Sbagliando i conti la paura sale

Già alle scuole elementari, la maestra, nell’introdurci ai primi basilari elementi di matematica, ci raccomandava di “non confondere le pere con le mele”. Sorge il dubbio che questo semplice, ma fondamentale suggerimento, sia spesso dimenticato durante questa pandemia, a iniziare col tormentone giornaliero dei casi positivi, finalmente chiamati contagi e non confusi con i malati. Ogni giorno vengono comunicate le percentuali di tamponi positivi, lasciando intendere che sia la percentuale di infetti sull’intera popolazione. Questa è una frazione, con al numeratore il numero di nuovi eventi registrati durante il periodo di osservazione (i positivi) e al denominatore il numero di persone a rischio d’ammalarsi all’inizio del periodo d’osservazione, quindi tutta la popolazione residente. Invece s’è lasciato intendere per incidenza la percentuale dei risultati positivi rispetto al numero di test effettuati che, ovviamente, non corrisponde all’intera popolazione. Per intenderci, nella citata frazione, il denominatore dovrebbe essere circa 60.000.000 e non, più o meno, 200.000, che corrisponde al numero di test giornalieri effettuato. Per avere un’incidenza indicativa, potremmo analizzare almeno un campione significativo di tutti i residenti. I dati che vengono forniti, invece, si riferiscono a un campione “sporco”, cioè che comprende solo coloro che si sottopongono al test, spesso per sintomi o per contatti. Ciò favorisce una risultante percentuale più elevata, falsa. Ancor più preoccupante è ciò che sta accadendo con i dati dei bambini. Come comunicato dalla Società Italiana di Pediatria, durante la pandemia, nella fascia di popolazione 0-19 anni (credevamo i bambini fossero compresi da 0 a 12) “sono stati confermati 791.453 positivi di cui 8.451 ospedalizzazioni, 249 ricoveri in terapia intensiva e 36 deceduti”. La popolazione da 0 a 19 anni (bambini?) è pari a circa 10 milioni e mezzo. La matematica, tralasciando l’errore di età, ci dice che l’incidenza dei ricoveri in terapia intensiva è stata pari a 0,0023 e quella dei decessi è stata 0,0003. Queste già minime percentuali si abbassano drasticamente se osserviamo la fascia 0-12, cioè i veri bambini.

 

E all’improvviso un bel Trattato

Effettivamente l’avevamo dimenticato. E invece mercoledì l’Eliseo ha fatto sapere che giovedì prossimo Emmanuel Macron sarà a Roma, tra le altre cose, per firmare il Trattato del Quirinale, “nato da un’idea lanciata al vertice bilaterale di Lione nel settembre 2017”, ci ricorda l’Ansa omettendo di citare il premier che ebbe quella bella idea, e cioè Paolo Gentiloni, oggi assurto – et pour cause, è il caso di dire – agli onori bruxellesi. Il lettore potrebbe legittimamente chiedersi: e che minchia è questo Trattato del Quirinale? Se lo facesse, purtroppo potremmo aiutarlo molto parzialmente, perché il testo non è stato pubblicato né discusso pubblicamente e anzi, indiscrezioni a parte, non si sa bene neanche quali materie riguardi. In linea generale questo Trattato pare una riedizione in sedicesimo di quello franco-tedesco del 1963 detto “dell’Eliseo” (evidentemente il Paese più debole ha l’onore del nome), rinnovato nel 2019: in sostanza una serie di impegni reciproci, o almeno si spera, che prefigurano un patto preferenziale tra i due Paesi su alcuni dossier, una bizzarra scelta bilaterale per chi continua a proporre di rafforzare le procedure comunitarie. Va segnalato, per mero dovere di cronaca, che la prima riunione fattuale – officiante l’allora sottosegretario Sandro Gozi, poi passato a lavorare per Macron – si tenne nel febbraio 2018 e che i tre italiani indicati nel “Gruppo dei Saggi” che ha lavorato all’accordo furono gli ex ministri Franco Bassanini e Paola Severino, più Marco Piantini, allora e oggi nello staff di Gentiloni. Nell’ultimo anno però, così abbiamo letto, la palla è passata alla Farnesina, da cui sarebbero trapelate parti del testo non proprio piacevoli per l’Italia. Forse, a questo punto, è il caso di ricordare che lo shopping francese nella Penisola – dal lusso alla ex Fiat, da Telecom a banche e assicurazioni – è vasto e in settori di primo piano: Parigi ha chiaro cosa serve al “sistema” delle sue imprese, Roma chissà (e in ogni caso, se glielo chiedete, non vi risponde). Comunque, fosse pure sbilanciato a favore della Francia, il Trattato del Quirinale potrebbe avere i suoi vantaggi: se non altro acquisterebbe un senso la prassi per cui la più alta onorificenza della Repubblica italiana è la Legion d’Onore.

