Il processo “Miramare” si è concluso con la condanna a 1 anno e 4 mesi di carcere, pena sospesa, per il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà (Pd). Il primo cittadino è stato giudicato colpevole per abuso d’ufficio e assolto, invece, dal reato di falso. Per lui scatta comunque la legge Severino e sarà sospeso sia dalla guida del Comune sia della Città metropolitana. Il processo è nato da un’inchiesta sulle irregolarità nelle procedure di affidamento, senza bando pubblico, del “Grand Hotel Miramare” all’associazione “Il Sottoscala”, onlus presieduta dall’imprenditore Paolo Zagarella (condannato a un anno) che nel 2014 aveva concesso gratuitamente i suoi locali per la segreteria di Falcomatà. Sempre per abuso d’ufficio, sono stati condannati, a 1 anno, sette assessori della precedente giunta, l’ex segretario e un dirigente del Comune. Poco prima della sentenza, Falcomatà ha nominato i due vicesindaci del Comune e della Città Metropolitana: Paolo Brunetti di Italia Viva e Carmelo Versace di Azione Calenda. E il Pd sta a guardare.
Lodi, Uggetti truccò la gara ma per i giudici è tutto ok
Sono arrivate le motivazioni della Corte d’appello di Milano, a spiegare l’assoluzione dell’ex sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti. Nel 2016 era stato arrestato e nel 2018 era stato condannato in primo grado a 10 mesi, per turbativa della gara bandita per la gestione delle piscine comunali di Lodi. I giudici d’appello ribaltano la prima sentenza, pur confermando i fatti per cui Uggetti era stato condannato. “È pacifica acquisizione che una bozza del bando”, scrivono i giudici, “veniva inviata dal sindaco Uggetti al Marini”: Cristiano Marini era il rappresentante della società Sporting, per cui il bando era stato costruito su misura.
Ma secondo i giudici “l’obbiettivo di affidare a Sporting Lodi la gestione degli impianti non era affatto irragionevole”, poiché “possedeva tutte le caratteristiche per realizzare la miglior gestione possibile delle piscine scoperte. Dunque, la soluzione era satisfattiva degli interessi economici e dell’interesse pubblico ad ottenere il miglior servizio possibile a beneficio dei cittadini del territorio lodigiano”. Anche Uggetti aveva riconosciuto, appena scoppiato lo scandalo, “di aver fatto delle cavolate, tanto è che mi sono dato del coglione”. I giudici di primo grado avevano “individuato nell’operato del sindaco Uggetti una interferenza rilevante ai sensi dell’articolo 353” (turbata liberà degli incanti, ndr). Non così i giudici d’appello, che vedono invece negli atti del sindaco “l’acclarato perseguimento di obbiettivi corrispondenti all’interesse pubblico”; “l’assenza di un fuorviante interesse di carattere economico”; e perfino “la coerenza degli obbiettivi perseguiti dal sindaco con il programma elettorale e con il suo progetto per la città amministrata”, che attendeva “il miglior servizio possibile nella gestione di impianti natatori”.
Così i comportamenti che per i primi giudici erano delittuosi, ora diventano virtuosi: “È pertanto del tutto fisiologica l’interlocuzione specificamente avviata nel settembre 2015 dall’Uggetti” con Marini. Dunque, conclude la sentenza, “non risulta essersi verificato alcun sviamento di potere, nemmeno nell’esplicazione di quel margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge per l’esercizio di poteri di indirizzo”. Gli imputati non avevano “l’obbiettivo di una incidenza indebita e collusiva sul bando di gara”. Tutti assolti, dunque. Perché non si devono “punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali attinenti all’iter procedimentale, irregolarità che, invece, debbono essere idonee a ledere i beni giuridici protetti dalla norma”. A parere dei giudici d’appello, “il bene tutelato dall’articolo 353” non è la “mera regolarità formale dell’asta”, ma “l’interesse della Pubblica amministrazione”. Dunque “la turbativa non ricorre in presenza di qualsiasi disordine relativo alla tranquillità della gara, essendo necessaria una lesione, anche potenziale, agli scopi economici della Pubblica amministrazione e all’interesse dei privati di poter partecipare alla gara”.
Qui Radio Leopolda, attacco ai cronisti
Il paradosso per un ex politico di successo, che da tempo si dedica soprattutto a fare quattrini con board e conferenze private, è rivendicare con orgoglio il primato della politica. Matteo Renzi la sua undicesima Leopolda l’apre proprio così: “Qui si fa politica”. Non come in tv, “in certe trasmissioni”. Come primo atto, chiama i fischi del pubblico verso i giornalisti ostili: “Una settimana fa ero nello studio di Lilli Gruber”, insieme a Marco Travaglio e Massimo Giannini. Partono ululati e mugugni, Renzi gigioneggia, finge di fermarli, se la ride. Quest’anno la scenografia è a tema radiofonico: il palco somiglia a uno studio di registrazione e “Radio Leopolda” è anche un’emittente vera e propria che Renzi lancerà online a partire dal 12 gennaio.
