Gesù è davanti a Pilato, prefetto della Giudea durante il regno di Tiberio. È stato portato al suo cospetto dalle autorità locali di Gerusalemme, le quali, dopo averlo arrestato, lo avevano interrogato e avevano ricevuto risposte che lo fecero considerare blasfemo.
Siamo all’interno del pretorio. Ci sono loro due: Gesù e Pilato. L’evangelista Giovanni dischiude la scena di un processo, di un interrogatorio. Il loro è un dialogo secco. I due profili sono netti, ma invisibili. È come se li vedessimo in controluce. Non c’è menzione di gesto, di movimento del corpo. Gesù e Pilato sono silhouette. Contano solamente le parole: è una pièce teatrale senza scenografia.
“Sei tu il re dei Giudei?”, chiede Pilato. Lui conosceva Gesù: era entrato trionfalmente a Gerusalemme, aveva polemizzato con scribi e farisei, il suo arresto aveva reso necessaria la partecipazione dei soldati romani… Ma essere re è altra cosa. Evidentemente l’accusa era arrivata alle sue orecchie. Ed era l’unica accusa –quella di essere un agitatore politico – che poteva indurlo a considerare seriamente il suo caso. Pilato, nel vederlo, gli chiede dunque direttamente, senza giri di parole o dire “tu ti credi…”, “tu pensi di…”. No, duro, diretto: sei tu il re? Gesù risponde, ma senza dire né sì né no. Gira attorno e lo inchioda alle sue fonti. Si capisce da subito che è lui a guidare l’interrogatorio: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?”. Perché, se dice questo da sé, Pilato intende re politico; se invece lo dice perché altri gli hanno parlato, allora bisogna capire in che senso. Soprattutto se dice di essere re in senso religioso e messianico. Pilato prova a tirarsi fuori dal ragionamento: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”. Vuole una risposta. E dice subito che le distinzioni e le idee giudaiche non lo interessano. Gli chiede: “Che cosa hai fatto?”. Vuole i fatti, al di là delle interpretazioni. Gesù risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei”. Gesù richiama l’evidenza: un re è circondato dai suoi servitori che avrebbero combattuto per evitare che fosse catturato. Se fosse un re di questo mondo sarebbe un re solo, un re monco, un re orfano di sudditi. Gesù non è re, dunque. Tuttavia, Gesù prosegue: “Ma il mio regno non è di quaggiù”. Dunque è re. Ed è un re che si fa prendere, incatenare, portare in giudizio; un re che non fa domande, ma che risponde alle domande. Un re assurdo.
Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Pilato ha davanti a sé una contraddizione, un ossimoro: un re non re. Ma è re: Gesù lo ha detto. Pilato non capisce le distinzioni, e vede un’ammissione compromettente. Il minimalismo delle battute rivela una potenza di fraintendimento, dalla quale però emerge la verità su Gesù. La parola – in questo dialogo serratissimo – torna a Gesù: “Tu lo dici: io sono re”. Gesù confessa la sua identità e la sovranità di Dio, non la sua colpa politica.
C’è una regalità, un potere diverso che l’imputato Gesù sta rivelando e della quale sta dando testimonianza. Una regalità sotto processo. Prosegue: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Il Regno di Gesù ha a che fare con la verità. Pilato non potrà che rispondere: “Che cos’è la verità?”. Ed esce per dire ai giudei “Io non trovo in lui nessuna colpa”. La verità è spesso incatenata. E sempre innocente.
*Direttore de “La Civiltà Cattolica”