Il Riformista diffama la nostra fondazione

Un simpatico giornale, Il Riformista, in un pezzo firmato da Aldo Torchiaro, ha deliberatamente leso i diritti della Fondazione umanitaria Il Fatto Quotidiano, sostenendo che la vera finalità di questa nostra nuova iniziativa sarebbe sostanzialmente promuovere un progetto politico e influenzare il Movimento Cinque Stelle. L’articolo contiene, tra l’altro, un errore fondamentale e non certo casuale, sulle cariche societarie, visto che Marco Travaglio è tra i fondatori, ma non è vicepresidente dell’Associazione.

Sostenendo circostanze false, in particolare la natura sostanzialmente politica della Fondazione, non si colpisce solo quest’ultima, ma anche le persone che stanno partecipando con entusiasmo, spinte da generosità e comprensione per chi ha bisogno. Visto che l’idea della Fondazione è della sottoscritta e ha come unico obiettivo quello di dare un contributo reale e concreto a chi ha bisogno, ritengo doveroso avvisare chiunque abbia in mente di diffondere ingiuste falsità, come fa Il Riformista, che agiremo a tutela della Fondazione in tutte le sedi competenti.

Capisco che sia difficile, in certi ambienti, credere che nel mondo dell’editoria ci siano anche realtà come la nostra che hanno intenti benèfici sinceri e disinteressati. Ma non permetteremo a nessuno di sostenere che stiamo progettando fantomatiche “Opa” su un partito politico, mascherando tale progetto dietro intenti umanitari di facciata. Vorrà dire che, se otterremo un risarcimento per i danni subìti, a seguito delle azioni giudiziarie che saremo costretti a intraprendere, devolveremo anche quello a favore dei progetti benèfici che intendiamo realizzare. Noi faremo solo quello che dichiariamo di voler fare. E i conti saranno così trasparenti che nessuno potrà mettere in dubbio la nostra serietà. Se questo dà tanto fastidio a qualcuno, pazienza: peggio per lui. Ma attenzione a ciò che si scrive perché c’è di mezzo un progetto umanitario e lo difenderemo con le unghie e con i denti. Invece di lanciare gratuite accuse, meglio sarebbe imitarci. Fateli anche voi i progetti benèfici, anziché tentare di distruggere quelli degli altri.

 

La tv dei Migliori sarà la più governativa e peggiore di sempre

Il potere ha bisogno della televisione, perché essa stessa è un potere (da L’anomalia di Manlio Cammarata – Iacobelli, 2009 – pag. 14)

Non basta più neppure il famigerato “manuale Cencelli”, in auge nella Prima Repubblica, per applicare la logica spartitoria della lottizzazione e assegnare poltrone e poltroncine ai vertici della Rai. Con la gestione autoritaria del nuovo amministratore delegato Carlo Fuortes, entra in vigore un codicillo, un addendum, che consente a lui e al governo di non rispettare più i rapporti di forza e gli equilibri parlamentari, per distribuire le nomine a proprio piacimento. O forse, per affidarsi ai sondaggi demoscopici che chissà quanto possono valere da qui alle prossime elezioni.