Nonostante la Fondazione Open abbia chiuso i battenti, l’organizzazione resta in grande stile, come negli anni del renzismo di governo. La capienza è ridotta dalle norme sanitarie, ma le navate della più antica stazione fiorentina sono ancora piene: ci sono circa 2mila persone.
Nel momento più basso della sua parabola politica, Renzi è ostentatamente energico e su di giri. Dimagrito, jeans scuri, giacca nera, camicia bianca e scarpe da ginnastica immacolate, fresche di negozio. È in “modalità da combattimento”, come ha detto in un’intervista all’Huffington Post, perché è convinto che si andrà a votare presto, nel 2022, dopo l’elezione di Mario Draghi al Quirinale (“L’hanno già deciso Letta, Conte, Salvini e Meloni”).
Forzatamente giovanile, come tutto lo spettacolo, sempre uguale a sé stesso, nella buona e nella cattiva sorte. Musica alta, citazionismo pop e aforismi mescolati un po’ a casaccio. Al lato del palco c’è un enorme pannello con una frase del rapper Jay Z sul “potere della radio”, poi Renzi mette in mezzo Pier Paolo Pasolini (“Non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi, alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento con il sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze, di menzogne, crollerà”), ma passa subito a Luciano Ligabue e al monologo di Stefano Accorsi in Radiofreccia (“Credo nelle rovesciate di Bonimba e negli assoli di Keith Richards”). Finite le citazioni, ridicolizza Giuseppe Conte: “Diamogli un segnale di umana solidarietà. Quell’uomo è in una condizione che fa male al cuore. Si sta facendo fare le scarpe da Di Maio… Era abituato a dare la linea al Tg1. Un appello a Fuortes: gli avete tolto Rai Uno, dategli almeno Rai Gulp”. Poi – prima di cedere il palco al presidente del Coni, Giovanni Malagò (seguito dal finanziere Davide Serra e dal virologo Roberto Burioni) – rivendica per l’ennesima volta il merito di aver cacciato l’avvocato da Palazzo Chigi e di averci messo Draghi. “Qualcuno di voi in quei giorni pensava che fossi rincoglionito, dite la verità. Se Cristoforo Colombo avesse ascoltato i sondaggi non avrebbe mai scoperto l’America”.
Renzi va senza freni, come un dj radiofonico. Oggi pomeriggio si sfogherà sull’inchiesta Open, domani chiuderà la kermesse con un discorso politico. Il percorso si intravede nel logo della Leopolda: una “R” ribaltata. È la lettera di Renew Europe, il gruppo macroniano che sembra lo sbocco naturale del renzismo. Ma la “R” disegna pure un sentiero, una strada che curva dolcemente verso destra.
Cop26, l’Italia fa dietrofront: finanzia le trivelle nell’Artico
Alla Cop26 di Glasgow, uno degli accordi più importanti è stato quello firmato il 4 novembre. Oltre 20 Paesi hanno promesso che non daranno più sussidi pubblici per costruire all’estero impianti per estrarre o bruciare gas, petrolio e carbone. L’Italia è stata tra i firmatari, con una decisione presa un po’ all’ultimo momento, secondo le cronache politiche di quei giorni.
La scelta cui si è trovato davanti il governo di Mario Draghi non era indolore. A rischio c’era un grosso investimento di aziende italiane interessate proprio a quello: estrarre gas e petrolio in Russia, al Circolo Polare Artico, in uno dei punti più estremi mai raggiunti finora. È il progetto “Arctic Lng 2”, con cui la Russia punta a competere con gli Stati Uniti nel mercato mondiale del gas liquefatto. In corsa negli affari artici per l’Italia ci sono al momento Saipem, che ha già iniziato a lavorare, e Intesa Sanpaolo, che si dice interessata alla partita ma da tempo è alla finestra in attesa dell’ok di Roma: lo sblocco della garanzia pubblica, cioè i soldi della Sace. “500 milioni di euro”, ha scritto la Reuters.
Senza la garanzia dello Stato le società private non vogliono infilarsi in un pantano del genere. Tre giorni fa la notizia è arrivata, annunciata dall’ambasciatore italiano a Mosca, Giorgio Starace: Roma finanzierà il progetto di estrazione di gas e petrolio attraverso Sace, ha spiegato il rappresentante del governo all’agenzia russa Interfax. La Sace ancora non commenta, ma è chiaro che a 15 giorni dall’accordo alla Cop26, l’Italia ha deciso di dare il suo ok alla trivellazione nell’Artico.
