Malati gravi: 2 su 3 No Vax. E i morti sono 9 volte di più

Dopo sei mesi dalla somministrazione della seconda dose l’efficacia del vaccino anti-Covid 19 diminuisce. Ma il siero resta l’arma principale per combattere l’epidemia, come conferma l’ultimo bollettino dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità. Il tasso di decesso nei non vaccinati è circa nove volte più alto rispetto a chi è protetto con il ciclo completo (65 contro 7 per 100 mila abitanti).

In valori assoluti il numero dei morti, sia nella fascia 60-79 sia tra gli over 80 è più alto. Ma è solo l’effetto paradosso. Perché i vaccinati sono molti di più dei non vaccinati. Se si guarda infatti l’incidenza, cioè il numero dei decessi in rapporto alla popolazione, tutto si inverte. Sempre tra gli over 80, i morti tra coloro che hanno fatto il vaccino anche da oltre sei mesi, sono 10,6 ogni centomila abitanti. L’attuale predominanza della variante Delta, con un grado di contagiosità stimato tre o quattro volte superiore a quello della variante Alfa, contribuisce a spiegare la diminuzione dell’efficacia della protezione dal contagio, che scende al 60,5% tra gli over 80 e al 36,7 nella fascia d’età dai 60 ai 79 anni tra chi ha completato il ciclo vaccinale da oltre sei mesi.

Non è quindi solo una questione di indebolimento della risposta immunitaria nel corso del tempo, come indica ll report dell’Iss. Report, come spiega l’epidemiologo dell’istituto Paolo D’Ancona, “che da qualche tempo non è più cumulativo e riguarda invece gli ultimi trenta giorni proprio perché la situazione è cambiata”. Attenzione, però. La “copertura” contro lo sviluppo dell’infezione in forma severa resta molto alta anche a distanza di oltre sei mesi dalla seconda somministrazione del siero. È sempre superiore all’80% in tutte le fasce d’età, dai 12 anni in su. Scende lievemente (al 78,3%) solo tra chi ha dai 60 ai 79 anni. Tutti numeri, in questo caso, riferiti al periodo compreso tra il 5 luglio e il 14 novembre. Se poi prendiamo in esame l’ultimo mese vediamo che la vaccinazione continua a mettere al riparo sia dal contagio sia dalla malattia grave. Le diagnosi di Covid 19 riguardano, ogni 100 mila abitanti, 138,6 persone nella fascia over 80 tra chi si è vaccinato da meno di sei mesi e poco meno di 200 tra chi lo ha fatto da oltre un semestre. Tra i non vaccinati, invece, i casi schizzano a quota 676,7, sempre ogni 100 mila abitanti. Di questi 218,6 finiscono all’ospedale, numero che scende a 30,4 tra i vaccinati da meno di sei mesi e a 37,1 tra quelli che hanno completato il ciclo da più tempo. Le differenze sono ancora più evidenti se si prendono in considerazione i ricoveri in terapia intensiva, anche tra le persone più giovani. Tra i non vaccinati 4,1 persone ogni 100 mila abitanti, nella fascia 40-59 anni, hanno necessità di cure intensive (tra i vaccinati da meno di 6 mesi o da oltre sei mesi si scende in entrambi i casi a 0,1). Sempre tra chi non è protetto dal vaccino finiscono in terapia intensiva 18,5 persone nella fascia 60-79 (contro 1 e 2 tra i vaccinati). “Ne consegue che se per esempio prendiamo in esame la fascia 60-79 il rischio di morte è quasi 18 volte di meno tra i vaccinati da meno di sei mesi, di quasi 6 volte tra quelli che il ciclo vaccinale lo hanno completato da più tempo”, spiega D’Ancona.

Quanto alla diminuzione della protezione dopo sei mesi “i fattori che concorrono sono più di uno – prosegue D’Ancona – Abbiamo un indebolimento della risposta immunitaria. Ma dobbiamo prendere in considerazione un’altra ipotesi. Quelli che si sono vaccinati da più tempo sono gli operatori sanitari e gli anziani, persone più fragili o maggiormente esposte al virus per l’attività professionale che svolgono”. L’analisi dell’Iss non contempla come fattore di correzione la categoria di rischio. “Limite – osserva D’Ancona – che potrebbe anche sottostimare l’efficacia vaccinale dopo sei mesi, anche se riteniamo che questo fattore non dovrebbe incidere in modo rilevante”. Intanto i contagi continuano ad aumentare. Ieri hanno superato gli 11 mila, mai così tanti dal 6 maggio scorso. Contemporaneamente cresce ancora anche la pressione sugli ospedali, con 105 nuovi ricoveri nelle ultime 24 ore.

