Motivi di lavoro, forse un piccolo credito. Ci sarebbe questo all’origine dell’omicidio di Bonifazio Buttacchio operaio di 57 anni di San Severo (Foggia) il cui cadavere è stato ritrovato ieri mattina all’interno del cantiere edile della curia vescovile. A ucciderlo, con un colpo di pistola alla testa, sarebbe stato un piccolo imprenditore di 35 anni, che è stato suo datore di lavoro, e che poche ore dopo l’omicidio si è costituito dai carabinieri. In serata era ancora sottoposto a interrogatorio in procura a Foggia. Ad accorgersi del corpo sono stati alcuni passanti che hanno chiamato i soccorsi. Gli investigatori stanno cercando l’arma e stanno tentando di ricostruire la dinamica dell’omicidio, come i rapporti tra la vittima e il 35enne.
Consiglio di Stato, lì la Severino non vale: la n. 2 della Carfagna rimane al suo posto
Al governo di Mario Draghi non si può dir di no. Per i suoi ministri e per i potenti mandarini di Stato al loro servizio si può fare qualche strappo alla regola anche se si tratta di far coriandoli della legge Severino sulla prevenzione e repressione della corruzione nella P.A. È successo che l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa ha stabilito quel che finora è stato un tabù: consentire a un capo di gabinetto, in questo caso a Francesca Quadri che occupa quel ruolo al ministro per il Sud Mara Carfagna, di continuare a indossare la toga al Consiglio di Stato: la mattina potrà dunque sfornare norme al ministero e al pomeriggio tornare a Palazzo Spada a giudicare la legittimità degli atti del governo in cui riveste un incarico apicale. In barba alle regole interne che vietano dopo una nomina come quella ottenuta da Quadri a presidente di sezione del Consiglio di Stato di dedicarsi ad altri incarichi per almeno i tre anni successivi alla promozione. Ma soprattutto in barba alla Severino che impone che tutti gli incarichi negli uffici di diretta collaborazione dei ministri attribuiti ai magistrati siano svolti con collocamento in posizione di fuori ruolo.
“L’obbligo contenuto nella Severino è volto a evitare possibili commistioni tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’incarico all’interno del governo”, ha provato a far notare il consigliere Giampiero Lo Presti durante la discussione del caso al vaglio del Csm della giustizia amministrativa. Ma alla fine nell’organo di autogoverno che decide sugli incarichi dei magistrati è stato deciso di chiudere un occhio pur di non privare la Carfagna del suo capo di gabinetto. Che il ministro ritiene talmente insostituibile per le sorti del Sud da non potersi privare di lei, come ha scritto a Palazzo Spada per perorarne la causa: “Ove l’incarico dovesse cessare il mio gabinetto si troverebbe in grave difficoltà data la straordinarietà e delicatezza del momento in coincidenza con l’adempimento degli obblighi del Pnrr e delle sue perentorie scadenze”. Appello prontamente accolto a Palazzo Spada che ha fatto rientrare in ruolo il magistrato che però è stata contemporaneamente autorizzata a proseguire la sua missione al ministero anche se solo fino a giugno prossimo. “Esiste prima la realtà e poi la normativa”, ha sancito il plenum disposto ad accordare la deroga ché il momento è grave: c’è il Covid, il Pnrr da attuare, ma soprattutto bisogna essere collaborativi con il governo di Mario Draghi. La legge Severino può attendere.
Renziano arrestato fece campagna per Mister Fritture
L’uomo del partito di Matteo Renzi, arrestato per istigazione alla corruzione intorno agli appalti pubblici di Capaccio Paestum (Salerno), fece votare l’uomo di Vincenzo De Luca. Si tratta di Roberto D’Angelo, coordinatore cittadino di Iv, e del sindaco Pd Franco Alfieri (non indagato ed estraneo alle vicende corruttive che peraltro risalgono a due anni prima della sua elezione, ndr), mister “fritture di pesce” e tra i consiglieri a titolo gratuito del Governatore.