La promessa di non dare più fondi pubblici ai progetti fossili ha delle eccezioni. L’accordo di Glasgow prevede che lo stop debba avvenire “entro la fine del 2022, tranne in circostanze limitate e chiaramente definite, che siano coerenti con il limite di riscaldamento di 1,5° C e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. Quello per esportare gas dall’Artico, che dovrebbe essere operativo nel 2025, evidentemente era considerato un progetto già avviato da Palazzo Chigi. Da un pezzo ormai l’Artico è l’eldorado del gas. Grazie allo scioglimento dei ghiacci, nuove zone sono state esplorate e sfruttate. Secondo un rapporto del settembre 2021 di Reclaim Finance, oggi ci sono 599 campi di estrazione di gas e petrolio nell’Artico, alcuni in produzione, altri in esplorazione. Sfruttati interamente, equivalgono al 22% del budget di emissioni disponibili al mondo per stare dentro l’obiettivo di 1,5 gradi. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea), per mantenere l’aumento della temperatura sotto 1,5°C e raggiungere emissioni nette zero entro il 2050, i nuovi giacimenti vanno lasciati stare.
Il progetto al centro della garanzia Sace si chiama Arctic Lng 2, è guidato dalla russa Novateck. Gli altri azionisti sono la Cina con le sue Cnoop e Cnpc, i giapponesi di Mitsui e la Francia con Total. Tutte società spalleggiate dalle agenzie di credito nazionali, equivalenti della Sace. Sono coinvolte più di 70 aziende e migliaia di lavoratori da tutto il mondo, con l’obiettivo di estrarre gas e costruire un enorme impianto di liquefazione nella penisola di Gydan, da cui poi far partire le navi per venderlo in Europa e in Asia. Costo: 21,3 miliardi di dollari.
Adesso che le banche sono più verdi, il problema è trovare finanziamenti, perché il progetto Arctic Lng 2 va realizzato sopra il Circolo Polare Artico, e molti istituti finanziari hanno adottato politiche restrittive sugli investimenti in zone così a rischio. L’ostacolo è stato superato prestando soldi direttamente alle società nei loro Paesi d’origine. I dati pubblicati nel report di Reclaim Finance dicono che la banca che più ha finanziato l’espansionismo nell’Artico tra il 2016 e il 2020 è Jp Morgan, con 18,6 miliardi di dollari. Intesa Sanpaolo è al 23esimo posto con 5 miliardi. Nell’intervista alla Interfax, l’ambasciatore Starace ha detto che Sace ha “confermato la sua copertura assicurativa per il progetto finanziato da Banca Intesa e Cassa Depositi e Prestiti”.
I dati dei contagiati non ci sono, ma questa volta nessuno sbraita
Quante sorprese in soli pochi mesi: nei giorni scorsi la rivista Wired ha chiesto al ministero dell’Istruzione guidato da Patrizio Bianchi (in foto) di poter ottenere i dati sui contagi degli studenti nelle scuole. Lo ha fatto con un Foia, una richiesta di accesso agli atti generalizzata che può rivolgere alla Pa qualsiasi cittadino, come aveva fatto lo scorso anno. Se però l’anno scorso aveva ricevuto indietro dei dati, seppur parziali, quest’anno nulla di nulla. La risposta del ministero è che quei dati, essendo informazioni sulla salute, rientrano tra quelli esclusi dal diritto di accesso civico. Peccato che si tratti di dati aggregati, praticamente impossibile risalire all’identità del contagiato (o se fosse possibile sarebbe comunque una debolezza della Pubblica amministrazione). Ma il punto più rilevante riguarda il fatto che, dice il ministero, “i dati richiesti sono in continuo aggiornamento da parte delle scuole e non è previsto l’obbligo di risposta e la diffusione delle informazioni acquisite si porrebbe quindi in contrasto con il generale principio di esattezza dei dati”. Insomma, dallo stesso ministero verso cui l’anno scorso l’attuale sottosegretario leghista Rossano Sasso, allora deputato, lanciava accuse di mancata trasparenza, pare non arrivi ora nessun dato, neanche quei pochi che ci sono. Stavolta, però, nel sostanziale silenzio anche di chi puntava il dito dalle pagine dei giornali.
Sempre in viale Trastevere, in questi giorni, affrontano due altre grane: la prima la si può leggere nei numeri diffusi dalla Uil proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuto svolgere l’incontro, poi saltato per le proteste delle sigle, con i sindacati al ministero e che riguardano l’esito del concorso Stem, quello che avrebbe dovuto portare a settembre in cattedra oltre seimila professori di scienze matematiche. Ebbene: su 6.129 posti messi a bando, i vincitori sono stati 3.300, poco più della metà. Quelli saliti in cattedra solo 2.652. Considerati i pensionamenti, secondo il sindacato, le cattedre vacanti sarebbero circa 8.123.
Sempre il ministro Bianchi ha poi proposto di allargare la sperimentazione dei corsi delle scuole superiori da quattro anni fino a mille istituti. Oggi sono circa duecento gli istituti coinvolti (la sperimentazione è iniziata nel 2018 con cento scuole). Il decreto che avrebbe dovuto contenerla per il prossimo anno scolastico (anche se l’estensione è prevista nella riforma del Pnrr), inviato al Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi), l’organo consultivo del ministero, ha ricevuto nel parere espresso il 17 novembre una sostanziale bocciatura.
