idea mi spaventa ancora”. Chiara ha mandato un Whatsapp al genitore con l’esecuzione in cui si ritrova, splendidamente indifesa, di fronte a questa scatola riaperta dalla vita: “Mi ha risposto: ‘Dio, bellissima’, è un uomo riservato, non sposterò oltre gli ingombri della sua anima”.

Col tempo sai è la madeleine proustiana di Chansons, l’album in cui la cantautrice romana si prende cura, con grazia e misura, dei capolavori francesi da esportazione, da Aznavour a Becaud, dalla Piaf a Legrand, e Trénet, Lai o Brel fino alla My Way che in troppi credono sinatriana, invece è firmata da Claude François. Uno scavo (“affrontato capitalizzando sulla mia vulnerabilità”, giura lei) che segue quelli già intrapresi per i tesori tricolore e del tropicalismo. “I monumentali interpreti di più di mezzo secolo fa si prendevano la libertà di essere trasversali, creando connessioni di reciprocità tra la Francia e l’Italia, tra l’America e il Brasile. Dalida non era solo Parigi, Ella Fitzgerald arricchiva Jobim”. Anche la Civello detesta i confini: “In inglese si parla di escape roots, le radici di fuga che devi piantare altrove per sentirti accolto”. Con il rischio di pensare a troppe chiavi di casa: “Ne ho tre. A Brooklyn e Rio, tane stagionali. Più Roma. Mi capita di chiedermi: dove avrò lasciato quel libro?”, ride.

Chiara prese a seminare le proprie tracce da adolescente, quando vinse una borsa di studio per la Berklee School di Boston e finì per bussare a Santa Monica in casa di Bacharach, con cui scrisse Trouble: “Avevo 25 anni, ero naïf come oggi. Lui un Gesù della musica, nella sua purezza e umiltà. C’era un piano in ogni stanza, Burt amava cenare in un ristorante italiano. Mi insegnò i segreti per rendere magica una melodia”. Come Perdiamoci che la Civello ha composto per la serie tv Rai Imma Tataranni. “Nella fiction la canto, interpretando me stessa. Il testo è del Premio Strega Emanuele Trevi: adoro la concezione sacra della parola che hanno gli scrittori. Trevi mi spiega i settenari…”. C’è qualche altra canzone che non ha ancora avuto il coraggio di affrontare? “Quelle di Dalla. Mi si avvicinano, io penso: sei tu? O tu? Ci sceglieremo a vicenda. Chiederò consiglio a Lucio, davanti la sua casa di Trastevere”.

“I monumenti ci parlano: basta saperli ascoltare”

 

Anticipiamo l’introduzione di Chiara Frugoni al libro di suo padre Arsenio, “Storia dell’architettura d’Italia”, fresco di stampa.

 

Storia dell’architettura d’Italia è la seconda parte delle tre che componevano il testo da mio padre intitolato 31 conferenze sull’arte d’Italia. Fra le tante occupazioni a cui si dedicò durante il periodo bellico scrisse un ciclo completo e molto impegnativo, trentun conferenze divise in tre gruppi: pittura, scultura e architettura dai tempi paleocristiani ai suoi giorni. Quest’opera sembrava scomparsa perché non ne è rimasta traccia nell’archivio della Scuola Editrice (devastato da un terribile incendio, causato dal bombardamento del 2 marzo del 1945), né in alcuna biblioteca italiana. L’unica copia rimasta della sola parte cartacea è qui in casa, un cimelio custodito e insieme dimenticato, sopravvissuto a tanti traslochi dei miei genitori e della mia propria famiglia.

La casa editrice Morcelliana, dopo il fortunato ciclo delle quindici conferenze dedicate alla pittura, pubblica ora il secondo ciclo di cinque, dedicato all’architettura italiana.