La vicenda emerge dall’ordinanza di arresto di D’Angelo: “È stato particolarmente attivo nel sostenere la campagna di Alfieri – scrive il Gip – e dunque intrattiene rapporti con l’attuale amministrazione”, di conseguenza “c’è il pericolo di recidiva”. Lo proverebbero alcune intercettazioni dell’imprenditore renziano. La prima risale al 6 aprile 2019, in piena campagna: D’Angelo viene contattato da Alfieri che lo invita più volte “a trovare ancora 6/7 candidati per lui e altri mille voti” per provare a vincere al primo turrno. Il 26 aprile successivo D’Angelo trascorre la giornata al telefono a cercare candidati per Alfieri e accordi politici in suo favore. Manca un giorno alla chiusura delle liste e quella sera D’Angelo la trascorrerà nella sede del comitato Alfieri per conoscere i nomi dei candidati. Ed il 7 settembre D’Angelo, con Alfieri ormai sindaco da quasi tre mesi, viene intercettato mentre dice a una persona “di aver parlato personalmente con Alfieri una decina di giorni fa”, augurandosi che “mantenga quello che mi ha promesso in campagna elettorale”.
Leghista no-vax offende la Segre. Alla fine si scusa
Per riferirsi a Liliana Segre ha usato il numero che alla senatrice era stato assegnato nel campo di concentramento di Auschwitz. “Mancava lei… 75190”, aveva scritto su Facebook Fabio Meroni, capogruppo della Lega a Lissone, in Brianza, consigliere provinciale ed ex deputato, no-vax dichiarato. Come in genere avviene in questi casi, il leone da tastiera viene condotto a più miti consigli, cancella il post e si scusa. Così anche nel caso di Meroni, che in prima battuta aveva risposto così alle polemiche: “Non mi è piaciuta l’uscita della Segre sui vaccini come unica via di uscita dalla pandemia – aveva spiegato al Giorno –. Rispetto la sua storia, ma non condivido quello che ha detto su questo argomento. Non è un medico”. Poi Meroni ha abbassato la cresta: prima ha rimosso dai social tutti i post no-vax e poi si è cosparso il capo di cenere: “In questo clima d’odio anch’io mi sono lasciato coinvolgere (…). Voglio chiedere scusa alla senatrice Segre.” Ma potrebbe non bastare: “Questo individuo è nelle Istituzioni – sottolinea l’Anpi –. Vergognoso e intollerabile”.
Patteggia pena per stalking, esce e uccide la ex
Juana Cecilia Hazana Loayza, 34enne peruviana residente a Reggio Emilia, è stata trovata morta ieri mattina in un parco: sul collo aveva alcuni tagli profondi e accanto alla salma è stato trovato un coltello insanguinato. I carabinieri, coordinati dal sostituto procuratore Maria Rita Pantani, hanno fermato Mirko Genco, 24 anni, rappresentante porta a porta originario di Parma ed ex compagno della donna. Interrogato, il giovane ha ammesso i fatti ed è stato sottoposto al fermo. Genco era già stato arrestato per atti persecutori nei confronti di Loayza ma il 6 settembre era stato scarcerato e sottoposto al divieto di avvicinamento nei confronti della donna, poi violato il 10 settembre e a cui sono seguiti i domiciliari; il 3 novembre ha patteggiato a 2 anni, per essere liberato il giorno seguente. Nella notte tra venerdì e sabato l’epilogo: il 24enne era arrivato da Parma e dopo aver rintracciato la donna, si era diretto con lei verso casa sua. Durante il tragitto l’avrebbe aggredita, tentando prima di strangolarla e poi accoltellandola. Loayza lascia un figlio di 18 mesi.