Fatto sta che la Rai non è mai stata tanto governativa come oggi, nemmeno ai tempi del vituperato monopolio democristiano. Sotto il “Governo dei Migliori”, diventa in pratica una dépendance di Palazzo Chigi. Potrà anche aver sbagliato il M5S a impuntarsi sulla difesa a oltranza della direzione del Tg1, senza prendere in considerazione altre alternative. Ma, a parte la reazione stizzita di Giuseppe Conte che annuncia un improbabile Aventino dei Cinquestelle dalle reti del servizio pubblico, appare chiaro il senso politico di un’esclusione finalizzata a ridimensionare e mortificare quello che è tuttora il partito di maggioranza relativa. È l’ultimo atto del cosiddetto “Conticidio” che ora rischia di incrinare i rapporti fra il Pd e il M5S, minacciando di ripercuotersi perfino sulla corsa al Quirinale.

Le colpe di questo disfacimento non sono tutte del “Fantasma dell’Opera”, com’è stato ribattezzato l’ex Sovrintendente di Roma chiamato ad amministrare il Gran Teatro di Viale Mazzini, con tutta la sua compagnia di direttori, vicedirettori, giornalisti e “artisti”. Le responsabilità risalgono indietro nel tempo e chiamano in causa i partiti, tutti i partiti, che da sempre considerano la Rai uno strumento di potere, una riserva di caccia o magari un’alcova di Stato. Un servizio pubblico, finanziato dal canone e quindi dai cittadini, che in realtà serve – come Arlecchino – due padroni: la politica e la pubblicità.

Le colpe più remote spettano a tutti coloro che hanno lasciato il controllo della Rai al ministero del Tesoro o dell’Economia, piuttosto che affidarlo a un trust o a una Fondazione esterna, indipendente e rappresentativa della società italiana. Quelle più recenti toccano di diritto all’ex premier, Matteo Renzi, che con la sua “riformicchia” ha trasferito di fatto la gestione della tv pubblica dal Parlamento al governo contro tutta la giurisprudenza della Corte costituzionale, assegnando pieni poteri all’amministratore delegato e direttore generale: da cui è scaturita la “filiera”, poi costretta alle dimissioni, di Antonio Campo Dall’Orto, Carlo Verdelli e Gabriele Romagnoli. Ma le colpe più immediate e più gravi vanno imputate al governo guidato da Mario Draghi, che non ha saputo o voluto imporre alla sua maggioranza taglia XXL una riforma organica della Rai, perpetuando e aggravando la crisi strutturale del “carrozzone di Stato”. Tanto da insinuare il sospetto che il premier punti in prospettiva a favorire un’altra privatizzazione, come quelle che ha realizzato all’inizio degli anni Novanta.

Si può anche apprezzare, allora, la nomina di tre donne alla guida del Tg1, del Tg3 e di RaiSport. Sono tre professioniste esperte e rispettabili. Ma non è una questione di genere. È una questione di autonomia e indipendenza rispetto ai centri di potere da cui promanano le nomine. Fa bene perciò Conte a promuovere ora una raccolta di firme per un referendum popolare sulla tv pubblica, chiedendo ai cittadini di togliere la Rai dalle mani dei partiti.

Foibe, meglio che Giovanardi ritorni a studiarsi la storia

Questa settimana Panorama pubblica un singolare articolo di Carlo Giovanardi, ex senatore ed ex ministro del secondo governo Berlusconi, dal titolo “Ora basta con l’ipocrisia sulle foibe”. Come in altre occasioni, un politico evidentemente digiuno di storia se la prende con gli studiosi (citando esplicitamente gli autori di questo articolo) definiti “negazionisti” perché, a suo dire, giustificherebbero il dramma delle foibe, viste come la conseguenza della politica repressiva dell’esercito italiano nei confronti delle popolazioni jugoslave nei due anni precedenti, dopo l’invasione avvenuta nell’aprile del 1941. “Per nulla”, tuona l’ex ministro, non è vero niente! Secondo lui questa tesi è del tutto arbitraria, frutto della “protervia manichea” di una banda di “nostalgici di Tito” che avrebbero come unico scopo quello di “attenuare le gravissime responsabilità dei comunisti”. La prova verrebbe da un documento “presentato per la prima volta” al pubblico, scrive il periodico. Peccato che i documenti in realtà siano due – l’autore li fonde erroneamente – e che siano entrambi noti agli storici da decenni, citati in innumerevoli saggi e manuali, e facilmente reperibili in rete.