Entrambi i volumi sono corredati da tutte le immagini citate da mio padre, a colori, rintracciate dalla sagacia del curatore Saverio Lomartire che ha profuso le sue doti di filologo e storico dell’arte non solo identificando le scarne indicazioni contenute negli opuscoli originali, ma anche i passi degli storici dell’arte, sempre citati da mio padre fra virgolette, ma quanto alla fonte, in modo piuttosto sbrigativo. Mio padre aveva dato forma scritta alle sue conferenze certamente riservandosi di tornare su questo lavoro in vista di un progetto più corposo che poi non si realizzò.

Devo fare una confessione: non avevo mai letto i testi di questo piccolo libro sgualcito e ingiallito delle 31 conferenze e dopo la gioiosa scoperta degli scritti dedicati alla pittura, avevo mantenuto, per la mia consuetudine con immagini di scultura e pittura dove ho sempre rintracciato testimonianze vibranti di vicende umane, un superficiale pregiudizio per le conferenze dedicate all’Architettura d’Italia. Mi aspettavo un resoconto ben fatto, ma più freddo, perché più tecnico, vicino a numeri e misure tangenti ai miei ricordi scolastici di traballante comprensione di nozioni scientifiche.

Non è stato assolutamente così: ho letto tutto di un fiato il libro ed è stata una festa per gli occhi e per la mente.

Per gli occhi, per le magnifiche figure a colori, 250 circa, scelte con grande cura da Saverio Lomartire per offrire il migliore raccordo possibile al testo. Per la mente, per varie ragioni. Poiché la critica ha sempre riconosciuto la felicità di scrittura di mio padre, posso, pur essendo la figlia, lodarne la prosa affascinante e coinvolgente, dove ogni aggettivo è scelto con cura ed è un guizzo illuminante.

Ho trovato prodigioso che in così poche pagine sia disegnata in modo tanto chiaro e brillante la storia dell’architettura italiana.

E anche se a molti sembrerà lapalissiano, ma repetita iuvant, ho scoperto che gli edifici hanno una voce e parlano, legati indissolubilmente al contesto storico in cui sono nati e raccontano il perché delle loro forme e del loro variare, proprio come i dipinti e le sculture, se si forniscono, come in questo caso fa mio padre, gli strumenti per ascoltarli.

“Io e Saviano bohémien, a Servillo davo del Lei. E la maglia di Maradona”

Lei, volendo, è un comico. “Eh, lo so. Ho iniziato così, in tournée con Toni Servillo: ho girato per quattro anni con il ruolo di ‘mamo’; restavo quindici minuti in scena ma veniva giù il teatro. Era quella la mia propensione”.

Dire e fare; credere ed essere; volere e a volte sognare; immaginare e realizzare. Con un però: a Marco D’Amore non è andata male. In otto anni è diventato una delle maggiori maschere della serie prima, del cinema dopo: lui è l’Immortale di Gomorra (Sky Original prodotto da Cattleya) ed è riuscito a far suo un nome, Ciro, tra i più impersonali perché tra i più comuni di Napoli.

Ora Ciro (l’Immortale) è lui. E da ieri, dopo otto anni di camorra, morti, sparatorie, droga, soprannomi, ritorni e periferie (non solo fisiche) è in onda l’epilogo, la quinta e ultima stagione di una serie entrata nella storia.

Dov’è finita la sua propensione comica?

Resta, anche un secondo prima di un ciak sul set di Gomorra: quella di esorcizzare e dissacrare è una mia propensione alla vita; però la comicità è prima di tutto “tempo”, poi arriva l’arguzia di trasformare le parole.

Quel tempo lo ha allenato?

A quindici anni ho iniziato con una sorta di filodrammatica napoletana e ci cimentavamo con i testi di Scarpetta, di Eduardo, di Ferdinando Russo, di Samy Fayad. Lì usciva fuori la tecnica napoletana.

Quindi a scuola scatenava le risate.

La propensione alla comicità non piaceva agli insegnanti.

L’ironia quanto l’ha salvata?

I miei tempi del liceo erano particolari. Da una parte è cresciuta una classe di persone importanti, e tra queste penso a Roberto Saviano o a un altro di noi che è diventato professore alla Sorbona. Ragazzi impegnati politicamente. Però quelli erano anche gli anni in cui Casal di Principe o Marcianise erano nel boom: quella provincia nel weekend si riversava da noi a Caserta.