Sassari, Razzi al via dell’anno accademico con Casellati, il rettore e l’amico delle ferie
La seconda carica dello Stato; un governatore terzultimo in Italia per popolarità; un ex senatore noto per il “salto della quaglia” e per i balletti su Tik Tok; un senatore amico di tutti e un rettore che ha fatto incetta di fondi regionali. È il parterre de rois che lunedì scorso, davanti a 650 invitati, ha aperto il 460° Anno Accademico dell’Università di Sassari. A fare gli onori di casa, il Rettore Gavino Mariotti. Con lui la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti in Casellati e il governatore sardo Christian Solinas. E Antonio Razzi. Un alieno, la cui presenza ha suscitato un mare di polemiche. “A che titolo presenziava alla cerimonia?”, si sono chiesti in tanti.
La puntata a Sassari non era un segreto, Razzi aveva sbandierato tutto sui social. “Sono invitato alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico”, postava fiero, “ringrazio il magnifico rettore Gavino Mariotti”. Invitato, quindi. Una versione smentita da Mariotti: “Mi ha chiamato” e “mi ha chiesto se ci fossero posti disponibili. Ho risposto di sì”. “Su di lui – ha aggiunto – vedo una persecuzione ingiustificata. Nemmeno fosse Matteo Messina Denaro”. Il trait d’union Mariotti-Razzi è il senatore sardista Carlo Doria, eletto alle suppletive del 2020. Ortopedico, è un fedelissimo di Solinas, che lo volle dell’Unità di crisi locale per il Covid, salvo poi doverlo difendere quando ad agosto 2020 Doria affermò: “Il Covid non uccide più: è un’influenza”. Poco dopo arrivò la seconda ondata. Ma Doria è anche compagno di bevute estive di Razzi, i due infatti si sono immortalati in numerosi selfie la scorsa estate a Porto Cervo. Doria è intimo anche di Casellati, altra frequentatrice dell’isola. I tre sono stati immortalati durante gite sarde e una visita in Friuli, alla Frecce Tricolore. E poi c’è Solinas. A parte il rapporto con Doria, ha un filo diretto col rettore. Del resto è all’ateneo di Sassari che Solinas si laureò. Quello gli ha convalidato gli esami 10 anni dopo e che ha secretato la sua tesi, definendola “opera di ingegno creativo”. Ma Sassari è anche l’ateneo che con la legge Omnibus ha ricevuto un diluvio di soldi: 200mila euro annui fino al 2035; 434mila per l’accreditamento dei veterinari; 150mila per studi sulla coltivazione del riso; 50mila per uno studio degli yachting; 300mila per il counseling degli studenti. “È un mondo fantastico – ha commentato l’ex governatore Francesco Pigliaru, tornato a insegnare lì –, ne succedono di tutte”.
Così la Certosa di Trisulti era finita ai Bannon boys
Lunedì 15 novembre, alla Certosa di Trisulti (Collepardo, Frosinone) si è tenuta una cerimonia come non se ne vedevano da anni. La Certosa ha riaperto al pubblico, gratuitamente, e con visite guidate nei weekend. C’erano il ministro della Cultura, Dario Franceschini, che dichiarava “le potenzialità di questo sito sono incredibili” e l’intenzione di farne un luogo di incontro per i camminatori di tutta Europa, e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che parlava di “una bella vittoria di tanti cittadini che, insieme alle istituzioni, hanno permesso di riscoprire e valorizzare uno dei luoghi più belli della nostra storia”. E dopo il migliaio di visitatori che ha affollato la Certosa nel primo weekend, sembrano dimenticati i tempi in cui, con un bando pubblico, il ministero aveva deciso di concedere quel bene in gestione a un soggetto privato, nel 2016. Il resto della storia è in parte nota: la Certosa va in gestione a Dignitatis Humanae Institute (Dhi), un istituto dell’estrema destra internazionale, che pensa di farne una scuola politica per sovranisti. La comunità locale insorge, inizia un’indagine, grazie anche al lavoro giornalistico del quotidiano locale FarodiRoma, e nel 2019 la concessione viene revocata dato che Dhi, per ottenerla, aveva presentato documentazione falsa. La vulgata ministeriale vuole che tutto ciò sia avvenuto perché c’è stato un inganno. Ma è davvero così semplice?