E B. prosegue la campagna acquisti

Dopo due intensi giorni nel suo buen retiro romano di villa Zeffirelli, Silvio Berlusconi è già tornato a Milano. Ieri si è sottoposto – a favore di telecamera – alla terza dose di vaccino e chi ci ha parlato lo definisce soddisfatto, quasi euforico. D’altronde la missione romana ha dato i suoi primi frutti: lo scouting tra i peones in vista del Quirinale ha già portato il ritorno dell’ex M5S Gianluca Rospi e nelle prossime ore Forza Italia ufficializzerà anche quelli dei deputati del Misto, ex azzurri, Alessandro Sorte e Stefano Benigni.

Oltre a Rospi, sono stati loro i primi a essere stati contattati dagli emissari di Arcore. E che l’obiettivo sia quello di riconquistare voti utili per il Colle lo dice chiaramente lo stesso Sorte: “Se Berlusconi fosse il candidato del centrodestra, lo voterei senza dubbi e posso convincere sette o otto deputati del Misto a fare altrettanto”. Dopo i primi tre, il nome in cima al taccuino di Berlusconi è Fabiola Bologna di Coraggio Italia e un altro deputato del Misto che al momento resta segreto. Voci insistenti spingono al ritorno della magistrata Giusi Bartolozzi. Ma gli occhi sono puntati anche su alcuni deputati ex 5S che, durante la crisi del Conte-2, hanno aderito al “Centro Democratico” di Bruno Tabacci: gli uomini di Berlusconi proveranno a convincere Nicola Acunzo, Carmelo Lo Monte, Maria Lapia e Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro della Dc, poi Udeur e infine Pd, Totò. Cardinale, ex renziana, eletta con il Pd, è nel Misto dal 2019. In tutto, nei prossimi dieci giorni, Berlusconi potrebbe incassare 8 nuovi voti. Oltre a Marcello Dell’Utri e Denis Verdini, anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa è stato assoldato per la ricerca dei voti centristi. Berlusconi lo ha incontrato a villa Grande mercoledì e gli ha affidato questo compito. È lo stesso Cesa che ha denunciato nel libro di Bruno Vespa la caccia ai “responsabili” di Conte e gli strani incontri con uomini dei Servizi. Altri due voti a Berlusconi arriveranno da Coraggio Italia!, il partito di Toti e Brugnaro, che martedì ufficializzerà il passaggio da 7 a 9 senatori. Entrambi dal Misto.

Nel frattempo, come ha raccontato il Corriere, Berlusconi si sta muovendo anche per allargare il suo consenso nel centrosinistra. Un paio di settimane fa a tutti i deputati è arrivato un opuscolo dal titolo emblematico (“Io sono Forza Italia”) in cui l’ex premier ricostruisce, a modo suo, la sua carriera politica e i suoi “successi” a Palazzo Chigi. Berlusconi nella lettera introduttiva si erge a erede di Giovanni Giolitti e Alcide De Gasperi descrivendosi come depositario dei principi “liberali, cattolici, garantisti ed europeisti”. La brochure si conclude con la “Carta dei Valori” fondativi di Forza Italia del 1994. Trent’anni dopo, l’ex premier ha un grande sogno da realizzare.

Covid: se va avanti così Draghi si gioca il Colle

Tra i corridoi di Palazzo Chigi, in queste ore, gira un grafico che sta terrorizzando Mario Draghi e i suoi consiglieri. È una previsione dell’European forecast hub e parla chiaro: oggi i contagi settimanali si attestano intorno ai 54mila, ma tra un mese, a metà dicembre, si potrebbe arrivare a superare quota 75mila. E a metà gennaio? A quella data le previsioni non arrivano ma tra i consiglieri del premier è chiaro a tutti che, senza misure restrittive, ci si arriverà con un picco di contagi. Proprio in quei giorni il Parlamento si riunirà in seduta comune per eleggere il presidente della Repubblica. Un passaggio delicatissimo che può diventare esplosivo a causa della quarta ondata di Covid. Perché rischia di impedire a Mario Draghi di essere eletto al Quirinale e di incastrarlo a Palazzo Chigi. Anche perché il 2 febbraio scorso, quando Sergio Mattarella decise di affidargli l’incarico evitando di sciogliere le Camere, i contagi settimanali erano poco più di 85 mila. Allora c’erano 400 morti al giorno e tra due mesi si spera che i vaccini evitino la stessa tragedia, ma con una curva dei contagi simile sarebbe complicato giustificare il passaggio di Draghi al Colle e una crisi al buio.

A Chigi recitano come un presagio le parole di Mattarella di nove mesi fa contro il voto anticipato: “Sconfiggere il virus richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti necessari e non un governo con attività ridotta al minimo”. Tra due mesi tutto potrebbe ripetersi. La convinzione che la quarta ondata costringerà Draghi a rimanere dov’è, si sta facendo strada anche tra i ministri che lo vorrebbero al Colle: Dario Franceschini su tutti, ma anche Giancarlo Giorgetti. Dunque, che fare? La prossima settimana sarà decisiva sul fronte delle misure anti-Covid. Una partita che si intreccerà con quella del Quirinale. Draghi domani incontrerà i governatori, poi giovedì il Cdm approverà un nuovo decreto: obbligo della terza dose per i sanitari, riduzione da 12 a 9 mesi del green pass ma il piatto forte saranno le nuove restrizioni. Oltre ai presidenti di Regione, le chiedono tutti i ministri. Ma Draghi è cauto: “Niente allarmismi”. L’obbligo vaccinale finora non è sul tavolo e il premier vorrebbe evitare nuove chiusure per non irritare Matteo Salvini e Giorgia Meloni che fino a oggi sono gli unici due leader ad aver sostenuto apertamente la sua candidatura al Colle.