E…

Accadeva di tutto, il far west: per uscire e tornare a casa integro dovevo essere uno sveglio; (pausa) insomma, vivevo su quei binari e in qualche modo l’ironia mi ha salvato.

Saviano era ironico?

L’ho sempre visto come molto serio, molto preso, molto impegnato.

Era già Saviano.

Sì, con una grande differenza: aveva i capelli lunghi fino al culo; (sorride) lo chiamavamo “l’indiano” e questo aspetto selvaggio lo rendeva ancor più eroico.

Anche lei capellone.

Ricci legati in una coda: a Milano, quando frequentavo la Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, ero veramente un bohémien.

Quanto bohémien?

Proprio tanto. Dormivamo in sette in una casa. Quando dormivamo. Ci nutrivamo delle merendine della macchinetta e con uno stratagemma mettevamo 50 centesimi e ne prendevamo cinque; vabbè, è una stagione passata.

Sette anni fa con Enrico Fierro l’abbiamo intervistata a Scampia: iniziava la saga di Gomorra.

Per la prima volta mi misuravo per otto mesi con la macchina da presa: lì ho iniziato a capire chi ero, in cosa ero impegnato e soprattutto a gestire le espressioni, a veicolare le emozioni.

Scuola di vita.

Come difficilmente un attore o un regista possono avere nel corso di una carriera: otto ore al giorno per tutti questi anni è un bagaglio incredibile di esperienza.

Il suo provino.

In città non si parlava di altro, tantissimi colleghi si erano candidati, ma non avevo alcuna intenzione di entrare: è stata la mia agente a insistere.

Come mai?

Ero in teatro con Toni (Servillo), poi in una pellicola molto bella, Una vita tranquilla, e Matteo Garrone, proprio sul set di Gomorra (il film) aveva definito il mio viso come troppo gentile.

Ha un viso gentile.

(Sorride consapevole) Eh, sì…

Invece.

Chiama Stefano (Sollima) dopo aver visto Una vita tranquilla: “Mi vieni a trovare?”.

Il provino.

Mi presento tranquillo, con i capelli, il mio peso del tempo e trovo come sparring partner Salvatore Esposito (Genny): sono stato il primo attore scelto e intorno a me, alla mia età, hanno organizzato l’intero cast.

Il primo ciak.

Ho scoperto il metodo-Sollima: “Ora tocca a voi”.

Cioè?

Ci siamo misurati con tutte le scene, anche le più action, tipo lanciarsi da una barca; (cambia tono) ho imparato a montare e smontare qualsiasi arma da fuoco.

Danni fisici?

Due volte.

Paura?

Quella no, qualche effetto collaterale l’avevo previsto.

Divertito?

Da morire; in una scena in Spagna, dentro una villa meravigliosa, le due vetrate dovevano infrangersi sotto i colpi dei kalashnikov: in quella scena in realtà mi sono totalmente ribaltato; (sorride) per fortuna al tempo ero abbastanza atletico.

Ora sa riconoscere le armi?

Sì. So cos’è una Glock, una M12… (e l’elenco è lunghissimo).

L’hanno mai affascinata?

Mi fanno cagare loro e tutti quelli propensi al porto d’armi.

Sette anni fa ci confidò: “In alcune scene mi sono sentito male”.

(Ci pensa) Nella prima serie Salvatore recitava la parte del figlio incapace del boss, e quando impugnava la pistola non la puntava dritta, ma girata: fuori dai ciak arrivavano i ragazzini che provavano a spiegargli quale era la tecnica corretta. E quella consapevolezza non arrivava dai film o dalle fiction, ma dalla quotidianità: fu doloroso rendercene conto.

Ha imparato a gestire il suo personaggio.

Sono un professionista profondamente latino, con pregi e difetti; (pausa) Stanislavskij, quando veniva a osservare gli attori italiani, si domandava: “Ma questi come possono scoparsi le sarte dietro le quinte e poi salire sul palco e recitare in maniera così sublime?”.