Il Cspi ha sottolineato che intervenire sulla struttura e la durata dei percorsi presuppone un’attenta rimodulazione dei curricoli per evitare la loro frammentazione e non ha dato parere favorevole neanche per gli istituti tecnici e professionali perché risulterebbe “poco coerente per questo segmento del sistema d’istruzione proprio in funzione della recente riforma dei Professionali che ha ancora bisogno di misure di implementazione e di accompagnamento per la completa attuazione del nuovo modello” andando, inoltre, a contribuire alla già drammatica dispersione scolastica. Non è però una chiusura totale: il Consiglio ritiene solo che “non ci siano le condizioni per procedere a ulteriori ampliamenti del numero delle classi coinvolte, ma che prima di considerare eventuali modifiche ordinamentali, anche in riferimento alla complessiva riforma prevista dal Pnrr, sia conclusa e valutata la sperimentazione in atto secondo le modalità indicate nella norma stessa”.
Smart working e Pa, la fretta di Brunetta non ha considerato la nuova ondata
Il Belgio tra le misure prese per contrastare l’aumento dei contagi, ha imposto quattro giorni alla settimana di smart working fino al 13 dicembre. A tutti. Poi, prima di tornare alla normalità, si scenderà a tre. E così proseguendo.
La fretta del ministro italiano della Funzione pubblica, Renato Brunetta, di rivedere tutti nei pubblici uffici quanto prima (e per lo più sulla base di soggettive valutazioni di cali della produttività) va invece nella direzione opposta e con l’ulteriore paradosso di farlo nel momento in cui si annuncia come un grande successo la possibilità per i cittadini di scaricare fino a 14 certificati direttamente con lo Spid, il che implica anche che quei certificati siano ormai a disposizione di tutta la ramificazione della Pa con un notevole risparmio di energie.
Insomma, con un decreto, lo scorso 15 ottobre, Brunetta ha stabilito la fine del “lavoro agile” nella Pubblica amministrazione, lasciandola disponibile solo per una piccola percentuale (15%) condizionata oltretutto da vincoli molto stringenti, come situazioni familiari particolari o attrezzatura e Rete fornita dall’amministrazione da cui si dipende. Non doveva aver previsto che la situazione potesse peggiorare o se l’ha fatto non ha creduto fosse importante. Ma ora potrebbe diventarlo. “Non sarebbe male un ritorno allo smart working nella Pubblica amministrazione fino a primavera”, ha detto ieri all’Adnkronos Salute il virologo Fabrizio Pregliasco, docente della Statale di Milano. Il ritorno al lavoro da casa di una gran massa di persone, secondo il virologo, potrebbe essere “tra le cose da fare e da pensare in questa fase di preoccupazione” per “ragionare ad ampio spettro per vedere le soluzioni accettabili che riducano contatti e occasioni di contagio”. Dal ministero di Brunetta, il silenzio.
“Dopo il 22 ottobre, quando abbiamo consegnato le nostre osservazioni alle linee guida per il rientro sottese al decreto che ci aveva presentato il ministro, non ci ha più convocato per comunicarci le sue contro-osservazioni, cosa che sembrava intenzionato a fare”, spiega Florindo Oliverio, segretario della Fp Cgil. Tempo che nel caso dell’aumento dei contagi potrebbe essere utile per virare verso altre decisioni. “Anche perché – spiega Marco Carlomagno della Flp Funzione pubblica – il rientro di massa non è in grado di garantire la sicurezza né tantomeno il rispetto dei protocolli anti-Covid che proprio come lo stato d’emergenza e insieme a esso sono di fatto ancora in vigore e sono stati identificati sulla base di una situazione che includeva il lavoro agile della Pa. A oggi, abbiamo segnalazioni di contagi da moltissimi uffici”.
Si sarebbe potuto aspettare il 31 dicembre, data oltre la quale le sigle sindacali immaginano oltretutto di aver concordato, nell’ambito della contrattazione nazionale, anche le nuove norme – definitive – del “lavoro agile” verso le quali il decreto di Brunetta sarebbe solo un atto transitorio. “Anche perché non tutti gli uffici hanno gli stessi livelli di sicurezza – continua Carlomagno – ci sono quelli super-attrezzati, ma anche quelli, penso ai Comuni, in cui non c’è possibilità di garantire il distanziamento. O ai tribunali, con i lavoratori esposti a ogni tipo di utenza su cui non è oltretutto obbligatorio nessun controllo di Green pass”. In mezzo, ci sono le linee guida che devono essere ancora approvate: “Abbiamo chiesto che possano essere implementate, come i protocolli” spiega Sandro Colombi, segretario della Uilpa. Tanto più alla luce dei nuovi dati epidemiologici.