Ripartiamo dall’inizio, da quei giorni del 2017 quando, a bando chiuso, vengono rese note le offerte. Per la Certosa di Trisulti ne sono arrivate due. Una è del Dignitatis Humanae Institute, che poi vincerà, la seconda è dell’Accademia nazionale delle Arti, con sede nel Castello di Petroro a Todi. Entrambi non si riveleranno buoni clienti: se Dhi, che aveva tra i suoi promotori Steve Bannon (sotto processo in America per l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2020) una volta ottenuta la concessione spiegherà di voler fare della Certosa un’accademia politica, l’Accademia nazionale delle Arti non sarebbe stato un concessionario migliore. Aveva sede in un immobile dato in locazione a un autoproclamato abate che poco dopo, nel 2018, è stato arrestato. Per la Guardia di finanza si trovava a capo di una “solida organizzazione criminale” che aveva posto in essere una frode milionaria: l’“abate”, secondo le indagini, era riuscito a drenare dai risparmiatori decine di milioni di euro fatti confluire su due fondi poi accreditati su conti correnti alle Isole Mauritius. Ma nel caso di Trisulti, l’Accademia viene scartata per un vizio di forma: non presenta la documentazione sui beni culturali gestiti nel quinquennio precedente anche se aveva, letteralmente, sede in un bene culturale.
Dignitatis Humanae Institute poteva contare su appoggi diversi, come già messo in luce da Report (Rai3), in particolare su una “presentazione speciale per Sua Santità papa Francesco” del cardinale Renato Raffaele Martino. E in un primo momento ottiene tutto quello che vuole. Il massimo degli anni possibili, secondo quel bando, per la concessione: 19. Il perché è presto detto: dato che il bando valutava l’offerta “economicamente più vantaggiosa”, Dhi offre un canone annuo quasi dieci volte superiore alla base d’asta proposta (14 mila euro), ben 100 mila euro annui. A differenza dell’altro pretendente, Dhi presenta documentazione falsa sul fatto di aver gestito in passato beni culturali: è il museo monastico di Civita, mai esistito; modifica la ragione sociale e così ottiene la concessione. E, nonostante l’inesistente museo, creato ad hoc nel 2016, avesse sede nel Lazio, il contratto viene firmato.
Leggendo i verbali delle commissioni riunite, si scopre che c’è stato anche un minacciato esposto alla Procura della Repubblica da parte di un comitato locale riguardo la concessione a Dhi della Certosa: tutto inutile. Dignitatis Humanae Institute entra nell’istituto nel 2017 e ci vorranno tre anni, ricorsi, una sentenza del Tar e una del Consiglio di Stato (e un canone pagato in ritardo per due anni consecutivi, 2018 e 2019) per farli uscire. Il Fatto ha chiesto a membri della commissione ministeriale che ha vagliato le offerte come sia stato possibile firmare un contratto della durata di 19 anni di fronte a un’offerta tanto abnorme, e a un offerente di cui la commissione e il ministero sapevano poco (come testimoniato dal fatto che, una volta rese palesi le reali intenzioni dei concessionari, ci si muove per la revoca). Ma non abbiamo ottenuto risposta, se non il fatto che ci si è tenuti scrupolosamente alle norme. E ci si chiede, quindi, come sarebbe andata se Dhi si fosse limitata a gestire in silenzio il bene per fini propri, invece di proclamare pubblicamente la volontà di farne una scuola politica sovranista. Ma sono domande superflue: ciò che conta è far tesoro dell’esperienza di quelle concessioni, che ora pare si voglia dimenticare.