Quindi.

A casa non so neanche chi sia Ciro, perché fa parte di un gioco che si interrompe con l’ultimo ciak della giornata.

Non le restavano neanche le immagini di quei ragazzini?

Più che altro la depressione di vivere quei contesti e la frustrazione di non poterli aiutare. Quella sensazione non è ancora passata; (cambia tono) tutt’oggi mi incazzo quando alcuni politici, e non solo, derubricano Gomorra a mera fiction, perché o non conoscono la realtà o la nascondono.

In questi anni è cambiato il territorio?

Molto: le Vele di Scampia non ci sono quasi più ed è nato un associazionismo attivo.

Anche grazie alla serie?

Innanzitutto per il libro di Roberto (Saviano): è lui ad aver acceso la luce su zone cresciute nell’ombra.

I veri camorristi l’hanno mai fermata?

Chissà quante volte è successo e non solo a Napoli, magari a Milano o a Brescia; ovviamente quelli del mio territorio li riconosco al volo, ho le antenne, ma nessuno di loro mi ha mai fermato per complimenti o accuse, nessun tipo di esaltazione: in qualche modo sanno rispettarti per il tuo lavoro.

In che senso?

Quando giriamo in quei quartieri il primo impatto con noi è legato alla fatica; quasi tutti i giorni ci domandavano: “Ma chi t’o fa fa’?”. Perché pensavano al cinema come un gioco, un divertimento, mentre magari ci alzavamo alle cinque del mattino e giravamo dodici ore sotto la pioggia.

L’impatto con la vera fama.

Grandissimo spavento; (pausa) non vorrei apparire vanitoso o ingrato, ma questa è una parte del lavoro che non mi piace. E ora che sto invecchiando è pure peggio.

Perché?

Per migliorarmi dovrei risultare invisibile, quindi osservare, ascoltare il prossimo, senza l’alterazione legata alla percezione altrui di me; poi trovo spaventosi gli artisti tuttologi, quelli che sentenziano a prescindere, partecipano sempre al dibattito: l’artista dovrebbe parlare con il lavoro.

Torniamo al boom dopo Gomorra.

Penso alla prima conferenza stampa quando a un certo punto una giornalista si complimentò con me: “Bravo, parli bene l’italiano”; comunque subito dopo il lancio mi sono ritirato nel mio convento.

Qual è?

Quello dei frati cappuccini della mia famiglia: hanno ostinatamente preservato la nostra normalità. E ho continuato a leggere.

Il suo libro di formazione?

(Pausa lunghissima) La trilogia di Fante su Bandini. Poi aggiungo Fenoglio, Pavese e I superflui di Arfelli.

Il lato positivo del diventare celebre.

Su di te si apre uno sguardo più ampio, entri in contatto con alcune realtà importanti, con artisti, attori, registi; da lì quello che proponi viene recepito con una differente attenzione. E poi, soprattutto, ho intercettato i ragazzini: molti di Scampia li ho ritrovati a teatro solo per vedermi. (Sorride) Al Bellini di Napoli ricordo un quindicenne, accompagnato dalla fidanzata, orgoglioso perché per la prima volta aveva indossato una cravatta ed era contento dello spettacolo.

La chiamano più Ciro o più Marco?

Da un bel po’ vince Marco.

Non ne poteva più di “Ciro”?

Invece ero felicissimo, perché non esistevo io, non esistevo come attore, ma solo il personaggio.

Non ha mai temuto di venir schiacciato?

In Italia c’era una strana abitudine nel far corrispondere il personaggio con l’attore; ora questa tendenza sta cambiando anche grazie a un gruppo di attori molto bravi.

Manca l’attore dannato alla Ennio Fantastichini.

Il Novecento è finito: ora il nostro tempo è più menzognero e ipocrita; allora c’era una libertà data dalla necessità di contrastare certe regole. Per fortuna una parte di quella stagione l’ho vista.