Il primo è la famigerata “circolare 3c”, emanata dal generale Mario Roatta nel marzo 1942 in Jugoslavia, quella che prevede la cattura di ostaggi, la fucilazione immediata dei prigionieri, la creazione di campi di concentramento (dove vennero internati 100.000 civili). Le pratiche repressive evidenziate in quel documento vengono però attribuite per sbaglio a una seconda circolare, emanata dallo stesso Roatta in Italia dopo la caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, e che niente hanno a che vedere con le “complesse vicende del confine orientale”. Così, alla luce di questa svista macroscopica, le repressioni in Jugoslavia nei due anni precedenti alle foibe, secondo Giovanardi, non sarebbero mai avvenute. In sostanza l’autore cita un documento che prova proprio i crimini che vorrebbe minimizzare… per minimizzarli! Accecato dalla volontà di dimostrare a tutti i costi una tesi ideologica precostituita, l’ex ministro ci dà una lezione di metodo al contrario. Siamo al paradosso: da una parte abbiamo due studiosi seri e competenti, uno dei quali ha dedicato tutta la carriera a studiare la guerra in Jugoslavia e ha da poco pubblicato, proprio sul tema delle foibe, un libro per Laterza nella collana “Fact Checking”, nata con lo scopo di smentire i luoghi comuni favoriti dall’ignoranza o dalla malafede. Dall’altra abbiamo un politico schierato su posizioni anti-resistenziali il quale, partendo da un assunto clamorosamente sbagliato, porta avanti una tesi “negazionista”, in questo caso sì, nei confronti dei crimini dell’Italia fascista in Jugoslavia, sui quali esistono valanghe di prove, saggi e documenti. Insomma: un “negazionista della storia”, accecato dalla furia ideologica accusa di malafede gli studiosi, confondendo date e luoghi, in un articolo che umilia, tra l’altro, il concetto stesso di deontologia giornalistica. Questo infelicissimo, imbarazzante scivolone di Giovanardi insegna che chi strumentalizza la storia quasi sempre non la conosce. Per questo bisogna diffidare della storia riscritta dai partiti, dai parlamenti, dai politici di professione: perché serve semmai a capire questi ultimi, non già i fatti dei quali pretende di fornire una lettura ufficiale. È una regola con poche eccezioni: chi usa i fatti del confine orientale come una clava, dimostra immancabilmente di ignorarli, quei fatti. Un milione di caduti ha avuto la Jugoslavia all’epoca, e i cinquemila morti delle foibe sono parte di quell’immensa carneficina. La storia va raccontata tutta, ricordando le vittime, ma anche i carnefici. Ed è questo che dovremmo fare, senza farci trarre in inganno dalle tesi deliranti di chi usa la storia senza conoscerla.

 

Migranti, perché la crisi umanitaria non ci tocca?

Non penso certo di essere migliore, né tantomeno più buono di chi mi legge. Solo vorrei che insieme rispondessimo sinceramente a una domanda brutale: perché non ce ne frega niente dei 10 africani morti d’asfissia martedì scorso nel Canale di Sicilia, rimasti schiacciati dalla calca degli altri 186 che la nave di Medici senza Frontiere è riuscita a salvare? Perché non ce ne frega niente di quelli che nelle stesse ore morivano assiderati nella pianura bielorussa, magari con un briciolo di attenzione in più concessa alla malasorte del bambino siriano di un anno che qualche giornale ha sentito il dovere di affacciare in prima pagina?