Ma qualcosa il governo dovrà fare: l’ipotesi è quella di limitare, già giovedì, la vita sociale dei non vaccinati. Quindi, divieto di andare in palestra, ristorante e cinema. Un provvedimento che Draghi subirà, ma che potrebbe diventare un vantaggio per la corsa al Colle: prima si stringe la cinghia, prima i contagi iniziano a calare. Obiettivo: arrivare al picco a Natale e a metà gennaio con una situazione più sostenibile. A quel punto, la strada di Draghi verso il Colle sarebbe ancora percorribile. Stretta, ma percorribile. Perché, per evitare crisi al buio, servirebbe un accordo di tutti i partiti per eleggerlo al Quirinale e indicare già un sostituto da incaricare con consultazioni lampo. “Ma serve un’elezione ampia al primo scrutinio” dice il senatore Gaetano Quagliariello. In contrario, la partita si complicherebbe. Il premier rischia di rimanere incastrato a Chigi e non si potrebbe eleggere nemmeno un Presidente a maggioranza – di centrodestra o centrosinistra – perché un attimo dopo cadrebbe il governo. Così la quarta ondata fa tornare lo spettro di un Mattarella-bis: “Lui e Draghi – sostiene il dem Stefano Ceccanti – saranno obbligati a rimanere ai loro posti”.

L’indagato Renzi copia B.: parla d’altro e insulta i pm

Hai voglia a dire la politica e il futuro. Matteo Renzi e la Leopolda si accendono solo quando si parla del nemico. La benzina è il rancore, l’undicesima edizione è dedicata alle ossessioni personali del capo: i magistrati, i grillini, Il Fatto Quotidiano, l’inchiesta di Firenze che serve solo “a sputtanarlo”, parole testuali.

Il resto è contorno: i soliti tavoli programmatici, gli altissimi propositi su economia, Europa e diritti. Pure il cameo di Beppe Sala, che Renzi incorona come riferimento dei moderati: “È al secondo mandato da sindaco di Milano e alla prima uscita da leader nazionale”. Sono tutti momenti secondari, la cornice di una giornata che è dedicata ad altro.

Alle ore 18 e 6 minuti Renzi inizia la sua contro-requisitoria sul caso Open. Aveva annunciato sorprese, ma in un monologo di quasi 90 minuti non ne tira fuori nemmeno una. La Leopolda somiglia a Cologno Monzese, Renzi sembra un cosplayer di Berlusconi: tra le colonne della stazione fiorentina risuonano gli stessi e identici argomenti di 20 anni di attacchi alla magistratura, l’armamentario retorico di una vita del berlusconismo.

Eccoli. Il “processo mediatico”, una vetusta formula berlusconiana. Le toghe che “invadono la politica” e “mettono a rischio il sistema democratico”, un’altra citazione saccheggiata dal bagaglio del Cavaliere. Poi gli attacchi a Magistratura democratica e l’invettiva contro i pm che violano la Costituzione perché non chiedono l’autorizzazione a procedere. È un flashback continuo.

Renzi evoca il caso Tortora, proprio come faceva Berlusconi. Attacca Massimo D’Alema (“Ha distrutto il Monte dei Paschi di Siena”), proprio come faceva Berlusconi. Dice che “se i pm vogliono fare politica, devono candidarsi”, proprio come faceva Berlusconi. Suggerisce di impiegare la Guardia di finanza per indagare sui delinquenti veri, non lui: proprio come faceva Berlusconi.

L’ex premier sostiene di essere vittima e non artefice di fake news e campagne sui social. Cita sommariamente tre casi a suo dire clamorosi e li attribuisce – non si sa bene su quali basi – alla “Bestia” di Luca Morisi e al lavoro sporco di Rocco Casalino per i Cinque Stelle. Rivendica di aver parlato di fake news pure con “Cameron, Obama, Hollande e Merkel”, ma non dice una parola sulla “dark room” che avrebbe imbastito l’amico Marco Carrai, né sui “600 profili fake fatti in una settimana” di cui lo stesso Carrai si vanta negli atti dell’inchiesta.

L’ex premier sorride dell’ipotesi che Open fosse la cassa della corrente renziana e servisse per le sue spese personali. Rivendica con orgoglio la frase intercettata su Whatsapp – “Devo votare contro quelle merde dei grillini”, a cui la platea dedica l’applauso più fragoroso – ma si dimentica di spiegare come mai la fondazione abbia pagato 135mila euro per il suo volo privato per Washington, per una comparsata di pochi minuti in memoria di Bob Kennedy. Non un riferimento a Bin Salman, né ai soldi ricevuti dai Benetton o versati a Open da Toto e British American Tobacco: solo 90 minuti di vittimismo. Il resto del lavoro sulla “Giustizia” l’avevano fanno gli ospiti subito prima di lui.