Lo stop a Reithera costa caro 20 milioni di euro buttati via
Per il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, era solo una questione di poche settimane e l’ostacolo tecnico-giuridico che l’11 maggio scorso aveva portato la Corte dei Conti a cassare il finanziamento a Reithera per lo sviluppo del vaccino anti-Covid italiano sarebbe stato agevolmente superato. Dichiarazione del 21 maggio: “Il Mise è disponibile a contribuire al progetto del vaccino Reithera nelle forme e nei modi consentiti, utilizzando diversi innovativi strumenti previsti dalle nuove norme”.
Apertura confermata i primi di giugno, quando Giorgetti affermava che sui vaccini “serve a livello nazionale una autonomia strategica per rispondere alle sfide del futuro senza dipendere da altri”. A quasi sette mesi di distanza, a quelle promesse è seguito solo il silenzio. Che equivale a un colpo di spugna sul vaccino italiano. L’azienda di Castel Romano, controllata dalla holding svizzera Keires, ha concluso la fase 2 della sperimentazione, in collaborazione con l’Istituto malattie infettive Spallanzani di Roma. Trial che ha dimostrato una efficacia al 99% contro il virus dopo la seconda dose. Adesso è ferma, con il cerino in mano. La fase 3 non può partire perché mancano i finanziamenti – 49 milioni, dei quali 7,8 a fondo perduto – previsti dall’accordo siglato in febbraio con Invitalia, quando alla guida del governo c’era Giuseppe Conte. Invitalia ha anche acquisito una partecipazione del 27% in Reithera. Quei fondi avrebbero dovuto sostenere un investimento complessivo di 81 milioni per consentire entro il 2021 una produzione da un minimo di dieci a un massimo di venti milioni di dosi al mese, dopo l’acquisto della sede di Castel Romano (4 milioni) e la realizzazione dell’impianto di infialamento e confezionamento. Solo che soldi ne sono già stati spesi. E anche tanti. Sono stati spesi quelli della Regione Lazio (5 milioni) e del Miur (altri 3) per la ricerca scientifica. Risorse trasferite allo Spallanzani, ente erogatore del finanziamento, che ne ha girati 6 a Reithera, per la produzione del lotto clinico e per la realizzazione della fase1, trattenendone 2 per l’attività di sperimentazione svolta. Altri 15 milioni, poi, sono quelli che l’azienda ha investito per essere pronta a passare alla produzione su scala commerciale, sui 31 totali di sua pertinenza come previsto dall’accordo, approvato dall’Unione europea. Risorse ora inghiottite senza risultati.
Il vaccino che stava sviluppando Reithera è a vettore virale. Proprio come AstraZeneca e Johnson&Johnson. E certamente hanno complicato le cose le tante giravolte impresse nei mesi scorsi alla somministrazione del vaccino anglo-svedese. Che, insieme a J&J, è stato progressivamente abbandonato per puntare sui vaccini mRna, Pfizer e Moderna. Così Reithera, che ha la dotazione per produrre anche sieri mRna, ora è in un limbo e il vaccino italiano è sfumato.
E dire che, sempre Giorgetti, il 25 febbraio aveva convocato i vertici dell’industria farmaceutica nazionale per dare vita a un “polo nazionale pubblico-privato” per la produzione dei vaccini, chiedendo alle aziende di verificare la possibilità di usare stabilimenti con bioreattori o di produrli ex novo. Certo, i vaccini arrivavano in ritardo dall’estero, le consegne erano a singhiozzo e si era in piena emergenza. Giorgetti si era speso, ancora una volta: “Il governo ha ribadito la massima disponibilità sia in termini di strumenti normativi che di mezzi finanziari”. Da allora nulla si è mosso.
Vienna: è obbligo per tutti. Roma: verso una estensione
L’Austria torna a chiudere tutto: confinamento generale per dieci giorni. Sono quasi nove milioni i cittadini austriaci che saranno costretti in casa per far fronte all’aumento dei contagi. Pochi giorni fa, il cancelliere Alexander Schellenberg aveva decretato il lockdown per i non vaccinati: due milioni di persone. Ma la curva continua a salire, quasi in verticale. E questo non è che il primo passo: trascorsi i primi dieci giorni il confinamento continuerà per i soli non vaccinati, altri dieci giorni. Poi da inizio febbraio entrerà in vigore la vaccinazione obbligatoria, primo Paese in Europa, anticipando la terza dose a soli quattro mesi dalla seconda. Perché con la quarta ondata indomabile ci si prepara alla quinta.