Ok, meglio cambiare tono. A colpevolizzarsi si finisce solo per far retorica a buon mercato, e magari a offendersi. A nessuno piace sentirsi definire cinico o cattivo. Ma la domanda resta: da dove nasce e dove ci porterà l’indifferenza predominante nell’opinione pubblica di fronte a una catastrofe umanitaria che avvolge il nostro continente dallo Stretto di Gibilterra fino alle steppe orientali, passando per la costa meridionale del Mediterraneo e la penisola balcanica? C’è assuefazione, d’accordo. Ci si abitua a tutto, almeno finché la sofferenza altrui si consuma a distanza. Vero è che i governanti si guardano bene dal turbare questa nostra indifferenza, semmai si sforzano di giustificarla. Ci spiegano che la colpa è dei trafficanti di esseri umani e dei dittatori che usano i migranti per minacciarci d’invasione. Confidano di riscuotere il nostro consenso impegnandosi a respingere chi si ammassa ai nostri confini senza avere le carte in regola. Accusano chi tenta di soccorrerli di nascondere i propri secondi fini e gli danno la colpa di illudere quei poveretti, attirandoli in una trappola mortale.

Tutto ciò mi è chiaro, ma ancora non risponde alla domanda: come si spiega tanta indifferenza? Perché di fronte a ogni nuovo fronte di crisi che si apre – ultimo quello che coinvolge la Polonia e le Repubbliche baltiche – l’attenzione si concentra sui risvolti geopolitici, relegando in secondo piano la sorte di quegli sventurati? Ci siamo gingillati troppo nella discussione terminologica intorno a un concetto astratto, il razzismo, che nessuno è più disposto a intestarsi. A parole tutti conveniamo che il valore della vita umana non ammette graduatorie. E nessuno più, tranne pochi fanatici, teorizza l’esistenza di razze inferiori e razze superiori. Eppure, temo che proprio qui si nasconda la convinzione non dichiarabile, imbarazzante ma radicatissima, con la quale dobbiamo ancora fare i conti dentro a noi stessi. Non è facile sbarazzarsi del senso comune sedimentato in secoli, millenni di storia, secondo cui nel mondo convivono uomini e sottouomini, sicché metterli alla pari sarebbe solo una forzatura intellettuale artificiosa, contraddetta dalla realtà. Fatichiamo, insomma, ad accettare che i profughi disposti a rischiare la pelle, e a farla rischiare ai loro figli, pur di raggiungere le zone più ricche del pianeta, siano davvero persone come noi che vi abitiamo. Gli antichi li chiamavano barbari. I nazisti, più di recente, untermensch. Cioè per l’appunto sub-umani, sottouomini. Nell’età contemporanea ci siamo proibiti di ricorrere a una simile terminologia, ma nell’intimo quella sensazione è dura da sradicare. Ne muoiono a migliaia per raggiungerci. Quelli che ce la fanno accettano di buon grado – per loro è già un miglioramento – di venir ammassati in centri di raccolta inospitali. Pur di sopravvivere, svolgono lavori con retribuzioni miserabili (il che ci fa comodo) e senza diritti civili riconosciuti. Anche questa loro predisposizione alla subalternità contribuisce a farceli percepire come esseri inferiori, selvaggi da allontanare o, laddove serve, da assoggettare.

Mi è servito a chiarirmi le idee il libro che Francesco Filippi ha dedicato all’eredità culturale del colonialismo italiano: Noi però gli abbiamo costruito i ponti. Le colonie italiane tra bugie, razzismo e amnesie (Bollati Boringhieri). A differenza che nel Regno Unito, in Francia, in Belgio, dove i processi di decolonizzazione furono meno frettolosi e diedero vita già nel dopoguerra a vaste comunità immigrate, l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con la storia del suo Impero straccione. Semmai, col vittimismo che la Grande Proletaria non ha mai smesso di coltivare, a lungo è serpeggiato un atteggiamento di rimprovero nei confronti delle popolazioni che eravamo andati a civilizzare e che, strano a dirsi, non ce ne sono affatto grate. Una mentalità forgiata nel tempo, alimentata dalla rimozione dei crimini di guerra perpetrati in Libia e in Etiopia.