L’esimio giurista Sabino Cassese: “La magistratura in Italia è diventata uno Stato nello Stato. I poteri, invece di essere separati, sono concentrati all’interno dell’ordine giudiziario”. L’ex magistrato Carlo Nordio: “Il pubblico ministero italiano è l’unica figura al mondo con un potere immenso, senza nessuna responsabilità”. Il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza: “Bisogna lavorare sulla responsabilità personale del magistrato, deve rispondere di ciò che compie. Ha un potere irresponsabile che squilibra la vita democratica del paese”. L’avvocato Anna Maria Bernardini De Pace, da un’idea di Licio Gelli: “Non ci sono controlli sulla stabilità psichica dei magistrati”. Pareva Arcore, era la Leopolda.

Soldi, immunità, Carrai: le 8 bugie sulle indagini

Per quasi un’ora, dal palco della Leopolda, Matteo Renzi ieri ha parlato dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open. Indagine che lo vede iscritto, insieme agli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, ad Alberto Bianchi, ex presidente della Open, e all’imprenditore Marco Carrai per concorso in finanziamento illecito. Vediamo cosa ha sostenuto l’ex premier e quali sono le accuse dei pm.

 

1. Finanziamento illecito. Parlando dei contributi alla Open il leader di Iv ha detto: “Secondo il pm la fondazione faceva finta di essere una fondazione ma in realtà era un partito. Ma chi lo ha deciso questo?(…) Chi decide cosa è politica e cosa non è”. Il punto è che i pm ritengono che la Open sia stata un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd: secondo l’accusa parte dei contributi volontari incassati negli anni dalla Open sono stati utilizzati “per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana”.

 

2. Guarentigie. “In questa vicenda – ha sostenuto Renzi – noi non abbiamo violato nessuna norma, altri hanno violato le guarentigie costituzionali dell’articolo 68 comma 2 e 3 della Costituzione, della legge 140 del 2003”. Il riferimento è ad alcune sue conversazioni depositate agli atti. La questione delle guarentigie parlamentari è stata già sollevata dall’ex premier in una lettera scritta alla presidente del Senato Casellati che ha deferito la questione alla Giunta per le immunità al Senato. Nella lettera Renzi ha anche spiegato quanto avvenuto il 4 ottobre quando la Procura di Firenze ha dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza dei suoi legali che qualche giorno prima avevano avanzato “formale intimazione al Procuratore Luca Turco di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa in base all’articolo 68 della Costituzione…”. A questa richiesta i pm hanno risposto in sostanza che quelle conversazioni sono state depositate agli atti perché captate dal cellulare non di Renzi, ma di un altro soggetto non parlamentare. Di avviso opposto la relatrice della Giunta per l’immunità, la forzista Fiammetta Modena che su una di queste conversazioni (quella tra Renzi e un imprenditore del 3 e 4 giugno 2018) ha proposto di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, sostenendo che l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto “rivolgere una richiesta di autorizzazione”.

 

3. Evento culturale. “La tesi del pm – ha detto a un certo punto ieri Renzi – è che la Leopolda era organizzata da un partito politico. (…) Noi non volevamo le bandiere di partito qui”. E ancora: “Che la Leopolda fosse un evento culturale… lo dimostra una ordinanza della Corte di Cassazione che giudicando su un ricorso presentato da Carrai dice espressamente che la Leopolda era un’iniziativa culturale diversa da quella organizzata da un partito politico”. Da tempo anche sul concetto di articolazione di partito si combatte un braccio di ferro tra Carrai e la Procura. L’imprenditore, ormai anni fa, ha presentato un primo ricorso contro le perquisizioni subite nel 2019 e ha incassato due pareri favorevoli della Cassazione che ha annullato l’ordinanza impugnata rinviando al Tribunale del Riesame per una nuova valutazione. L’ultima decisione del Riesame di Firenze è arrivata qualche settimana fa, quando però i giudici hanno rigettato il ricorso dell’imprenditore. Contro questa ordinanza Carrai ha presentato nuovo ricorso in Cassazione. Si vedrà come finirà. Nel frattempo nell’ultima ordinanza del tribunale del Riesame i giudici ad un certo punto scrivono: “Non sono emersi impegni per convegni, tavole rotonde, dibattiti (…) che non fossero finalizzati al buon esito di una delle campagne elettorali nelle quali si impegnava il leader. Di per sé non c’è nulla di illegittimo e si rientra nell’auspicabile dialettica costituzionale, ma espone la Open a essere una creatura meramente simbiotica con Renzi e col raggruppamento” del Pd “a lui facente capo”. Alle “spese culturali” i giudici del Riesame dedicano un passaggio quando parlano delle spese che la Fondazione Open ha sostenuto nel 2015 per l’organizzazione della Leopolda: in quell’anno ammontavano, secondo la ricostruzione dei giudici, a 496 mila euro. “Le uniche spese culturali – è scritto nell’ordinanza – risultano i biglietti pagati ad alcuni invitati ammessi a visitare Palazzo Vecchio, Palazzo Strozzi (ingresso mostra ‘Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana’) e il Museo dell’Opera del Duomo, costati 4.338, meno dei 20.666 costati per l’alloggio dello staff di Roma e per le hostess addette al servizio bimbi”.