Con chi?

Sempre ai tempi di Toni Servillo: quando a sedici anni sono entrato nella sua compagnia, mi sono trovato di fronte personalità come Mimmo Paladino, Tomas Arana o un giovanissimo Paolo Sorrentino; (pausa) quella è la mia storia, sono i miei riferimenti.

Qual è la sua ossessione?

L’indipendenza; essere libero di scegliere cosa voglio dire, come lo voglio dire e con chi. Non voglio più sentirmi circondato da persone che non condividono il mio modo di stare al mondo e la mia visione dell’arte. Dei mestieranti.

Com’era Sorrentino da ragazzo?

Ho l’immagine di lui che prova a convincere Servillo a girare L’uomo in più, e poi quando veniva a vederci a teatro insieme a sua moglie Daniela (D’Antonio); (pausa) mi ha sempre impressionato perché vedevo e sentivo la sua capacità nel competere con Toni; Toni è un essere umano che incute grande soggezione.

Anche a lei?

Mai. Però non riuscivo a dargli del tu, ero abbagliato da lui.

Come ha superato questa distanza.

Un giorno mi ha detto: “Guaglio’, hai rotto”.

È diventato regista. Come si giudica?

Mi piace tantissimo, più che recitare al cinema: lo sapevo da sempre. Ma sul set, coi colleghi, resto un attore: è la mia arma in più soprattutto perché conosco le miserie del mestiere, le depressioni.

Le ha provate?

Certo; poi ho incontrato persone che non hanno capito, altre che hanno svilito il mio lavoro; chi mi ha allontanato, chi non ha compreso il momento di difficoltà: è un mestiere che tocca le corde della pelle.

Cosa l’ha salvata?

Il piacere della sfida.

In cima resta il teatro.

Il palco è il posto in cui si amministra il mio mestiere: è un luogo in cui tutti i fantasmi che sono nella scrittura si manifestano attraverso il corpo.

Come è cambiato in questi anni?

Sono finalmente invecchiato.

In cosa?

Sento spegnersi la forza tellurica che era dentro di me: ora ho maggiore capacità riflessiva (arriva Salvatore Esposito e il tono improvvisamente cambia. D’Amore: “Oggi ho la maglia del Psg”. Esposito: “A me è arrivata quella di Maradona”. “Di Maradona?”. “Eh…”. “Che piezz’ ’e merda”).

Chi era e chi è?

Otto anni fa ero più ingenuo, ma era bello; quell’ingenuità mi permetteva di avere maggiore fiducia rispetto agli altri. Ora quell’ingenuità è stata sostituita da un pizzico di cinismo e disincanto.

 

La piatta ipnosi di Facebook & C.

 

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

(Giacomo Leopardi)

 

Nel libro Sbagliando non si impara la psicologa Sara Garofalo scrive tra l’altro che “siamo bombardati di informazioni che il nostro cervello non può controllare”.

Questa mancanza di controllo è in realtà un meccanismo di difesa che si rifà al principio dell’“utilità marginale” che ti insegnano al secondo anno di Economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva dalla fame, il secondo pure, il terzo ti fa star bene, il quarto anche, il centesimo ti uccide.

L’eccesso di informazioni finisce per uccidere l’informazione. Siamo come un Tantalo bulimico cui basterebbero pochi sorsi d’acqua per esaudire la sua sete, ma che messo davanti a un lago lo beve tutto e ne muore. Pubblicità, televisioni, radio, stampa, facebook, film, libri (solo in Italia se ne pubblicano circa 80.000 l’anno) ci inondano di offerte, a volte anche di buon livello, ma noi finiamo per non ritenerne nulla. Ho amici abbonati a Netflix, un’orgia di film. Ma se gli chiedi chi è il regista di quel film, di cui ti hanno appena detto meraviglie, non lo sanno. La trama la confondono con quella di altri film visti, più o meno contemporaneamente o in un passato recente. Si ricordano gli attori, questo sì.