AustriaLockdown per tutti da dopodomani per 10 giorni
Da lunedì, come in Italia a inizio marzo 2020, gli austriaci potranno uscire di casa solo per attività necessarie e urgenti. Negozi, scuole, ristoranti, cinema, teatri, palestre: tutto chiuso. “Dobbiamo guardare in faccia la realtà, chi è contro il vaccino compie un attentato alla nostra salute, non vogliamo la quinta e la sesta ondata, il virus non va via, il virus resta”, ha spiegato il cancelliere commentando la stretta sulla vaccinazione obbligatoria. “Non siamo riusciti a convincere abbastanza persone a farsi vaccinare, fa male dover prendere tali misure”. Schellenberg guida il governo da poco più di un mese dopo le dimissioni di Sebastian Kurz, sembrava relegato al ruolo di mero esecutore, ma è toccato a lui imporre le restrizioni più pesanti di tutta Europa in questo secondo anno di pandemia. A ordinare la vaccinazione obbligatoria fino a oggi erano state pochissime nazioni: Indonesia, Turkmenistan, Micronesia. Ma in Austria l’incidenza è di mille casi ogni centomila abitanti.
In Germania solo i due terzi della popolazione sono immunizzati, una delle percentuali più basse di tutta l’Ue. In Baviera il governatore Markus Söder ha annunciato il confinamento in diverse zone del Land. “I mercatini di Natale vengono disdetti” ha detto ieri Söder, un colpo duro per i bavaresi. Nella sola Monaco il mercatino attira oltre due milioni di turisti. Il governatore ha deciso che nelle zone dove l’incidenza supererà i mille casi, tutto verrà chiuso “eccetto scuole materne e asili”. Inoltre ha comunicato che la regola del 2G (guariti o vaccinati) verrà presto sostituita dal 2G+: i vaccinati dovranno eseguire un test per poter accedere a eventi pubblici. La Sassonia vara un lockdown parziale da dopodomani per tre settimane con coprifuoco alle 22. “Siamo in una fase dove non dovremmo escludere niente” ha detto ieri Jens Spahn, ministro della Salute tedesco. E dopo il Green pass Berlino pensa a lockdown generale e vaccinazione obbligatoria. Anche in Italia i dati sui non immunizzati fanno temere il peggio. Sono 6,7 milioni i maggiori di 12 anni che non hanno ricevuto nemmeno una dose. “I vaccini sono stati la nostra maggiore difesa – ha detto ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella –: hanno salvato migliaia e migliaia di vite, hanno ridotto le sofferenze, hanno consentito le riaperture”. L’Austria riporta sull’agenda il tema dell’obbligo e il sottosegretario alla Salute Costa non esclude estensioni: “Noi siamo stati i primi a introdurre l’obbligo per i sanitari. Bisogna riflettere se farlo con altre categorie a contatto con il pubblico, tipo le forze dell’ordine o chi lavora nella grande distribuzione”. Secondo il deputato del Pd, Francesco Boccia, non c’è “altra strada rispetto all’obbligo vaccinale”. Il timore sulle ricadute economiche di un altro confinamento c’è anche in Confindustria: “Credo che il Green pass – ha spiegato ieri Carlo Bonomi a Firenze – fosse lo strumento che potevamo utilizzare, però l’unica cosa che ci può mettere al sicuro è l’obbligo vaccinale, dobbiamo avere il coraggio di fare una riflessione seria”.
Riforme, anche Mario inghiottito dalla palude
La stilettata affidata da Mario Monti al Corriere della Sera domenica scorsa è forse eccessiva (“in questi mesi si è avuta l’impressione che il governo abbia teso a diluire e ritardare gli aspetti più incisivi delle riforme”), ma certo l’esecutivo di Mario Draghi ha più di qualche problema nel mettere insieme la composita maggioranza che lo sostiene. Se questo era vero in primavera, ancor più lo è ora che s’avvicina il voto per il prossimo presidente della Repubblica, previsto all’inizio di febbraio e che potrebbe spedire sul Colle più alto proprio l’attuale presidente del Consiglio ponendo fine alla sua permanenza a Chigi.
Non ci sarebbe nulla di male, se questo non fosse il governo che doveva passare col caterpillar della competenza tecnica su decenni di palude e rinvii. E invece anche “Maradona”, “il migliore possibile”, “la Ferrari” – tutte sobrie definizioni dedicate al premier – comincia ad assaggiare l’impossibilità di guidare un grande Paese come un consiglio d’amministrazione (o un board dei governatori).
Non è certo il più importante, ma il decreto contro le delocalizzazioni selvagge delle multinazionali è una sorta di epitome della palude draghiana: entrato nel dibattito pubblico in luglio, sulla scia della fuga – con licenziamento annunciato via email – della Gkn dalla Toscana, a metà agosto veniva dato per pronto per il successivo Consiglio dei ministri, ma da allora non se n’è saputo praticamente più nulla (il leghista Giorgetti, dicono nei palazzi romani, continua a bloccare il testo del dem Orlando e della M5S Todde e nel frattempo le delocalizzazioni continuano).