 

4. Referendum. Ieri il leader di Iv ha parlato anche del referendum costituzionale del 2016: “Open ha finanziato il referendum, chi l’avrebbe mai detto!. Il referendum è nato da quelle idee che nel 2011 qui lanciammo. (…) Il referendum (…) è stato un’iniziativa del governo che ha fatto un mese di consultazioni, poi ha approvato un disegno di legge costituzionale, lo ha portato in Parlamento, ci sono state sei letture, è stato poi approvato e purtroppo respinto da un voto popolare…”. Proprio sul referendum sempre nell’ultima ordinanza del tribunale del Riesame sul ricorso di Carrai i giudici scrivono: “…Se è vero che una fondazione politica è comprensibilmente schierata nell’occasione di un evento così importante, non si può non tenere presente che all’esito della consultazione popolare l’allora Presidente del Consiglio aveva legato il proprio destino di premier e persino la propria vicenda politica”. Nel 2016 i costi sostenuti da Open per la campagna per il sì al referendum ammontavano a circa 1,4 milioni di euro.

 

5. Fake news. “Prendere un email su 92mila pagine e cercare di costruire una narrazione opposta è anch’esso strumento di fake news che va denunciato con forza”. Il riferimento di Renzi è alla mail del 7 gennaio 2017 che il giornalista Rondolino (estraneo all’inchiesta Open) invia all’ex premier, che a sua volta la inoltre a Carrai. La mail contiene “appunti sulla contropropaganda antigrillina”. Un piano che mira a colpire avversari politici e giornalisti. Nella mail c’è un punto denominato “Character assassination” in cui si cita: “Notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi”. Renzi nei giorni scorsi ha spiegato che non si è dato seguito a quanto scritto nella mail.

 

6. Il volo per Washington. Durante il suo discorso Renzi ieri ha fatto riferimento ai Whatsapp finiti agli atti scambiati il 3 e il 4 giugno 2018 con l’imprenditore Vincenzo Manes (non indagato): “È esattamente il motivo per cui il Costituente ha deciso di non prendere la corrispondenza di un singolo parlamentare, perché secondo il costituente il parlamentare (..) non si deve sapere cosa farà”. Quei messaggi sono stati depositati agli atti perché Renzi parlava con Manes di un volo che l’ex premier doveva prendere per Washington. A un certo punto Renzi scrive a Manes: “Stiamo prendendo un volo privato come fondazione, non abbiamo alternative, temo”. Volo Ciampino-Washington pagato da Open al costo complessivo di 134.900 euro.

 

7. Il conto corrente. Sull’estratto del conto corrente Renzi ha detto: “Prendono l’intero conto corrente di quello che peraltro è un parlamentare, per cui se vuoi sequestrare della documentazione hai delle procedure particolari da seguire”. All’estratto del conto dell’ex premier si fa riferimento in un’informativa della Finanza, che è anche tra gli atti studiati dalla relatrice della Giunta per le immunità che su questo non si è espressa nella sua relazione di qualche giorno fa.

 

8. i pm. Renzi nel suo discorso fa riferimento anche al pm titolare dell’inchiesta su Open. “Casualmente – ha detto – quel pm è lo stesso che ha arrestato la mia mamma, il cui arresto è stato annullato dopo 18 giorni dal tribunale del Riesame. Casualmente quel pm è lo stesso che ha arrestato il mio babbo, arresto annullato dopo 18 giorni…”. È vero, dopo 18 giorni Tiziano Renzi e Laura Bovoli, finiti ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta per bancarotta, sono stati scarcerati, ma per quell’indagine c’è stato il rinvio a giudizio.