Beni culturali ai privati: un flop storico. L’insuccesso del bando “rivoluzionario”
Sembrano tempi lontanissimi quelli in cui si celebrava il fatto che la Certosa di Trisulti sarebbe stata gestita da un soggetto privato, seppur non si sapesse bene chi fosse. Era il 2016, come racconta il pezzo accanto, ed era la prima volta che lo Stato metteva a bando la gestione di beni culturali del demanio. Ma non era la prima volta che uno di questi andava in concessione.
Negli ultimi tempi si parla tanto di concessioni demaniali ai balneari, ma il sistema riguarda da vicino anche i beni culturali, sia in senso generico (dall’uso delle foto alla gestione dei servizi di biglietteria) sia sia per gli immobili. La gestione del demanio con valore culturale non risulta però affatto normata: nel Codice dei Beni Culturali si chiarisce soltanto che possano essere concessi servizi e beni, compatibilmente al loro carattere culturale, in cambio del pagamento di un canone. E che “la concessione delle attività di valorizzazione possa essere collegata alla concessione in uso degli spazi necessari all’esercizio delle attività medesime”. Tradotto: concedo il bene perché tu lo apra al pubblico. Naturalmente può anche essere revocata.
Le norme in verità sono vaghe e, non disciplinando la gestione esclusiva del bene, da decenni la prassi fa giurisprudenza. I vuoti sono molteplici: chi gestisce un bene in concessione può usarlo per produrre? Può staccare biglietti? E quanto possono durare al massimo le concessioni, senza nuovi bandi? Anche se l’idea che un soggetto privato li apra al pubblico senza costi per lo Stato può sembrare virtuosa, ci si deve chiedere quanto l’imporre biglietti per entrare in beni pubblici sia coerente con la missione del ministero della Cultura: le gratuità che esistono nei beni gestiti dallo Stato (under 18, guide turistiche etc.), per dire, non valgono nel caso di beni gestiti da terzi. Facciamo qualche esempio: il Fai (Fondo ambiente italiano) gestisce in concessione dallo Stato senza bando la Villa Gregoriana di Tivoli dal 2002, i giardini della Kolymbetra ad Agrigento dal 1999, e pochi anni fa ha ottenuto in concessione dalla Provincia l’Abbazia di Santa Maria di Cerrate, in Salento, fino al 2042 (30 anni). La Fondazione lì si autofinanzia con attività, visite, a volte affitti e produzione di prodotti agricoli. È solo un caso dei tanti, il più noto.
Inoltre, benché le singole amministrazioni abbiano contezza di ciò che è in concessione, non risulta esista un registro nazionale dei beni del demanio in concessione. Nel luglio 2019, l’allora ministro Alberto Bonisoli, in seguito allo scandalo della Certosa di Trisulti, scrisse che riguardo alle concessioni voleva “vederci chiaro”, ritenendo “doverosi” una revisione e il monitoraggio delle stesse. Non risulta sia iniziato alcun processo simile.
Altro bel flop (e quindi un interessante caso studio) è il bando del 2016, con cui Trisulti è finita alla destra internazionale senza che il ministero lo sapesse e che doveva essere nelle intenzioni il primo di una lunga serie. Doveva portare alla “realizzazione di un progetto di gestione del bene” che ne assicurasse “la conservazione” e ne promuovesse “la pubblica fruizione e una migliore valorizzazione”. Il ministro Dario Franceschini aveva poi firmato un decreto per la concessione di pezzi di patrimonio pubblico a realtà non profit e aveva dichiarato che queste “potranno partecipare con una procedura chiara e trasparente alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale, uno strumento che consentirà di partire dal basso nell’adempimento dell’articolo 9 della Costituzione”. Pubblico e privato sociale, era l’intenzione, “perseguono lo stesso obiettivo a favore del patrimonio culturale a tutto vantaggio dell’intero sistema Paese”. In pratica, insieme a Trisulti, lo Stato proponeva di concedere altri 12 beni del demanio in base all’offerta “economicamente più vantaggiosa”. Si richiedeva un progetto, e il curriculum di chi presenta l’offerta, in particolare “documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale” e “nella gestione, nell’ultimo quinquennio, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato”, ma tutto era autocertificato. E poi si richiedeva un canone annuo stabilito su una base d’asta. La concessione durava da 6 a 10 anni, ma il bando prevedeva che potesse essere prolungata fino a 19 anni “in considerazione di peculiari finalità perseguite dal richiedente, in particolare nell’ipotesi in cui il concessionario si obblighi a eseguire consistenti opere di ripristino, restauro o ristrutturazione particolarmente onerose”.