Ma questo rigetto della memoria del presente si ripercuote su quella del passato. Guia Soncini ha notato lo straordinario declassamento culturale avvenuto nel nostro Paese, ma credo che la cosa riguardi l’intero Occidente che ha demonizzato le tradizioni a favore dell’“innovazione” (che cosa ci sia poi ancora da “innovare” non è facile capire). Internet poi non aiuta o, per essere più precisi, aiuta anche troppo. Tu vuoi sapere qualcosa di un autore di cui hai vagamente sentito dire, clicchi su Wikipedia e hai dieci righe di spiega, ma è un’informazione totalmente superficiale. Vuoi sapere di Albert Camus? Non solo non bastano le brevi di Internet, ma nemmeno conoscere le sue opere (Lo straniero, La chute, poniamo ) ma bisogna aver letto prima Rimbaud, Baudelaire, Lautréamont, si deve cioè fare un percorso faticoso. Ma il mondo attuale è indotto a rifiutare qualsiasi fatica che non sia legata al nostro lavoro di “schiavi salariati”. La superficialità, è quasi tautologico dirlo, uccide la creatività. Il grande romanzo ottocentesco legato a una borghesia in ascesa, è scomparso insieme a questa stessa borghesia, sostituita da un’informe classe media senza idee e senza ideali. Nel Novecento però il romanzo è stato sostituito da grandi film più facili da assorbire perché, per quanto profondi, sono pur sempre “visivi”, mentre la lettura, anche quando è affascinante, vuole uno sforzo maggiore. Ma l’ultimo grande film – Blade Runner – è di trent’anni fa. Poi abbiamo avuto solo degli spiccioli, a volte anche gradevoli, ma solo spiccioli.

Forse il mezzo migliore nel campo dell’informazione è la radio, perché vuole attenzione da parte di chi parla e di chi ascolta, mentre anche uno scimmione può schiacciare un bottone e vedere un’immagine. Ma dopo l’avvento della tv la radio è retrocessa a media minore, tanto che i partiti pur non rinunciando ad occuparla, di fatto se ne disinteressano.

L’arte è ferma a Duchamp, alla sua geniale intuizione, quando mettendo una bicicletta sul podio disse: “Questa è un’opera d’arte per la sola intenzione dell’artista”. E in effetti tutto dipende da come tu le guardi le cose. Gli oggetti di per sé sono atoni, siamo noi a dar loro un significato e un’anima (“L’apparenza delle cose come vedi non m’inganna/ preferisco le sorprese di quest’anima tiranna/ che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti / ma ti apre nuovi occhi”). Era nata l’arte concettuale. Ma dopo Duchamp qualcuno ha pensato di essere artista mettendo sul piedistallo un mongoloide, Biennale d’Arte di Venezia di qualche anno fa, un orso disteso con fra le cosce un enorme cazzo istoriato o le vasche di Jan Fabre. Per questo, credo, non si fan che scavi per trovare reperti antichi, di cui soprattutto l’Italia è ricca, un po’ più validi, più concreti e meno astratti.

Per tornare ai film non è un caso che oggi dominino le “serie” che si basano su un meccanismo psicologico elementare, quasi ipnotico come certi giochi dalla capostipite Candy Crush ai suoi derivati o ultimo grido “i gattini”. Che aiutano a dormire, cosa che non è di poco conto, ma certamente non a riflettere. E non è nemmeno un caso che siano in ascesa i docufilm che stanno gradualmente sovrapponendosi ai film.

Senza profondità non ci può essere creatività o, più probabilmente, questa si indirizza in campi che non hanno nulla a che fare con l’arte, la poesia, la letteratura, ma piuttosto con la produttività e gli algoritmi. Come scriveva Marcuse ne L’uomo a una dimensione: “Al di sotto della sua ovvia dinamica di superficie, questa società è un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva”.

E in questa calma piatta mi pare del tutto improbabile, anzi impossibile, che possa rinascere un uomo che sappia unire al genio poetico quello filosofico, in modo magico e quasi sconvolgente, come Giacomo Leopardi ne Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.