Può succedere così che se un bambino muore di freddo lungo il viaggio ci venga spontaneo darne la colpa ai genitori irresponsabili o a Lukashenko. Il pensiero che lo si poteva, lo si doveva soccorrere per tempo, viene solo dopo.

 

Cosa vedere in settimana: dalla Fenech insaponata all’“Elisir” di Mirabella

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Cine34, 21.00: La soldatessa alle grandi manovre, film-commedia con Edvige Fenech. L’avvenente dottoressa Eva Marini deve svolgere un’inchiesta sul comportamento amoroso di alcuni militari. Deve proprio, capite? E per compilare la relazione si reca nella caserma del colonnello Fiaschetta, che è piena di docce.

La 7, 21.15: Piazza pulita, attualità. Corrado Formigli, col suo stile garbato, torna a occuparsi di temi che hanno rotto i coglioni a tutti: Covid, Green Pass e No-Vax. Su Cine34, intanto, c’è la Fenech che si sta insaponando.Rai 1, 10.15: La Santa Messa, varietà. L’ultima cena di Cristo rievocata con preghiere, letture e canti. Il momento clou della cerimonia è quando il sacerdote inala un lungo segmento di spago su per il naso, lo tira fuori dalla bocca e afferrate le due estremità tira lo spago avanti e indietro, in memoria della passione di Gesù. Come sul Golgota, lo spettacolo si svolge davanti a un pubblico non pagante.Raiplay, streaming. Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, dedicato ai geyser di Yellowstone: “Continuo a rimorchiare donne di tutte le età anche se ormai fra le gambe c’ho una corda. Il segreto è la mia Jacuzzi. L’ho fatta truccare negli anni 70 da Werner von Braun, e ha un getto particolare: se la ragazza dirige il getto sul clitoride, viene in meno di tre minuti. Si tratta di orgasmi potenti, mi dicono, che ricordano loro il primo orgasmo in assoluto, quello solitario nella propria cameretta, che poi rincorriamo per tutta la vita come si anela al paradiso, che poi è l’amnios, il sacco amniotico, l’eden dai cui siamo stati cacciati dopo 9 mesi. Sì, certo, un posto un po’ stretto, e buio, e a volte un po’ troppo caldo, ma quando vostra madre faceva sesso con vostro padre, o con il fratello di vostro padre (non voglio darle della bigotta), le endorfine del suo orgasmo arrivavano anche a voi col suo sangue che vi nutriva, e l’utero diventava Disneyland. Come vedremo in questa puntata, c’è un geyser di Yellowstone che procura lo stesso effetto sulle donne avventurose…”.Canale 5, 13.40: Beautiful, soap. Il timido Finn è a letto con un febbrone. Allora Steffy gli prepara un rum flip, cioè un rum con tuorlo d’uovo e zucchero, e gli dice: “Butta giù, Finn. È quello che ti ci vuole. L’uovo ti dà forza, e lo zucchero ti dà energia.” “E il rum cosa mi dà?” “Ti fa venire qualche idea su cosa fare con la forza e l’energia”.Rai 3, 10.40: Elisir, medicina con Michele Mirabella. Oggi si parla delle zuppe, molto ricche di nutrienti, tanto amate nella stagione invernale, e un vero balsamo per i gargarismi contro le ulcere da sifilide. Sky Cinema Romance, 21.45: King Kong, film-fantasy. È la versione director’s cut del film, quella dove gli si vede il bigolo. Lungo come l’Empire State Building.

Nove, 21.35: Pretty Woman, film-commedia. Non fu mai scritta storia più romantica da quando Romeo sbavava per le soffici, calde, implumi labbra vaginali di Giulietta. Rai3, 20.45: Un posto al sole, soap. Silvia viene inaspettatamente contattata da Giancarlo, che le dice: “Mi sono messo a vendere elefanti. Posso vendertene uno?” “Sei scemo?” “No, davvero… Sono ottimi animali domestici” “Mio marito mi ammazzerebbe!” “Te ne do 2 al prezzo di 1” “Adesso ci siamo”.