Peccato che per sei dei beni coinvolti su 13 non arriva nessuna offerta. Per due arrivano solo offerte che non possono essere accettate per problemi nella documentazione (nel caso di Villa del Colle del Cardinale a Perugia, viene scartata l’offerta del Sacro Ordine dei Cavalieri di Malta). Per 4 dei beni rimasti arriva solo un’offerta che rispetta i requisiti: solo in un caso due offerte risultano ricevibili. In sintesi, in 4 casi su 5 i beni vanno in gestione all’unico offerente rimasto. Già nel 2017 ci si rendeva conto che qualcosa era andato storto ma, come scriveva Repubblica “il valore del bando sta nella sua valenza politica: essendo il primo, ha avuto il merito di fare da apripista ad analoghi futuri bandi”. Per ora non è andata così, perché quel bando ha avuto conseguenze peggiori del previsto. Non solo a Trisulti.
Per i quattro beni che hanno trovato un concessionario vincente, è andata così. Villa Giustiniani a Bassano Romano è rimasto allo Stato: il Fai, che aveva vinto la gara, non l’ha mai preso in gestione. La Chiesa di San Barbaziano a Bologna, andata in gestione ad Aics (l’Associazione italiana cultura sport) per 15 anni, tutt’ora è chiusa e i restauri (finanziati dallo Stato, che ha stanziato circa 800 mila euro) sono in corso, ma procedono a singhiozzo. Il Castello di Canossa a Reggio Emilia è andato in gestione per 10 anni a un’associazione di volontariato che organizza eventi e visite guidate: il canone è di 4 mila euro l’anno, ma il sito dell’associazione non è aggiornato dal 2019. Villa del Bene, in località Volargne a Dolcè (Verona) è gestita da un consorzio di imprese e associazioni e sembra funzionare bene con eventi e mostre frequenti. A vincere era però stata la Pro Loco del posto, che poi ha creato il consorzio di gestione.
Fonti che hanno seguito la pubblicazione del bando notano che il problema è stato l’equiparare beni enormi e piccoli: nel caso di abbazie e castelli, difficile che una non profit abbia il denaro per gestione e restauri, mentre il canone annuo a base d’asta, senza aiuto statale per la manutenzione, ha spaventato le associazioni culturali. Anche Italia Nostra al tempo aveva rinunciato a presentare domanda per i beni del Lazio, giudicati troppo onerosi. In sintesi, le storie di successo sono poche mentre tanti dei vuoti che si sperava di coprire con la concessione sono ancora lì: molti dei beni coinvolti sono tutt’ora chiusi al pubblico senza che queste riflessioni sembrino toccare la dirigenza ministeriale. Un nuovo regolamento che normi quando (e per quanto), come e perché si possa concedere un bene pubblico in gestione esclusiva appare necessario: l’uscita di scena dei sovranisti di Trisulti dopo tre anni di tribunali e la sentenza del Consiglio di Stato sulle concessioni balneari trasformano un’opportunità in urgenza, per evitare che vinca ancora il miglior offerente. Di cui, spesso, non si conoscono le reali intenzioni.