Sempre in tema di politica industriale, va segnalato il silenzio imbarazzato dell’esecutivo sulla rete unica. Com’è noto, il progetto avviato dal precedente governo prevedeva una soluzione pessima, ma chiara: una società unica a maggioranza azionaria Tim, ma con una governance neutra assicurata da Cassa Depositi e Prestiti, che avrebbe conferito in quel veicolo anche Open Fiber, di cui la Cassa ha oggi il 60%. Ebbene, da nove mesi non è chiaro cosa vogliano fare Draghi & C. a partire dalla bizzarra situazione per cui Cdp controlla una società (OF) che è la diretta concorrente di un’altra di cui è azionista di rilievo (Tim). Si dice che il ministro competente, Vittorio Colao, sia contrario alla società unica della rete, che non dispiace invece a Giorgetti, a patto però che non sia integrata dentro Tim: una posizione ufficiale sarebbe d’uopo.
Anche il taglio delle tasse rischia di finire nel tritacarne. Il governo Draghi ha aumentato il “fondone” previsto dal Conte-2 e oggi ci sono 8 miliardi da dedicare al tema, ma i partiti della maggioranza hanno visioni assai diverse sui beneficiari. Visto che la cifra non è enorme, la prima domanda cui rispondere è: concentrarlo sui lavoratori, sulle imprese o dividerlo su entrambi? E riguardo ai primi, privilegiare i redditi bassi o quelli medio-alti (incredibilmente i più propendono per questi ultimi)? Non essendo stato possibile trovare un’intesa finora, la palla è passata al Parlamento: non è detto si riesca a trovare un accordo in questo clima e coi tempi di approvazione del ddl Bilancio compressi all’inverosimile. Una impasse che ne nasconde un’altra: il ddl che delega il governo a riformare il fisco è arrivato in Parlamento, ma già in Cdm aveva visto una spaccatura sull’adeguamento dei valori catastali a quelli di mercato (nella pudica formulazione di una mappatura da concludersi nel 2026). La scelta qui – dati i tempi necessari tra approvazione del ddl ed esercizio della delega – è stata che della riforma, semmai, se ne occuperà il prossimo governo.
È quel che rischia di accadere anche su gran parte dei contenuti del ddl Concorrenza (il Pnrr, peraltro, ne promette alla Ue uno all’anno per i prossimi tre). Al di là del merito, è un fatto che sulle concessioni balneari Draghi non sia riuscito a intervenire: ora forse potrà farlo grazie a una sentenza del Consiglio di Stato. La partita più grossa – quella dei servizi pubblici locali, un mercato da 11 miliardi l’anno che il governo vuole aprire ai privati – l’ha risolta con l’ennesima delega (in quel ddl ce ne sono altre cinque), ma è assai difficile che sia lui ad esercitarla: basti dire che l’unica legge sulla Concorrenza mai approvata da quando esiste l’impegno a farlo con l’Ue (cioè dal 2009) è quella del 2017, che rimase in Parlamento per quasi tre anni.
È il Pnrr, però, il core business del governo Draghi. Al di là dei ritardi sugli obiettivi da centrare (una ventina sui 51 previsti nel 2021), a Palazzo Chigi ancora non hanno nemmeno costruito il sistema di monitoraggio necessario a interloquire con l’Ue. Un particolare non da poco: da regolamento, gli esborsi semestrali da Bruxelles avvengono solo se sono stati raggiunti dei risultati intermedi dimostrati esattamente nei modi prescritti dagli allegati tecnici al Next Generation Eu.
L’opposizione siede al governo (e Draghi tace)
Il presidente del Consiglio Mario Draghi tace. Non vuole commentare quello che a Palazzo Chigi definiscono, con l’evidente obiettivo di troncare e sopire, un banale “incidente parlamentare”. Nel pieno delle zuffe tra i partiti su manovra ed emergenza Covid e a due mesi dall’elezione per il Quirinale meglio passare oltre. Come se niente fosse successo. Non la pensano così diversi ministri che giovedì mattina hanno assistito increduli a una scena senza precedenti: una ministra, in questo caso la leghista con la delega alla Disabilità, Erika Stefani, che su ordine del leader Matteo Salvini se ne va in anticipo dal Consiglio dei ministri per andare a votare in Senato contro il suo stesso governo che va sotto su due emendamenti al decreto Capienze. Una cosa mai vista. E che dovrebbe portare quantomeno a un chiarimento nella maggioranza visto che nell’ultima settimana, tra Camera e Senato, il governo è andato sotto tre volte grazie all’asse centrodestra-Italia Viva. Il ministro del M5S, Stefano Patuanelli, giovedì parlava di crisi di governo e il collega Federico D’Incà ha chiesto un incontro urgente al premier perché, con un Parlamento così balcanizzato, ora a rischio è la legge di Bilancio. Un piatto prelibato su cui si scateneranno gli appetiti dei partiti prima del voto per il Colle di metà gennaio. Intanto la maggioranza che sostiene il governo Draghi non c’è più. O forse non è mai esistita.