Draghiciello

All’avvento dei Migliori, tutto avremmo immaginato fuorché di ritrovarci tal Antonio Funiciello, ex veltroniano poi renziano, noto per aver presieduto il Comitato Basta un Sì (quello del referendum stravinto dai No) e chiesto la nostra cacciata dalle tv, poi promosso a capo di gabinetto del premier Gentiloni. Ora, dalle carte dell’inchiesta Open, salta fuori che faceva – per usare un’espressione dell’amico Matteo su Letta – “marchette”: alla British American Tobacco (Bat) e al gruppo Toto. Nessun reato, per carità: non risulta indagato. Ma fatti perlomeno inopportuni, documentati dalle sue chat col pr di Bat Gianluca Ansalone e con Alfonso Toto. Bat, a fine 2017, teme un emendamento in Senato alla legge di Bilancio che aumenta le tasse sulle sigarette di fascia bassa. E a chi si rivolge per cancellarlo? Ai renziani, a cui finanzia Open e la Leopolda dal 2014. L’8.11. 2017 Ansalone attiva Funiciello, capo di gabinetto di Gentiloni, che si scapicolla e lo informa via via: “Ok, cerco di capire”, “Sono già all’opera, complicato però”, “Bene… non ancora chiusa, ma bene”, “In via di rassicurazione”. Il 14.11 è fatta: niente tasse in più. Ansalone scrive a Funiciello: “Un grazie non formale per aver condiviso merito e contenuto delle nostre preoccupazioni. Abbiamo evitato una cosa molto pericolosa”. Ma un mese dopo riciccia alla Camera lo stesso emendamento. Ansalone rimobilita Lotti, Bianchi e Funiciello per “disinnescare la bomba”. Il 19.12 missione compiuta: “Caro Antonio, finalmente dopo un nuovo round alla Camera possiamo rilassarci un attimo. Ti voglio ringraziare sinceramente per il tuo ascolto e il supporto”. Il 21.12 Bat, riconoscente, bonifica 20 mila euro alla fondazione Open.

La scena si ripete con Alfonso Toto, ceo del gruppo autostradale concessionario dello Stato, che si scrive un emendamento alla manovra 2017, “nel superiore interesse pubblico”, sullo scaglionamento dei fondi pubblici per la manutenzione dell’A24 e A25, poi lo fa presentare e approvare dal Pd renziano. Un affare da decine di milioni che passa – scrive la Gdf – grazie all’“interessamento di Boschi, attivata da D’Alfonso, e di Funiciello”. Toto scrive a D’Alfonso: “Sono stato da Funiciello e Canalini che hanno lavorato ventre a terra avendo compreso la drammaticità della ns infrastruttura”. Anche Toto finanzia Open tramite Bianchi.

Sapete dov’è ora Funiciello? Di nuovo a Palazzo Chigi come capo di gabinetto di Draghi, regista fra l’altro della lottizzazione selettiva della Rai. Nell’atto di nomina, ad aprile, Draghi precisa che dovrà esercitare le funzioni “unicamente per finalità di interesse generale”. Escluse, par di capire, le marchette alle lobby. Che aspetta ora ad accompagnarlo alla porta?

Il Giano bifronte del populismo, faccia cattiva del neoliberismo

Giorgia Serughetti, giovane sociologa di talento, mette nero su bianco quello che è sotto gli occhi di tutti, ma che non è oggetto di dibattito pubblico. Il populismo conservatore, che si è affermato nell’ultimo decennio e che ha raggiunto il potere con Donald Trump, nel Paese più potente al mondo va a braccetto con il liberismo. È un “Giano bifronte”, come scrive Serughetti, “che da un lato si alimenta degli effetti distruttivi prodotti dal neoliberismo”, ma “insieme ne perpetua la logica essenziale”.

Con questa impostazione, tanto semplice quanto necessaria, il populismo viene ricollocato, perlomeno nella sua espressione nazionalista o sovranista, in un ambito ben chiaro e definito, al di là di confusioni o semplificazioni che finora hanno fatto solo il gioco dei populisti stessi. E del resto, la realtà si incarica di confermare questa dinamica, basta vedere il ricompattamento del centrodestra italiano all’insegna dell’ideologia dell’individualismo proprietario e del neoliberismo più tradizionale.

Questa giuntura, aggiunge Serughetti, si è vista all’opera nella gestione dell’emergenza Covid con la difesa a oltranza della libera impresa e la minimizzazione dei rischi.

Ma c’è anche un altro aspetto che il libro mette bene in evidenza: la difesa delle identità che costituisce l’intelaiatura del populismo inteso come movimento “anti-establishment” si erge a difesa non già di minoranze minacciate, ma di gruppi maggioritari. E in particolare dei “maschi bianchi arrabbiati” con il loro manifesto vittimismo e rancore contro la dittatura del politically correct. Serughetti non li cita, ma sembra di vedere in controluce i Luca Ricolfi che si allarmano per l’articolazione del linguaggio o i Federico Rampini che ergono le barriere contro “la venerazione di Greta”. Solo che entrambi sarebbero da collocare nel fronte progressista, il che la dice lunga sulla pervasività di questo nuovo vento conservatore.