Le azioni d’oro di Moderna. Il ceo ha intascato 200 mln
Appena ha capito che il suo vaccino avrebbe invaso il mondo, debellato dal Covid, Stephane Bancel, l’amministratore delegato di Moderna, non ha perso un attimo. Si è messo a vendere le sue azioni di Moderna approfittando dell’esplosione dei prezzi di Borsa del titolo. E a piccole dosi, mille-duemila azioni per volta, settimana su settimana, ha ceduto sul mercato in un solo anno, il 2021, la bellezza di oltre 1 milione di azioni per un controvalore medio di oltre 200 milioni di dollari. Tutti finiti nel suo portafoglio personale.
In realtà da scaltro giocatore di poker ha cominciato a sbarazzarsi di parte dei suoi titoli già nell’estate del 2020 quando Moderna aveva cominciato i trial di sperimentazione, confidando nella successiva autorizzazione dei regolatori. E così avvenne, scommessa vinta, con un bel tornaconto personale. Che è solo l’antipasto della mega-ricchezza che Bancel finirà per portare a casa anche finita la pandemia.
Oggi, nonostante i continui alleggerimenti di portafoglio, il Ceo di Moderna possiede il 3,7% della società. Sono 15 milioni di azioni che ai prezzi attuali (243 dollari per azione) fanno 3,6 miliardi di dollari di patrimonio personale. Erano ben 7,2 miliardi l’estate scorsa quando Moderna ha toccato i valori massini di ben 484 dollari per azione. Ma Bancel ha ancora armi nel suo arco. Dispone tuttora di stock option per 788 milioni, cresciute dai “soli” 95 milioni pre-pandemia. Potrà trasformarle in azioni in futuro, dal valore assai più elevato rispetto ai prezzi di assegnazione. Ora, complice le stime abbassate dalla società sulle future vendite, il prezzo si è pressoché dimezzato, ma resta ben 10 volte più alto da quando è partita la cavalcata in Borsa a inizio pandemia con l’azione che valeva solo 20 dollari.
Del resto il vaccino anti-Covid è stata l’occasione della vita per Moderna: prima non aveva di fatto ricavi e aveva cumulato perdite dal 2016 al 2019 per oltre 1,3 miliardi, oggi ha ricavi per 11 miliardi con utili per oltre 7 miliardi.
Ma la scoperta del siero ha portato grandi benefici anche ai fondatori di BionTech, che condivide con Pfizer ricavi e utili del loro vaccino. Lo scienziato di origini turche Ugur Sahin, a capo di BionTech, non si è lasciato però ingolosire, contrariamente a Bancel, dai guadagni immediati. Dalla sperimentazione e poi immissione sul mercato non ha mai toccato il suo pacchetto di azioni BionTech. Che è un pacchetto sostanzioso: 41 milioni di titoli che sono il 17,2% della società. Ebbene Sahin guarda al lungo termine. Quelle azioni valgono oggi 10,8 miliardi di dollari. Prima del vaccino il patrimonio in azioni di Sahin valeva “solo” 1,2 miliardi di dollari. Del resto BionTech è passata dalla perdita per 200 milioni nel 2019 a 13 miliardi di ricavi e ben 10 miliardi di utili.
Chi si è fatto ingolosire da guadagni immediati, come il ceo di Moderna, anche solo per una volta, è Albert Bourla, il potente ad di Pfizer. A novembre del 2020, nel giorno in cui la stessa Pfizer ha annunciato i risultati positivi della sperimentazione del vaccino, Bourla ha venduto azioni Pfizer per un valore di 5,56 milioni di dollari di incasso. Non un gesto opportuno. Da allora Bourla non si è più mosso. Conserva tuttora 124 mila azioni Pfizer. Poca cosa, ma ha visto il suo pacchetto di stock option lievitare da 3 milioni di pezzi a 19 milioni. Stock option che diventeranno azioni e che potranno essere vendute sul mercato.