Di lotta e di governo Le due astensioni della lega in cdm
Quella di giovedì non è stata la prima volta in cui l’esecutivo di larghe intese ha subito scossoni. La Lega di Matteo Salvini infatti, da febbraio, ha deciso di stare un po’ al governo e un po’ all’opposizione. Tant’è che il 21 aprile, a soli due mesi dall’insediamento, il Carroccio strappa per la prima volta non votando un provvedimento in Cdm. Dopo settimane di semi-lockdown, Draghi decide di riaprire l’Italia dal 26 aprile ma resta fermo sul coprifuoco alle 22. Salvini si impunta sulla mancata riapertura dei locali al chiuso e sul coprifuoco che vorrebbe alle 23. I tre ministri leghisti guidati da Giancarlo Giorgetti vorrebbero votare sì ma, prima che inizi il Cdm, la delegazione resta fuori dalla porta e riceve l’ordine di Salvini: “Astenetevi”. Un fatto gravissimo: un partito della maggioranza che non vota il provvedimento più importante del nuovo governo. Il premier durante la riunione parla solo di “precedente grave” ma pubblicamente non dice una parola. Peccato che sulla lotta al Covid e sul green pass le tensioni tra la Lega e il resto della maggioranza draghiana aumentino: da quel momento il Carroccio si piega sempre in Cdm (anche su pressione dei governatori del Nord) ma alle Camere una truppa salviniana che va dai 30 ai 60 parlamentari non vota più i provvedimenti. Fino al 5 ottobre, quando la rottura si ripete. Il Carroccio è appena uscito sconfitto dal primo turno delle comunali: batosta a Milano, Bologna e Napoli e superato da FdI quasi ovunque. Così sulla delega fiscale che contiene la riforma del catasto, Salvini ritorna per un giorno sulla spiaggia del Papeete. La Lega non vota. Altro gesto grave che farebbe preludere a una crisi. Ma Draghi va in conferenza stampa e non si scompone: “L’assenza della Lega? Un gesto seri ma chiedetelo a loro”.
Fibrillazioni I “migliori” battuti 5 volte alle camere
Anche in Parlamento, nei 9 mesi di governo Draghi, la Lega ha provocato rotture per rincorrere Giorgia Meloni che, dall’opposizione, volava nei sondaggi. In tutto, il governo è andato sotto cinque volte. La prima, il 16 luglio, in realtà è stata per mano del M5S. In commissione Ambiente alla Camera Pd e M5S si compattano su un emendamento grillino al decreto Semplificazioni, su cui c’è il parere contrario del governo, per dare la possibilità al Parlamento di modificare i progetti ambientali inseriti nel Pnrr. Un colpo diretto al ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani. Una settimana fa, alla Camera, la maggioranza va sotto su due ordini del giorno di FdI al “decreto Proroghe”. Il tema è la giustizia su cui si scatenano gli spiriti garantisti di centrodestra e renziani. Lega, FdI, FI e Iv, nonostante il parere contrario dell’esecutivo, votano per limitare l’uso delle intercettazioni. Stesso copione di giovedì quando, al Senato, su due emendamenti – uno di FdI sulla capienza sui bus turistici e uno dei Iv sul personale sanitario – la maggioranza di centrodestra allargata ai renziani vota compatta contro il governo. Oltre a Stefani, anche Salvini dice sì per dare un colpo a Draghi. Alla buvette scatta la rissa: la capogruppo Pd Simona Malpezzi inveisce contro gli alleati (“Se volete far cadere il governo ditelo”), Salvini sorride sornione, i renziani fanno il pesce in barile mentre D’Incà prepara i suoi: “Qui crolla tutto”. Per non parlare delle spaccature della maggioranza su molti provvedimenti chiave: ce ne sono stati almeno 15 da febbraio. Dal cashback al coprifuoco, dalla legge ad personam per salvare Berlusconi nel processo Ruby-ter al trojan fino al ddl Zan affossato in Senato. Lo schema è sempre il solito: da una parte il centrodestra che fa asse con Renzi, dall’altra Pd-M5S.
Vista colle I giallorosa litigano sulla manovra
E se fino a oggi l’alleanza giallorosa è rimasta granitica, ora inizia a scricchiolare sulla manovra. Il tavolo di maggioranza proposto da Enrico Letta è già tramontato e, dopo le tensioni sulle nomine dei Tg Rai, giovedì i senatori grillini hanno detto “no” a Pd e LeU sulla nomina del bersaniano Vasco Errani come relatore proponendo un doppio nome (uno a 5S e uno di centrodestra). Decisione congelata e scontro assicurato. “Grave errore politico, così dopo il Colle si va dritti al voto” dice a Repubblica il dem Luigi Zanda. “Accuse infondate e fuori luogo” replica il 5S Marco Pellegrini. Il ministro Stefano Patuanelli, durante una riunione di giovedì con i parlamentari M5S, ha addirittura ventilato l’ipotesi dell’esercizio provvisorio: “Ora basta schiaffi, la manovra sarà un Vietnam. A questo punto saremo rigidi anche noi”. Schermaglie di una maggioranza ormai sfibrata e di un Parlamento a fine corsa.