 

Nostalgia canaglia: quando lottizzavo io

“Quando c’era lui”, ripetono come un mantra i nostalgici. Ieri, leggendo l’intervista del 5Stelle Vincenzo Spadafora a Repubblica, ci è invece sembrata calzante una parafrasi ego-riferita: “Ah, quando c’ero io”. Nel criticare Giuseppe Conte riguardo alle nomine Rai, il deputato è stato chiaro: “Si è ammesso di non essere riusciti a interloquire con l’Ad della Rai, né attraverso il consigliere di amministrazione che Conte ci ha chiesto di votare né attraverso le persone che Conte ha incaricato per la trattativa”. Morale della favola: “A certi tavoli, io dico: o ci si sa stare, o è meglio non sedersi”. Agevoliamo traduzione per i più pigri: io sì che avrei saputo come ci si comporta. E non è un caso che al precedente giro di nomine Spadafora fu indicato da più fonti come uno dei principali sponsor di Franco Di Mare, scelto nel 2020 come direttore di Rai3. Ma ora che Spadafora non è coinvolto, i treni non arrivano più in orario.

La Cunial guida “l’intrigo mondiale”

Dove il cinepanettone incontra James Bond, esiste “Italygate”. La vicenda occupa da giorni intere paginate su Repubblica, i cui titoli ci riportano alle avvincenti atmosfere dei thriller: “La strana indagine Usa a caccia dell’Italygate”; “La missione dei due americani nel carcere di Salerno”; “Giallo sugli americani fantasma”.

Ma di che si tratta? Nei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, Donald Trump avrebbe preso sul serio certe teorie strampalate circolate nei deliri digitali di QAnon, secondo cui l’Italia “era sospettata di aver truccato le Presidenziali per favorire Biden”. E menomale che “Giuseppi” era “l’amico di Trump”.

A ogni modo, “i satelliti della compagnia Leonardo sarebbero stati usati per truccare i voti durante il trasferimento”. Ed ecco che a questo punto della nostra storia compare la femme fatale, la Bond Girl. Trattasi di Sara Cunial, deputata ex 5 Stelle nota ai più per le sue posizioni complottiste e radicalmente no-vax: è lei, da copione, a raccogliere i dubbi del Pentagono e ad accompagnare – secondo testimonianze raccolte da Repubblica – due non meglio identificati americani nel carcere di Salerno per interrogare (senza alcun titolo) Arturo D’Elia, uomo che la Spectre sospetta sia al centro del complotto.

Già così è roba che scotta, ma aggiungeremo soltanto che in questo spiacevole e cupo dramma si guadagna un cameo persino l’avvocato Carlo Taormina, uno che in aprile annunciava di aver ricevuto formale incarico “per l’accertamento delle frodi elettorali che hanno fatto eleggere Biden”. Oggi Taormina, sentito da Rep., ci informa che purtroppo “è tutto superato”. Ma non per il quotidiano, che invece prosegue nella sua indagine sibilando il vero tema dell’Italygate: “Quanto era al corrente di tutto questo il governo Conte?”. Le gesta della Cunial preoccupano al limite dell’incidente diplomatico, se non dell’attentato alla democrazia. E noi, fessi, ve ne diamo conto solo oggi, raccogliendo l’indignazione del collega della Stampa Jacopo Iacoboni: “Stranamente un grande scoop di Repubblica è stato quasi ignorato: cessione di sovranità nazionale, pericoli per la sicurezza nazionale, una parlamentare italiana tirata in ballo da un avvocato”. Soldi facili per gli sceneggiatori Netflix. Speriamo che nei titoli di coda si ricordino degli amici.