Il vento conservatore Giorgia Serughetti – Pagine: 172 – Prezzo: 18 – Editore: Laterza

 

“Scrivo colpi di scena ogni 5 pagine e nuoto”

Per niente al mondo, il nuovo romanzo di Ken Follett in libreria per Mondadori, ricorda il gioco da tavola Risiko. È come se il lettore avesse davanti il tabellone dei continenti e intanto l’autore britannico con il suo lancio di dadi dislocasse le pedine in ogni angolo del globo. In una realtà parallela di 700 pagine si muovono tra gli altri due agenti dell’intelligence sulle tracce di terroristi islamici, un viceministro cinese dei servizi segreti, un presidente donna degli Stati Uniti. Una fantapolitica, con lo spettro di una terza guerra mondiale, che riesce a coniugare strategie e quotidianità spicciola come in questo passaggio sulla presidente Usa: “Il sabato era un giorno di lavoro, ma diverso dagli altri. La Casa Bianca era un po’ più silenziosa del solito e il telefono non squillava in continuazione”.

Follett, gallese di Cardiff, a 72 anni continua a scalare le classifiche dei best-seller fedele a un mantra: “Lo scrittore deve porre limiti alla fantasia. Solo così può creare un mondo immaginario credibile”. Dopo una laurea in filosofia, il mestiere di giornalista gli sta stretto. Battendo sui tasti nei ritagli di tempo, prova a cimentarsi con la narrativa. Nel 1978, con La cruna dell’Ago – thriller debitore della sua passione per il James Bond di Fleming e con al centro una spia nazista infiltrata a Londra – indovina il primo successo e a oggi si contano 150 milioni di copie vendute. Le sue opere sono monumentali perché i suoi lettori sono contenti che le storie “siano belle grosse, così come sono contenti se una vacanza dura due settimane anziché una”. Dopo avere delineato la trama, assolda un manipolo di collaboratori per le ricerche e con il materiale raccolto appronta uno schema di capitoli. Tutte le mattine si concede una nuotata, poi siede davanti al computer e non si alza prima di metà pomeriggio. Durante la stesura è sempre attento a non commettere, per dirla con Henry James, il peccato di essere noioso. La tecnica è collaudata: un colpo di scena ogni cinque, sei pagine. La prima bozza finisce sotto gli occhi di un’equipe di storici professionisti alla caccia di eventuali errori, ancora una rilettura e il romanzo è pronto per la tipografia. Il metodo è pressoché infallibile: “Se nel libro ci sono poliziotti pago un poliziotto, o meglio ancora un poliziotto in pensione, perché mi dica: la polizia non agirebbe così, farebbe in quest’altro modo”.

Follett è capace di passare dai thriller, gli intrighi finanziari di Una fortuna pericolosa o l’ingegneria genetica ne Il terzo gemello, ai romanzi storici: gli schiavi nelle miniere nel secondo 700 di Un luogo chiamato libertà o la resistenza danese all’occupazione nazista ne Il volo del calabrone.

Al Novecento ha consacrato la sua Century Trilogy. Tutto comincia con le vicissitudini di cinque famiglie ne La caduta dei giganti, dall’incoronazione di re Giorgio V all’avvento di Stalin e Hitler. I successivi L’inverno del mondo e I giorni dell’eternità tengono insieme gli anni che vanno dalla Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino.

La sua macchina letteraria del tempo è però sul Medioevo che conosce la sua fortuna maggiore. Con I pilastri della terra (incipit fulminante: “I bambini vennero presto per assistere all’impiccagione”), feuilleton di mille pagine attorno alla costruzione di una cattedrale nell’Inghilterra del XII secolo, nel 1989 Follett eleva a consumo di massa la narrativa di ambientazione storica (con Umberto Eco, autore de Il nome della rosa, ci sarà a mezzo stampa una reciproca attestazione di disistima). Ai Pilastri si sono aggiunti due sequel, Mondo senza fine e La colonna di fuoco, e lo scorso anno il prequel Fu sera e fu mattina. Il pretesto drammaturgico dei suoi intrecci ruota sempre attorno alla conquista della libertà: la libertà religiosa, l’emancipazione delle donne, la ricerca della giustizia nelle società rudimentali.

I lettori si rispecchiano e Follett ingrossa il suo conto in banca. Si gode le sue Rolls-Royce, vola su jet privati, soggiorna nelle suite dei migliori hotel. Mentre ogni settimana suona con la sua band di cover blues, probabilmente lustra la sua filosofia di vita vincente: “Quando tutto è semplice, si commettono meno errori”.

Un prete ucciso è la vittima perfetta per spiegare la teologia del giallo

Il titolo, Il talento del cappellano, è perfetto per riprendere uno dei temi del dizionario del giallo di Pierre Lemaitre, qui recensito venerdì scorso: la teologia del giallo, laddove al lettore non bisogna nascondere nulla, evitando inganni nella trama. Parliamo dell’ultimo romanzo della siciliana Cristina Cassar Scalia, tra le migliori autrici del genere. Ecco perché scomodare la teologia del giallo. In questa nuova inchiesta del vicequestore Vanina Guarrasi e della sua squadra della Mobile di Catania, la soluzione arriva inaspettata quasi all’ultima pagina. E al lettore non viene nascosto nulla: indizi, sospettati e così via. Certo, a volte le rivelazioni sono scoppiettanti e possono apparire forzatamente indotte ma siamo pur sempre nella capitale della Sicilia vulcanica. Peccato veniale, quindi. Veniamo alla storia.