Chi non è stato beneficiato (per ora) dalla scoperta del siero salva-vita sono AstraZeneca e Johnson&Johnson. La loro decisione di vendere a prezzi di costo il vaccino non ha avuto impatto né sui conti, né sui valori di Borsa. Addirittura AstraZeneca ha chiuso l’ultima trimestrale in perdita. Dunque per Pascal Soriot, il Ceo dell’azienda anglo-svedese, non c’è stata grande occasione di trading sui titoli della società. Ma ora ci si attende la riscossa. L’azienda ha già fatto sapere che venderà in futuro a prezzi non più di costo, dato che secondo AstraZeneca ormai la pandemia si è trasformata in endemia e quindi non si sente più vincolata dall’accordo con l’Università di Oxford, che ha messo a punto il vaccino di non farne un’occasione di profitto durante la fase pandemica.
Si vedrà cosa farà il vertice di AstraZeneca con le proprie azioni in portafoglio, quando le nuove vendite a “prezzi di mercato” porteranno la marea di ricavi e utili di cui hanno beneficiato gli altri.
“La Germania è in balia di una sindemia”
Emilio Gianicolo è un epidemiologo italiano, da quasi un decennio lavora all’Università di Mainz, una delle più importanti della Germania. Dall’inizio della pandemia studia la diffusione del virus negli ambienti familiari.
La Germania sta male?
Sì, l’incidenza è in crescita costante da settembre. Ma ci sono delle differenze tra le varie aree. In Baviera e Sassonia la situazione è pessima, però alcune regioni, come la Renania Palatinato dove mi trovo, hanno dati migliori rispetto a quelli del Nord-est italiano.
Le terapie intensive, le più grandi d’Europa, sono in affanno. Come mai?
Purtroppo non sono sufficienti i posti letto, servono anche le persone in grado di farli funzionari. C’è stata una fuga dei professionali dalle terapie intensive. Il paziente Covid richiede molta attenzione. E per formare medici e infermieri per le terapie intensive ci vogliono cinque anni.
Cosa è andato male?
La vaccinazione. Un tema da affrontare è quali sono le categorie di persone che non si sono vaccinate. Da un nostro studio emerge maggiore resistenza a vaccinarsi nelle categorie socioeconomiche più svantaggiate. Abbiamo un problema come sanità pubblica nel raggiungere alcune fasce della popolazione per le quali la vaccinazione non è una priorità. Sappiamo per esempio che le terapie intensive sono prevalentemente occupate da persone con un passato migrante. Parliamo di sindemia nata nell’interazione tra pandemia e disagio socio-economico.
Sembra che il governo tedesco fosse pronto ad accettare il rischio di una pandemia per i non vaccinati?
Non penso. Si è pensato che il 70% di vaccinati fosse sufficiente per un’immunità di gregge. La variante Delta ha cambiato le carte in tavola, alzando la soglia.
La vaccinazione obbligatoria è un’opzione?
Non ci si potrà mai arrivare qui. È contrario alla filosofia e alla storia di questo paese. Ci sarà consenso, imporranno multe, ma vaccinare chi non vuole sarà logisticamente impossibile.
Spagna e Portogallo sembrano stare bene. La Francia, seppur con tasso di vaccinazione simile a quello tedesco, sta meglio. Quanto incide il clima con la quarta ondata?
È un fattore importante, ma le valutazioni potremo farle solo a emergenza finita. Se pensiamo a come è iniziata la pandemia nel Nord Italia e qual è la situazione oggi dobbiamo considerare cosa è cambiato: variante Delta, vaccinazioni, mobilità delle persone, quantità dei test.
Sui test la Germania ha cambiato idea più volte: gratuiti, poi a pagamento e adesso nuovamente gratis. Qual è l’atteggiamento giusto?
I test devono essere gratuiti. Sovente chi ha più bisogno di essere testato ha meno possibilità di pagare. Chi non ha intenzione di vaccinarsi deve essere testato per andare a lavoro o per fare una vita sociale. È uno strumento per limitare la pandemia.
Come se ne esce?
Tra le persone non ancora vaccinate c’è una quota disposta a farlo. Dobbiamo puntare a quelle.