“Maurizio, riscaldati la casa con le copie di Repubblica…”

Ho letto con entusiasmo il suo articolo, dottor Maurizio Molinari”, scrive Maria Zakharova, battagliera portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, in una “risposta” a proposito del fondo apparso domenica 14 novembre su Repubblica che il 57enne Molinari dirige dal 23 aprile 2020. “Era da tempo che non vedevo un’assurdità così deliziosa”, prosegue con sarcasmo gogoliano la potente funzionaria del Cremlino direttrice del dipartimento Informazione e Stampa del ministero degli Esteri. Che ha combinato il crociato stelle e strisce del nostro giornalismo, il quale da anni sostiene come Russia, Cina e Jihad stiano assediando l’Occidente e abbiano innescato la seconda Guerra Fredda, mentre è sicuro che il XXI secolo “sarà ancora americano” (lo ha scritto nel saggio L’aquila e la farfalla)?

Lo svela subito, cambiando tono, la marziale Zakharova: “Capisco perché nessuno della sua redazione lo abbia firmato e lei si sia assunto in prima persona la responsabilità di questa vergognosa missione. Nessun giornalista che si rispetti vorrebbe il suo nome sotto il titolo “Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa”. Be’, la Zakharova esagera nel bacchettare Molinari: come direttore, a lui compete scrivere i fondi in cui si manifesta la linea politica del quotidiano, gradita all’editore. Ma è pur evidente che essa coincide con la linea di Washington. Molinari è un “atlantista”. Diffida di Mosca e Pechino. Per lui, “l’intento del Cremlino sembra essere quello di generare crisi parallele in Ucraina e in Polonia”. Tasti sensibili della politica putiniana.

Non ci risultano analoghi interventi della scaltra Zakharova, classe 1975, cresciuta alla scuola diplomatica sovietica (il padre lavorava all’ambasciata di Pechino, lasciò la legazione nel 1991, quando crollò l’Urss) verso altri giornali schierati con Casa Bianca e Nato. Forse, c’è il disappunto perché un giornale ritenuto un tempo non ostile, ora lo è in modo sistematico. Quindi, la Zakharova, su ordine del Cremlino, ha sparato ad alzo zero. Impallinando Molinari su un dettaglio geografico, quello della base delle forze armate russe a Yelnya, 260 km a nord del confine ucraino, come riporta il direttore di Repubblica. Un comunicato ufficiale del ministero della difesa ucraino “smentisce le fobie statunitensi – scrive la Zakharova – nel nostro Paese non esistono affatto basi militari. Esiste la dislocazione di unità delle forze armate russe sul nostro territorio nazionale. E questo, è un nostro diritto sovrano”.

Molinari viene accusato di “sproloquio”. Ha “un’idea confusa di dove sia Yelnya”. Se scrive che si trova a 260 km dal confine ucraino, difficile che i carri armati siano “sul confine”. Lo vuol ridicolizzare: “forse sarà più informato sulla collocazione della Svizzera tra Francia e Italia. La distanza è addirittura inferiore ai 260 km. Ma non è che domani Repubblica scriverà che Berna è a un passo dall’attaccare Italia e Francia contemporaneamente, visto che tutte le truppe svizzere sono più vicine al confine di questi Paesi di quanto non sia Yelnya all’Ucraina? Il difetto di tale logica non sembra ovvio ai lettori del suo giornale? Quel che lei si permette di fare non è consentito a un giornalista perbene”.

Da quale pulpito… In verità, quello della Zakharova è un esercizio di retorica, per condurre Molinari su un terreno in cui Mosca è maestra. Sfruttando l’ambiguità delle notizie sulle truppe russe “alle porte dell’Ucraina” (La Stampa, stesso gruppo di Repubblica), il Cremlino accusa Usa e Ue di putsch per aver scalzato dal potere il filorusso presidente ucraino Yanukovich (scappato a Mosca), rivendica la legittimità della secessione in Crimea suggerendo di essere “così gentili da ricordare ai lettori che in Kosovo non c’è stato alcun referendum, ma i Paesi occidentali, compresa l’Italia, ne hanno riconosciuto la sovranità”. Ma alla fine, la scivolata che svela il vero motivo della lunga risposta: “Signor Molinari, pare che lei abbia letto molti ‘rapporti dal campo’ polacchi visto che ripete come un mantra queste accuse contro Lukashenko e contro il presidente russo per aver creato ‘un esplosivo fronte di attrito con l’Ue’”.