Nella notte tra il 26 e il 27 dicembre, viene segnalato il cadavere di una donna in un albergo in ristrutturazione sull’Etna. A telefonare alla polizia è il custode, un tipo strambo con l’ossessione di captare i messaggi degli alieni. Ma quando arrivano i collaboratori della Guarrasi il cadavere non c’è più. Le tracce però ci sono. Questione di ore e nel cimitero di Santo Stefano, il paesino dove abita Vanina, vengono ritrovati uccisi una donna e un uomo. La pediatra Azzurra Leonardi e monsignor Antonino Murgo, parroco e cappellano di Sua Santità. La Leonardi è la vittima “fantasma” dell’albergo. Ancora una volta la Guarrasi indaga con l’aiuto di Biagio Patanè, ottuagenario commissario in pensione. Tra piste false, scoperte e gli immancabili tormenti amorosi di Vanina l’unica incongruenza è la quantità industriale di cibo e cioccolata ingurgitata dalla poliziotta. Al quinto romanzo dovrebbe essere come la donna cannone.

 

Il talento del cappellano – Cristina Cassar Scalia – Pagine: 315 – Prezzo: 18 – Editore: Einaudi

 

Quel “Guardiano” delle vite distrutte dei nativi negli Usa

Due anni fa, Louise Erdrich, padre tedesco e madre nativa americana, natali nel Minnesota, radici nel North Dakota, National Book Award con La casa tonda, Pulitzer sfiorato con Il giorno dei colombi (per Roth il suo capolavoro), si era convinta che la sua ispirazione fosse morta. Si sbagliava.

Fu il ritrovamento di una serie di lettere inviate dal nonno Patrick Gourneau ai genitori di Erdrich fra il ’53 e il ’54 (anno della sua nascita), a risvegliarla e darle il La per quest’ultimo Il guardiano notturno, Pulitzer (era destino) per la narrativa nel 2021: “Magistrale romanzo polifonico sull’impegno di una comunità per impedire il dislocamento e l’eliminazione di diverse tribù native americane negli anni 0, reso con destrezza e immaginazione”. Una minaccia, quella verso le minoranze native, ancora viva se si pensa che un anno fa Trump tentò di annientare i wampanoag, inventori del Ringraziamento e primi ad accogliere i Padri Pellegrini.

Presidente del comitato consultivo della Turtle Mountain Band of Chippewa, a cui Erdrich appartiene, Patrick, che nel romanzo si chiama Thomas, si ribellò al piano di legge del ’53 che liberava, si per fa per dire, un gran numero di tribù dalla responsabilità delle proprie terre ancestrali e dalla dipendenza dagli aiuti federali. Tradotto: fine dei possedimenti, distruzione dell’identità e della dignità dei “primi abitanti di questa terra prosperosa”. Figura tanto umana quanto gloriosa, l’avo è guardiano notturno in una fabbrica, la prima nella riserva, che lavora pietre preziose destinate a orologi. Lì trascorre ore solitarie e tra una perlustrazione e l’altra scrive a chiunque possa aiutarlo a costruire una difesa contro il Congresso e i piani del senatore mormone fautore del provvedimento. “Siamo sopravvissuti al vaiolo, ai Winchester a ripetizione, alle mitragliatrici Hotchkiss e alla tubercolosi, all’epidemia di influenza del ’18 e abbiamo combattuto in quattro o cinque sanguinose guerre degli Stati Uniti. E alla fine ad annientarci sarà una sfilza di noiose parole”, dice. L’impresa gli riuscirà: salverà la sua tribù, oggi una delle più estese in America.

Intorno alla sua missione Erdrich – la cui produzione, tra realismo magico, spiritualità e razionalità, è da sempre atto di resistenza contro il razzismo e l’ignoranza di matrice “bianca” – disegna una costellazione di personaggi interconnessi a Thomas: Lloyd, un bianco che insegna matematica nella riserva, gestisce una palestra nel centro sociale e che pur sapendo di essere outsider spera di poter diventare “indiano”; il suo miglior ex allievo, poi miglior pugile, il giovane Wood; la nipote di Thomas, Patrice, diciannovenne acuta e determinata di cui entrambi s’innamorano. Nonostante l’età Patrice ha responsabilità e priorità precise e l’amore non è tra quelle. Ha da tenere a bada il padre alcolizzato e mantenere la madre e il fratello lavorando rubini e zaffiri in fabbrica. A portarla a Minneapolis, in un vero e proprio viaggio iniziatico, sarà l’incerta sorte della sorella Vera, di cui si son perse le tracce da quando ha seguito il marito in un progetto di ricollocamento dei nativi in città. Quando suo zio, che Patrice stima, percepisce in una visione che Vera è nei guai lei sa che cosa fare: partire. Non è così che fanno i veri eroi per salvare chi amano?

 

Il guardiano notturno Louise Erdrich – Pagine: 432 – Prezzo: 20 – Editore: Feltrinelli